Richard Rorty (1931-2007) – Salvatore Bravo critica «il pensiero debole» alla Vattimo e il nichilismo pragmatista e liberista alla Rorty. Essi nascondono che il tempo del capitale assoluto è mera temporalità cronologica, che si traduce solo nei simboli della produttività coatta, deprivando dello slancio vitale.

Richard McKay Rorty 001

«Mi sembra che l’immagine greca della filosofia come riflessione sui problemi eterni che si ripresentano costantemente alla mente umana sia sbagliata. Non ci sono problemi filosofici fondamentali» (R. Rorty, Intervista, rilasciata a Massarenti A. per Il Sole 24 Ore, 23 luglio 1995).

 

 

«Il filosofo che ammiro di più, e che di cui di più vorrei pensarmi come discepolo, è John Dewey» (R. Rorty, Philosophy and Social Hope, Penguin Books, London 1999).

 

 

«Dietro il nichilismo liberale di Richard Rorty si nascondono progetti politico-culturali di natura autoritaria. Il fine del filosofo postmetafisico è proprio quello di eliminare le opinioni che divergono dalle proprie e di allontanare fisicamente quanti non accettano, in una presunta democrazia, il suo pensiero relativista. In quanto filosofo relativista, le idee di cui si fa portavoce ricalcano, seppur estremizzate, quelle del relativismo antico: inesistenza di una natura umana, inconcepibilità di valori oggettivi, assenza della verità. […] Una società tanto più apparentemente laica e liberale quanto più concretamente dittatoriale. Infatti chi non si accoda al pensiero debole dei postmetafisici non solo è bollato come pazzo, ma non ha neanche il diritto di chiamarsi cittadino di una democrazia liberale. […] La società rortiana non può che trasformarsi in una eterna guerra di tutti contro tutti, [… uno] scontro libero e aperto» […] . Una società «liberale» solidale con il pensiero dominante […] . Sorge il fondato sospetto che l’analisi rortiana poggi sulla concezione di un uomo inesistente, astorico (Irene Giurovich, La follia del nichilismo «liberale» in Richard Rorty, in Dialegesthai, url: <https://mondodomani.org/dialegesthai/ig01.htm>).

 

La filosofia e lo specchio della natura

La filosofia e lo specchio della natura

Salvatore Bravo

La filosofia senza specchio

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Il prospettivismo senza centro del pensiero debole
La palude del presente, l’impossibilità di immaginare un futuro con l’angoscia che ne consegue, a tale condizione in odore di colpa sociale e politica non è esente la Filosofia. Negli ultimi decenni la Filosofia è diventata organica al potere economico. Il pensiero debole codificato da Vattimo con il prospettivismo senza centro è divenuto postulato filosofico, comporta sicuramente la complicità con la deriva economicistica. Se tutte le prospettive sono poste sulla linea dell’irrilevanza, la critica ha il valore di semplice espressione fonetica senza fondamento. L’economicismo in tal modo si rafforza, tentacolare pervade ogni campo della vita civile fino ad essere parte integrante del modo di pensare e di agire delle persone-individui senza comunità e senza gruppi medi di discussione. La mediazione si esplica in presenza del pensiero forte, di una prospettiva che dialetticamente si confronta con le altre prospettive evidenziando una capacità fondativa forte.

Il pensiero debole

Il pensiero debole

Il pensiero debole rende la critica puro esercizio retorico, non motiva alla prassi, alla trasformazione, anzi è un pensiero che svuota ed indebolisce l’opposizione. Ogni prospettiva forte è subitaneamente tacciata di essere “totalitaria,” in quanto male assoluto, da eliminare dalla scena politica. Al suo posto vige una Filosofia da salotto, accademica, da bacio perugina: curiosità per i ceti semicolti che sfoggiano fraseologia ad effetto per rubare la scena della conversazione ad altri. Filosofia ha dunque abdicato al suo statuto epistemologico, ovvero alla ricerca della verità, per essere prospettiva tra le prospettive. La critica filosofica ha solo un effetto anodino. Il potere non può che irridere ad una disciplina che si esibisce senza nulla proporre. La società dello spettacolo nelle sue vetrine mette in scena la Filosofia. Nell’irrilevanza nichilistica generale vi sono testi ed autori che consacrano la morte della Filosofia. Le accademie filosofiche dunque, sono corresponsabili del ruolo terzo della Filosofia e del tramonto di ogni futuro possibile. Non resta che sguazzare nell’eterno presente disperso in una miriade di prospettive senza verità.

La Filosofia come ermeneutica
La Filosofia annuncia il suo tramonto, al suo posto non vi è che la sua mimesi, un’imitazione mediocre di ciò che è stato. L’industria del falso trionfa e con essa l’economicismo dello spettacolo. Richard Rorty (1931-2007) con la sua opera La Filosofia e lo specchio della natura (1979), è parte di un clima culturale in cui il progresso si sposa con il continuo trascendere di ogni tradizione, fino ad inaugurare una nuova epoca, nella quale la Filosofia – rinunciando ad ogni pretesa veritativa – diviene disciplina tra le discipline, pura ermeneutica, mediatrice nella contingenza del sovrapporsi di prospettive senza verità destinate ad arenarsi, ad impigliarsi nella storicità che tutto supera e consegna al vuoto. In tale condizione la Filosofia è semplicemente disciplina della consapevolezza che ogni verità è polvere, e dunque agisce affinché “la verità non vi sia”, e regni in tal modo la tolleranza, la fratellanza nella rinuncia ad ogni fondamento. R. Rorty si spinge oltre, sentenzia che la Filosofia deve rinunciare al suo linguaggio. La verità, la sostanza, i fondamenti devono essere tacitati in nome di una Filosofia ridotta a funzione ermeneutica, pertanto essa diviene mediatrice culturale, soccorre ogni prospettiva che osi porsi come verità schiacciandola nella contingenza liberata da ogni fondamento. Paladina senza linguaggio della tolleranza, il cui fine è rafforzare il sistema liberal-liberista, in quanto essa è conversazione, maieutica che forma alla consapevolezza che ogni posizione prospettica è debole:

«Se consideriamo la conoscenza non come il possesso di un’essenza, che debba essere descritta dagli scienziati e dai filosofi, ma piuttosto come un diritto, secondo modelli correnti, di credere, allora ci troviamo sulla strada giusta a vedere la conversazione come il contesto ultimo all’interno del quale la conoscenza dev’essere compresa. Il fuoco della nostra considerazione si sposta allora dalla relazione tra gli esseri umani e gli oggetti della loro ricerca, alla relazione tra modelli alternativi di giustificazione e di qui ai mutamenti reali in quei modelli che costituiscono la storia intellettuale».[1]

 

 

Il linguaggio filosofico
La Filosofia come conversazione per avvicinare posizioni apparentemente distanti, ma in realtà con un comune fondamento: la contingenza, il nichilismo. L’attività filosofica per poter procedere nella prassi dell’ermeneutica deve operare su se stessa ad una autentica mutilazione: il linguaggio. La Filosofia con il suo lessico specialistico è accusata di essere “totalitaria,” di aspirare ad un ruolo privilegiato all’interno del sapere, cioè di stabilire le condizioni autentiche del pensiero, e la corrispondenza tra rappresentazione e fenomeno. Il linguaggio filosofico intessuto dal “fondamentalismo epistemologico” inibisce la conversazione, poiché sclerotizza la conversazione con la sua pretesa veritativa. Si chiede alla Filosofia di rinunciare alla sua tradizione, al suo linguaggio per essere mediatrice ermeneutica:

«La discutibile sicurezza di sé di cui stiamo parlando è semplicemente la tendenza del discorso normale a bloccare il flusso della conversazione, presentandosi, come quello che è in grado di offrire il vocabolario canonico per la discussione di un dato argomento e, più in particolare, la tendenza della filosofia normale fondata epistemologicamente a sbarrare la strada imponendosi come il vocabolario definitivo di commisurazione per ogni possibile discorso razionale».[2]

Sistematici ed edificanti
Non vi è disciplina a cui si chieda di rinunciare al suo linguaggio specifico, di rompere con la sua tradizione. Con la Filosofia “normale” da Platone, a Cartesio, da Kant a Husserl, si intende la Filosofia veritativa. R. Rorty ai sistematici ed al loro linguaggio predilige i filosofi edificanti, i quali hanno rinunciato alla verità, da Nietzsche a Sartre passando per Heidegger, filosofi della contingenza, distruttori della tradizione, della verità. Nel caso di Heidegger, Rorty apprezza lo smantellamento della metafisica tradizionale in nome di una concezione dell’essere non definibile e sfuggente. La Filosofia dunque come conversazione sull’opinione, appiattita tra le discipline senza un suo statuto linguistico e dunque “figlia di un dio minore”. Una disciplina senza il suo lessico specifico, che ha rinunciato alla sua tradizione, si dubita possa divenire mediatrice ermeneutica. Non solo, la consapevolezza di appartenere ad una storia di fallimento deprime la motivazione a filosofare, ma specialmente ci si dovrebbero chiedere le motivazioni per cui nel simposio delle discipline si dovrebbe accettare la presenza di una disciplina esperta nelle contingenze del mondo, perché essa stessa ha sempre fallito. L’autorevolezza di cui non si ammanta la pone in un ruolo secondario. L’ermeneutica si riduce dunque a vuota sociologia, alla sua imitazione.

 

Il fraintendimento marxiano
Tra gli autori “edificanti,” Rorty individua Marx:

«Quando filosofi edificanti come Marx, Freud e Sartre offrono nuove spiegazioni dei nostri consueti modelli di giustificazione delle nostre azioni e delle nostre asserzioni, e quando queste spiegazioni sono assunte e integrate nelle nostre vite, noi diventiamo esempi evidenti del fenomeno di cambiamento del vocabolario e del comportamento aperto dalla riflessione».[3]

Naturalmente in questo caso, come negli altri, si fa una operazione fortemente ideologica: si privilegia una parte per inficiare il tutto. Il Marx di Rorty è il filosofo che dimostra che le verità e la coscienza non sono che prodotti ideologici. In realtà Marx non dispera affatto di dimostrare la verità della storia: la lotta di classe. Marx come Hegel evidenzia che verità e storicità non sono antitetiche, anzi la verità si svela e rileva nella storia con gradualità. La Filosofia edificante, invece, con il suo storicismo senza verità, con la Filosofia ridotta a rango di dossologia, palesa il legame silenzioso del filosofo statunitense con la Filosofia di Foucault e di Deleuze. Non esiste natura umana, pertanto ogni prospettiva è legittimata, anche e specialmente il liberismo capitalistico con la sua violenza mercificante, poiché immette tutto sul mercato indifferenziato delle merci: le opinioni sono merci, come tali sono tutte legittimate ad essere vendute. Nessuno può sottrarsi allo spazio della visibilità. Il logos, il metodo, la dialettica non sono che residui esiziali della tradizione da trascendere in nome della libera conversazione. La Filosofia diviene dunque complice del suo superamento, non si difende, non ricerca altre possibilità, semplicemente si annichilisce. R. Rorty ed i seguaci del pensiero debole fanno della Filosofia un’esperienza marginale a livello politico e teoretico. In verità, se è vero che la metafisica tradizionale non può essere riproposta, questo non significa che sia impossibile una nuova metafisica umanistica.

Sistemi aperti e chiusi
Ai sistemi chiusi si possono opporre sistemi aperti capaci di cogliere la verità, il fondamento nella storia, sicuramente perfettibile e disponibile all’autocorrezione. Nessuno potrebbe smentire che l’essere umano è relazione. Ogni atto umano presuppone la relazione, per cui ogni sistema che fa del privato, dell’atomizzazione la sua indiscutibile teleologia non è nella verità. La relazione vive le sollecitazioni della storia, del cambiamento senza essere trascesa. R. Rorty è espressione di una Filosofia accademica che diviene ideologica, ovvero con ragioni apparentemente forti è finalizzata a difendere il presente, ad eternizzarlo in nome dell’assenza della verità. E dunque il presente è tutto, intrasformabile, poiché si può dimostrare l’inconsistenza di ogni verità presunta, mentre l’unico fondamento è la conversazione che rende irrilevante ogni prospettiva. La decadenza dell’Occidente culturale trova nella Filosofia una complice evidente. Lo scenario culturale è fortemente depauperizzato dal clima di relativismo in cui il dinamismo è solo transazione finanziaria, spostamento di folle per il parco-giochi mondiale, o per migrazioni dei popoli resi schiavi dagli smisurati bisogni consumistici dell’Occidente. Il dinamismo cela sia la verità, sia la mercificazione di tutto, l’irrilevanza che consente ogni mercificazione. La Filosofia, se utilizza i propri linguaggi, i suoi metodi, è capace di rendere pubblica la verità e di effettuare la catabasi. La Filosofia come conversazione ermeneutica non può bastare, non è la risposta alle inquietudini del mondo piuttosto serve ad eternizzare “La notte del mondo”.

Pensiero debole e fine della Storia
La Rivoluzione per il capitale, parafrasando un articolo di Gramsci, si manifesta anche mediante il tramonto di una tradizione filosofica, l’abbandono della verità, della prassi per il contenimento della trasformazione e della ricerca in nome di un relativismo che vorrebbe chiudere il ciclo della storia. Il caso Rorty è strutturale alla fine della storia, ad una civiltà che ha sostituito la prassi con il poietico, con la produzione materiale delle merci, in cui la rinuncia alla fatica della verità è espressione di un ripiegamento sul presente scisso dalla tradizione, dal passato, e dal futuro. Il presente diviene l’attimo, il consumo senza slancio vitale. La verità necessita di slancio vitale, mentre la mera mediazione tra le opinioni è tipica della civiltà dell’indifferenza.

Il presente senza adesso
Eugène Minkowski ha distinto l’adesso dal presente in Il tempo vissuto:[4] l’adesso è il momento apicale in cui lo slancio vitale, l’inconscio, vive in modo diretto, senza mediazioni, è il momento della vita intensa, in cui la logica cronologica e distesa è messa tra parentesi. Il presente è l’adesso disteso, in cui il presente si coniuga con passato e l’avvenire. Senza l’adesso, il sentire fortemente se stessi ed il mondo, non vi può essere il futuro. L’adesso svela a se stesso il ruolo che la vita nella forma sostanziale e dinamica ha segnato a ciascuno. Sentire l’adesso è l’attimo in cui la collettività scopre l’orizzonte dell’agire. Senza l’ascolto dell’adesso non vi è che meccanicismo e solitudine: il tempo è ridotto a pura consequenzialità logica, a separazione da sé e dall’alterità. Salubre è società nella quale lo slancio vitale e la relazione non sono impedite e distorte, ma accolte nella loro irruenza creativa. Il tempo del capitale assoluto è temporalità cronologica, distesa lungo l’asse della relazione-successione per guardarla e tradurla solo nei simboli della produttività coatta. Si opera per recidere alla fonte la vita, l’adesso, nel quale l’individuale si sposa con il collettivo. La Filosofia è libera nell’adesso, nel non trovare unicamente ragioni produttive al suo dispiegarsi. La resistenza civile della Filosofia è nel rendere testimonianza che l’adesso è sempre possibile in ogni epoca ed in ogni condizione. La testimonianza filosofica è consustanziale all’umanità, è il distacco vivo dal meccanicismo per rendere voce alla libertà del pensiero. Trae la motivazione nel ripiegarsi sull’adesso per poi uscire fuori da sé. Il presente è successivo, è l’atto della traduzione dell’adesso nel tempo del presente che ridispone sul piano della successione. La società è vitale, se l’adesso è parte integrante di essa. Nell’adesso vi è il segreto del futuro, della trasformazione che conosce i ritmi della vita e del tempo. Le perle raccolte nell’adesso per diventare storia collettiva necessitano dopo l’atto creativo di una pluralità di ritmi temporali che si allungano, rallentano per essere coscienza collettiva. L’adesso è l’erotica di Platone, lo spirito dionisiaco nietzscheano, la durata di Bergson, senza i quali non vi è Filosofia, non vi è dialettica dell’avvenire, ma solo malinconica ripetizione. L’adesso è il tempo profondo della Filosofia e dell’umanità. L’attacco all’adesso, è il progetto razionalistico e tecnologico di disumanizzare e rendere eterno il presente: la fine della storia. Resistenza è continuare a vivere per l’adesso, la Filosofia è ovunque vi siano persone nell’adesso. L’adesso è una delle parole che spiega la nascita della Filosofia in ogni epoca. Contro l’adesso vi sono le continue mitragliate della produttività a tutti i costi, dell’integralismo economico, il cui fine è la società dello scollamento, della divisione, della separazione. Perché ci sia l’adesso è necessario che la Filosofia riconquisti il suo linguaggio, il suo statuto epistemologico.

Salvatore Bravo

***

[1] Richard Rorty, La Filosofia e lo specchio della natura, Bompiani 2004, pp. 780-781.

[2] Ibidem, pp. 774-775.

[3] Ibidem, p. 773.

[4] Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, 2004.



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Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.

Marx e l'umanesimo del lavoro
Salvatore Bravo

L’umanesimo del lavoro in Marx

 

 

Il lavoro dell’uomo macchina
La competizione
La flessibilità
Il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi
Marx palesa il suo umanesimo nell’analisi del lavoro
Il lavoro coatto brucia la creatività
Il conosci te stesso socratico risuona solo nel regno della libertà
Costruire e produrre secondo le leggi della bellezza

***

 

Il lavoro dell’uomo macchina

Il lavoro è divenuto esperienza della costrizione, della coazione a ripetere. La globalizzazione, la competizione senza limiti intensificano a dismisura la dequalificazione del lavoro, il quale è pura attività produttiva finalizzata alla sopravvivenza biologica e del mercato. Il lavoro del capitalismo assoluto è molto di più che un fenomeno di abbrutimento dell’umano, è il tentativo scientemente organizzato di introdurre nella carne viva dell’essere umano il meccanicismo dell’uomo macchina. Si assiste dunque ad una nuova rivoluzione copernicana: questa volta al centro non vi l’uomo, ma il plusvalore che detta le leggi della produzione e delle macchine da riprodurre, e tra queste macchine l’essere umano. Il lavoro come pura meccanica è introdotta nella carne viva attraverso le parole. I linguaggi creano mondi e concetti e con essi disposizioni ad agire ed a essere. Le parole che risuonano come imperativi categorici sono: competizione-flessibilità.

 

La competizione

La competizione spinge il lavoratore a regredire ad una condizione emotivamente primitiva. Si vive la realtà dell’ambiente del lavoro come fosse stato di natura, per cui si diffida di tutti: per principio l’animale braccato, perennemente in tensione ansiosa, si rappresenta l’altro come nemico potenziale. Si disgrega in tal modo la naturale tendenza umana all’intenzionalità relazionale. La natura umana non la si può cancellare con un tratto di penna. Può sopravvivere, ma in modo perverso: il soggetto giudica la naturale disposizione ad aprirsi all’altro come debolezza, come patologia, e dunque utilizza le proprie energie per deviare l’intenzionalità dal suo obiettivo.

 

La flessibilità

La flessibilità è molto più che la perenne migrazione-sradicamento: è l’impossibilità di conoscersi. Si è sradicati, estranei, alienati specialmente da se stessi. Il cambiamento continuo, come l’aggiornamento continuo, spinge a vivere in superficie, a indossare maschere senza forma ed identità: dietro di esse non resta che il vuoto cosmico. La flessibilità è dunque la condizione che rende l’identità fragile e vulnerabile, abbatte la resilienza. L’insopportabile è tollerato perché il sistema – in modo silenziosamente coercitivo – produce musulmani, ovvero utilizzando il linguaggio di Agamben, esseri al limite tra l’umano e l’inumano. Si pensi alla condizione a cui è sottoposto un lavoratore in attività ripetitiva come nel call center, la fabbrica con la catena di montaggio, i campi dove si raccolgono i prodotti in modo semischiavile, in un clima di terrore e minaccia. Si può essere licenziati con estrema facilità con la conseguente impossibilità di sopravvivere. Il lavoro in tal modo diviene esperienza simile, ma non uguale, all’attività degli animali non umani: meccanica ripetizione di comportamenti, scollati da se stessi, dalla realtà materiale, e si realizza un riduzionismo regressivo.

 

Il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi

Il lavoro come espressione di sé, della relazione comunitaria, progetto creativo in cui conoscersi è scomparso dalla discussione politica e culturale. La “sinistra ufficiale” ha sposato una visione liberista e primitiva del lavoro, irride chiunque ponga il lavoro come problema, come condizione imprescindibile della qualità della vita da intendersi non in senso del potere d’acquisto, elemento non secondario, ma come occasione vitale per sentirsi parte attiva della comunità, come percorso per conoscere le potenzialità profonde che ciascun soggetto reca con sé e che quasi sempre scopre solo nella relazione. Rileggere Marx è un buon esercizio contrastivo per comprendere il lavoro nella sua prismatica ricchezza sempre minacciata dai modi di produzione regressivi:

«Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’imperio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la natura e il bisogno della specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza».[1]

Marx palesa il suo umanesimo nell’analisi del lavoro

L’essere umano in questo testo risplende per la sua umanità, porta con sé l’universo e la bellezza della natura e del cosmo, che le condizioni materiali e storiche non consentono si attuino. Marx palesa il suo umanesimo nell’analisi del lavoro. La produzione per l’essere umano non è un semplice atto ripetitivo, ma in esso si rende visibile tutta la natura. La bellezza del mondo, della natura con le sue infinite e multiformi forme, si realizza nell’attività pratica. L’antiumaniesimo è nel sistema industriale coatto il quale, allora come oggi, nega la natura umana ”Gattungswesen”, la natura umana generica, per ridurla, mortificarla, depauperizzarla. L’umanesimo del lavoro di Marx si oppone alla nientificazione dell’attuale sistema, il quale alla violenza della recisione delle potenzialità aggiunge sistemi di controllo tali da misurare, quantificare i tempi non dell’azione completa, ma dei singoli gesti che sono divisi per essere parcellizzati, misurati in modo da cogliere il gesto eccedente l’obiettivo e normalizzarlo. Si pensi ai lavoratori delle grandi multinazionali ed al silenzio della politica sulle loro condizioni lavorative. Lavoro eterodiretto dunque.

 

Il lavoro coatto brucia la creatività

Marx evidenzia invece che l’essere umano produce, sapendo liberamente misurare il gesto al fine, non necessita di comandi e gerarchie. La persona è attività pensante che concretizza la dignità dell’essere umano nella produzione autonoma e come tale disalienata. La libertà è creatività, ricchezza materiale ed culturale. Il lavoro coatto brucia la creatività per lasciare al suo posto solo una mente ingombra di comandi e merci, in cui non c’è più spazio per il pensiero autonomo. L’umanesimo di Marx è dunque il fondamento del suo pensiero filosofico. L’essere umano con la sua dignità eleva il mondo, mentre quando l’essere umano è abbassato a livello della pura biologia o di animale non umano è l’intero mondo che precipita.

 

La libertà è il regno in cui l’interiorità vitale si apre al mondo

L’umanesimo di Marx è lapalissiano nella speranza materiale di un regno in cui la necessità sia sostituita dalla libertà. Quest’ultima è parola abusata, utilizzata per descrivere la libertà dell’eccesso, della mercificazione del lavoro come di ogni essere umano. In Marx la libertà ritrova la sua gravità significante. La libertà è il regno in cui l’interiorità vitale trova spazio, si fa storia, si apre al mondo e dunque a se stessa:

«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mani che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa».[2]

 

Il conosci te stesso socratico risuona solo nel regno della libertà

Il regno della libertà, e il lavoro liberato dai fini economicistici ridiventa senso della persona, gratificazione mediata. Il conosci te stesso socratico risuona solo nel regno della libertà. Il lavoro diviene l’innalzarsi dell’albero verso la luce, secondo la metafora nietzscheana, poiché l’attività pratica lavorativa è discesa nell’interiorità, dove si toccano emozioni e profondità sconosciute, e nello stesso tempo ci si innalza dalla necessità per sentirsi semplicemente esseri umani. Il regno della libertà è il regno dei lavoratori associati, ovvero dove tutti partecipano all’attività produttiva, dove non vi sono sudditi, o leader davanti ai quali inginocchiarsi, ma esseri umani in posizione attiva verso la storia, i quali come si afferma nell’Ideologia tedesca, non sono più costretti in un ruolo. L’idealismo di Marx qui si coniuga con l’umanesimo, poiché in entrambi i casi l’essere umano è considerato attività che pone la storia come il prodotto Gegenstand e non obiectum. L’uomo è libero quando pone il lavoro, il suo lavoro, se stesso.

 

Costruire e produrre secondo le leggi della bellezza

Solo nel regno della libertà l’essere umano può costruire e produrre secondo le leggi della bellezza. Il nostro Totalitarismo non riconosciuto è nel regno della necessità, nella sopravvivenza aumentata senza qualità. L’assenza del tema del lavoro in senso qualitativo è la prova evidente della regressione sociale e culturale a cui stiamo assistendo. Il silenzio delle così dette “sinistre” su tale tema è inquietante, proprio perché la qualità del lavoro è la sostanza dimenticata. Se la lettura di Marx continuerà ad essere occultata e rimossa, il deserto dell’alienazione continuerà ad avanzare inarrestabile. Il lavoro è il fondamento della nostra Costituzione (articoli, 1, 3, 36). Il lavoro – contro ogni riduzionismo – vi è contemplato non come semplice attività, ma come la dignità della persona, e non certo legata alla pura sopravvivenza. I costituenti per elaborare la costituzione avevano riferimenti culturali forti. Oggi il nichilismo dei contenuti è anche ignoranza dei grandi pensatori senza i quali non vi è che una progettualità da continua campagna elettorale senza contenuti.

Salvatore Bravo

***

[1] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 2004, p. 75.

[2]  Karl Marx, Il Capitale, vol. III, sez. VII, cap. 48, p. 933.



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Antonio Prete – “Interiorità” è parola che designa e non definisce, che indica e non recinge. Come la parola “amore”. O la parola “infinito”. Parole senza confini.

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Il cielo nascosto

“Interiorità” è parola che designa e non definisce, che indica e non recinge. Come la parola “amore”. O la parola “infinito”. Parole senza confini. Che tuttavia sollecitano l’esplorazione mentre mostrano l’insondabile che le costituisce. Pongono domande, mentre rivelano l’insufficienza di ogni risposta. L’interiorità è imprendibile, come il tempo che la abita. Inesauribile, come l’immaginazione che la alimenta.

 

Antonio Prete, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Bollati Boringhieri, Torino 2016,p. 9.


Antonio Prete – Leggere è far respirare, insieme, l’immaginazione e il pensiero, è custodia dell’interiorità, è un ascolto silenzioso, è fare esperienza del tempo, contro la dissipazione, la distrazione, la spettacolarizzazione.
Antonio Prete – Solitudine vuol dire resistere all’opera di distrazione – distrazione da sé – messa in campo da tutto quello che è intorno: immagini, seduzioni, attrazioni. Solitario non è solo chi si rifugia nel deserto, ma anche chi, pratico del mondo, sa isolarsi nel cuore del tumulto.


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Anaïs Nin (1903-1977) – Si scrive per creare un mondo nel quale valga la pena di vivere. Scriviamo per tentare di trascendere la nostra vita, per imparare a parlare agli altri.

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Ecrire pour ne pas perdre la main

 

Si scrive per creare un mondo nel quale valga la pena di vivere. Ho dovuto crearmi un mondo tutto mio scrivendo, come un clima, un paese, un ‘atmosfera, nel quale potessi respirare, regnare e rinascere ogni volta che la vita ha tentato di distruggermi. Scriviamo di noi per tentare di trascendere la nostra vita, per imparare a parlare agli altri, per raccontare il nostro viaggio nel labirinto. Se tu non percepisci la scrittura come un respiro, se tu non urli senza far rumore scrivendo, se tu non canti mentre scrivi, allora non scrivere, non ne hai affatto bisogno.

Anaïs Nin, Essere una donna (1935), citato in AA.VV., Ecrire pour ne pas perdre la main. Des lettres, dei mots, des pensées, Collection Vivre et l’écrire, Editions L’ Harmattan, Paris 1995, p. 135.



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Claudia Baracchi – Amicizia è disposizione verso il bene, verso il bene della vita, e non richiede conformismo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita.

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Claudia Baracchi

Amicizia

Mursia, 2016

 

 

008   «L’amicizia sorge in seno all’estraneità, rivolgendosi all’esterno: cerca il rapporto non tanto con chi sta vicino, ma con chi viene da lontano. Ancora prima di designare l’approfondimento dell’intimità e della consuetudine, l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto.»

Affrontare il tema dell’amicizia nell’epoca di Facebook e dei social network richiede coraggio e perfino una certa impertinenza. La relazione amicale comporta fiducia, fedeltà, disponibilità alla condivisione profonda. Ebbene, assicurano i sociologi, mai questo atteggiamento fu più improbabile che nel nostro tempo di drammatica riconfigurazione antropologica. La ricerca sull’amicizia non può dunque prescindere dal pensiero antico: con profondità ineguagliata esso ne indovina le più ampie implicazioni, affettive quanto politiche. Le epoche successive non oseranno tanto, e l’amicizia scomparirà dal pensiero politico così come da ogni considerazione complessiva sull’essere umano. L’Autrice percorre gli snodi della riflessione antica, nella convinzione che abbia a che fare con mondi a venire.

 



«Per realizzare le nostre speranze e inostri sogni abbiamo bisogno di amici […] di chi crede in noi. [Gli amici] sono quelli che credono in noi e vogliono aiutarci».

 

Aung San Suu Kyi

 

 

049   «Amicizia» può significare molte cose, potremmo dire con Aristotele. Molte relazioni che vengono chiamate con questo nome sono di fatto rapporti strumentali, motivati da finalità varie […]. Ma come si presenta un’amicizia nel suo senso pieno […]?
Nella perfezione di cui parla Aristotele non dovremmo intendere un riferimento all’ideale, quanto invece l’amicizia come fine in sé: un’amicizia che non si riconduce a mezzo per fini determinati e non si instaura in vista dell’ottenimento di alcunché. Essa non volge ad alcun fine, se non il bene, che non è una cosa: l’amicizia è orientata al bene di sé e dell’amico. Ma essere fine in sé ed essere finalizzata al bene significa, per l’amicizia, la stessa cosa: essere il luogo dove non si persegue altro che la piena realizzazione, cioè la felicità, mia e dell’altro. Questo è il significato del bene: la vita vissuta bene. Dunque l’amicizia riuscita è la riuscita di ognuno.

 

 

014   I requisiti principali dell’amicizia sono la somiglianza, o affinità, e la reciprocità. Ma va detto subito che questi termini non indicano il conformismo, l’adeguamento alla convenzione, tanto meno la quantificazione e il calcolo. […] Gli amici non si assomigliano in qualche dettaglio marginale, nelle forme esteriori, o nella condivisione degli stessi vantaggi e privilegi. E quello che danno l’uno all’altro non si misura come negli scambi di beni ordinari, non è quantità a cui assegnare prezzo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita: arete è il nome che i greci danno a questa postura esistenziale, usualmente tradotto in italiano come virtù.

 

018   Allora comune agli amici è la forma di vita, il modo di vivere, sia nell’invisibile interiorità sia nell’esteriorità dell’azione. È la disposizione verso il bene, verso il bene della vita, quel bene che è la vita stessa protesa al compimento, alla realizzazione felice. Nell’amicizia è magnificato al massimo l’intreccio del bene presente (l’eccellenza dell’amico) e del bene come tendenza, compito infinito, bene a venire. Osserva Aristotele che «la perfetta amicizia è tra esseri umani buoni e simili nei confronti della virtù; poiché, nella misura in cui sono buoni, si augurano l’un l’altro il bene, e siffatti esseri umani sono buoni in se stessi» (Etica Nicomachea, 1156b7-10).

 

035   Nel cuore di questa amicizia si trova la condivisione dell’eccellenza e il reciproco augurio di ulteriore compiutezza e accrescimento. Ed è proprio il movimento verso il bene (ciò che rende eccellenti nella psyche e nell’azione) ad essere eminentemente amabile e attraente nell’amico. […] Sono i participes curarum con cui ci confrontiamo, da cui riceviamo consiglio nell’affrontare passaggi e situazioni di non facile lettura. […] Nell’amicizia è il bene dell’altro che mi fa bene. […]

 

037   Desta perplessità, ai nostri orecchi tardo-moderni, tutto quello che riguarda il bene, e in particolare l’espressione: essere buoni. Il bene, la bontà, buono: categorie goffe, rese irriconoscibili da rivolgimenti epocali che ce le hanno restituite come formule inerti, principi moralistici risibili, quando non apertamente repressivi. Noi abitanti nella modernità tarda siamo a malapena in grado di intendere quello che dicono gli antichi: per loro essere buoni significa essere felici, sentirsi dischiudere nella vastità della vita, ricercandone l’inveramento. […] E per questo, nella nostra epoca tarda, termini o espressioni come «bene comune», «cittadinanza», «comunità», rischiano di perdere il senso concreto e la prossimità viva. Non riconoscendo il bene come realizzazione di sé in seno a un noi, crediamo di trovare libertà e felicità in comportamenti puramente arbitrari e sconnessi.

 

045   Oppure siamo connessi, ma non tra di noi, bensì alla macchina, e tramite «la macchina» comunichiamo globalmente, ormai ampiamente risucchiati fuori di noi, prosciugati, come gusci vuoti appesi ai terminali della rete. Ma, così intesa, la connettività è contraffazione della comunità degli amici, così come la «realtà aumentata» è contraffazione della pienezza della vita.[…]
Gli amici si assomigliano in quanto, essendo similmente rivolti verso il bene, lo perseguono, anelano ad esso, e in ciò si favoriscono a vicenda. Ma ognuno lo farà a modo suo. […] L’amicizia non richiede conformismo […].

 

059   Dunque gli amici condividono la loro disposizione verso il bene. Sono simili nella loro postura rispetto al bene, simili nell’essere implicati nell’amore per il bene.

Claudia Baracchi, Amicizia, Mursia, 2016, pp. 53 ss.

 

Claudia Baracchi

Claudia Baracchi



Claudia Baracchi, Ph.D. in Filosofia, docente di Filosofia antica e Filosofia continentale alla University of Oregon (1996-1998) e alla New School for Social Research di New York (1999-2009), dal 2007 insegna Filosofia morale e Filosofia della relazione e del dialogo all’Università di Milano-Bicocca. È membro fondatore della Ancient Philosophy Society. È docente a Philo-Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche. È analista membro della Società di Analisi Biografica a Orientamento Filosofico (SABOF)


Claudia Baracchi – Incontrare l’antico può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci. E l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto.
Claudia Baracchi – L’universalismo moderno sorge nell’astrazione. Invece, per l’esperienza antica, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte capace di cogliere la tessitura complessiva. Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Così, l’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto.

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Claudia Baracchi

L’architettura dell’umano
Aristotele e l’etica come filosofia prima

Vita e Pensiero, 2014

Il secolo scorso ha variamente proclamato la fine della filosofia in quanto metafisica. Nel nuovo millennio si indovinano, a livello istituzionale, sintomi di una sempre più conclamata obsolescenza degli studi umanistici, e quindi della filosofia intesa come disciplina accademica ed esercizio puramente intellettuale. Eppure, nel gesto ampio di questo transito epocale, trovarsi di fronte ai testi antichi può essere occasione di esperienze sorprendenti. Vale a dire, avvicinarsi al testo nella sua materialità impervia, nell’effetto straniante della sua opacità, nella sua refrattarietà alla risoluzione interpretativa o manualistica, può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci – che interrogano l’umano, le sue vicende e possibili configurazioni, le scelte, i percorsi, l’ipotesi della felicità. Incontrare l’antico (Aristotele, per esempio) in questo modo implica coltivare l’intimità con ciò che ancora ci elude. Allora diagnosticare la fine, intravedere altri inizi, non significa superare, passare oltre, né ancora andare altrove. L’origine ci scruta enigmatica. Il suo mistero inconsumato ci sta davanti. Lungi dal comportare una deposizione o un ritorno, lo sguardo volto al passato si espone a ciò che nel passato resta impensato, inaudito. Forse è proprio cogliendo l’antico nel suo carattere insondabile che si vi può intravedere la possibilità inespressa, ciò che si annuncia ma resta in ombra: nella fine, in seme, il compito del pensiero a venire.


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Claudia Baracchi

Aristotle’s Ethics as First Philosophy

Cambridge University Press, 2007

In Aristotle’s Ethics as First Philosophy Claudia Baracchi demonstrates the indissoluble links between practical and theoretical wisdom in Aristotle’s thinking. Referring to a broad range of texts from the Aristotelian corpus, Baracchi shows how the theoretical is always informed by a set of practices, and specifically, how one’s encounter with phenomena, the world, or nature in the broadest sense, is always a matter of ethos. Such a ‘modern’ intimation can, thus, be found at the heart of Greek thought. Baracchi’s book opens the way for a comprehensively reconfigured approach to classical Greek philosophy.

Estratto:

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Pablo Picasso, Amicizia, 1908

Pablo Picasso, Amicizia, 1908

 

Raffaello Sanzio, Autoritratto con un amico, 1518-1520

Raffaello Sanzio, Autoritratto con un amico, 1518-1520

 

H. Matisse, amicizia

H. Matisse, Amicizia

Konstantin Makovskij, Amici, 1895

Konstantin Makovskij, Amici, 1895

 

Edgar Degas, Amici del pittore dietro le quinte, 1879

Edgar Degas, Amici del pittore dietro le quinte, 1879



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Charles Péguy (1873-1914) – «Il denaro è tutto, domina tutto nel mondo moderno». L’indifferenza è la riduzione di tutto a denaro. La dimenticanza consiste nell’incapacità di vivere la cultura come parte integrante dell’esistenza, come impegno quotidiano. Ecco il mondo delle persone che non credono più a niente.

Charles Péguy 001

Lui è qui. Pagine scelte, Rizzoli, 2009

Lui è qui. Pagine scelte

Il mondo delle persone che non credono più a niente

a cura di Salvatore Bravo

SONO NELLA STANZA ACCANTO

 

 

L’amore non svanisce mai.
La morte non è niente, io sono solo andato nella stanza accanto.
Io sono io.
Voi siete voi.
Ciò che ero per voi lo sono sempre.
Datemi il nome che mi avete sempre dato.
Parlatemi come mi avete sempre parlato.   

Non usate un tono diverso.
Non abbiate un’aria solenne o triste.
Continuate a ridere di ciò che ci faceva ridere insieme.
Sorridete, pensate a me, pregate per me.
Che il mio nome sia pronunciato in casa come lo è sempre stato,
senza alcuna enfasi, senza alcuna ombra di tristezza.
La vita ha il significato di sempre.
Il filo non si è spezzato.
Perchè dovrei essere fuori dai vostri pensieri?
Semplicemente perchè sono fuori dalla vostra vista?
Io non sono lontano,
sono solo dall’altro lato del cammino.

 

 

Charles Péguy

 

 

Charles Peguy in un dipinto di Jean-Pierre Laurens

Charles Peguy in un dipinto di Jean-Pierre Laurens

 

 

L’indifferenza è la riduzione di tutto a denaro.

La dimenticanza consiste nell’incapacità di vivere la cultura come parte integrante dell’esistenza, come impegno quotidiano.

Il logorio del nichilismo economico sfregia l’umanità.

 Péguy racconta e denuncia il deserto crematistico che avanza.

Péguy denuncia il denaro come unica legge sociale riconosciuta.

La resistenza deve elaborare nuovi modelli di lotta mediati dalla lucida lettura della condizione attuale.

Charles Péguy (1873-1914) testimonia l’irriducibilità dei pensatori ad ogni tassonomia. Ha vissuto sulla soglia, sempre sul limitare, non ha mai voluto essere parte organica di un sistema, di un partito, di un’ideologia. Libertario per formazione e natura fino all’anarchia, la sua giovane vita ha attraversato la stagione del dubbio per giungere ad una spiritualità libera. La fede di Péguy non ha nulla di clericale, vi ha aderito dopo un lungo viaggio interiore. Homo viator e viandante, Peguy nella sua opera e nella sua vita ha posto il problema ontologico. Ogni soluzione facile o individualistica gli è sempre apparsa come negazione della natura umana la quale è espressa in modo completo solo nella relazione. La trinità e la relazione che ne è consustanziale ha nella comunità il suo riflesso speculare. La conversione è stata una scelta radicale in nome di un insopprimibile bisogno ontologico di relazione che si concretizza in senso orizzontale e verticale. L’essere umano reca con sé un’insoddisfazione ontologica, una mancanza d’essere che mentre lo tormenta e lo chiama alla soluzione del problema lo umanizza, lo trasforma gradualmente in un essere sempre più completo, in cui l’esistenza con la sua apertura all’essere, è il passaggio obbligato per trascendere ogni individualismo materialistico. La sua biografia è intessuta di solitudine, lotta e ripensamenti. Se una vita degna di essere vissuta è una vita dedicata alla ricerca la sua lo è stata pienamente. Visse da straniero, da pellegrino nella sua comunità, o meglio da esiliato. Constatava che ogni ideologia o istituzione è logorata da un grande male: l’indifferenza. Il male che ha incontrato, e che noi anche più fortemente viviamo, è l’assoluta dimenticanza dell’altro come di ogni grande tradizione storica e filosofica. La dimenticanza consiste nell’incapacità di vivere la cultura come parte integrante dell’esistenza, come impegno quotidiano. Il nichilismo invece è il trionfo della ragione strumentale: tutto è mezzo per l’affermazione di sé, e specialmente per ottenere denaro in nome di un narcisismo primario. L’irrilevanza, come direbbe Costanzo Preve, è la pratica del nichilismo. Péguy si confrontò con tale pratica. L’indifferenza è la riduzione di tutto a denaro. Il nichilismo contemporaneo ha perso la nobiltà del nichilismo filosofico o letterario tradizionale per divenire indifferenza verso prossimo, strumentalizzazione di ogni ente in vista del plusvalore. L’aspetto che gli mordeva era constatare quotidianamente in ogni ambito, la presenza pervasiva di tale logica che reifica ogni relazione compresa la duale relazione che ciascun essere umano ha con se stesso. Il logorio del nichilismo economico sfregia l’umanità al punto da indurla alla dimenticanza del prossimo come della tradizione in cui si è radicati. La persona con il suo mistero è sostituita dall’individuo, atomo calcolante. L’essere umano come algoritmo. La relazione e la comunità non consistono semplicemente in relazioni concrete da vivere nello spazio e nel tempo che condividiamo con gli altri, ma anche con l’invisibile regno dei pensatori e dell’umanità che ci hanno preceduti. L’indifferenza nichilistica si allarga nello spazio e nel tempo fino a ridurre l’essere umano a semplice presenza spaziale. L’indifferenza della contemporaneità è un’inquietante presenza assolutamente nuova, mai apparsa nella storia. Indifferenza in odore di mutazione antropologica:

«Subito dopo di noi comincia il mondo che noi abbiamo chiamato e continueremo a chiamare il mondo moderno. Il mondo che fa il furbo. Il mondo delle persone intelligenti, progredite, scaltrite, delle persone che la sanno lunga, alle quali non si può darla ad intendere. Il mondo di quelli che non hanno più niente da imparare. Di quelli che fanno i furbi. Che non si fanno imbrogliare, che non sono degli stupidi. Come noi. Vale a dire: il mondo delle persone che non credono più a niente, neppure all’ateismo, che non si danno, non si sacrificano mai. Precisamente: il mondo di quelli che non hanno una mistica. E se ne vantano. Non bisogna ingannarsi, e non è il caso di rallegrarsi né da una parte né dall’altra. […] La medesima incredulità, l’identica incredulità colpisce gli idoli e Dio, colpisce insieme i falsi dei e il vero Dio, gli dei antichi e il Dio nuovo, i vecchi dei e il Dio dei cristiani. La medesima sterilità inaridisce la città e la cristianità. La città degli uomini e la città di Dio. E questa è la sterilità moderna. Nessuno dunque si rallegri della disgrazia che colpisce il nemico, l’avversario, il vicino. Perché la stessa disgrazia, la stessa sterilità colpisce lui pure. Come mille volte ho ripetuto nei miei Cahiers, anche quando non erano ancora letti, la questione non è fra Repubblica e Monarchia, fra Repubblica e Regalità, soprattutto considerandole come forme politiche, come due forme politiche opposte, non è neppure fra il vecchio  e il nuovo regime francese, ma è nel fatto che il mondo moderno si oppone non solo al vecchio regime francese, ma ad ogni cultura precedente, ad ogni regime precedente, a ogni società precedente, alla cultura insomma e alla società. È infatti la prima volta nella storia        del mondo che un mondo intero vive e prospera, sembra prosperare contro ogni cultura».[1]

Il mondo dei furbi, degli scaltri è il mondo in cui la linea tra amici e nemici, tra militanti di ideologie diverse vien meno, poiché la sostanza nichilistica è comune a tutti. Possiamo intendere la soluzione di Péguy: l’indifferenza, il fanatismo del denaro alberga ovunque, per cui la lotta va praticata contro il sistema in generale. Dinanzi ad un fenomeno assoluto come il nichilismo economico, è necessario trovare nuove forme di lotta. Le lotte tradizionali appaiono inadeguate, perché l’inverno dello spirito alberga ovunque, per cui i singoli soggetti devono prendere atto della condizione storica e condurre una lotta titanica. Peguy non lotta solo non adeguandosi al sistema del denaro, ma lontano dalle logiche crematistiche pubbliche ed accademiche, racconta e denuncia il deserto crematistico che avanza. Le sue opere sono come messaggi in bottiglia, si spera che altri accolgano le parole per farne carne e sangue per la resistenza attiva. Il denaro sostanza del mondo separa senza appello. I ricchi ed i poveri paiono appartenere a mondi assolutamente diversi, più nulla li unisce perché ciò che conta è possedere denaro o non possederlo. Ricchi e poveri si confrontano senza possibilità di compromesso. L’umanità è misurata sul denaro. Gli esseri umani sono così resi stranieri gli uni agli altri:

«Nel mondo moderno, come ho dimostrato tante volte in questi stessi cahiers, non esiste, non regge, non conta alcun potere accanto al potere del denaro, non esiste, non regge, non conta alcuna distinzione in confronto all’abisso che separa i ricchi e i poveri, e queste due classi, malgrado le apparenze e malgrado il gergo politico e i paroloni di solidarietà, si ignorano come mai nel passato si sono ignorate. In modo infinitamente diverso, infinitamente più grave s’ignorano e misconoscono. Sotto le apparenze del gergo politico parlamentare c’è un abisso fra di esse, un abisso di ignoranza e di incomprensione, un abisso di non comunicazione. L’ultimo dei servi apparteneva alla stessa cristianità del re. Oggi non c’è più città. Il mondo ricco e il mondo povero vivono, mostrano di vivere, come due masse, come due strati orizzontali separati da un vuoto, da un abisso di incomunicazione. Il denaro è tutto, domina tutto nel mondo moderno, a tal punto, così completamente, così totalmente, che la separazione sociale orizzontale fra ricchi e poveri è divenuta infinitamente più grave, più radicale, più assoluta della separazione verticale di razza fra ebrei e cristiani. La durezza del mondo moderno riguardo ai poveri, contro i poveri, è divenuta così totale, così spaventosa, così empia sia riguardo agli uni che riguardo agli altri, sia contro gli uni che contro gli altri».[2]

Péguy irrompe nella contemporaneità, malgrado la rimozione dell’autore, denunciando l’attacco antropologico che il nichilismo economicistico sta operando: il denaro come unica legge sociale riconosciuta. Dinanzi alla normalizzazione della nientificazione sono necessarie nuove forme di lotta, nuove strategie. Gli intellettuali, come gli uomini di buona volontà, sono chiamati ad elaborare nuove dialettiche organiche alle mutazioni in opera, prima che l’irrimediabile si realizzi. La condizione attuale è l’umanità ridotta a massa: Péguy palesa che la lotta è tra masse disposte in senso orizzontale, ovvero è il denaro nella sua presenza o assenza a determinare la posizione delle masse divise lungo l’orizzonte specifico del denaro. Quindi tutti non credono più a niente, ogni nucleo della massa ambisce al possesso del denaro. Non vi sono differenze ideologiche. La lotta deve tener conto della mutazione avvenuta, nessuno crede a più a nulla, tutti vogliono ed esigono gli stessi obiettivi. Solo in tal modo è possibile comprendere le motivazioni per cui si tollera l’intollerabile ovvero: corruzione, violenza, collasso delle istituzioni e smantellamento dei diritti sociali. La condizione di “plebe” non è identificabile con una particolare fascia sociale, ma è trasversale. La plebe è l’assenza di consapevolezza assoluta, è l’orizzonte che si restringe ad una banconota, per cui, si è disponibili a sacrificare se stessi, la propria comunità, la propria storia, il paesaggio, in nome di una banconota in più. La plebe è l’intera popolazione, perché ha perso la coscienza di sé. La resistenza deve elaborare nuovi modelli di lotta mediati dalla lucida lettura della condizione attuale. È necessario prendere atto che stiamo assistendo ad una “Rivoluzione copernicana”, stiamo vivendo una nuova fase del nichilismo, in quanto in assenza di differenze, non è possibile distinguere, discernere l’evento storico in cui siamo. Il nichilismo come quotidiano, normalità, non è il nichilismo tradizionale che fungeva da critica sociale, ma la tragedia che nel tempo vissuto di ciascuno prende forma senza riuscire a capirla, ad identificarla. Non si può iniziale la trasformazione dalla presa d’atto dell’ospite inquietante, il nichilismo, ma che non inquieta, anzi è difeso in nome di una libertà assoluta e violenta. In ogni istituzione, luogo e canale comunicativo risuonano le nuove parole d’ordine: competizione e PIL. A tali parole non vi è risposta, o meglio, ci si adatta senza mediazione, a prescindere dalla posizione che si occupa nella catena produttiva. Ricominciare a pensare tali parole è il primo dovere di ogni resistenza al deserto che avanza.

Salvatore Bravo

[1] Charles Péguy, Lui è qui, Rizzoli, Milano, 1997, pag. 96.

[2] Ibidem, pp. 102-103.

 

 



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Giulio A. Lucchetta – La salvezza della città. Ethos e logos in democrazia. Tornare a credere nell’educazione e nella crescita culturale dei “cittadini” è l’unica premessa possibile all’esercizio della “buona politica”

La salvezza della città

La salvezza della città

Tornare a credere nell’educazione e nella crescita culturale dei “cittadini” è l’unica premessa possibile all’esercizio della “buona politica”: in questo senso, collante dell’intero lavoro che qui proponiamo sono i temi del linguaggio, della razionalità, dell’ethos, dell’ideale di una cittadinanza consapevole e “attiva” che ha il proprio modello di riferimento nella “città”.

Giulio LucchettaMaurizio De Innocentiis, La salvezza della città. Ethos e logos in democrazia, Carabba, 2012.



Altri libri di Giulio Lucchetta
La natura della sfera

La natura della sfera

La natura e la sfera. La scienza antica e le sue metafore nella critica di Razi

Milella, 1988

Il trattato sulla Metafisica del medico-filosofo persiano Abu Bakr Mahammad ibn Zakariyya’ al Razi (IX-X sec.) è un testo enciclopedico interamente dedicato alle dottrine naturalistiche dell’antichità. Partendo da questo ultimo approdo della traduzione del pensiero scientifico antico, l’autore di questo saggio, Giulio Lucchetta, studioso di filosofia antica, ripercorre a ritroso, operando il rinvenimento delle fonti ora esplicite ora implicite, la scia lasciata da alcune forme tipiche del sapere greco nell’attraversare l’età ellenistica e tardo-antica. Proprio il trattato di Razi in questione offre la possibilità di una incursione nelle tradizioni metaforiche della scienza di quelle età, attento com’è a rilevare le aprioristiche distinzioni e le pratiche analogiche da queste assunte per produrre leggi e previsioni. Così quella di Razi si presenta come una riflessione critica, forse epistemologica, sulle capacità di cogliere e raffigurare la realtà attraverso strategie linguistiche, più che sperimentali messe a punto dal sapere scientifico dell’antichità nella sua ricca seppur breve evoluzione.

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Scienza e retorica in Aristotele. Sulle radici omeriche delle metafore aristoteliche

il Mulino, 1990

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Le ragioni di Odisseo

Le ragioni di Odisseo

 

Le ragioni di Odisseo Pensiero,
azione e argomentazione nelle forme narrative dell’Odissea

Métis Editrice, 1996

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Sotto il segno di Boezio

Sotto il segno di Boezio

Sotto il segno di Boezio.
Memoria, tempo, sogno, scrittura e confronto dall’intellettualità

Troilo Editore, Bomba, 2001

 

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Allegoria. L'età classica

Allegoria. L’età classica

Allegoria. Vol. I. L’età classica

Autori: Giulio Lucchetta, Ilaria Ramelli

Vita e pensiero, 2004

 

L’allegoria come tentativo di razionalizzare la mitologia e, di conseguenza, la religione ebbe grande diffusione in Grecia fino dalle età più remote. Con l’avvento della filosofia essa assunse via via maggiore profondità e una più coerente strutturazione: l’allegoria divenne così allegoresi. è soprattutto a partire da questa trasformazione che Giulio Lucchetta e Ilaria Ramelli intraprendono la paziente e meticolosa ricostruzione della storia dell’allegoresi nel periodo classico (fino al I-II secolo d.C.) facendo emergere due principali linee di tendenza, rispettivamente a carattere stoico e aristotelico. La prima linea risulta senza dubbio predominante, al punto da poter affermare che l’allegoresi fu ‘una creazione degli Stoici’ e assunse da loro la varia e specifica terminologia che venne poi trasmessa a tutti gli allegoristi.
Questo libro costituisce un fondamentale strumento di ricerca sul tema dei rapporti fra religione e filosofia e sui complessi sviluppi della teologia greca; esso inaugura una serie di tre volumi che, avvalendosi del contributo di numerosi studiosi, intende coprire tutta la storia dell’allegoria antica: dall’allegoria classica (vol. I), a quella giudaico-alessandrina (vol. II), fino all’allegoria tardo-pagana e proto-cristiana (vol. III).

 

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Mente, anima e corpo nel mondo antico. Immagini e funzioni

Mente, anima e corpo nel mondo antico. Immagini e funzioni

 

Mente, anima e corpo nel mondo antico. Immagini e funzioni

Autori: Giulio Lucchetta, Ugo La Palombara
Opera Editrice, 2006

 

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Metafisica I. La sophia degli antichi. Volume II, linguaggio, mito, metafora in Aristotele

Metafisica I. La sophia degli antichi. Volume II, linguaggio, mito, metafora in Aristotele

 

Metafisica 1. La sophia degli antichi.
Vol. 1: Vailati traduce Aristotele.

Carabba, 2009

 

Questo volume inaugura la collana “Nuove prospettive sulla cultura dell’anima”, una serie di studi sui titoli, i traduttori, i curatori e i commentatori della collana “Cultura dell’anima” diretta da Papini dal 1909 al 1938 e che la Carabba ha iniziato a ristampare in anastatica dal maggio 2008 e che conta oggi già 60 titoli disponibili. Questo primo lavoro prende spunto dal numero 1 “Il primo libro della metafisica di Aristotele” tradotto e commentato da G. Vailati.

 

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Metafisica I. La sophia degli antichi. Volume II, linguaggio, mito, metafora in Aristotele

Metafisica I. La sophia degli antichi. Volume II, linguaggio, mito, metafora in Aristotele

 

Metafisica I. La sophia degli antichi.
Vol. 2: Linguaggio, mito, metafora in Aristotele.

Carabba, 2010

Con questo secondo volume Giulio Lucchetta termina il commento al numero 1 “Il primo libro della metafisica di Aristotele” tradotto e commentato da G. Vailati.

 

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Shoah e schiavitù

Shoah e schiavitù

 

Shoah e schiavitù. Storie di antica disuguaglianza e di rinnovati colonialismi

Carabba, 2011

Nel porre in parallelo le storie di sfruttamento schiavistico nel Congo per il reperimento di avorio e quelle nei lager per la produzione della gomma sintetica, Finkelstein suggerisce l’ipotesi che quanto si tentò di realizzare sotto il Nazismo non sia altro che una riproposta, nel Continente Europeo, del modo di produzione schiavistico realizzato in Età Moderna a scapito delle popolazioni indigene del Nuovo Mondo e, su più larga scala, in Africa durante il Colonialismo. D’altronde che il Vecchio Continente si fosse ormai assuefatto al modo eurocentrico di considerare altri popoli e altre etnie in funzione del mantenimento del proprio alto tenore di vita, ne dava prova lo sguardo non ancora ideologico di Conrad. Si trattava di poter costruire all’alba del Novecento un “altro da noi” di cui disporre dentro le pareti di casa: si interrogò l’ambiente scientifico alla ricerca di un avallo in tal senso e dagli antropobiologi fu posto in essere il concetto di “razza”. Anche in Italia, in ragione della promulgazione delle leggi razziali, non mancarono casi eclatanti di collusione tra Accademia e Regime, di cui si dà testimonianza. Risulta rilevante il ruolo ispiratore assunto da I Protocolli dei “Savi anziani” di Sion data la totale assenza di riscontri biologici, al punto che con modalità parascientifiche ci si spinse a rintracciare i contorni decisi della “razza” nell’ereditarietà di atteggiamenti psicologici. Ma il futuro sul quale già da allora ci eravamo incamminati non sembra meglio del nostro passato: sul filo dei processi di deculturazione rilevati da Latouche è possibile cogliere drammatiche analogie tra il testo dei Protocolli e quanto prospettato da Bradbury in Fahrenheit 451, come linee guida che all’interno del Mercato rendano inevitabile un generale destino da sfruttati. Il retroterra classicistico dell’Autore, infine, offre termini di paragone per cogliere le profonde differenze di questa rinnovata schiavitù che, in quanto rispecchiamento dei processi di produzione capitalistica, è in grado di parlarci delle differenti finalità perseguite dalle diverse forme di organizzazione e di subordinazione sociale.

 

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2012 La salvezza della città

 La salvezza della città

La salvezza della città. Ethos e logos in democrazia

Autori: Giulio LucchettaMaurizio De Innocentiis

Carabba, 2012

Tornare a credere nell’educazione e nella crescita culturale dei “cittadini” è l’unica premessa possibile all’esercizio della “buona politica”: in questo senso, collante dell’intero lavoro che qui proponiamo sono i temi del linguaggio, della razionalità, dell’ethos, dell’ideale di una cittadinanza consapevole e “attiva” che ha il proprio modello di riferimento nella “città”.

 

***

 

Tuphlòs perì chromáton.
Parlare di natura a partire dal movimento: cause e privazione (Phys. I e II)

RIVISTA DI FILOSOFIA NEO-SCOLASTICA – 2015 – 4

Vita e Pensiero, 2015

According to Wieland and Düring, a narrow interpretation of the doctrine of four causes may engender a misunderstanding of Aristotleʼs theory of nature. Talking about nature we have to determine natural movements: for that, as Heidegger said, it needs to use potency in order to avoid the opposition between absolute being and not-being; but it is also necessary a large notion of accident. Then it should be crucial the role of privation, as contrary of matter or of form.

 

Rivista di Filosofia neo-scolastica

Rivista di Filosofia neo-scolastica


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María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca.

Maria Zambrano 027
La confessione come genere letterario01

La confessione come genere letterario

«La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca. Si tratta quindi di trovare il punto di contatto tra la vita e la verità: e tale punto di contatto si ottiene grazie a un’operazione della vita stessa, qualcosa che avviene al suo interno».

 

Maria Zambrano, La confessione come genere letterario (1943), tr. it. Bruno Mondadori, Milano, 1997, p. 45.

 

 

La confessione come genere letterario

La confessione come genere letterario


Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita
María Zambrano (1904-1991 – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.
María Zambrano (1904-1991) – L’amore è l’elemento della trascendenza umana. Originariamente fecondo, quindi, se persiste, creatore di luce, di vita, di coscienza. È l’amore a illuminare la nascita della coscienza.

 



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Giancarlo Chiariglione – Le forme informi della frontiera. Lo sguardo del cinema western sulla storia americana.

Giancarlo Chiariglione 01

 

295 ISBN

Giancarlo Chiariglione

Le forme informi della frontiera.
Lo sguardo del cinema western sulla storia americana.

indicepresentazioneautoresintesi

06 Conclusioni 01

 

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Nato come curiosità scientifica e trasformatosi ben presto in un divertimento popolare capace di influenzare mode, costumi e di creare identità, il cinema ha spesso anche riflettuto sulla storia con la S maiuscola.

Il genere western, nello specifico, non solo ha permesso di ricostruire le traumatiche vicende che hanno portato alla colonizzazione del selvaggio Ovest; ultimo ed estremo Eden (anche spirituale) del Nuovo Mondo, ma ha anche anticipato o suggerito alcune inquietanti trasformazioni della società occidentale tardo-moderna che le oligarchie al potere pretenderebbero di estendere al resto del pianeta. In questo senso, dopo che lo spazio terrestre è stato mappato, cartografato e scandagliato in ogni suo angolo e una volta che il sistema capitalista è riuscito a persuadere le masse a proposito del suo carattere fatale, le nuove frontiere diventano gli schermi del cinema, quelli delle televisioni, dei computer, dei telefoni cellulari su cui scorrono senza requie valori, simboli e immagini del nuovo mercato universale. O addirittura il corpo umano, il quale viene sempre più industrializzato grazie a scienze quali la robotica, la genetica, la bioinformatica e la nanotecnologia.

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Hollywoodland

Hollywoodland

 


Giancarlo Chiariglione

Laureato con lode in Lettere Moderne nel 2005 presso l’Università di Torino con una tesi sul cineasta e scrittore Sam Peckinpah intitolata “Il cinema di Sam Peckinpah tra la fine del mito della frontiera ed una riflessione sulla violenza e sulla società contemporanea americana”, diventata poi il saggio “Il cinema di Sam Peckinpah nell’America degli anni sessanta e settanta. Un universo di violenza e di nostalgia” edito da L’Harmattan Italia. A partire da questa pubblicazione, ha iniziato a collaborare con giornali e riviste (online e cartacee) anche piuttosto importanti. Per Heos.it, settimanale di scienza, politica e cultura della Gazzetta di Verona, ha realizzato gli articoli “Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica” e “Alberto La Marmora, il generale scienziato che disegnò la Sardegna”. Per il quotidiano Paneacqua (http://www.paneacqua.info/), ha scritto diversi articoli su alcune manifestazioni culturali e artistiche torinesi di grande interesse. Per la rivista Slavia, ha scritto il saggio “Stanislavskij, Mejerchol’d e Vachtangov: l’altra rivoluzione russa” (ripreso dalla nota rivista Teatro di Nessuno che di recente ha pubblicato anche il saggio “L’opera di Tatiana Pavlova al crocevia delle trasformazioni teatrali italiane del primo Novecento”). L’approfondimento di tematiche socio-politiche ed economiche attraverso la settima arte è infine proseguito con la testata giornalistica Cabiria (www.cabiriamagazine.it/) e con la rivista Persinsala (www.persinsala.it/) che ha pubblicato scritti come “Sidney Lumet, il regista della coscienza americana”, “La rivoluzione di Gillo Pontecorvo”, “Alle radici del cinema politico italiano: Il caso Rosi” e “Grillo, Coluche e il potere sovversivo della cultura popolare” (gli ultimi tre segnalati da Treccani.it alla voce documenti, foto e citazioni) e con Quaderni di CinemaSud, noto periodico di cultura cinematografica e politica fondato nel 1958 da Pier Paolo Pasolini. Infine, per il Prof. Eusebio Ciccotti, preside del Liceo Scientifico Statale Ettore Majorana di Roma, docente di Storia e Critica del Cinema presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Foggia e Dottore di ricerca in Letterature Comparate (Roma Tre), ha realizzato il saggio “Glengarry Glen Ross e Americani: il lato oscuro del capitalismo secondo Mamet” che ha trovato ospitalità sulle pagine del periodico Il Lettore di provincia (Vol. 139) della Angelo Longo Editore.


Giancarlo Chiariglione – La caricatura e il suo doppio ovvero: Elio Petri e i nodi del cinema politico italiano
Giancarlo Chiariglione – Vincitori e vinti. Il cinema e la rappresentazione degli italiani nei due conflitti mondiali.
Alessandro Alfieri – Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino.

“Il pensiero e il suo schermo”, filosofia e cinema per la Petite Plaisance


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Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.

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Javier Heraud

Javier Heraud in una foto del periodo universitario.

 Javier Heraud

 1942 – 1963
Non rido mai della morte.
Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi.
Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra,
in una pioggia di parole silenziose,
in un bosco di palpiti e di speranze,
con il canto dei popoli oppressi,
il nuovo canto dei popoli liberi.
 ***

a cura di Fernanda Mazzoli

 

Scarica e stampa il file PDF di 17 pagine:

Fernanda Mazzoli, Javier Heraud


 

Poesías completas y Cartas

Poesías completas y Cartas

Aveva vent’anni Javier Heraud, una borsa di studio per la cinematografia a Cuba e la consapevolezza «che la poesia è un lavoro difficile / dove si perde o si vince / al ritmo degli anni autunnali»[1]. Gli scaturiva copiosa dalle mani nelle notti passate a scrivere, come un fiore lasciato cadere a terra, ma sapeva che il tempo l’avrebbe costretto ad impastare «parole silenziose» e «fuochi fulminei» in un paziente «lavoro da vasaio». Non gliene lasciarono il tempo: rientrato in patria nel 1963 come componente dell’Esercito di liberazione popolare, fu ucciso dalla polizia mentre cercava di penetrare in territorio peruviano, seguendo il corso del Madre de Dios, un fiume che attraversa la foresta alla frontiera tra Bolivia e Perù.

 

Poèsias completas

Poèsias completas

Ventun’anni, due raccolte poetiche, gli studi letterari e, poi, cinematografia all’Avana, un viaggio a Mosca, invitato al Forum Internazionale della gioventù, e un soggiorno a Parigi, studente all’Alliance française:[2] la breve vita di Javier Heraud sta racchiusa in poche righe che ci consegnano il mistero della sua inaspettata e tragica morte.

Legge una sua poesia a18 anni

Legge una sua poesia a18 anni.

 

All' Alliance française

All’Alliance française.

 

Il padre, accorso incredulo da Lima a Puerto Maldonado, la cittadina di frontiera dove fu portato il corpo del giovane poeta, sapeva che il figlio «era seriamente impegnato nella ricerca di una vita utile e di creazione», ma ignorava che pensasse ad altro che studiare cinematografia.

 

Con il padre, ad una premiazione scolastica

Con il padre, ad una premiazione scolastica

 

Difficile delineare con precisione quei giorni convulsi intorno al 15 maggio 1963: tante le contraddizioni che emergono dai rapporti ufficiali e dalle ricostruzioni giornalistiche. Sembra che Heraud sia rientrato in Perù con un gruppo di altri sette studenti decisi a lottare come guerriglieri dell’Ejercito de Liberacion Nacional contro il governo militare giunto al potere con un colpo di stato. Dopo avere attraversato la foresta del Madre de Dios, gli otto giovani, sfiniti dopo una giornata di marcia, sarebbero stati sorpresi dalla polizia a Puerto Maldonado, capoluogo di questa regione di fitte foreste, grandi laghi e ricchi corsi d’acqua. Alcuni di loro sarebbero riusciti a scappare, Javier e un altro avrebbero cercato scampo nel fiume dove un generoso barcaiolo li avrebbe accolti sulla sua imbarcazione, una canoa di tronco d’albero. Inseguiti dalle lance della polizia e coinvolti in una sparatoria, i tre finirono crivellati di colpi, dopo avere alzato bandiera bianca in segno di resa.

Javier Heraud in un viaggio fatto nella città di Huánuco

Javier Heraud in un viaggio fatto nella città di Huánuco.

Il padre, in una lettera inviata una decina di giorni dopo l’accaduto a un giornale della capitale, dichiarò, in base ad alcune testimonianze orali raccolte sul posto, che poliziotti e civili, aizzati contro i due giovani, avevano sparato dall’alto del fiume per un’ora e mezzo con pallottole da caccia grossa, anche dopo che il compagno di Javier aveva sventolato uno straccio bianco. Sul corpo del poeta, in effetti, furono trovati trenta colpi di pallottola, fra cui alcuni di un proiettile esplosivo usato in zona per la caccia grossa.

El viaje

El viaje

Ancora più difficile ricostruire l’itinerario politico e morale che condusse, in una manciata di anni, il geniale studente, promesso ad un brillante avvenire, primo al concorso di ammissione alla facoltà di lettere della Pontificia Universidad Catolica del Perù nel 1958, vincitore nel 1960 del concorso “Giovane poeta del Perù” con la raccolta poetica El viaje, giovanissimo professore di inglese e castigliano presso l’Istituto Industriale di Lima (il più giovane insegnante che il suo Paese abbia conosciuto), a morire in un angolo sperduto della foresta equatoriale, «impotente, su una canoa di tronco d’albero, nudo e senza armi nel mezzo del fiume Madre de Dios, alla deriva, senza remi», come scrisse il padre nella sua circostanziata lettera di denuncia a La prensa di Lima.

Dovettero prendervi parte le sue naturali disposizioni, quella bontà, gentilezza e purezza d’animo, quella generosità e quel candore che familiari ed amici, fra cui Mario Varga Llosa,[3] gli riconobbero in una serie di testimonianze pubblicate dopo i tragici fatti che lo videro protagonista e che sembrano dettate tanto dall’intento di consegnarne il ricordo a quanti non ebbero il tempo di conoscerlo, quanto alla necessità tutta personale di fare i conti con quella morte assurda e imprevista. Al di là di questo tributo dell’amicizia, non restandoci di lui che qualche centinaio di versi, è lì che lo cerchiamo.

 

Ha avuto però inizio molto prima:
accadde in aprile (crudele e morbido aprile)
quando una mattina ci trovammo d’accordo.
Come finirà tutti potranno saperlo.
(Sono stufo e non finisco questa poesia).
Ma vado a combattere ed in battaglia
per amore del mio paese, dei miei paesaggi,
per amore dei poveri della mia terra,
per amore di mia madre, del suo affetto,
per amore di mio padre, della sua durezza,
per amore dei fratelli e degli amici,
per amore della vita e della morte,
per amore delle cose di tutti i giorni,
per amore dei giorni dell’autunno,
per amore dei freddi dell’inverno.

 

Il Poema especial, di cui è qui proposto solo un frammento, trova perfetta corrispondenza in una lettera scritta per la madre e lasciata all’Avana, alla moglie di un compagno, la quale avrebbe dovuto consegnargliela in caso di morte del poeta. «Voy a la guerra por la alegría, por mi patria, por el amor que te tengo, por todo en fin» («Vado in guerra per la gioia, per la mia patria, per l’amore che ho per te, per tutto, insomma»), spiega Javier alla madre, comunicandole la sua intenzione di tornare in Perù per aprirvi un fronte di guerriglia. Le scrive perché conosca tutto l’amore che nutre per la sua famiglia e per testimoniarle la sua riconoscenza per averlo cresciuto «onesto e giusto, amante della verità e della giustizia», le scrive perchè lei non soccomba al grande dolore della sua morte, ma riempia il vuoto con la gioia e la speranza di un paese cambiato, anche grazie al sacrificio del figlio. Sono le parole di un giovane uomo consapevole di avere potuto attingere alla ricchezza degli affetti familiari, alla sollecitudine di un’educazione attenta e che vuole rendersene degno, dedicando la sua vita a «servire la mia gente e il mio paese». Sono parole in cui sembra di ritrovare il tono, raramente eroico e quasi sempre intimo e dimesso, dei giovani partigiani della Resistenza italiana che si congedano dalla vita, scrivendo a casa qualche parola di conforto, di spiegazione, di rivendicazione pacata della dignità della loro scelta. Per troppo amore Javier Heraud prese le armi , un amore che lo premeva da tutte le parti e gli chiedeva un’enorme assunzione di responsabilità per rispondere alla sua vocazione universale. È una concezione religiosa della vita che il frammento ci restituisce e non tanto per la formazione cattolica del giovane poeta folgorato a Cuba da «nuovi soli di salvezza», ma per il legame viscerale, fisico con il mondo nelle sue diverse manifestazioni dove paesaggi, uomini e cose si incontrano e fondono in un sentimento unitario che chiede un impegno totale ed una risposta urgente. È sin troppo facile trasformare un ragazzo caduto da guerrigliero in un angolo remoto della foresta amazzonica in un eroe, congelato per sempre nella sua impossibile avventura.

Il Poema especial dovrebbe giustamente evitarci questa tentazione: niente di più prosaico dell’«amore delle cose di tutti i giorni», niente di più comune dell’affetto per una madre, niente di più tradizionale dell’amore per il proprio paese. È nell’intima rispondenza agli affetti radicati sin dall’infanzia che l’amore di Heraud diventa sentimento universale.

Prima della partenza per Avana.

Prima della partenza per L’Avana.

 

Si era iscritto due anni prima al Movimiento Social Progressista, di orientamento socialdemocratico, aveva preso parte alle manifestazioni contro Nixon, ma l’anno successivo se ne era andato, perché «non è sufficiente chiamarsi rivoluzionari per esserlo». Certo, l’incontro con Castro[4] a Cuba, dove aveva ottenuto una borsa di studio, poté affrettare la sua decisione, poté alimentare la sua speranza che fosse possibile rivivere sul suolo peruviano l’impresa rivoluzionaria che nell’isola caraibica aveva messo in scacco il corrotto regime di Batista e i suoi padrini statunitensi. Contingenze che giocarono sicuramente un ruolo, fornendo il momento e la forma ad un’esigenza preesistente, descritta dal padre come impegno per «una vita utile e di creazione», che traeva la propria linfa prima ancora che da una teoria rivoluzionaria da un preciso sentimento dell’esistenza, da una profonda adesione dell’io individuale alle leggi eterne della natura – le stagioni, le albe e i tramonti, l’impeto dei fiumi, il cielo solcato dai condor, la terra seminata di grano – e alle ragioni di quelli che «todo losufre», di tutto soffrono.

 

La mia casa

1

La mia stanza è una
mela,
con i suoi
libri,
con la sua
buccia,
con il suo letto
morbido per
la notte dura.
La mia è
la stanza di tutti,
vale a dire,
con il suo
lumetto che
mi permette di ridere
di fianco a Vallejo,
che mi permette di vedere
la luce eterna di
Neruda.
La mia stanza, alla
fine,
è una
mela,
con i suoi libri,
le sue carte,
con me,
con il suo
cuore.

 

2

Dalla mia finestra nasce
il sole quasi ogni
mattina.
Sulla mia faccia,
sulle mie mani,
nel dolce
clamore della pura luce,
la schiudo gli occhi alla
notte morta,
alla tenera
speranza di
un continuare a vivere
ancora un giorno,
per
aprire gli
occhi davanti alla
luce eterna.

 

La sua terra, «mi triste patria», i diseredati, Lenin, addormentato sulla Piazza Rossa, che «sorveglia la marcia del suo popolo» (Plaza Roja, 1961), ma anche i suoi libri, le sue carte riempite di versi notturni e i suoi poeti, primo tra tutti Cesar Vallejo, la cui tomba Javier Heraud visitò nel corso del suo soggiorno parigino nel 1961 e sui cui passi percorse la capitale francese, come lui attento alla vita segreta delle vie, delle statue, degli alberi .

 

 

Poesia

 

 

Ho attraversato i giardini del Lussemburgo ogni giorno.
Dovevo andare a lezione a Raspail
(ed era la strada più breve).
E in pieno autunno.
Le foglie ingiallivano a terra
e i bambini giocavano con l’acqua,
straordinarie gare con le barche.
E in pieno autunno mi sedevo
su una panchina ad aspettare Dégale,
davanti al busto di Verlaine
e qualche volta sgranocchiavo una pesca.
Le foglie cadevano e io come se niente fosse,
nei giardini del Lussemburgo, a Parigi, in autunno,
nell’ottobre del 1961.

 

Javier Heraud possedeva la facoltà eminentemente poetica di trasformare un luogo determinato in un luogo dell’anima, una circostanza contingente in un evento denso di significati che rimbalzano sul lettore, innalzandolo alla stessa esperienza. Questa trasmutazione, che realizza la magia alchemica della poesia, si avvale di una lingua nitida, luminosa, di parole semplici, quotidiane che vivono al ritmo delle «cose di tutti i giorni», alle quali sanno dare un respiro grande quanto il cuore dell’uomo, quando sa ascoltare il respiro del mondo e guardare alla vita intorno a lui con sguardo fraterno.

Una lingua precisa, fatta di nomi e di pochi, scarni aggettivi che si stagliano anche graficamente nel verso, quasi a volere abbracciare ed afferrare l’essenza delle cose .

 

 

Poesia

 

 

La valle di
Tarma è grande.
Ma più grande
è il mio cuore
quando lo guardo,
ma più vasto
è il mio petto quando
ispiro aria, e aria,
cielo e condor,
martedì e giovedì,
più grande del
fiume è l’uomo,
più grandi della
valle sono gli occhi
di tanti viandanti
intorno.

 

Quanto al suo cuore – l’unico regno cui aspirasse, il suo cuore che cantava, parlava e piangeva[5] sigillava un giuramento di fedeltà al proprio mondo interiore che si traduceva in pietà vivissima, capace di cogliere la vita – e il suo dolore – ovunque, anche nelle cose.

 

La mia casa morta

 

1

 

 

Non buttate giù la mia casa
vecchia, avevo detto.
Non buttate giù la mia casa.

 

2

Avevamo una pergola
e due porte sulla strada,
un giardino all’entrata
piccolo ma grande,
un melo che è seccato
ora per le urla
e il cemento.
Il pesco e l’arancio
erano morti da prima,
ma avevamo ancora
(come non ricordarlo!)
un albero di melagrane.
Melagrane che sbucavano
dal suo tronco,
rosse,
verdi,
l’albero si confondeva
con il muro,
e di fianco
sulla strada,
un tronco che
ogni anno
dava le more,
che in autunno riempiva
di foglie le porte
della casa.

 

3

Non buttate giù la mia vecchia casa,
avevo detto,
lasciatemi almeno
le melagrane
e le more,
le mie mele e le mie

grate.

 

5

È vero, non lo nego,
le pareti cadevano a pezzi
e le porte non chiudevano
bene.
Ma hanno ucciso la mia casa,
la mia camera da letto con la
lunga finestra mattiniera.
E non è restato niente
del melograno,
le more non
imbrattano più le mie scarpe,
del melo vedo soltanto
oggi,
un triste tronco che
piange i suoi frutti
e i suoi bambini.

 

6

Il mio cuore è rimasto
con la mia casa morta.
[…]

 

Il lungo componimento, strutturato in sei parti, registra un tono apparentemente narrativo che si fa, in realtà, malinconica e tenera evocazione di un personale paradiso perduto (per la speculazione edilizia, per l’ingresso nell’età adulta, per l’incontro di entrambi gli elementi, forse), la cui modestia è misura umanissima della sua luminosa e fuggente bellezza. Questo ragazzo che scommise tutto su un futuro radicalmente nuovo, coltivava singolarmente l’arte del ricordo, amava Proust e, durante il soggiorno in Francia, si recò in pellegrinaggio a Combray e al luogo simbolo della Recherche dedicò una poesia.

Eppure, anche fra le more e i melograni della vecchia casa , il poeta sapeva che la morte gli era compagna. E conclude:

 

[…]
è anche chiamare
un po’ più vicino la morte
(che era con me
tutti i pomeriggi
nella mia casa vecchia,
nella mia casa morta).

 

Presagio di una fine prematura o tributo di maniera a uno dei topoi più frequentati dalla letteratura? A vent’anni è lecito giocare con suggestioni romantiche e gli esempi, anche fra gli autori da lui amati, non gli mancavano certo. Eppure, il personale rapporto di questo ragazzo con la morte è segnato da una maturità che rinvia, ancora una volta, al suo sentimento della vita come piena assunzione di responsabilità e meditata accettazione di un destino voluto.

 

Elegia

 

 

Tu hai voluto riposare
in una terra morta e nell’oblio.
Credevi di poter vivere solo
nel mare e sulle montagne.
Poi hai scoperto che la vita
è solitudine fra gli uomini
e solitudine fra le valli.
I giorni che scorrevano
nel tuo petto erano soltanto indizi
di dolore tra le tue lacrime. Povero
amico. Non sapevi nulla e non piangevi nulla.

 

Non rido mai
della morte.
Semplicemente
succede che
non ho
paura
di
morire
tra
uccelli e alberi.

 

Non rido mai della morte.
Ma qualche volta ho sete
e chiedo un po’ di vita,
a volte ho sete e ogni
giorno faccio domande e, come sempre
accade, non ottengo risposte
ma una sghignazzata profonda
e nera. L’ho già detto, non ho
mai riso della morte,
ma ne conosco il bianco
volto, la tetra veste.

Non rido mai della morte.
Eppure, conosco la sua
casa bianca, conosco la sua
bianca veste, conosco
il suo umido silenzio.
È ovvio, la morte ancora
non mi ha fatto visita,
e vi domanderete: cosa
conosci, allora? Non conosco niente.
Anche questo è sicuro.
So, però, che quando
arriverà io sarò ad aspettarla,
sarò ad aspettarla in piedi
oppure seduto a colazione.
La guarderò dolcemente
(perché non si spaventi)
e siccome non ho mai riso
della sua tunica, l’accompagnerò,
solitario e solitario.

 

poesia completas

Javier, non ancora ventenne, aveva già scritto la pagina della propria morte, una morte conosciuta, accettata come una costola della propria vita. Se in filigrana si intravede un discreto gioco di rimandi con il Vallejo di Pedra negra sobre una pedra blanca («Me moriré en París con aguacero / un día del qual tengo ya el recuerdo». [Morirò a Parigi in un giorno di pioggia / un giorno che già mi ricordo]), qui il rapporto con questa morte conosciuta, invece di essere ripetizione obbligata di qualcosa che è già avvenuto è disponibilità a una presenza tanto riservata, quanto inevitabile, è amore di un destino scelto in piena consapevolezza. Vida y muerte sono un’endiadi costante del mondo poetico di Heraud («las puertas incansables de la vida, las puertas inagotables de la muerte» [le porte instancabili della vita, le porte inesauribili della morte])[6], l’una tracima nell’altra in un fluire ininterrotto che, riconoscendo la seconda come parte integrante della prima, finisce per superarne la negatività. «No deseo la victoria ni la muerte / no deseo la derrota ni la vida, / sólo deseo el árbol y su sombra, / la vida con su muerte» (non desidero la vittoria, né la morte / non desidero la sconfitta né la vita, / solamente desidero l’albero con la sua ombra, / la vita con la sua morte), confessava in una poesia che reca in esergo una breve citazione dalla Bhagavad-Gita.[7]

Il ragazzo che era pronto a morire fra uccelli e alberi (questa starordinaria premonizione ricorre per ben due volte nei suoi versi) e che seppe aspettare la morte in piedi, nel bel mezzo della foresta equatoriale, per amore del Perù e degli oppressi, ma anche di un’infanzia amata e di una casa perduta, il ragazzo che aprì con altri trenta compagni un fronte di guerriglia perché tutti potessero guardare dalle loro finestre la luce eterna e le foglie d’autunno e i cespugli di more ed esserne lieti, quel ragazzo che si buttò risolutamente nel fiume della vita e poi nel Madre de Dios, quel ragazzo sapeva che «la vita / è solitudine fra gli uomini». Recita l’epilogo della raccolta El viaje:

 

Sono soltanto
un uomo triste
che esaurisce le sue parole.

 

Finite le parole, gli restava la vita: così l’amico Sebastián Salazar Bondy provò a spiegare la decisione di Heraud di lasciare Cuba e tornare in patria per accendervi il fuoco della guerriglia. Tuttavia, a differenza del suo coetaneo Rimbaud, non prese congedo dalla poesia per sparire nella solitudine dell’Harar[8] e diventare estraneo a se stesso, continuò a misurarsi con essa, ad accoglierne «un relámpago maravilloso / una lluvia de palabras silenciosas, /un bosque de latidos y esperanzas, /el canto de los pueblos oprimidos, / el nuevo canto de los pueblos liberados» («un lampo meraviglioso, / una pioggia di parole silenziose, / un bosco di palpiti e di speranze, / il canto dei popoli oppressi, / il nuovo canto dei popoli liberi»).[9] Credeva fermamente, con tutta la forza di un animo generoso, puro e retto, che la poesia dovesse essere un’arma di liberazione e la naturale forma di espressione dell’uomo liberato e riteneva che il suo preciso dovere fosse di servire incondizionatamente questa esigenza di emancipazione che si poneva all’incrocio di un breve, ma intenso percorso politico, intellettuale ed esistenziale.

Così, «armados con palabras y fusilos, / armados con ansias nuevas» («armati di parole e fucili, / armati di ansie nuove»),[10] fece la sua scelta, di poeta, di uomo, di militante, che dalla consapevolezza di vago sapore romantico della propria ineliminabile solitudine giunge alla precoce maturità di una scelta di vita estrema che affonda le proprie radici in un sentimento di ritrovata fraternità umana.

Il gruppo di incauti ed inesperti guerriglieri (malgrado un periodo di addestramento a circa 2.000 metri di altitudine sul Monte Turquinio)[11] se ne andò «a la alegría», a portare felicità al popolo peruviano costretto al silenzio, ai «sus tristos niños», alle «sus calles despobladas de alegría»[12] («ai suoi tristi bambini, alle sue strade senza gioia»), partì a rifare il mondo, insomma, più che a lottare contro il governo golpista.

E Javier ritrovò, per il suo ultimo viaggio, uno scenario ben familiare al suo mondo poetico: un ancho río, un gran fiume.

 

 

El río, di Javier Heraud. Editorial Peisa

El río, di Javier Heraud. Editorial Peisa

 

 

La sua vivace immaginazione ne aveva già percorso i meandri impetuosi dalla sorgente alla foce in una lunga composizione, El río – recante in epigrafe un verso dell’amato poeta spagnolo Antonio Machado («la vida baja como un ancho río» [«la vita scende come un ampio fiume»]) – che, ancora adolescente, lo aveva consacrato poeta.

Nell’ultima stanza, l’irruente ed imprevedibile fiume giunge alla fine di un viaggio che lo ha portato a scendere per monti e valli, ad attraversare campi, pascoli e città, ora benevolo, ora distruttivo, sempre maestoso e sovranamente indifferente.

 

Verrà il tempo
in cui dovrò
sboccare
sull’oceano,
mescolare le mie
limpide acque con le sue
acque torbide,
che dovrò
zittire il mio canto
luminoso,
che dovrò far tacere
le mie grida furiose,
all’alba di tutti i giorni,
che schiarirò i miei occhi
con il mare.
Verrà il giorno,
e nei mari immensi
non vedrò più i miei campi
fertili,
non vedrò i miei alberi
verdi,
il mio vento intorno
il mio cielo chiaro,
il mio lago scuro,
il mio sole,
le mie nubi,
non vedrò nulla,
nulla,
unicamente il
cielo azzurro,
immenso,
e
tutto si dissolverà in
una pianura d’acqua,
dove non saranno canti o poesie,
solo piccoli fiumi che scendono,
fiumi abbondanti che scendono a unirsi
nelle mie nuove acque luminose,
acque
spente.

 

 

Sul Madre de Dios, il grande fiume amazzonico, la vita e la morte incrociarono i loro passi per l’ultima volta per Javier Heraud, enfant prodige della poesia peruviana, vincitore di svariati concorsi scolastici, insegnante più giovane del Perù, figlio amatissimo di una famiglia della borghesia di Lima, guerrigliero per amore della pienezza della vita. Tacitato il suo canto, messo fuori uso il suo povero fucile con cui sperava di «abrir nuevos soles salvadores» («aprire la strada a nuovi soli di salvezza»)[13] ai più diseredati, attorno a lui si confusero l’azzurro del cielo e l’azzurro delle acque e gli alberi e gli uccelli.

… alla fine morirò
in una sera qualsiasi
fra uccelli
e alberi.

(da Recuento del año, 1961)

 

suo manoscritto

Suo manoscritto.

 

La tomba del poeta a Puerto Maldonado, Perù, frontirta con la Bolivia

La tomba del poeta a Puerto Maldonado, Perù, frontiera con la Bolivia


Le traduzioni sono a cura di Julia Maciel, salvo quella di El río.

 

Bibliografia:

 

  1. Dalton, J. Heraud, F. Urondo, Tre poeti assassinati, 1978, Vallecchi, Firenze, a cura di Julia Maciel; a quanto mi risulta, sola traccia lasciata nell’editoria italiana da Heraud, del quale si propongono e traducono solo alcune poesie.
tre poeti assassinati

Tre poeti assassinati.

El río (di cui ho presentato solo la parte finale, perché è piuttosto lungo) è nella traduzione di Franco Sotgiu (ambientalista e micologo), che ho leggermente rimaneggiato: francosotgiu.1.blogspot.com/2012/10/javier-heraud-il-poeta-guerrigliero.html

Tutte le altre citazioni provengono da sue poesie /lettere non tradotte in italiano e trovate su: https: //www.marxists.org/espanol/heraud//poemarios/index.htm,

  1. Heraud, Poesías completas y Cartes, Biblioteca peruana, 1976, consultabile in rete.

 

 

Cecilia Heraud Pérez, Entre los rios01a

Cecilia Heraud Pérez [sorella del poeta], Entre los rios.


 

[1] Javier Heraud così scrive nella poesia Arte poética, 1962; in Id., Poesía completa, Lima, Peisa, 1989:

En verdad, en verdad hablando,
la poesía es un trabajo difícil
que se pierde o se gana
al compás de los años otoñales.

(Cuando uno es joven
y las flores que caen no se recogen
uno escribe y escribe entre las noches,
y a veces se llenan cientos y cientos
de cuartillas inservibles.
Uno puede alardear y decir
“yo escribo y no corrijo,
los poemas salen de mi mano
como la primavera que derrumbaron
los viejos cipreses de mi calle”)
Pero conforme pasa el tiempo
y los años se filtran entre las sienes,
la poesía se va haciendo
trabajo de alfarero,
arcilla que se cuece entre las manos,
arcilla que moldean fuegos rápidos.

Y la poesía es
un relámpago maravilloso,
una lluvia de palabras silenciosas,
un bosque de latidos y esperanzas,
el canto de los pueblos oprimidos,
el nuevo canto de los pueblos liberados.

Y la poesía es entonces,
el amor, la muerte,
la redención del hombre.

Madrid, 1961 – La Habana, 1962

[2] L’Alliance française è un ente privato che ha uno statuto simile a quello di un’associazione. La sua missione è di promuovere la lingua francese e le culture francofone all’estero, attraverso una fitta rete di sedi.

[3] Cfr., Mario Vargas Llosa entrevista a Javier Heraud. Fuente: Entrevista realizada en Radiodifussion-Télévision Française. París, 1 de setiembre de 1961. http://copypasteilustrado.com/2014/03/22/mario-vargas-llosa-javier-heraud-entrevista-poesia-paris-radio/ [http://www.librosperuanos.com/autores/articulo/00000002323/Mario-Vargas-Llosa-entrevista-a-Javier-Heraud].

[4] Dopo l’incontro con Fidel Castro, «l’uomo della rivoluzione, semplice, normale e cordiale», scrive: «vi a Fidel de piedra movediza escuché su voz de furia / incontenible hacia los enemigos. Y recordé mi triste patria, mi pueblo / amordazado, sus tristes niños, sus calles despobladas de alegría [«Ho visto Fidel, dalle sabbie mobili, ho sentito la sua voce di rabbia incontenibile verso i nemici. E ho ricordato la mia triste patria, il mio popolo imbavagliato, i tristi bambini, le loro strade spopolate di gioia]».

[5] «mi unico reino es mi corazón cantando, / …es mi corazón hablando, / mi corazón llorado» (Khrisna o los deseos).

[6] Las llaves de la muerte (Le chiavi della morte).

[7] Khrisna o los deseos (Khrisna o i desideri).

[8] Harar, l’ultimo rifugio di Arthur Rimbaud, il luogo da dove sognava di tornare «con membra di ferro, la pelle scura, l’occhio furente» e da cui invece ripartì in fin di vita su «una barella coperta da una tenda», è una remota cittadina sull’altopiano etiopico che sovrasta i deserti dell’Ogaden e della Dancalia.

[9] Arte poética.

[10] Poema especial.

[11] Il Pico Turquino, 1.974 metri, è il punto più alto di Cuba, nel cuore della Sierra Maestra.

[12] Explicacion.

[13] Poema especial.


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanda Mazzoli, César Vallejo (1892-1938) – Occorre spezzare la barriera secolare che esiste fra l’intelligenza e il popolo, fra lo spirito e la materia, e ciò deve avvenire orizzontalmente, non verticalmente, cioè spalla contro spalla.


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