Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.

Karl Marx 300

Stele funeraria di Proclo

Stele funeraria di Proclo

Πρόκλος ἐγὼ γενόμην Λύκιος γένος, ὃν Συριανὸς
ἐνθάδ’ ἀμοιβὸν ἑῆς θρέψε διδασκαλίης.
ξυνὸς δ᾽ ἀμφοτέρων ὅδε σώματα δέξατο τύμβος·
αἴθε δὲ καὶ ψυχὰς χῶρος ἕεις λελάχοι

Io, Proclo, fui Licio di stirpe, e Siriano mi formò qui per succedergli nell’insegnamento. Questa tomba comune accolse il corpo d’entrambi; oh, se un solo luogo ricevesse anche le anime!


 

Salvatore Antonio Bravo

Il mercato e l’asservimento della Scuola:
il mito dell’orientamento consapevole


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Salvatore Antonio Bravo
Il mercato e l’asservimento della Scuola- il mito dell’orientamento consapevole


Miseria della contemporaneità, miseria del capitale che si erge ad unica legge della vita di ciascuno, fino ad assumere la forma di una insostanza perversa, parcellizzante – mentre la vera sostanza rimanda all’universale, alla Koinè, e rende immensi i pensatori del passato.
Si rifletta sulla modalità con cui si effettua l’orientamento universitario nelle scuole superiori. Platone nella Repubblica (libro IV), ci consegna un criterio per la scelta, sicuramente valido anche nella contemporaneità: seguire la propria indole affinché possa esserci armonia nella vita della persona e della comunità:

013«Allora», ripresi, «ascolta se le mie parole hanno un senso. A mio parere la giustizia è ciò che abbiamo posto come dovere assoluto sin dall’inizio, quando abbiamo fondato la città, o comunque una forma di questo dovere; se ti ricordi, abbiamo stabilito e ripetuto più volte che nella città ciascuno deve svolgere una sola attività, quella a cui la sua natura è più consona».

In poche razionali battute, Platone evidenzia l’assurda irrazionalità, la violenza con cui i giovani sono indotti a scegliere la facoltà universitaria: la negazione di sé in nome di una vita anonima, in cui la qualità del vivere è associata solo alle merci, ma mai alle persone. Il capitalismo assoluto negli ultimi decenni ha sferrato il suo attacco all’istituzione, che nella prassi democratica, dovrebbe consolidare la partecipazione alla vita democratica e formare alla metariflessione: la scuola.

Le controriforme espresse come riforme irrinunciabili per il progresso della nazione sono espressione di ciò che Marx definiva ideologia, ovvero una falsa rappresentazione del reale, in cui si spaccia per universale e necessario ciò che corrisponde agli interessi particolari. L’alternanza scuola lavoro in realtà rende manifesta un’operazione ormai decennale di colonizzazione delle menti. In primis i documenti scolastici riportano, con sempre più esplicita incisività, l’educazione all’imprenditorialità di cui l’alternanza dovrebbe essere la sua concretizzazione. Tale educazione ha l’obiettivo di formare alla competizione, all’atomismo sociale, proponendo nell’insegnamento in classe quella estrema frammentarietà del sapere che non porterà mai alla formazione di una cultura. Si vorrebbe che i docenti e l’istituzione scolastica, ora azienda, fossero complici di una mutazione antropologica.

La merce è la vera protagonista e il suo sostrato è il mercato con i suoi imperativi naturalisticamente resi indiscutibili. La formazione, l’educare, il trarre in luce le potenzialità inespresse di un alunno, tutto questo è eroso dalla spinta alla competizione, alla massimizzazione dei risultati.

Naturalmente manca il coraggio di rendere esplicito, e in modo trasparente, ciò che è veramente in opera. Anzi, l’operazione è parzialmente occultata dietro la facciata del dettato costituzionale. La scuola – per la Costituzione – dovrebbe formare l’uomo ed il cittadino solidale, e limitare gli effetti, non certo positivi, delle disuguaglianze sociali: scuola anche come argine al mercato. Malgrado tali principi non siano stati cancellati in modo esplicito, in questi decenni li si è svuotati di senso, rendendoli un guscio vuoto dove impiantare i germi nefasti dei peggiori principi neoliberisti. Si è cominciato col trasformare la scuola in una azienda per decreto (non discusso con i suoi operatori). Naturalmente i legislatori ben sanno che la scuola non potrà mai essere un’azienda (essa vive della relazione umana solidale), ma ciò malgrado si può depotenziare la comunità scolastica, la quale risulta trasgressiva rispetto ai processi economici e politici in corso d’opera, in modo da spezzare – letteralmente – ogni “luogo” dove sia possibile la resistenza ed il pensiero critico. Per rendere la comunità scolastica cellula del capitale si è introdotto un osceno linguaggio che per le nuove generazioni è davvero profondamente diseducativo: nei luoghi dove, al centro, dovrebbe essere la persona, nella sua irrinunciabile identità, gli alunni si esprimono con: credito, debito, offerta formativa, educazione all’imprenditorialità, flessibilità, ecc.
Le parole costruiscono mondi e relazioni umane, per cui il diffondersi della violenza nella scuola e fuori di essa è letta in astratto, ovvero come un evento accaduto a causa dell’irrefrenabile violenza naturale di taluni.
In verità un sistema competitivo è già violenza; nella competizione c’è chi perde; e chi vince, spesso, non è il migliore a vincere, ma chi ha avuto, in un mondo di diseguaglianze crescenti, maggiori opportunità rispetto ad altri. La violenza è ormai capillare: dalla violenza linguistica a quella materiale nelle nostre scuole e comunità la violenza è divenuta endemica perché il sistema è divenuto violento.
Si continua con ipocrisia a sorprendersi dinanzi ad episodi sempre più diffusi e trasversali, ma è palese che ovunque regna la legge del più forte: le aziende hanno ormai a capo i padroni che ricattano i dipendenti, in TV la parolaccia e l’insulto è d’obbligo per attrarre spettatori e quote di pubblicità, i telegiornali danno ampio spazio al lusso in un momento in cui la povertà è sempre più diffusa, il mercato entra con violenza nella vita di tutti, i consumatori sono perseguitati dalle merci. Ovunque ed in ogni contesto le persone subiscono l’offesa di essere considerati solo ed unicamente consumatori.[1] Si pensi all’orientamento scolastico con la presenza di università pubbliche e private a caccia di clienti. Le prime ricevendo pochi finanziamenti dallo Stato e sono costrette a competere con le private le cui rette sono proibitive. Entrambe utilizzano lo stesso linguaggio, inducono ad iscriversi facendo appello a numeri e statistiche. Pare che il successo formativo e lavorativo passi unicamente per taluni corsi universitari. L’università è ormai un’agenzia del lavoro, che invita ad iscriversi con la promessa di mirabilanti pseudoprospettive. La formazione ed i suoi luoghi esprimono pienamente le tragedie di un mondo di piazzisti. Le facoltà umanistiche hanno inoltre uno spazio minimale come le facoltà scientifiche che producono poco reddito e che non sono funzionali ai bisogni immediati del mercati. Si tagliano le informazioni, si determina la scelta e nel contempo i trombettieri della nuova pedagogia alzano inni alla scuola che, si dice, informa e che sarebbe di ausilio alla scelta dello studente (cliente-consumatore).
L’effetto è un clima di insopportabile manipolazione che la scuola subisce. Anche questa è violenza: negare ad una istituzione la sua identità, costringerla su binari che non le appartengono. Le nuove generazioni sono oggetto delle attenzioni sempre più precoci del mercato anche negli spazi dove dovrebbero crescere e maturare, pensando il mondo, e non subendolo. In questi anni l’orientamento avviene in tempi sempre più accelerati; anche alunni del quarto e del terzo anno della scuola secondaria superiore sono oggetto di tali particolari informazioni. Il mercato deve precocemente controllare il suo cliente, accompagnarlo «ad una scelta consapevole».

Siamo alla manipolazione più impensabile del linguaggio, belle parole che nascondono il nichilismo. Ad un semplice esame più attento, tale incultura empirista si mostra fragilissima, poiché se il mercato è globale, dinamico, veloce, le previsioni occupazionali che spesso documentano le università, per la libera scelta degli alunni, possono essere smentite dalla flessibilità e precarietà dello stesso sistema. Inoltre la linearità tra facoltà e lavoro è ormai saltata, per cui spessissimo anche laureati in facoltà scientifiche si ritrovano a vivere “una vita da precari”. La vera differenza è data dal privilegio sociale più che dal merito. I destini personali sono sempre più determinati dalla classe di appartenenza più che dal merito o dalla facoltà scelta. Vige l’eterogenesi dei fini. La scuola – per Costituzione – ha il compito di limitare tali derive. Si potrebbe allora definire incostituzionale l’attuale assetto pedagogico della scuola. Ora, un clima del genere spinge alla violenza, poiché si diffonde un senso di frustrazione nella comunità scolastica: i più fragili esprimono il loro male di vivere attraverso la violenza; dietro la cortina delle belle parole si cela una dura verità che in molti conoscono, e non pochi hanno deciso di ignorare. L’identità negata spinge ad una violenza incompresa. L’alternanza scuola lavoro è da inserire come termine finale di un lungo processo di svuotamento del fine costituzionale della formazione. È bene ricordare la Costituzione ed i suoi articoli fondamentali sulla scuola:

 

056Art. 33. L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

 

 

Art. 34. La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso».

L’alternanza scuola lavoro – vero ossimoro, perché la scuola è luogo di formazione e non di lavoro – è il cavallo di Troia da cui i guerrieri del mercato escono per l’assalto del nemico già indebolito dalle riforme. Educa al lavoro coatto senza retribuzione, ma specialmente ha il fine di erodere il tempo della formazione e di educare al “fare” e mai al “pensare”. È la scuola del “fare”, in cui i clienti tra alternanza, certificazioni in lingua inglese, progetti, pause didattiche sono formati alla stimolazione, al movimento decerebrato, poiché il mercato necessita di lavoratori disponibili allo sradicamento non solo geografico, ma specialmente da se stessi. Lo sradicamento geografico, la vita consumata come una monade alla ricerca delle opportunità del mercato, non è il soggetto ma l’oggetto di una conseguenza: l’io sempre più vuoto, più colonizzato dallo stimolo continuo, ormai disabitato di affetti, di appartenenze e da se stesso, insegue ogni qualsivoglia accattivante stimolazione, e si rende disponibile al mercato. Contribuisce a ciò il ridimensionamento della lingua italiana, sempre più minacciata dall’inglese commerciale. Le circolari ministeriali spesso riportano titoli in lingua inglese. Pare che il vocabolario della nostra lingua sia davvero minimale se dobbiamo utilizzare lingue altre per esprimere concetti che nella nostra lingua potrebbero essere perfettamente espressi e chiari negli intenti.
La società dove tutto dev’essere mostrato, fino alla pornografica mostra di sé, non ama la chiarezza concettuale, e sembra vergognarsi delle sue finalità al punto che deve occultare dietro la fumisteria della lingua inglese, a scuola come nella politica, le intenzioni esiziali e controriformistiche. Togliere ad una comunità l’uso della sua lingua significa togliere “la patria”, la comune d’origine. La distruzione della lingua nazionale serve allo sradicamento, a tagliare ogni senso di appartenenza, per creare l’uomo astratto, appartenente al mercato globale.

È l’epoca dei cosmopoliti delle mercificazioni. Dev’essere uomo astratto senza comunità, uomo astratto senza famiglia. L’istituzione scolastica è attaccata anche dalla “mostruosizzazione” dei docenti “molestatori”: singoli casi sono amplificati e, iperpresenti sui media, occupano spazi pruriginosi. Dovremmo domandarci se tutto ciò contribuisce a chiarire, a capire o se vi sono altre finalità: vendere un nuovo prodotto e delegittimare un’istituzione che malgrado le sue debolezze e contraddizioni in grandissima parte resiste e non condivide la strumentalizzazione della scuola, la sua riduzione a serva del mercato.

La scuola è rimasta sola, e comunque la percezione che hanno i docenti è di essere soli: i genitori hanno abbracciato in modo frettoloso e dogmatico il modernismo. Progresso coincide con l’innovazione tecnologica e con la destrutturazione del gruppo classe: fin quando tali dogmi saranno religione suffragata da liturgie lessicali, non si riuscirà a porre il tema della scuola a cui è legata la comunità tutta in modo profondo e serio. Dobbiamo uscire dal linguaggio economicistico aziendale per ritrovarci. Vorrei concludere citando Karl Marx (Capitale, libro primo, cap. VIII):

«Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale e sia pure nella terra dei sabbatari: fronzoli puri e semplici! Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo».

La formazione e soprattutto l’educazione sono dunque divenute «fronzoli», mentre il capitale si sta prendendo tutto: sonno, pensiero, vita.

Siamo chiamati a porci il problema.

 

Salvatore Antonio Bravo

[1] «Persone oltre le cose», recita lo slogan Conad. quando i clienti Conad vanno al supermercato, trovano ad attenderli un cartello con su scritto: «Siamo persone autentiche e disponibili, persone capaci di dare un senso a ciò che si vende e a ciò che non ha prezzo».

 

 


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Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
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Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».


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Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».

Norman G. Finkelstein

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"L'Olocausto si è dimostrato un'indispensabile arma ideologica." "L'anomalia dell'Olocausto nazista non deriva dall'evento in sé ma dallo sfruttamento industriale che è cresciuto attorno a esso." "La campagna in corso dell'industria dell'Olocausto per estorcere denaro all'Europa in nome delle 'vittime bisognose dell'Olocausto' ha ridotto la statura morale del loro martirio a quella di un casinò di Montecarlo." Sono solo alcune delle tesi provocatorie sostenute in questo libro da Finkelstein, ebreo americano e figlio di sopravvissuti allo sterminio, che in questo libro mette in discussione due dogmi: l'Olocausto è un evento storico unico ed è il punto culminante di un'odio irrazionale ed eterno dei gentili contro gli ebrei.

 

 

L’Olocausto non sfugge alla sacra legge del capitale: la mercificazione. La legge della valorizzazione è categoria politica del capitale. Pur contradicendo la natura stessa della politica, dal gr. πόλις «città», la quale è relazione sociale condivisa, ha significati di ordine metaforico: la merce è il mezzo dello scambio, la valorizzazione illimitata. È anche la tattica della politica imperiale, che deve ridurre tutto all’irrilevanza, porre su un piano orizzontale ogni evento e in tal modo liberata dai vincoli etici e comunitari: tutto può essere usato, come mezzo per la dimenticanza, per fondare il popolo dei lotofagi –Λωτοϕάγοι, Lotophăgi, immagine usata da Omero nell’Odissea come da Platone nella Repubblica per rappresentare i mangiatori di loto (oggi: oppio mediatico), pianta della dimenticanza. L’Olocausto, prodotto dell’industria, è il mezzo con il quale si traccia una linea fittizia tra il bene ed il male da usare in modo ideologico, in totale spregio delle vittime degli olocausti. L’Olocausto degli ebrei è oggi un collante per aggregare le folle atomizzate del liberismo, in nome del bene – il liberismo assoluto –, ricordano il male assoluto: il nazifascismo. Il male è proiettato all’esterno, dimentichi delle tragedie dei micro e macro olocausti che si consumano nei nostri giorni. Naturalmente l’industria vivissima ed esiziale ottiene una pluralità di vantaggi dalla vendita del prodotto merce, alla trasformazione del mondo neoliberista il migliore dei mondi possibili in ipostasi, in un destino intrasformabile. La prassi si ritrae per osannare il sistema vigente. Come il terzo Reich anche il sistema liberista festeggia nella memoria della sua cattiva coscienza il suo millenario trionfo. La vendita al dettaglio dalle memorie a films sempre più mediocri e ripetitivi è il primo livello della mercificazione dei morti. Un secondo livello è la costruzione degli stereotipi che impediscono nella loro esemplificazione di capire quanto le politiche liberiste, si pensi al governo Bruning, abbiano favorito l’avvento del nazismo. Si sa, le folle defraudate della loro coscienza critica, accolgono la giornata del ricordo con un sospiro di sollievo ”vivono nel mondo migliore ed oltre non si può chiedere”, per cui devono accontentarsi delle metafisiche imperfezioni del turbocapitalismo. Naturalmente l’Olocausto serve ad occultare gli olocausti che nella storia ha perpetrato il liberismo e specialmente a dimenticare, che intorno a noi, vi è un’umanità ridotta ad oggetto, a strumento della e per la produzione, i processi di scissione con alienazione religiosa sono proiettati in un mondo storico altro. Si pensi al rione Tamburi a Taranto, all’olocausto quotidiano di un quartiere e di una città incenerita e non metaforicamente dall’acciaio, per non dimenticare che il Mediterraneo pullula di cadaveri di gente che fugge dall’inferno voluto dall’occidente. Il giorno della memoria ha trovato la sua analisi scandalizzata in un ebreo Finkelstein, storico statunitense di origine ebraica, a cui Israele ha negato l’ingresso nel 2008. Lo storico ha descritto e documentato la genesi “dell’interesse internazionale” verso l’Olocausto e specialmente ha posto il problema del rispetto dei morti, i quali da vivi sono stati usati come mezzi di produzione schiavile a costo nullo, oggi sono usati, da morti, per le dinamiche perverse delle politiche imperiali. L’industria dell’olocausto trova la sua genealogia all’interno della guerra fredda, fino alla guerra dei sette giorni, l’olocausto era pressoché sconosciuto o occultato. Dopo la guerra dei «sette giorni», gli Stati Uniti, verificata la potenza di fuoco dello stato d’Israele, decidono di appoggiare Israele per limitare le politiche antiamericane dei paesi arabi sostenuti dall’Unione Sovietica. Per giustificare l’esistenza dello stato d’Israele, si rinfocola la memoria della passata tragedia per giustificare l’esistenza d’Israele e nel contempo rafforzandone la posizione, organizzando una astuta propaganda in cui Israele è rappresentata come lo stato che potrebbe subire il secondo olocausto. Naturalmente, gli Stati Uniti, sempre dalla parte dei più deboli… arma fino ai denti Israele, favorendone l’egemonia ed usando lo stesso stato d’Israele come longa manus per il controllo del medioriente:

«Una spiegazione più coerente, anche se meno generosa, è che le élite ebraiche americane ricordarono l’Olocausto nazista prima del giugno 1967 solamente quando fu politicamente conveniente. Israele, loro nuovo protettore, aveva fatto buon uso dell’Olocausto nazista durante il processo a Eichmann. (50) Accertatane l’efficacia, la comunità ebraica americana sfruttò l’Olocausto nazista dopo la guerra dei Sei Giorni. Una volta rimodellato ideologicamente, l’Olocausto (nel senso di industria) divenne l’arma perfetta per deviare le critiche nei confronti d’Israele, come ora dimostrerò. Ciò che merita di essere sottolineato, in ogni caso, è il fatto che per le élite ebraiche americane l’Olocausto svolse la [44] stessa funzione che per Israele: un’altra fiche dal valore incalcolabile in una partita a poker dove si gioca forte. Il dichiarato interesse per la memoria dell’Olocausto fu qualcosa di studiato a tavolino, così come quello per il destino d’Israele. (51) Di conseguenza, la comunità ebraica americana perdonò e dimenticò velocemente la folle dichiarazione di Reagan al cimitero di Bitburg, nel 1985: secondo l’allora presidente, i soldati tedeschi lì sepolti (compresi gli appartenenti alle SS) erano “vittime dei nazisti proprio come le vittime dei campi di concentramento”. Nel 1988, Reagan venne insignito del premio Humanitarian of the Year dal Centro Simon Wiesenthal, una delle istituzioni di maggior spicco tra quelle che si occupano dell’Olocausto, per il suo “leale sostegno a Israele” e, nel 1994, del premio Torch of Liberty dalla filoisraeliana ADL».[1]

L’industria dell’Olocausto è dunque un prodotto la cui è genealogia trova il suo punto archimedico nella guerra fredda e nella presenza dei banchieri di origine ebraica che vivono negli Stati Uniti. Si comincia così ad associare il mondo arabo, per pura propaganda ideologica, al nazionalsocialismo. L’effetto politico è devastante, poiché si pongono i fondamenti per l’incomunicabilità politica, per la reciproca diffidenza che favorisce un numero impressionante di stragi ed attentati da entrambe le parti. Sul campo l’effettualità di questo uso ideologico dell’Olocausto ha come risultato la moltiplicazione delle violenze. Milioni di persone scomparse per la violenza sono ora usate per una politica che se ne infischia dei diritti dei popoli e dei singoli.

«Proprio come l’ebraismo americano si mise a ricordare l’Olocausto quando la forza d’Israele raggiunse il suo culmine, così Israele fece lo stesso quando si affermò il potere degli ebrei americani. Il pretesto fu comunque che, in Israele come negli Stati Uniti, l’ebraismo rischiava un imminente “secondo Olocausto”. Le élite ebraiche americane poterono così assumere pose eroiche nello stesso momento in cui indulgevano in comportamenti vigliaccamente prepotenti. Per esempio, Norman Podhoretz sottolinea che, dopo la guerra dei Sei Giorni, gli ebrei erano ormai decisi a “resistere a chiunque in ogni modo, a qualunque livello e per qualunque ragione cerchi di recarci un qualsiasi danno [53]. D’ora in poi resisteremo”. (66) E così, come gli israeliani, armati fino ai denti degli Stati Uniti, misero coraggiosamente al loro posto i ribelli palestinesi, altrettanto coraggiosamente gli ebrei americani misero al loro posto i ribelli neri. Tiranneggiare chi è meno in grado di difendersi: questa è la realtà del tanto sbandierato coraggio delle organizzazioni ebraiche americane».[2]

A questo punto il colpo finale è la gerarchia tra gli olocausti, l’Olocausto è presentato come unico, come esperienza storica che non ha eguali. Naturalmente a spregio delle decine di milioni di morti degli olocausti perpetuatisi nella storia dagli Indios agli Armeni agli Ucraini. Si forma una competitiva graduatoria tra i morti. L’unica possibilità di riscatto della violenza è così negata. Si pensi all’Angelus novus di Klee commentato da Benjamin: il senso della ferocia della storia può essere riscattato solo fuggendo, cambiando direzione rispetto a ciò che è stato. In questo caso siamo interni al linguaggio della violenza, si usano i morti per giustificare altre violenze:

«Etichettata da Novick come “sacralizzazione dell’Olocausto”, questa mistificazione ha il suo campione più esperto in Elie Wiesel, per il quale, osserva giustamente Novick, l’Olocausto è una vera e propria religione “misterica”. Perciò Wiesel salmodia che l’Olocausto “conduce nelle tenebre”, “nega tutte le risposte”, “sta al di fuori, anzi al di là, della storia”, “resiste tanto alla comprensione quanto alla descrizione”, “non può essere né spiegato né visualizzato”, è incomprensibile e intramandabile”, segna il punto di “distruzione della storia” e di una “mutazione su scala cosmica”. Solamente il sopravvissuto-sacerdote (vale a dire solamente Wiesel) è qualificato per divinarne il mistero. Eppure il mistero dell’Olocausto – Wiesel lo dichiara apertamente – è “incomunicabile”: “Non possiamo nemmeno parlarne”. Così, per il suo normale onorario di venticinquemila dollari (più limousine con autista), Wiesel ci tiene conferenze sul fatto che il “segreto” della “verità” di Auschwitz “giace nel silenzio”. Secondo questa prospettiva, comprendere razionalmente l’Olocausto equivale a negarlo, perché la ragione nega l’unicità e il mistero dell’Olocausto; metterlo poi a confronto con le sofferenze di altri costituisce, secondo Wiesel, “un completo tradimento della storia ebraica”. Qualche anno fa, nella parodia di un tabloïd newyorkese apparve il titolo “Michael Jackson e altri sessanta milioni di persone muoiono in un olocausto nucleare”, che suscitò un’irata protesta di Wiesel sulla pagina delle lettere al direttore: “Come osano riferirsi a ciò che è accaduto ieri come a un Olocausto? C’è stato un solo Olocausto […]”. Nel suo nuovo libro di memorie, a riprova del fatto che la vita può anche imitare la parodia, Wiesel bacchetta Shimon Peres per aver parlato «senza esitazione dei “due olocausti del ventesimo secolo: Auschwitz e Hiroshima. Non avrebbe dovuto”. Uno dei pistolotti finali favoriti di Wiesel è che «l’universalità dell’Olocausto sta nella sua unicità”. Ma se è incomparabilmente e incomprensibilmente unico, come è possibile che l’Olocausto abbia una dimensione universale?».[3]

Ricordare è dunque prassi se al di là dell’appartenenza prevale la volontà motivata e condivisa di ricordare l’Olocausto per capirne le strutture politiche che lo causarono, le responsabilità dei molti, e specialmente per far emergere le violenze che hanno attraversato la storia e l’attraversano. Il rischio è dunque di perpetuare le violenze nella sacralizzazione strumentale di alcuni e nella dimenticanza degli altri. La spirale della violenza è santificata ogniqualvolta si celano le ragioni complesse degli eventi storici per favorire esemplificazioni strumentali. Ben diceva Gramsci quando affermava che se la storia è maestra di vita mancano, però, gli scolari.

Salvatore Antonio Bravo

[1] Norman G. Finkelstein, L’industria dell’olocausto, Milano 2002 pag. 17.

[2] Ibidem, pag. 21.

[3] Ibidem, pag. 31.


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.
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Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.
Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.
Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.
Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.
Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.
Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

 


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Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

György Lukács 001

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Il giovane Marx di György Lukács è un testo indispensabile per riconfigurare il pensiero di Marx, il filosofo ungherese ricostruisce la processualità genetica del pensiero di Marx, applica la categoria della totalità che gli consente di rappresentare la linea evolutiva-genetica del suo pensiero da cui emerge la personalità di Marx. Il filosofo di Treviri appare come un pensatore che non teme il rischio del nuovo, e specialmente non teme la solitudine e l’isolamento. Il confronto dialettico con la sua epoca svela, il filosofo con la sua personalità affilata, pronto alla critica, ad assumere posizioni filosofiche originali. La formazione giovanile, già nella sua tesi di laurea, nella quale pone a confronto il pensiero di Democrito ed Epicuro, rileva il fine sostanziale della sua opera: l’emancipazione sociale e politica. Hegel aveva interpretato Epicuro e la Stoa come momenti secondari della storia della filosofia. Marx interpreta Epicuro come un filosofo illuminista, il cui intento è la liberazione dell’uomo dalle paure che gli impediscono di vivere una vita degna d’essere vissuta: «Hegel, coerentemente con la sua teoria generale della storia della filosofia, aveva visto nella Stoa e nell’Epicureismo solo dei momenti di secondaria importanza dello svolgimento della filosofia ellenistico-romana che solo nello scetticismo sarebbe pervenuta alla vera sintesi. Marx invece considerò Epicuro come un illuminista, un ateo, un liberatore degli uomini dal timore divino e per questo lo collocò, nella sua valutazione della dissoluzione storica della filosofia antica, più in alto degli scettici».[1]

L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà. Non a caso era Prometeo il mito prediletto dal filosofo. Marx interpreta Democrito in termini negativi, perché nel filosofo dell’atomismo prevale il meccanicismo negatore della dignità umana. L’uomo è pensiero, potenzialità critica ed elaborativa, dunque è libero, può sottrarsi al fatalismo degli eventi, riscattandosi da ogni determinismo: «Marx dimostrò che Democrito conosceva solo una necessità strettamente meccanica e negava pertanto il caso, mentre invece la filosofia epicurea conteneva elementi iniziali di una concezione dialettica del caso che apriva l’uomo la via verso la libertà».[2]

La libertà e la dialettica sono sin dalla Dissertazione di laurea i capisaldi del pensiero marxiano. Marx rielabora in modo originale anche il poeta-filosofo Lucrezio, nella cui opera prevalgono gli eroi che agiscono, pur in un mondo senza dei, senza gratificazioni trascendenti. Lotta e critica sono per Marx i fondamenti del pensatore. La prassi non è contrattabile, da questo la sua distanza dai giovani hegeliani, i quali si fermavano alla semplice critica, tralasciando la prassi: «D’altro canto l’immaturità politica dei Giovani hegeliani si manifestava nel fatto che essi fermavano alla critica della religione, alla diffusione dell’ateismo e in tal modo trascuravano i compiti centrali della lotta contro l’assolutismo feudale».[3]

La filosofia deve diventare pratica, solo la pratica è anche teorica. La distanza da Feuerbach diventa abissale, poiché Feuerbach si limita ad una critica antropologica della religione, ma non analizza le condizioni materiali del suo affermarsi. Solo l’analisi materiale delle condizioni di insorgenza della religione può consentire alla teoria di diventare prassi, poiché la prassi per trasformare le condizioni materiali di dolore e sfruttamento permettono di risolvere il problema religioso. La genialità di Marx è nel suo superare creativamente i limiti del pensiero di Hegel e Feuerbach. Da Hegel acquisisce la consapevolezza che la contraddizione è il motore della storia, mentre di Feuerbach rielabora il materialismo, rendendolo dialettico, non astratto, storicizzandolo grazie alla lezione storica hegeliana: «Marx iniziò dunque da un lato a criticare, sovvertendola, la dialettica mistificata e idealisticamente distorta di Hegel, e dall’altro, andando oltre Feuerbach, ad applicare il materialismo anche anche ai problemi della politica e della storia. Solo in tal modo egli potè, in modo creativo, sviluppare ulteriormente e sollevare ad un grado qualitativamente superiore ciò che Hegel e Feuerbach è fruttuoso e va nel senso del progresso. Il primo passo in tale direzione è la critica, condotta da un punto di vista politico radicale e filosoficamente influenzata da Feuerbach, della filosofia del diritto e dello Stato di Hegel».[4]

Marx rimette la filosofia di Hegel in piedi, ma in questa operazione di demistificazione dell’idealismo hegeliano, utilizza la lezione dialettica hegeliana, e il senso storico in esso presente completandolo col materialismo. L’effetto è di una filosofia originale e non di una semplice sintesi. Il materialismo dialettico è un mezzo di lettura della realtà sociale e politica, al fine di emancipare una umanità reificata e silenziosa. La libertà è possibile perché il materialismo dialettico libera da ogni processo di ipostatizzazione, di naturalizzazione. L’ipostatizzazione la si ritrova nell’eidos platonico come in Kant con le categorie ritenute ‘concetti puri’ atemporali e dunque al di là dei processo storico-politici: «Lo si ritrova in altra forma anche in Platone, e cioè nell’ipostatizzazione dell’eidos in un luogo trascendente al di là della realtà, come pure, in forma ancora diversa, cioè in un’accezione soggettivistica, in Kant, per il quale le categorie del mondo reale (causalità, molteplicità ecc.) staccate dalla materia di cui sono le determinazioni più generali, compaiono come “puri concetti dell’intelletto”». [5]

Il metodo ontogenetico marxiano ha la funzione di un rasoio, elimina ogni ipostatizzazione presente nell’idealismo oggettivo e soggettivo, consentendo la liberazione dalle catene che impediscono all’umanità di diventare protagonista della propria storia. Anche la proprietà è resa ipostasi e con essa il sistema vigente dagli economisti classici, Marx dimostra i processi materiali e storici di formazione della proprietà, dimostrando che il sistema vigente non è atemporale ma storico, temporale e dunque dialetticamente superabile. Dunque ogni accomodamento delle contraddizioni deve essere superata, la dialettica hegeliana conserva le contraddizioni con L’Aufhebung, si fa artefice di un’operazione di ipostatizzazione, il metodo marxiano invece non accetta compromessi, ogni riforma sociale risulta inefficace se il sistema politico che ha prodotto le catene sociale non è abbattuto radicalmente: «Dalla parte opposta c’è il partito teorico (i giovani hegeliani) , che prende le mosse dalla filosofia, si atteggia criticamente verso i suoi avversari ma acriticamente verso se stesso. Il suo errore principale è di vedere nell’attuale lotta solo la lotta critica della filosofia con il mondo tedesco e di non considerare che la filosofia fino ad allora sviluppatasi, appartiene pure a quel mondo […]. Con ciò Marx trae la conseguenza dalla scoperta che dall’idealismo hegeliano discende il suo accomodamento con le reazionarie condizioni dominanti ed il suo tentativo di giustificarle».[6]

La prassi non vuole compromessi, per cui il cambiamento rivoluzionario, il superamento delle contraddizioni, delle scissioni (il borghese-il cittadino) non può avere come protagonista la borghesia, classe della coscienza infelice irrisolta, ma deve avvenire mediante il proletario che accoglie l’infelicità di tutti, e si fa promotrice della liberazione di tutti. La filosofia si allea al proletariato, ne diviene organica perché dà ad essa i mezzi concettuali da trasformare in prassi per la liberazione dell’umanità tutta: «In tal modo è indicata però anche la prospettiva reale per la soppressione e la realizzazione della filosofia: dove il proletariato è stato spinto necessariamente alla sua esistenza materiale, lì è giunta anche la filosofia; la dialettica materialisticamente capovolta e diventata scienza, e il reale umanesimo, portano oltre i suoi limiti antropologici, trovano nel proletariato la forza di cui avevano bisogno quale arma capace di trasformarsi in loro sostenitrice e reale realizzatrice».[7]

Solo attraverso la rivoluzione sarà possibile l’emancipazione dal «geloso dio d’Israele» ovvero il denaro e la proprietà che vampirizzano l’umanità, la rendono merce, alienata a se stessa. Lὒkacs fa emergere contro ogni riduzionismo economicista che l’analisi economica di Marx non è affatto finalizzata a dare il primato assoluto all’economia, piuttosto l’analisi economica fa emergere le contraddizioni del sistema che sono connesse a piani di ordine giuridico e culturale in generale, la categoria della totalità si oppone per statuto epistemico ad ogni riduzionismo economico: «Sebbene dunque economia e filosofia abbiano nei Manoscritti una trattazione separata, le due critiche si illuminano l’una con l’altra reciprocamente, soprattutto perché Marx rinvia senza incertezze alla condizione storicamente affine di questi due indirizzi classici, avendo egli riconosciuto in essi l’espressione borghese, ideologicamente più elevata, della società capitalistica con tutte le sue contraddizioni. Il criterio per giudicare della grandezza e dei limiti dell’economia e della filosofia classica della borghesia, consiste per Marx in questo: se ed in quale misura esse esprimano apertamente […] queste contraddizioni, o se invece tendano ad eluderle».[8]

L’analisi lucacciana ci offre un ulteriore motivo per capire le ragioni della rimozione collettiva del pensiero marxiano. L’integralismo liberista, teme, e si difende dallo spettro di Marx, trattandolo come «un cane morto», ne teme i metodi di indagini che svelano e smascherano le mistificazioni dei nostri giorni tristi, ma specialmente teme ogni teoria che coniuga l’elaborazione alla prassi.

 Salvatore Antonio Bravo

 

[1] György Lukács, Il giovane Marx ,Editori Riuniti, Roma, 1978, p. 32.

[2] Ibidem, p. 34.

[3] Ibidem, p. 43.

[4] Ibidem. p. 58.

[5] Ibidem. p. 63.

[6] Ibidem. pp. 100-101.

[7] Ibidem. p. 104.

[8] Ibidem. p. 108.

 

 


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Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Evald Ilyenkov 01

 

 

La filosofia vive negli uomini e nelle donne che hanno saputo renderla testimonianza vivente. Evald Ilyenkov (1924-1979) è stato un filosofo sovietico, che ha pagato con la vita la sua coerenza: è morto suicida. Le persecuzioni, la depressione dovuta anche a quel sentimento di estraneità che spesso coglie gli uomini di pensiero, lo hanno indotto al gesto estremo. Non sapremo mai le ragioni profonde ed ultime che inducono a fuggire dalla vita, possiamo solo immaginare situazioni che ne favoriscono la genesi. Ilyenkov è rimasto sepolto sotto il crollo del muro di Berlino e della fine dell’Unione sovietica. Fedele al comunismo autentico, all’emancipazione degli uomini dalle idee socialmente imposte che lo vorrebbero servo e passivo nel pensiero, non ha avuto “padrini”: la sua scelta di libertà e per la libertà del pensiero è stata vissuta fino all’estremo. Le sue opere sono poco pubblicate e molte attendono la traduzione dal russo. Era un filosofo, ma non solo. Si interessò sia di estetica come di psicologia. Diede un valido contributo allo studio per l’apprendimento nei bambini sordo ciechi. Lo sguardo rivolto alla totalità degli esseri umani, alle concrete condizioni che ne limitano lo sviluppo, è tipico dei pensatori che sentono il mondo: in essi la razionalità si completa con il thumos.[1] La ragione senziente può ricercare orizzonti che gli uomini piegati alla sola ratio – intesa limitatamente come calcolo – non possono comprendere. Ilyenkov ha definito l’universale come forma sintetica di particolare ed universale; in tal modo ha contribuito a formulare una definizione di universale all’interno delle dinamiche sociali e storiche. L’universale posto dall’uomo e dalla sua comunità comprende in sé la specificità dei casi particolari letti all’interno di un fenomeno universale che ne consente la chiarificazione razionale senza eliminare i dati particolari che vivificano l’universale, stando tra di loro in una relazione processuale. L’universale così definito si sottrae ai conformismi della naturalizzazione che li rendono intoccabili, al di fuori dello spazio e del tempo e dunque della storia. Gli universali devono essere riportati nella concretezza della storia, perché in essa vivono, in essa sono oggetto di attività per essere mutati: «Il concetto centrale della logica di Hegel, pertanto, è il concretamente-universale, e la sua differenza dalla semplice universalità astratta della sfera della rappresentazione è illustrato splendidamente dallo stesso Hegel nel suo famoso opuscolo Chi pensa astrattamente? [1807]. Pensare in astratto significa essere servilmente sottomessi alla forza delle parole correnti e dei luoghi comuni, delle vuote definizioni unilaterali, significa vedere nelle cose reali, sensibilmente intuite, soltanto una parte insignificante del loro contenuto effettivo, soltanto quelle loro determinazioni che sono già “congelate” nella coscienza e vi funzionano come stereotipi già pronti. Da qui anche la “forza magica” delle parole e delle locuzioni correnti che celano all‘uomo pensante la realtà, anziché servire come forma della sua espressione. Solo in questo senso la logica diviene veramente logica della conoscenza dell’unità nella multiformità, e non uno schema di manipolazione mediante rappresentazioni già pronte, diviene logica del pensiero critico ed autocritico, e non un mezzo di classificazione critica e di schematizzazione pedante delle rappresentazioni presenti. Muovendo da premesse di questo genere, Hegel giunse alla conclusione che il pensiero effettivo in realtà procede in forme ed è guidato da leggi diverse da quelle che la logica corrente considera le sole determinazioni del pensiero. È evidente che bisogna studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione, nel corso della quale l‘individuo coi suoi schemi di pensiero cosciente adempie soltanto a funzioni particolari».[2]

Il pensiero è dunque attività collettiva e materiale, si esplica nella storia, ed è movimento dialettico. Non esiste pensiero se non nella comunità, nella rete relazionale che si dipana per piani diversi dai modi di produzione alla posizione che ciascuno occupa all’interno del sistema alla relazione tra i singoli ed i gruppi, al corpo vivente. Il pensiero è comunitario, questa è la grande lezione che il filosofo sovietico aveva imparato da Hegel, Marx, Lenin. Il pensiero per essere emancipativo non può che essere autocritico, altrimenti diventa una sterile schematizzazione e classificazione senza alcuna consapevolezza. L’astrazione è la condizione dello spirito robinsoniano, ovvero gli universali, i modi di vivere, le categorie di senso entro cui leggere i dinamismi sono ritenuti naturali, da sempre esistenti, per cui tracciano negli individui forme di passività. Il corpo da essere pensante – secondo la lettura di Spinoza di cui Ilyenkov è stato grande interprete – diventa semplice ed automatico riflesso del sistema. Spinoza aveva insegnato al filosofo che il pensiero è corpo pensante, esso è attività che dà forma spaziale e significato a ciò che si percepisce. Il corpo pensante è dunque attività, per cui il pensiero non si può identificare con la corteccia cerebrale; è attività che modifica il corpo pensante mentre pensa; l’uomo è attività per cui può essere libero, non totalmente perché sottoposto alle leggi di natura, ma può modificare se stesso nell’unità psico-corporea che lo compone: «Cos’è dunque il pensiero? Come trovare la giusta risposta a questa questione, vale a dire fornire una definizione scientifica a un dato concetto, e non semplicemente enumerare tutti gli atti che noi per solito riuniamo sotto questa denominazione, ragionamento, volontà, fantasia, e via dicendo, come faceva Descartes? Dalla posizione di Spinoza scaturisce un suggerimento assolutamente preciso: se il pensiero è un modo di agire del corpo pensante, allora per definire il pensiero noi dobbiamo anche analizzare accuratamente il modo di agire del corpo pensante a differenza dal modo di agire (dal modo di esistere e di muoversi) del corpo non pensante. E in nessun caso la struttura o la costruzione spaziale di questo corpo in stato d’inerzia. Perché il corpo pensante, quando è inerte, non è più un corpo pensante, ma semplicemente un “corpo”. L’analisi dei meccanismi materiali (spazialmente determinati) grazie ai quali si realizza il pensiero entro il corpo umano, vale a dire lo studio fisiologico-anatomico del cervello, è beninteso, una questione scientifica d‘estremo interesse; ma anche la risposta più completa ad essa non ha una relazione diretta con la risposta alla questione indicata: “Che cos‘è il pensiero?”. Perché qui si chiede tutt’altra cosa».[3]

Spinoza con i dialettici sono stati i grandi maestri di Ilyenkov, accomunati dalla passione per l’uomo. L’uomo è attività. Qualsiasi sistema voglia ridurre l’uomo ad esecutore passivo di piani economici e sociali ideati in un altrove indeterminato ed espressione di gruppi lobbistici, non si può che definirlo totalitario. La riduzione dell’uomo a passività, ad ente biologico, a soffio vitale, è stata esperienza del secolo trascorso. Ma i Musulmani, come li chiamava Levi, sono anche le generazioni di uomini votati al feticismo delle merci e dei consumi, il cui io è disabitato. Ogni totalitarismo ed integralismo esige che l’umanità sia al servizio del potere. Spinoza, pur vivendo nella tollerante Olanda, soffrì le conseguenze dell’esclusione sociale dovuta alle sue idee rivoluzionarie. L’integralismo religioso fa della speranza e dell’ansia il puntello del suo sistema. Spinoza volle mostrare che speranza ed ansia sono l’effetto di idee inadeguate e pertanto la religione trova linfa in esse, rendendo gli uomini oggetto del destino. Hegel e Marx, da prospettive diverse, ma non opposte, mostrarono che il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Ilyekov elabora il concetto di ideale, nel cui sfondo si sente la presenza degli autori citati. Il pensiero marxiano dimostra che ogni sistema produce i suoi ideali, rappresentazioni nelle quali si sono oggettivati i rapporti sociali: «Il vecchio materialismo muoveva da una concezione dell‘uomo come parte della natura, ma, non riconducendo il materialismo alla storia, non poteva intendere l’uomo con tutte le sue peculiarità come un prodotto del lavoro che trasforma sia il mondo esterno che l’uomo stesso. In forza di ciò, l’ideale non poteva essere inteso come il risultato e la funzione attiva dell’attività lavorativa, sensibilmente oggettiva, dell’uomo sociale, come l‘immagine del mondo esterno che sorge nel corpo pensante non come risultato dell‘intuizione passiva, ma come prodotto e forma della trasformazione attiva della natura ad opera del lavoro delle generazioni che si sono succedute l’una all’altra nel corso dello sviluppo storico. Perciò la principale trasformazione che Marx ed Engels apportarono alla concezione materialistica della natura dell’ideale riguardò anzitutto il lato attivo dell’atteggiamento dell’uomo pensante verso la natura, cioè dell’aspetto che era stato sviluppato prevalentemente, per dirla con Lenin, dall’idealismo “intelligente”, della linea di Platone-Fichte-Hegel, e che da essi era stato messo in rilievo in modo astratto e unilaterale, idealisticamente».[4]

L’ideale è nel corpo pensante, è parte della vita biologica del soggetto, lo trasforma nella fisicità. Ilyenkov, con la sua analisi, mostra il difficile percorso dell’attività emancipatrice, la quale – per essere tale – deve trasformare i piani profondi del pensiero e dunque del corpo pensante. Rileva quanto i totalitarismi (mia è l’espressione) si rafforzano nell’incapacità indotta da parte dei soggetti di porre una distanza critica tra loro e le rappresentazioni ideali. Capire il radicamento del potere nel corpo pensante significa allora individuare strategie comunitarie per liberare e sublimare l’attività del pensiero verso la liberazione ed emancipazione. Il corpo pensante è attività per cui è sempre pensiero del possibile all’interno della storia. Nella società-comunità il soggetto e la comunità saranno consapevoli che la cultura, l’ideale, è produzione della società. La società comunista sembra delinearsi non come fine della storia, ma come movimento partecipato e comunitario: «E viceversa, la concezione materialista risulta naturale per l’uomo della società comunista, dove la cultura non si contrappone all’individuo come qualcosa di indipendente ed estraneo, impostogli dall’esterno, ma è la forma della sua propria azione attiva. Nella società comunista, come indicava Marx, diviene immediatamente evidente un fatto che nelle condizioni della società borghese si palesa solo per mezzo di un’analisi teoretica che dissolva le illusioni a questo punto inevitabili: il fatto che tutte le forme della cultura sono soltanto forme dell’attività dell’uomo stesso».[5]

[1] Thumos (anche ‘thymos’, in greco: θυμός) è una parola greca antica che esprime il concetto di “anima emozionale”. La parola indica un’associazione fisica con il respiro o col sangue.

[2] E. Ilyenkov, La Logica dialettica. Saggi di storia e teoria, Editori Riuniti, Roma, 1978, pp. 271-272.

[3] Ibidem, pp. 63-64.

[4] Ibidem, pp. 370-371.

[5] Ibidem, p. 413.

 


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Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.

Eric Hobsbawm01
Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina copia

Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina copia

Viva la Revoluciòn di E. Hobsbawm è un resoconto delle potenzialità critiche e rivoluzionarie dell’America Latina. Lo storico de Il secolo breve analizza le condizioni storiche che hanno fatto dei paesi dell’America latina un laboratorio politico nel quale esperimenti sociali si coniugano con potenzialità rivoluzionarie e riformiste inespresse. L’attenta e documentata rassegna dei diversi movimenti sono esaminati cogliendo le contraddizioni ed i limiti che hanno imbrigliato le possibilità politiche e rivoluzionarie. Leggendo il testo non si possono non cogliere analogie con l’attuale condizione italiana ed europea. Lo sguardo cognitivo rivolto verso l’America latina ci offre strumenti per capire la condizione dell’Occidente. Nell’anomia dell’informazione e della politica abbiamo necessità di capire, il diritto a capire e ad agire politicamente è stato sostituito dal flusso delle informazioni senza concetti, in tal modo non resta che il “panta rei”, per cui tutto scorre, ma nulla resta di concettualizzato ed elaborato per l’azione: si assiste al divenire senza l’essere metafora della politica.

Hobsbawm evidenzia quanto lo stesso sviluppo economico dell’America latina produca un sistema neofeudale. I nuovi schiavi sono tali perché le classi subalterne sono completamente asservite agli interessi dei nuovi proprietari feudali. L’economia, divenuta complice della politica, l’ha resa sua serva, in assenza di limiti politici e mossa dalla necessità di produrre ad infinitum. Lo sviluppo economico neofeudale ha quale effetto, contadini e classi medie passivizzate e sempre più funzionali al nuovo sistema economico. Politica ed economia si confondono nel neofeudalesimo descritto da Hobsbawm. Lo sviluppo economico dev’essere demitizzato per essere compreso. Il dogma dello sviluppo economico, del Pil quale parametro unico di valutazione cela tra le sue pieghe contraddizioni vissute ma non consapevoli. Il neofeudalesimo dell’America latina è speculare al neofeudalesimo finanziario dei nostri giorni. Il sistema di sviluppo agricolo di La Convenciòn ha tutti i tratti del neofeudalesimo tra corvè e sfruttamento: «La Convenciòn impartisce un’ultima lezione allo studente di sviluppo economico, sebbene forse gli sia piuttosto familiare: dimostra una volta di più che la crescita stessa del mercato mondiale capitalista sulla frontiera dello sviluppo, in determinate fasi, produce, o riproduce, forme arcaiche di dominazione di classe. Le società schiaviste dell’America del XVIII e XIX secolo erano il prodotto dello sviluppo capitalista, e così – benché su scala più modesta e localizzata – è stato anche il neofeudalesimo che prevalse a La Convenciòn fino al suo crollo, speriamo definitivo, grazie alla rivolta dei contadini».[1]

Tali osservazioni furono scritte nel 1969: è implicita la critica al modo di studiare economia accademico, alla falsa oggettività con cui gli studenti di economia si confrontano e trasformano l’economia in una religione del progresso che ha nella quantificazione il paradigma unico della lettura dei fenomeni economici. L’economia, sembra dirci Hobsbawm, quella reale, è differente dall’economia naturalizzata delle accademie universitarie. Dinanzi al delinearsi di forme di neofeudalesimo nell’America Latina, ed a potenziali condizioni per la Rivoluzione spesso si assiste o a forme di spontaneismo rivoluzionario o a rassegnazione e fatalismo: «È ovvio che la Colombia, come tutti gli altri Paesi latino-americani – a eccezione, forse, di Argentina e Uraguay – contenga la materia prima per una rivoluzione sociale sia dei contadini sia dei poveri delle aree urbane. Come in altre nazioni del continente, infatti, il problema non è trovare “materiale infiammabile”, ma capire perché non abbia già preso fuoco». [2]

Hobsbawm sembra parlarci, quando afferma che le condizioni per una rivoluzione, o per una politica riformista, non son solo attraverso le diffuse ingiustizie sociali; o meglio, per poterle definire tali, vi dev’essere la consapevolezza di sé, della classe sociale a cui si appartiene mediata dalla coscienza che la miseria non è un fatto naturale ma il prodotto di una sperequazione sociale voluta ed intenzionale: non si nasce poveri, non si nasce schiavi, si pensi alla dinamica servo-padrone di Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, ma lo si diventa quando si rinuncia a lottare ed a pensare: «Innanzitutto, il gruppo attualmente privo di terra, il proletariato rurale, è di norma uno dei gruppi agrari meno dinamici e facili da organizzare sul piano politico (tranne forse dove c’è un’economia di piantagione avanzata) attraverso i metodi quasi urbani del sindacalismo. È il contadino – e non necessariamente quello che ha una quantità di terra insufficiente – a costruire l’elemento esplosivo più immediato. In secondo luogo, il minifondismo o la povertà non sono in se stessi sufficienti a produrre agitazioni agrarie: di norma è la giustapposizione del contadino all’hacienda (soprattutto l’hacienda la cui struttura e le cui funzioni stanno cambiando, per esempio con il passaggio dall’uso estensivo a quello intensivo delle terre, o dalla piantagione diretta allo sfruttamento attraverso contratti d’affitto o di mezzadria) a produrre miscela politicamente infiammabile».[3]

Hobsbawm ribadisce più volte che il passaggio dalla potenza all’atto non è meccanico. In assenza di un partito comunista che talvolta è diffuso, ma i cui aderenti vi partecipano in vista di un generico e non chiaro desiderio di riforma, a cui si accompagnano forti divisioni interne nell’area di sinistra, il neofeudalesimo può avanzare, malgrado gli improvvisi scoppi di rabbia e le politiche di riforma parzialmente ottenute: «Purtroppo anche la sinistra marxista, che non fu mai una forza politica rilevante se non in un numero ristretto di Stati, oggi nella maggioranza delle repubbliche è forse troppo debole e divisa per fornire un efficace contesto nazionale d’azione o una forza politicamente decisiva dal punto di vista della leadership. Anzi, l’effetto concreto degli anni Sessanta è stato, per una varietà di motivi, quello di indebolirla e frammentarla più che mai, rendendo la sua unificazione e la sua normale azione molto problematici. Ciò non esclude le grandi trasformazioni sociali, anche rivoluzionarie, ma fa in modo che, probabilmente, a mettervisi a capo, almeno da principio, siano altre forze».[4]

La sinistra divisa, ridotta in fazioni in lotta per briciole di potere, è ciò a cui assistiamo oggi. Ciò permette alle forze autoritarie in economia e travestite da libertarie in campo etico e dei diritti civili di naturalizzare il liberismo. Si diffonde l’idea della impossibilità dell’alternativa mortificando gli animi degli sfruttati per rafforzare potentati economici sempre più feudali. Nel vuoto di spazio politico autentico si generano movimenti anche violenti, ma privi di progettualità.

In assenza di forze aggreganti mosse da un radicamento nel territorio in America Latina il banditismo è divenuto il facile e sanguinoso surrogato dell’assenza di un progetto autenticamente emancipativo e dunque condiviso e partecipato: «Tuttavia, riformista o rivoluzionario che sia, il banditismo in sé non costituisce un movimento sociale. Può essere un suo surrogato, come quando i contadini ammirano i Robin Hood come propri campioni per sopperire alla mancanza di una propria attività positiva diretta». [5]

Hobsbawm sembra guidarci verso la comprensione del presente post ’89 mediante l’analisi dei movimenti rivoluzionari dell’America Latina. La nostra condizione è ancora più difficile, poiché le cosiddette “sinistre” non sono solo divise, ma ciò che più temono è proprio di essere percepite come vicine comunismo e socialismo. Di qui il moltiplicacarsi del fatalismo attuale, che diventa elemento germinatore dello stesso neofeudalesimo. La chiarezza filosofica – che si saldi con la prassi – è invece aggregante poiché svela la possibilità di un oltre, e può sottrae le coscienze degli oppressi dal gorgo nichilistico in cui vengono quotidianamente precipitate.

Salvatore Antonio Bravo

***

[1] E. Hobsbawm, Viva la Revoluciòn. Il secolo delle utopie in America Latina, Rizzoli, Milano 2016, pag. 119.

[2] Ibidem, pag. 59.

[3] Ibidem, pag. 219.

[4] Ibidem, pag. 237.

[5] Ibidem, pag. 124.

 


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Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.

Theodor Ludwig Adorno02
Minima moralia

Minima moralia

Nei giorni del consumo totale le parole sembrano sparire, sono consumate dall’industria culturale. Diventano flatus vocis, sono mezzi per la pervasività mercantile, sono parole per un soggetto preda dei crampi del pensiero. La capacità e la motivazione allo scandaglio con il pensiero sembrano ridursi: il tramonto dell’occidente è il silenzio della sua identità. Gli autori che hanno rimasticato per creare nuovi possibili scenari non parlano con il presente, sono reliquie polverose a cui si irride e nel migliore dei casi sono documenti del passato a cui non ci si relaziona: semplicemente si archiviano.
La dimenticanza è la dimensione del presente: l’attività dev’essere rivolta al presente, al consumo immediato senza memoria.
Il pensiero è elaborazione di esperienza, vive nella prassi, ma necessita della sospensione del tempo del consumo per rappresentarsi il vissuto su cui operare ed essere metacognizione.
Si assiste invece ad una avversione preconcetta verso ogni attività che esiga ripensamenti, riconfigurazione, ricategorizzazione di mappe del pensiero. L’imperativo è ormai oltre il consumo per il consumo: è l’attività per l’attività, anche quando questa non consuma o non produce in modo da impedire che il soggetto emerga e possa diventare consapevole del suo esistere e porsi domande.
L’attività per l’attività è un mezzo ideologico di controllo. Il tempo è sempre pieno di attività con cui si impedisce la metariflessione e si educa ad essere disponibili “sempre” all’eterno movimento della globalizzazione. La globalizzazione del capitale finanziario – già descritta da Marx nel terzo capitolo del Capitale – ha la sua triste paideia, la sua diseducazione alla dialettica, mediante la costrizione all’attività: lo smanettare su pc, smartphone mentre si è seduti, spesso ha la sola funzione di formare alle dipendenze, mascherata da educazione digitale. Adorno, in Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa, ci dona concetti per la comprensione dei tempi attuali. Il capitalismo finanziario è il regno dell’astratto. Adorno, invece, coerente con l’elaborazione marxiana, ci insegna che il soggetto non è un accidente sostanziale da cui avviare l’indagine; piuttosto bisogna spiegare il soggetto partendo dalle condizioni materiali e dunque dai modi di produzione per capire il processo di soggettivizzazione e giudicarne la qualità. L’epoca dei diritti individuali per i quali si bombarda e si trasforma il pianeta Terra in inferno realizzato compiutamente, l’epoca dell’assoluta peccaminosità, ha favorito il regno dell’astratto: si parte dall’individuo astratto, astorico per poter affermare i diritti individuali universali in nome dei quali perseguire interessi di parte. Adorno mostra quanto l’industria culturale formi le opinioni con inganno mefistofelico. Ovvero, prima crea campagne capillari per la scelta di prodotti o di altro, e poi spinge a scegliere, decantando la libera scelta dell’individuo, il quale diviene paradigma ideologico delle libertà dell’occidente:

«La triste scienza, di cui presento alcune briciole all’amico, si riferisce ad un campo che passò per tempo immemorabile come il campo proprio della filosofia, ma che, dopo la trasformazione dei metodi di quest’ultima, è caduto in preda al disprezzo intellettuale, all’arbitrio sentenzioso, e infine all’oblio: la dottrina della retta vita. Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Parlare immediatamente dell’immediato significa fare come quei romanzieri che adornano le loro marionette, quasi con vezzi a buon mercato, con le pallide imitazioni della passione di un tempo, e fanno agire personaggi che non sono – ormai – che pezzi di un macchinario come se fossero ancora in grado di agire come soggetti, e come se dal loro agire dipendesse ancora qualcosa. Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna. Ma il rapporto tra vita e produzione, che abbassa la prima, nella realtà, ad una manifestazione effimera della seconda, è perfettamente assurdo. Mezzo e fine sono invertiti. Il sospetto di questo assurdo “quid pro quo” non è ancora del tutto cancellato dalla vita. L’essenza ridotta e degradata si ribella tenacemente contro l’incantesimo che la trasforma in facciata».[1]

La vita è offesa quando il soggetto ha come essenza solo la società, quando i pensieri non sono soltanto alienati ma molto di più: sono rubati. La mutazione antropologica che oggi il capitale assoluto tenta di realizzare esige utilizza l’abbattimento di ogni resistenza. Il soggetto si forma nella dialettica costellativa, ovvero nella relazione dinamica in cui l’alterità non è intombata nella gabbia delle logiche verticali di dominio. Se prevale la logica identificativa in cui l’altro è ridotto ad ente, ed è dunque fagocitato, il prigioniero è tale senza esserne consapevole e dunque finisce con l’amare la propria gabbia. È più realista del re perché il suo io è minimo, abituato alla sopravvivenza ed alla sopraffazione ama la sua gabbia e vorrebbe essere come il dominatore:

«Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento, che, per poter sopravvivere nell’orrore del mondo, attribuisce realtà al desiderio e senso al controsenso della costrizione. Non meno che nel credo “quia absurdum”, nell'”amor fati”, nell’esaltazione di ciò che è più assurdo, la rinuncia si umilia davanti al dominio. Alla fine la speranza, come si sottrae, negandola, alla realtà, è la sola figura in cui si manifesta la verità. Senza speranza l’idea della verità sarebbe difficilmente concepibile, ed è la falsità capitale spacciare per verità l’esistenza riconosciuta come cattiva, solo perché è stata una volta riconosciuta. In questo, piuttosto che nel contrario, è il delitto della teologia, contro il quale Nietzsche intentò il processo, senza mai pervenire all’ultima istanza. In uno dei passi piú forti della sua critica, egli ha accusato il cristianesimo di mitologia. “Il sacrificio espiatorio, e nella sua forma più raccapricciante e barbarica, il sacrificio dell’innocente per i peccati dei colpevoli!”». [2]

È possibile per il sistema di controllo giungere ad un tale risultato in cui le vittime collaborano con i carnefici inquinando le sorgenti di vita. Adorno ipotizza la genesi di un tale processo nella divisione del lavoro, nella specializzazione spinta, nella parcellizzazione dei saperi che favoriscono la formazione di uomini a dimensione unica e minima. Il risultato dell’atomizzazione sociale diventa atomizzazione dello spirito, per cui si recidono le relazioni interne al soggetto il quale non pensa perché non sente, il suo pensiero ha perso la profondità della genealogia pulsionale per divenire semplice azione meccanica irriflessa. In questo modo il soggetto non sente l’umiliazione a cui è quotidianamente esposto ed abbraccia un volgare amor fati consolatorio e specialmente non pensato, oltre il confine della gabbia non vi è nulla perché il gesto a guardare oltre è stato necrotizzato:

«Credere che il pensiero abbia da guadagnare una superiore obbiettività, o, perlomeno, non abbia nulla da perdere dalla decadenza delle emozioni, è già espressione del processo d’inebetimento. La divisione sociale del lavoro si ripercuote sull’uomo, per quanto possa promuovere l’operazione a comando.
Le capacità che si sono sviluppate in un processo d’azione e reazione reciproca, si atrofizzano non appena vengono separate l’una dall’altra. L’aforisma di Nietzsche “Grado e qualità della sessualità di un individuo penetrano fino nella sommità del suo spirito” non riflette solo uno stato di fatto psicologico. Poiché anche le più remote oggettivazioni del pensiero traggono alimento dagli impulsi, il pensiero, distruggendoli, distrugge la condizione di se stesso. Non è la memoria inseparabile dall’amore, che vuol conservare ciò che passa, ed ogni moto della fantasia non è generato dal desiderio, che trascende ciò che esiste e pur gli resta fedele, in quanto traspone i suoi elementi? E la più semplice percezione non si modella sull’angoscia di fronte all’oggetto percepito o sul desiderio del medesimo? Certo, con la crescente oggettivazione del mondo, il senso oggettivo delle conoscenze si è sempre più svincolato dal loro fondo impulsivo; e la conoscenza manca al suo compito, quando la sua attività oggettivante resta sotto l’influsso dei desideri. Ma se gli impulsi non sono superati e conservati nel pensiero che si sottrae a questo influsso, non si realizza conoscenza alcuna, e il pensiero che uccide suo padre, il desiderio, è colpito dalla nemesi della stupidità».[3]

Se la comunità è solo la somma di funzioni si può proclamare la vittoria del capitale assoluto e la morte della filosofia e dell’uomo. Malgrado i tempi siano terribili, l’umanità ridotta a vagabondi alla ricerca di emozioni fugaci e poco compromettenti, la Filosofia vive. In essa è possibile trovare contenuti per la resistenza, per formarsi e formare persone capaci di dono (e non solo del “libero” scambio). La speranza non è solo anelito ma motivazione alla resistenza logicamente fondata oltre che sentita.
La rilettura degli autori che paiono scomparsi dall’orizzonte culturale può essere un buon inizio per osservare il mondo con un rinnovato sguardo che possa alimentare con nuovo pensiero vitale la prassi. Ci sono autori che invitano ad uscire dal privato, a superare l’osmosi tra tempo libero e tempo lavorativo, per smascherare quanto il tempo libero è l’altro volto della manipolazione in continuità con il tempo gerarchizzato del lavoro. Si può favorire l’uscita dal privato, dal monadismo mercantile, anche con il semplice invito spontaneo al domandare, ad un agere che si riteneva impossibile e che può dare nuovo senso e densità al quotidiano. La lettura di Adorno oggi ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci, la necessità di guardare la Gorgone, la quale ci pone quesiti sul destino personale e del tempo storico condiviso. Non dobbiamo temere di essere trasformati in statue di sale, poiché è il non guardarla che ci fa essere semplice copia dell’umanità, creature scambiabili, perché funzioni consumanti. Colui che pensa si riappropria della qualità del suo essere umano e dunque rompe il ciclo quantitativo della facile scambibilità.

Salvatore Antonio Bravo

[1] Theodor Ludwig Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, pp. 48-49.

[2] Ibidem, p. 113.

[3] Ibidem, pp. 128-129.

 


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Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.

Adam Schaff 01

IL COMUNISMO COME UMANESIMO COMBATTENTE

 

Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. L’intellettuale di formazione marxista fa dell’attività critica un’azione totale nella storia.

 

16166435998«[…] in Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità». A. Schaff

 

 

Adam Schaff nel testo Il marxismo e la persona umana coglie l’essenza del pensiero di Marx. Lontano da ogni riduzionismo economicistico, riporta il pensiero marxiano al suo autentico fondamento, ovvero l’emancipazione della persona nella comunità da ogni forma di alienazione. Il fine del pensiero marxiano è la liberazione di un’umanità caduta – e non solo nel senso metaforico – nelle trappole dell’uomo parziale, atomizzato, per essere utilizzato con meno resistenza possibile dal sistema. L’opera di Marx indica il fine di ogni politica che sia tale: la liberazione dalle catene che imbestialiscono e rendono astratto l’uomo. A. Schaff evidenzia che ogni sistema ha i suoi processi di alienazione per cui il processo di liberazione vive con l’uomo e la sua storia. Il pensiero marxiano insegna che le conquiste non sono definitive, le metamorfosi delle alienazioni ci deve indurre alla partecipazione combattente e pensata contro le forme di alienazione che si ripresentano in modo sempre nuovo. Il pensiero comunista è pensiero che educa ad un senso critico capace di cogliere tra le pieghe insospettabili dei sistemi politici, la violenza nelle sue innumerevoli manifestazioni evidente e specialmente occulte: «L’alienazione insomma, è presente anche nella società socialista e si manifesta come relitto non ancora superato, ma appare anche in altre forme più organiche e durevoli, connesse alle condizioni del nuovo sistema. Comunque il problema esiste e va meditato realisticamente».[1]

Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. L’intellettuale di formazione marxista fa dell’attività critica un’azione totale nella storia.

Tale azione è motivata dall’umanesimo combattente marxiano. Sin dalle opere giovanili Marx ha posto al centro della riflessione l’uomo. Anzi, secondo Schaff, tra le opere giovanili e della maturità l’elemento di connessione è l’intramontabile umanesimo combattente di Marx. Nelle opere della maturità la deriva economicistica e meccanicistica di cui è stato accusato Marx è inesatta poiché l’economia del Capitale è la risposta al problema dell’alienazione. Ogni interpretazione economicistica è bieca interpretazione, perché non vuol vedere che Marx cerca soluzioni per affermare l’uomo totale anziché l’uomo unidimensionale del capitalismo. Solo una visione olistica e dialettica può sottrarre Marx a forme di riduzionismo che ne inficiano i fondamenti. Dunque l’analisi dev’essere olistica e genetica: «In questa prospettiva si profila il contenuto umanistico del marxismo ed è possibile interpretare, attraverso il prisma umanistico degli scritti giovanili di Marx, tutte le opere successive dell’autore del Capitale. Quest’analisi genetica ha un’immensa importanza euristica. Invece della tesi assurda che afferma l’esistenza di due marxismi, invece della tesi altrettanto sballata che dà per esistente un solo immutabile marxismo, si sostiene una tesi più moderata e nel contempo assai più feconda, secondo cui Marx, sviluppando il proprio pensiero, ha modificato l’impostazione delle ricerche e dei problemi da risolvere. Però, avendo egli mantenuto in tutte le fasi della propria evoluzione intellettuale l’obiettivo della liberazione dell’uomo come fine ultimo della ricerca e dell’azione, il pensiero dell’età matura di Marx può e deve essere inteso nel quadro dei presupposti e dei principi dell’antropologia filosofica da lui consapevolmente formulati in gioventù».[2]

Per Schaff esiste un unico Marx, il quale ha trasformato l’emancipazione dell’uomo in una, un’opera aperta certamente ma nella chiarezza del fine e degli obiettivi da raggiungere.

Contro ogni riduzionismo Marx ha verificato che la condizione umana è dolorosa ed alienata; nessun appello, nessuna critica potrà mai trasformare l’uomo tenuto ai ceppi. La filosofia con Marx per la prima volta si pone il compito di capire per trasformare il mondo. Il filosofo e la filosofia devono rispondere alla storia, agli uomini, per diventare parte della storia ed esserne il suo motore consapevole. L’obiettivo è l’uomo totale, capace di esprimere la sua essenza poliedrica nei rapporti sociali. Non esiste l’uomo senza la comunità, l’uomo si forma nella rete sociale di produzione, per cui l’uomo liberato da relazioni di divisione e sudditanza sarà un uomo che potrà vivere la sua identità nella comunità in una dialettica positiva: «Ne segue che in Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità. Marx, dalla giovinezza all’età matura quando è già noto come autore del Capitale, al raggiungimento di questo obbiettivo subordina ogni altra cosa. Marx giunge rapidamente alla conclusione che i termini “umano” e “disumano” rivestono un significato storico. E nella Ideologia tedesca troviamo una glossa importante alla tesi della protesta contro la “disumanizzazione” della vita. Da questo assunto conviene prender avvio, per poi passare alla rappresentazione positiva del comunismo marxiano».[3]

La filosofia deve umanizzare il mondo, renderlo mondo degli uomini e per gli uomini. L’umanità non deve accettare come un destino la propria condizione. La storia è il luogo nel quale la consapevolezza divenuta politica, progetto, trasforma a storia e le coscienze. La speranza marxiana non è semplice attesa ma partecipazione storica, nella storia: ognuno è chiamato nella condivisione a non essere complice delle sofferenze e delle innumerevoli catene che impediscono la nascita della persona al mondo. L’umanesimo combattente di Marx non attende che gli eventi accadano e trasformino la storia, il suo umanesimo vive della responsabilità dell’azione. La storia offre le sue possibilità. All’umanità il coglierle, leggerle, per trasformarle in alterità militante.

L’umanesimo marxiano si spinge ad affermare che nel comunismo non si stabilirà la felicità ma semplicemente si porranno le condizioni perché ciascuno cerchi la propria felicità nella comunità: «Il socialismo è ben lungi dall’avversare l’individualità umana. Perciò diamo pure via libera all’individuo e lasciamo a ciascuno il diritto di essere felice a modo suo, magari coltivando qualche hobby. Se proprio si vuol differenziare dagli altri e se per essere felice ha bisogno d’essere un po’ eccentrico. Riconoscendo che questa libertà non reca alcun danno al socialismo avremo soddisfatto una delle condizioni indispensabili affinché gli uomini possano sentirsi effettivamente e autenticamente felici».[4]

Ogni individuo ha diritto di essere felice a proprio modo per cui non si può stabilire come essere felici. Occorre porre le condizioni per la felicità nella comunità, rimuovendo i rapporti che limitano il suo concretizzarsi.

Il pensiero marxiano è dunque a distanze cosmiche dall’abisso del capitalismo assoluto che ha imposto un unico modo di ricercare la felicità: la darwiniana lotta per le merci. L’uomo ridotto ad un mero flusso di pulsioni è l’uomo alienato, estraneo a sé ed alla comunità. Lo studio del pensiero marxiano, la sua reintroduzione con le parole dense di significato e speranza, è momento imprescindibile per capire e ridisegnare un progetto umano in un mondo disumano e disperato.

Salvatore Antonio Bravo

[1] Adam Schaff, Il marxismo e la persona umana, Feltrinelli, Milano 1977, pag. 142.

[2] Ibidem, pag. 35.

[3] Ibidem, pag. 186.

[4] Ibidem, pag. 183.

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Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.

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Le vespe di Panama

Le vespe di Panama è un breve scritto di Z. Bauman nel quale si mostra l’asservimento delle scienze all’economico. L’economia non utilizza le scienze tecnologiche solo per saccheggiare il pianeta, per realizzare il sogno di una produzione infinita dietro la quale si può supporre agiscano pulsioni necrofile. La produzione assoluta sciolta da ogni legame con i bisogni dell’uomo è solo accumulo, distruzione fine a se stessa, stimolante per un delirio di onnipotenza che potrebbe celare tra le sue pieghe l’odio verso la vita. L’uomo economico non conosce la presenza dell’ombra, della resistenza, non parla con le sue ombre. È un turista della vita, un vagabondo tra le mercificazioni: per sentire di esserci deve accumulare ed ostentare. Le scienze pertanto divengono mezzo attraverso cui si rafforza il positivo, ovvero la vita dell’uomo economico trova nelle scienze la conferma che il suo modello di vita è l’unico possibile. La storia è finita in quanto la scienza conferma che gli studi sulla natura decretano che i processi di globalizzazione sono iscritti nei processi naturali. Dunque l’uomo è un essere biologico tra i tanti che popolano la terra e segue le leggi naturali che coincidono con le leggi economiche liberiste. Il riduzionismo favorisce naturalmente comportamenti verbali e politici regressivi e reazionari. L’uomo modulare, pronto ad adattarsi alle esigenze della rete produttiva, a cambiare posizione all’interno della rete ma non opinione, dev’essere pronto a partire, a spostarsi, ad essere perennemente vagabondo, non deve appartenere a nessuno, né a se stesso, né alla comunità: deve parlare la lingua di tutti e pensare come tutti. Il globy è la sua lingua. Ora se l’economia deve giustificare un modello di flessibilità (precarietà – sfruttamento), la scienza si presta al gioco ideologico. Le vespe di Panama di Bauman dimostrano la posizione ideologica delle scienze: l’asse di attenzione si sta spostando su quei fenomeni che devono confermare la migrazione come costante della natura e dunque degli uomini, per cui l’uomo modulare globalizzato è naturale, normale, mentre gli uomini di pensiero, dediti alla vita activa sono un errore della natura, nel migliore dei casi da tollerare, guardare con sospetto e controllare. Le vespe di Panama sono vespe migranti, anch’esse si spostano da un alveare ad un altro e facilmente si integrano nel nuovo sistema per divenire ad esso funzionali, sono ireniche, adattabili esattamente come l’uomo globale: «Contrariamente a tutto quello che si sapeva o si riteneva di sapere da secoli, i ricercatori londinesi hanno scoperto a Panama che una larga maggioranza di «vespe operaie», il 56 per cento, cambiano alveare nel corso della loro vita: e non semplicemente traslocando in altre colonie in qualità di visitatori temporanei, male accetti, discriminati e marginalizzati, a volte attivamente perseguitati, e comunque sempre guardati con ostilità, bensì in qualità di membri effettivi (si sarebbe tentati di dire «a pieno titolo») della «comunità» adottiva, che provvedono, al pari delle operaie «autoctone», a raccogliere cibo e a nutrire e accudire la nidiata locale. La conclusione che si ricava da questa scoperta è che gli alveari su cui è stata condotta la ricerca sono normalmente “popolazioni miste”, con vespe native e vespe immigrate che vivono e lavorano guancia a guancia e spalla a spalla, divenendo, almeno per gli osservatori umani, indistinguibili le une dalle altre se non con l’ausilio degli identificatori elettronici».[1]

La natura confermerebbe che la condizione attuale è naturale, per cui ogni resistenza, ogni parola piena di significati che vuole evidenziare la possibilità di un altrove è tacitata dall’evidenza della natura, la quale ha, però, al suo interno, un’infinità di possibilità e contraddizioni che vengono occultate. L’attenzione percettiva si sposta su ciò che conferma il sistema vigente in modo da renderlo indiscutibile. Una nuova teologia – ontologia della migrazione, non forzata dagli effetti del capitalismo assoluto, ma dalla natura, voluta… Tutto accade perché lo vuole e lo conferma la natura: «Quello che le notizie in arrivo da Panama ci svelano è innanzitutto uno sbalorditivo rovesciamento di prospettiva: quello che fino a non molto tempo fa era ritenuto lo “stato di natura”, si è rivelato, guardandolo in retrospettiva, nient’altro che una proiezione sugli insetti di prassi fin troppo umane (anche se ormai meno frequenti, lontane nel passato) studiosi. È bastato che i ricercatori, di una generazione un poco più giovane di quella precedente, portassero nella foresta panamense la loro (e nostra) esperienza di vita acquisita e assorbita nel loro nuovo ambiente “multiculturalizzato”, per “scoprire”, doverosamente, che la fluidità delle appartenenze e il costante mescolarsi delle popolazioni sono la “norma” anche tra gli insetti sociali: una norma apparentemente attuata in modo “naturale”, senza bisogno di ricorrere a commissioni governative, disegni di legge frettolosamente introdotti, corti supreme e centri di permanenza temporanea per richiedenti asilo… In questo caso, come in molti altri, la cultura prassomorfica della percezione umana del mondo li ha spinti a scoprire “là fuori nel mondo”, quello che abbiamo imparato a fare e facciamo “qui a casa” e quello che nella nostra testa o nel nostro subconscio rappresenta l’immagine di “come sono veramente le cose”… Di fronte ai dati inaspettati forniti dagli insetti sociali, è «scattato» qualcosa: quello che fino a quel momento era rimasto al livello di premonizioni intuitive, semiconsapevoli o inconsapevoli, è stato articolato (o forse “si è” articolato), e le intuizioni sono state riciclate in una sintesi alternativa di quell’altra (indirettamente la propria) realtà. Ma il fatto che questo riciclaggio sia avvenuto comporta l’esistenza precedente di scorte di «materia prima», pronta per essere riciclata».[2]

In questa pratica prassomorfica per cui si proiettano le categorie storico-sociali nella natura, poche voci si ergono critiche e consapevoli che la filosofia – avendo perso la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva, in quanto vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici –, non smaschera la funzione ideologica delle scienze e contribuisce all’espandersi della necrofilia. Il silenzio rinforza la convinzione che viviamo nell’unico mondo possibile, al punto che anche la natura ci conferma che gli esseri viventi sono liquidi, un fondo a disposizione di “ogni alveare”.

Gli sciami, come gli esseri umani, non fanno gruppo o comunità, si spostano leggeri ed adattabili, sono esseri singoli in perenne movimento, alla ricerca di un luogo momentaneo dove produrre per spostarsi in altro luogo, sono atomi senza relazioni, nati per spostarsi, riprodursi senza aver cura dei piccoli, per poi spostarsi dove vi sono le condizioni per lavorare. Un ciclo perenne senza fine e senza progetto, dove tra la vita dell’uomo e quella dell’insetto le differenze si assottigliano: «C’è un’altra sorprendente similitudine tra come vivono le vespe panamensi e come viviamo noi… In una società di modernità liquida, lo sciame tende a sostituire il gruppo, con i suoi leader, la sua gerarchia di comando e il suo ordine di beccata. Lo sciame può fare a meno di tutti quegli accessori senza i quali un gruppo non sarebbe in grado di formarsi né riuscirebbe a sopravvivere. Gli sciami non devono trascinarsi dietro pesanti strumenti di sopravvivenza: si assemblano, si disperdono e si ricompongono a seconda dei casi, guidati ogni volta da priorità differenti, anche se invariabilmente mutevoli, e attirati da obbiettivi che cambiano in continuazione, bersagli in movimento».[3]

Siamo chiamati a porci il quesito se siamo uomini od insetti. Se mancano le domande il rischio sempre più ampio di risvegliarci insetti diventa sempre più reale ed inquietante come le responsabilità a cui non possiamo sottrarci. La filosofia soltanto, con il suo metodo ontogenetico, può svelare i retroscena della scienza curvata sull’economico liberista per una nuova uscita dalla caverna sempre più simile al sistema alveare.

Salvatore Antonio Bravo

[1] Z. Bauman, Le vespe di Panama, Laterza, 2007, pp. 8- 9.

[2] Ibidem, p. 9-10.

[3] Ibidem, p. 27.

 

 

 


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Salvatore Antonio Bravo – La filosofia è resistenza che magnifica i piani d’immanenza nell’incontro del presente con il passato aprendosi al futuro. Gli pseudofilosofi rendono omaggio, con la loro presenza acclamata, alla commedia mediatica della democrazia: criticano, ma non propongono nulla.

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L’opera di Gilles Deleuze – Felix Guattari, Che cos’è la filosofia?, ci invita ad una riflessione sul senso della filosofia e della pratica filosofica. La filosofia è sotto assedio, sembra arretrare, i suoi spazi divengono sempre più limitati e, in taluni casi, il posticcio cerca di occupare lo spazio da essa lasciato libero. Il ripiegamento dei filosofi nella dimensione normo-temperata degli ambienti accademici, l’assenza del logos filosofico nella politica, sta consentendo non solo l’omologazione, ma soprattutto la regressione sociale e, con essa, il riemergere di immagini del mondo in cui la tensione del logos è sostituita dalla dismisura della glebalizzazione–globalizzazione. La Filosofia vive dell’antitesi, la sua apertura diventa riposizionamento verso lo stato presente, è prassi trasformatrice mediante i concetti vissuti. Creare nuovi piani d’immanenza, di pensiero, significa ridisegnare la cartografia dei significati. La Filosofia diventa in tal modo prassi trasformatrice. Deleuze e Guattari denuncino il tentativo di sostituirla con modesti succedanei: sociologia, epistemologia, psicanalisi ecc. al fine di neutralizzarne la carica rivoluzionaria e critica. La si accoglie, la si spettacolarizza per anestetizzare il pensiero divergente: «Più recentemente la filosofia si è imbattuta in molti nuovi rivali. Furono prima le scienze dell’uomo, e in particolare la sociologia, a volerla rimpiazzare. Ma poiché la filosofia aveva trascurato sempre più la sua vocazione a creare concetti per rifugiarsi negli Universali, non si sapeva bene quale fosse la sua funzione» (G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino, 1996, introduzione p. XVIII) . Nega così la sua vocazione, ovvero: creare concetti, dialettizzarli, ripensare il presente. Ogni concetto ripensato e razionalizzato come l’araba fenice rinasce a nuova vita e diviene volano per nuove prospettive. La filosofia necessita del coraggio del pensiero: pensare significa ridisporsi in uno spazio altro, rompere con il conformismo omologante dei facili successi, accettare il rischio della solitudine come un’opportunità per capire. Creare concetti significa vivere il caos dionisiaco e gioioso della vita e delle sue infinite possibilità per operare in esso il taglio come lo definiscono i due filosofi, ovvero una concettualizzazione, un atto creativo con il quale ridefinire la contingenza e l’immagine del mondo: «Il piano d’immanenza prende in prestito dal caos le determinazioni con cui compone i suoi movimenti infiniti, i suoi tratti diagrammatici. Si può, si deve quindi supporre una molteplicità di piani, poiché nessuno di essi potrebbe da solo abbracciare tutto il caos senza ricadervi; oltretutto, ciascuno ritiene solo i movimenti che si lasciano piegare insieme» (ibidem, p. 40). I piani d’immanenza sono infiniti e stratificati, le possibilità del pensiero sono innumerevoli e nessun taglio potrà mai impedire nuove concettualizzazioni. La filosofia è libera, perché esplora sempre nuovi piani; le sue mani conoscono continuamente l’atto della liberazione dalle catene dell’ignoranza come lo schiavo nella caverna di Platone. Denuncia, con il solo suo esserci, ogni riduzionismo: oggi deve confrontarsi con il capitalismo assoluto, il quale nega la possibilità del pensiero, sostituito dalla sola libertà delle merci e dei corpi. Il sistema capitale, con la dismisura, ipostasi del liberismo, assolutizza solo un piano di immanenza: la mercificazione di tutto, la riduzione a quantità di ogni evento per poterlo controllare; ogni piano d’immanenza altro è marginalizzato, ridotto al silenzio. La filosofia, ciò malgrado, vive. L’epoca delle passioni tristi è l’epoca dell’asfissia della speranza, la pressione mediatica e politica nelle sue forme degenerate verso il ‘’si dice’’ ‘’si pensa’’, e dunque la chiacchiera, mostra la sua fragilità negli effetti depressivi che provoca e specialmente nell’incapacità dell’immanenza del pensiero unico a risolvere le sue innumerevoli contraddizioni.
È la corrente calda che E. Bloch paragonava al rosso caldo contrapposto al rosso freddo della corrente gelida, sterile e portatrice del pensiero verticale. La filosofia emancipa e, come tale, partecipa alla vita, la vivifica con la sua rivoluzione attiva: «Il concetto è il contorno, la configurazione, la costellazione di un evento a venire. I concetti in questo senso appartengono a pieno titolo alla filosofia, perché è essa che li crea e non smette di crearne. Il concetto è evidentemente conoscenza, ma conoscenza di sé: esso conosce il puro evento, che non si confonde con lo stato delle cose nelle quali si incarna. Quando la filosofia crea dei concetti, delle entità, il suo scopo è sempre di cogliere un evento dalle cose e degli esseri. Allestire il nuovo evento delle cose e degli esseri, dare loro sempre un nuovo evento: lo spazio, il tempo, la materia, il pensiero, il possibile come eventi…» (ibidem, pp. 22-23).
La sua processualità, mentre crea, fa riaffiorare il tempo della speranza senza identificarsi con il concetto. Essa, in quanto attività creatrice e critica, non si identifica con lo stato irrigidito delle cose, dei concetti del sistema, ma è sempre oltre, è attività vitale che ripensa il già stato per dargli nuovi significati.
Possiamo comprendere l’ostilità del sistema capitale verso una forma di conoscenza che dalla rinuncia alla verticalità, alla gerarchizzazione passiva, trae la dinamicità plastica per percorsi consapevolezza. La Filosofia, precisano gli autori non è l’arte di criticare i concetti; è molto di più, pone le condizioni per concettualizzazioni alternative, per nuovi piani di pensiero: «Criticare significa soltanto constatare che un concetto svanisce, perde alcune sue   componenti o ne acquisisce altre che lo trasformano nel momento in cui viene immerso in un nuovo concetto. Ma coloro che criticano senza creare, che si limitano a difendere ciò che è svanito senza potergli dare le forze per ritornare in vita, costoro sono la piaga della filosofia. Questi polemisti, questi comunicatori sono animati dal risentimento. Non parlano che di se stessi lasciando che si affrontino delle vuote generalità. La filosofia ha orrore delle discussioni, ha sempre altro da fare» (ibidem, p. 19).
I mezzi di comunicazione vorrebbero il requiem della filosofia, quando illustri accademici o pseudofilosofi rendono omaggio, con la loro presenza acclamata, alla commedia della democrazia: criticano, ma non propongono nulla, non trasformano la critica nella speranza che mobilita verso l’uscita della caverna. Sono la piaga della filosofia perché fortificano la retorica democratica con la benedizione della filosofia addomesticata, usata in funzione del potere e dunque ombra della sua autentica finalità.
La filosofia è uno scandalo perché aspira alla conoscenza, e fa della parola motivo d’incontro con sé e con chi è disposto alla ricerca. Il piano d’immanenza è luogo della comunità nel quale le tensioni sono l’apertura al pubblico, alla vita nelle sue dimensioni, che presuppongono l’identità dell’io, sottratto alla liquidità dei nostri tempi: perché nel pensiero si conosce, e dunque scolpisce la sua statua interiore, come affermava Plotino. La filosofia deterritorializza e riterritorializza i concetti, denuncia lo stato presente del capitalismo assoluto in cui i diritti individuali convivono con le violenze più inaudite. La filosofia con la concettualizzazione è la resistenza di cui si sente sempre più nostalgia: «Quantunque la filosofia si riterritorializzi sul concetto, non ne trova la condizione nella forma presente dello Stato democratico o in un cogito di comunicazione ancora più dubbio del cogito di riflessione. Non ci manca certo la comunicazione, anzi ne abbiamo troppa; ci manca la creazione. Ci manca la resistenza al presente. La creazione dei concetti fa appello di per sé a una forma futura, invoca una nuova terra e un popolo che non esiste ancora» (ibidem, p. 101).
La filosofia è resistenza che magnifica i piani d’immanenza nell’incontro del presente con il passato aprendosi al futuro. Deve tornare ad essere cerniera tra le moltitudini ed i movimenti che accolgono le urgenze del presente ma sono privi di un progetto politico alternativo al presente in modo da unire la comunità verso una nuova possibilità, verso un nuovo tempo in cui raccogliersi per pensare.

Salvatore Antonio Bravo

 

 


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Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.

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Z. Bauman,  Modus vivendi

La società dei cacciatori

L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
L’educazione all’imprenditorialità postulato e dogma della contemporaneità significa pratica della caccia, come in ogni attività venatoria i trofei sono esibiti al fine muscolare di intimorire e terrorizzare ogni altro cacciatore. L’esibizione avviene nella rete, dove persone e cose sono esposte dai momentanei cacciatori quali trofei che ritagliano una temporalità in cui sono stati cacciatori e non prede. L’immagine di Bauman si presta ad una pluralità di significati: in un pianeta globale nel quale la linea di demarcazione è tra vite da cacciatori e vite di scarto, in cui la paura liquida diviene vergogna di essere preda, il cacciatore esibisce il trofeo per mostrare di non essere stato predato, in tal modo mostra i denti e si rassicura. Si assiste all’ontologia della caccia: «La caccia è un’occupazione a tempo pieno, consuma una gran quantità di attenzione e di energie, non lascia quasi tempo per qualsiasi altra cosa; e perciò impedisce di rendersi conto che si tratta di un compito senza fine, e rinvia alle calende greche il momento in cui guardare in faccia il fatto che il compito non potrà mai essere portato a termine».[1] La deregulation in ogni campo – dall’economico alle relazioni – espone ciascuno di noi sull’abisso; in ogni momento il soggetto da ‘soggetto’ può divenire ‘oggetto’, per cui il timore di essere diventato vita di scarto, rifiuto urbano, spinge a mostrare che si è nella linea dei vincenti, dei globalizzanti. È la nuova vergogna della società dell’impresa: se non predi, sei colpevole; sei non ti trasformi in pescecane, fai parte delle vite di scarto. I perdenti sono e divengono il problema, sono le nuove streghe planetarie da cui difendersi, sono la causa di ogni male, per cui – se ci si trova dalla parte dei vincenti – si devono erigere palizzate fisiche e mentali contro le orde che minano il privilegio del vincente secondo il quale «la natura vuole che si lotti, si vinca o si perda»: «Il nuovo e sempre più diffuso folklore urbano assegna alle vittime dell’esclusione planetaria il ruolo dei “cattivi”, raccogliendo, combinando e riciclando la tradizione delle storie terrificanti, costantemente e sempre più largamente richieste, oggi come in passato, per effetto delle insicurezze della vita in città».[2]
Ogni possibilità è esclusa dal pensiero, per cui ci si muove per predare qualsiasi cosa: un’immagine da postare, un corpo da consumare, una proprietà da spogliare ad altri, una terra da saccheggiare. Tutto deve diventare trofeo da mostrare per “mostrare” che non si è caduti nell’abisso delle vite di scarto. Si è colpevoli se si perde, se il risultato – a prescindere dal mezzo – non è stato raggiunto, per cui ogni mezzo è moralmente legittimato dalle pressioni indebite alla violenza materiale. La sorpresa è verificare che nei mezzi di informazione ci si stupisca della violenza psicologica o fisica benché la struttura ideologica –nella quale si naviga sempre a vista –, sia ontologicamente violenta. Hobbes potrebbe assistere allo stato di natura in diretta, ovunque alberga il cacciatore che in modo ossessivo passa da un obiettivo all’altro. La capacità simbolica che umanizza, il pensiero che chiede il senso e riconfigura il suo presente all’interno dell’esperienza umana che si estende dal passato al futuro è censurata dall’azione continua, dal muoversi del predatore uomo all’interno delle giungle in cui in ogni attimo può divenire preda: è l’unica vergogna ammessa. Bauman utilizza un’immagine semplice e diretta, ovvero il gioco della sedia: «Il progresso è diventato una sorta di “gioco delle sedie” senza fine e senza sosta, in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile».[3] In qualsiasi momento ci può essere sottratto ciò che si ha e la vergogna non risiede nel predatore ma nel predato, il quale ha meritato d’essere stato predato per cui nessuna solidarietà, nessun aiuto di stato o istituzionale; la colpa è pagata con l’esposizione mediatica. Il fallito, lo scarto umano messo alla gogna e umiliato, introietta la vergogna per cui non ha la forza mentale di mettere in atto quei processi mentali per difendersi, per capire, per trasformare il fatto in esperienza condivisa e di rielaborazione di pensiero.
Siamo chiamati a rompere il ciclo che nutre il fascismo finanziario. Riportare il concreto nell’astratto per la prassi trasformatrice. Il pensiero di Hegel, Marx e Gramsci ci devono indurre a trasformare il fato dei colpevoli in un’esperienza pensata, immanente per liberarci dei fantasmi a cui non sappiamo dare ‘il nome’ e dunque depredano le esistenze. Il conflitto da interiore dev’essere verticalizzato, ma ancor più necessita di una grammatica della comprensione che tarda ad apparire poiché anche gli intellettuali sono i nuovi cacciatori vassalli che depredano le coscienze in nome dei neofeudatari delle finanze. Non possiamo semplicemente scandalizzarci ma si deve mettere in atto una prassi trasformatrice per porre le condizioni per una Koinè senza la quale potremmo dichiarare persa la condizione umana al cui posto il cacciatore-imprenditore-banchiere come archetipo del nuovo modello umano, nuova idea platonica, potrebbe divenire il demiurgo di nuovi ed infiniti micro-cacciatori che si spingono vicendevolmente sull’abisso delle vite di scarto. I profughi che non vogliamo guardare sono la carne del mondo, ci mostrano il mondo nella sua verità. Sono bersaglio delle violenze dei cacciatori e delle prede costrette a pura sopravvivenza e pertanto portatrici di ogni violenza e redenzione per tutti: «I profughi si trovano in mezzo ad un fuoco incrociato; più esattamente in un doppio vincolo. Da un lato sono espulsi con la forza o indotti col terrore a fuggire dal loro paese d’origine, ma dall’altro si vedono rifiutare l’ingresso in qualsiasi altro paese».[4]

Salvatore Antonio Bravo

[1] Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza, Bari, 2017, p. 122.

[2] Ibidem, p. 48.

[3] Ibidem pp. 10-11

[4] Ibidem, p. 49


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Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza, Bari, 2017

Risvolto di copertina

«Non sono rimasti molti terreni solidi su cui gli individui possano edificare le loro speranze di salvezza. Non possiamo più sperare seriamente di rendere il mondo un posto migliore in cui vivere; non possiamo neppure rendere veramente sicuro quel posto migliore nel mondo che, forse, siamo riusciti a ritagliare per noi stessi. L’insicurezza c’è e resterà, qualunque cosa accada».
Rendere l’incertezza meno terribile, la felicità più permanente. Ecco la grande utopia inseguita dagli abitanti del mondo liquido. Zygmunt Bauman rapisce la nostra attenzione e affronta la paura più inconfessabile: che futuro ci aspetta?

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Leggi un brano del libro «Modus vivendi»


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