Antonio Fiocco – Emanuele Severino considera ineluttabile il trionfo della Tecnica (cioè il capitalismo): il suo ripristino dell’ontologia è apparente e fuorviante, dunque innocuo per il potere
Oltre l’Occidente: Emanuele Severino
Non si intende entrare nel merito della visione globale della filosofia di Emanuele Severino. In questa sede ci si propone di isolare, per quanto possibile, la porzione del suo pensiero eventualmente utilizzabile come possibilità di liberazione nei confronti di un sistema sociale ritenuto iniquo. Si è peraltro consci che questo filosofo vede nella cultura di sinistra – intesa nella sua accezione storica ormai travolta dall’utilitarismo crematistico – semplicemente una delle varie forme in cui si manifesta l’evoluzione della civiltà occidentale. Di conseguenza è importante dire subito che questa civiltà è da lui criticata globalmente e nei suoi stessi principi fondativi comuni a tutto il pensiero filosofico fin qui apparso e quali si sono perpetuati dai Greci ai nostri giorni. Anche dal marxismo in particolare, dunque, e senza distinzione fra pensiero marxiano e successiva ortodossia marxista, Severino si dissocia radicalmente. D’altra parte una indagine è inevitabile, visto che un testo[1] del pensatore avanza, come dice il breve tratto introduttivo, questa intrigante, problematica, sfida: è possibile, senza essere marxisti, riuscire là dove il marxismo ha fallito?
Severino considera che i Greci, per primi nella storia del pensiero umano, concepiscono l’essere e il nulla in assoluta, reciproca opposizione, divisi da una distanza infinita. In precedenza non era così. Per es.: «Nella civiltà mediterranea pre-greca il mancato ritorno [dalla morte; A.F.] è interpretato come una lunga assenza: nella sua interezza, la vita dell’uomo è un ciclo infinito di morti e di rinascite».[2] Ma con i primi pensatori greci matura la persuasione che ogni cosa esce dal nulla, vive una precaria esistenza e ritorna nel nulla. Qui occorre fare attenzione, giacché «il niente non può produrre alcunché – un principio che, appunto, include la coscienza della assoluta negatività del niente».[3] I mattoni che costituiscono una casa esistevano prima della casa, quando la casa era un non-essere, e le macerie persistono quando la casa è distrutta, cioè è ritornata nel nulla. Analoghe considerazioni si possono fare per qualsiasi altro ente, come, per es., anche un corpo umano. «È impossibile un divenire che non sia il divenire di un sostrato permanente; e tuttavia il divenire è sempre un divenire dal non-essere […] non esiste un ‘puro divenire’ senza sostrato; mentre ciò che non è così salvo è appunto l’insieme delle affezioni di tale sostanza, l’insieme delle cose del mondo, che, in quanto tali, cioè nella loro specifica individualità, escono dal loro essere state niente e tornano a essere niente, mentre, quanto alla loro sostanzialità, preesistono nella sostanza ‘sempre salva’ (Aristotele), da cui si generano e rimangono in tale sostanza, nella quale si corrompono».[4] In questo senso, dunque, i Greci «intendono il divenire come il dibattersi delle cose tra l’essere e il niente»[5] e «solo se si crede che le cose siano flessibili, oscillanti fra l’essere e il niente, ci si può proporre di fletterle e di controllare la loro oscillazione. Se la volontà di potenza è la volontà di dominare il mondo, la forma originaria della volontà di potenza è appunto la fede nell’esistenza del dominabile, cioè la fede nell’esistenza del divenire».[6] Già prima dell’ontologia greca, cioè in un contesto considerato da Severino una sorta di preistoria inconscia dell’Occidente, la coscienza umana ammetteva un certo grado di manipolazione del reale, «ma col pensiero greco incomincia l’epoca della flessione estrema del mondo […] proprio perché la flessione percorre l’infinita distanza tra l’essere e il niente, la volontà di potenza incomincia ad essere infinita […] la sua creatività e distruttività incominciano a essere assolute».[7] Ma in tutto questo, nota il filosofo, è contenuta una insolubile contraddizione, poiché, se è evidente e perfino tautologico dire, con Parmenide, che tutto «ciò che è, è», il divenire non può esistere, «perché, se l’essere diviene (si genera e va distrutto), non è».[8] Donde il nichilismo di tutta la cultura occidentale.
Severino addirittura si spinge, in un affascinante saggio, che si può considerare quasi una risposta al Cratilo platonico,[9] a scorgere ed esaminare , nel lessico delle grandi lingue indoeuropee, la natura della scissione fra l’inflessibile e il dominabile e come questi caratteri abbiano un timbro diverso e riconoscibile.
Secondo Severino, dunque, tutte le forme di pensiero, le civiltà, le religioni, i sistemi filosofici, le forme artistiche, politiche ed economiche dell’Occidente si sono sviluppate all’interno di questo originario stato della coscienza e per soddisfare l’indiscussa persuasione che ne sta al fondo. Tuttavia «la civiltà della tecnica è la forma più rigorosa di questa fede»,[10] perché conferisce un dominio pratico sulla realtà di una efficacia enormemente superiore alle forme precedenti e via via abbandonate dall’uomo perché rivelatesi insufficienti allo scopo, come la stessa ricerca filosofica e il Cristianesimo. Così, per secoli, da Eschilo[11] a Hegel, la fede nel dominio del mondo si è espressa con la tradizione epistemico-metafisica e con l’affermazione di un «Senso unitario, immutabile e divino della realtà», nel cui interno soggiogante risultava però prevedibile, contraddittorio e dunque impossibile il divenire, la cui evidenza rimaneva tuttavia incontestabile.
Affinché il divenire fosse veramente tale, fosse davvero libero e la volontà di potenza potesse estrinsecarsi totalmente, era necessario il tramonto di tutte le strutture immutabili evocate fino a quel momento dall’uomo, come Dio, la natura, l’anima, l’autorità dello Stato, la storia, i valori morali, il diritto, i canoni estetici, ecc. Dopo Hegel la filosofia imbocca coerentemente la strada dello smantellamento di tutte queste false certezze (per fare un solo esempio, pensiamo al ruolo avuto da Nietzsche in tal senso), per consegnare la realtà a uno stato di precarietà completa, di virtuale nullità e dunque totalmente dominabile.[12] Il pensiero marxista, che si propone di modificare la realtà, è considerato come una forma evoluta della volontà di potenza. Tuttavia, in quanto tensione verso una meta precisa e limitante, la società senza classi, ed in quanto erede della concezione universalistica di Hegel, esso è a sua volta e inesorabilmente, secondo Severino, un Immutabile destinato, come testimonierebbe il crollo del “socialismo reale”, al tramonto. La sconfitta di Trotskij e della “rivoluzione permanente” su scala mondiale nei confronti della concezione staliniana del “socialismo in un solo paese”, sarebbe già stata, a suo tempo, un chiaro indice di questo tramonto. Così, comunque, si ignora a priori l’eventualità che possano esistere interpretazioni e sviluppi che rendano la dottrina di Marx (indipendentemente dal crollo del “socialismo reale”) un patrimonio aperto e attuale. Pensiamo certo al “marxismo occidentale”, pur con i suoi limiti, ma soprattutto alla più recente necessità di una riformulazione della filosofia idealistica implicita nel pensiero originale di Marx, secondo il magistero del recentemente scomparso Costanzo Preve.
Oggi, dunque, secondo l’impostazione di Severino, ogni sistema politico e/o economico, ogni ideologia e religione, ormai manifestamente private di verità, si configurano come altrettante fedi o come altrettante volontà in lotta contro altre volontà. La democrazia diretta viene liquidata come ingenuamente utopica, cioè come una specie di “angelo caduto dal cielo”. Di norma, comunque, per democrazia Severino intende , a seconda dei casi, o la democrazia liberale (contrapposta al socialismo, a sua volta sempre inteso come “reale” e dunque fallito inesorabilmente), o la “sovranità della maggioranza” (in una accezione che ne rimarca un aspetto assolutistico). Queste forme di democrazia trarrebbero la loro legittimazione esclusivamente dalla forza di prevalere su altri sistemi di governo più esplicitamente autoritari, come quelli propugnati da coloro che ritengono di avere scoperto la Verità e di doverla imporre a tutti, come, per es., nello stato teocratico. Analogamente, l’antifascismo è legittimo solo finché ha la capacità pratica di prevalere sul fascismo, ma potrebbe essere indifferentemente il contrario. Un pluralismo come quello sancito dalla Costituzione italiana, che prevede una convivenza di culture diverse che non mirino a sopraffarsi vicendevolmente, viene implicitamente considerato un mito.[13] È superfluo aggiungere che la possibilità di un comunismo considerato come l’essenza stessa della democrazia (autogoverno politico e autogestione economica) non viene nemmeno presa in considerazione da Severino.
Una conseguenza non da poco di questa impostazione è che verrebbe a cadere la comunque apparente dicotomia originaria fra “mito” (inteso come interpretazione soggettiva e favolistica della realtà, la cui forma compiuta è la religione) e “logos” (come ricerca di una verità oggettiva), da cui nacque la filosofia. Infatti anche le verità frutto di ricerca razionale appaiono ormai come fedi.[14]
Comunque sia, la forza che prevale sulle altre, attualmente, è il capitalismo, con tutto il suo carico di miserie e di dolore. Ebbene, «l’accusa di immoralità, oggi rivolta al capitalismo […] si fonda sull’etica. Ma l’etica non è più in grado di essere un ‘fondamento’. Essa è una volontà, alla quale si contrappongono altre forme di volontà».[15] Ogni valore, come abbiamo visto, sarebbe ormai evidentemente anacronistico. “Liberté, Egalité, Fraternité”, al di là della funzione distorta o astratta che hanno avuto per le democrazie borghesi, non avrebbero quindi motivo di sussistere nemmeno come concretamente realizzabili dal comunismo. Ora, una definizione di “valore” è: «Carattere delle cose che consiste nel loro essere più o meno degne di stima. – ‘Il vero compito della ragione è di esaminare il giusto valore di tutti i beni la cui acquisizione sembra che in qualche modo dipenda dalla nostra condotta’ (Descartes)».[16] E quale «carattere delle cose» è più «degno di stima» della sopravvivenza della specie umana? Se, come è evidente, lo sfruttamento e l’alienazione portati dal capitalismo hanno condotto il mondo sull’orlo della distruzione, che altro mai potrà salvarlo se non la “nostra condotta” ispirata ai genuini valori comunitari di quella civiltà greca tanto deprecata dal nostro autore? Ma Severino invece afferma che «la distruzione dell’uomo non è la definizione dell’errore» e che «è follia (cioè errore), perché essa è negazione della verità. Ma che ne è oggi della verità».[17] La verità epistemica tradizionale e incontrovertibile oggi non esiste più nella civiltà moderna e dunque questo vuoto lascerebbe spazio alla verità, all’essere, alla «filosofia futura» del Severino stesso, per la quale «se il destino di tutte le cose, dalle più umili alle più grandiose, è di essere non trasformabili, non producibili e non distruggibili, non creature di un dio, non manipolabili, allora esse sono l’inafferrabile, il non dominabile, il necessario, l’eterno. Il destino è l’impossibilità del dominio».[18] Ogni azione umana, anche la più nobile, in quanto conseguente inesorabilmente a una forma variante di volontà di potenza, sarebbe minata dallo stesso male che intendesse curare e dunque destinata al fallimento. «Che cosa dovremo fare, allora, per evitare l’errore e la violenza? Ma è proprio necessario che si debba fare qualcosa? Il ‘fare’ è uno dei tanti nomi della vita; e se la vita è errore, anche la domanda ‘che fare?’ è errore ed è errore rispondervi. (Ma anche l’inerzia e la rinuncia alla vita sono modi di fare, cioè di vivere)».[19]
Ma affermare che la devastazione e la sofferenza sono una illusione e che tutto e tutti sono da sempre e per sempre nella gioia dell’essere, come può dispiacere all’essenza della devastazione e della sofferenza? Se esistesse una «Nous» capitalistica (secondo una espressione di Pasolini in una lontana trasmissione televisiva) sarebbe ben felice di sentirsi così assolta da ogni colpa…
Per Severino, dunque, il costruire (trarre le cose dal nulla) ha la stessa natura del distruggere (spingere le cose nel nulla), poiché entrambi condividono l’illusione della totale dominabilità delle cose stesse. Chi scrive, tuttavia, ritiene che non si possa sfuggire all’agire, secondo il senso ficthiano caro al filosofo Diego Fusaro, e di conseguenza vede nel costruire (per es. rapporti positivi tra gli uomini tramite la politica) il mezzo di una volontà che può essere più decisiva della volontà avversa. Non è credibile che guerre, devastazioni e sfruttamento avvengano necessariamente, all’interno del “divenire greco”, altrimenti anche il contenuto di questa tesi diverrebbe una di quelle verità dogmatiche che non si possono giustificare. Lo stesso Severino, auto-obbiettandosi se non abbia comunque un senso, anche all’interno della cultura occidentale, adoperarsi per evitare la guerra e costruire la pace, concede: «Certamente. E per ottenere questo risultato si danno da fare coloro che hanno a cuore le sorti dell’umanità», ma «lavorano per la pace dei morti [quali saremmo tutti all’interno del senso greco del divenire; A.F.]. E meritano riconoscenza da parte dei morti che sognano di essere vivi per merito loro».[20]
Quindi, ribadendo che all’interno dell’Occidente le devastazioni e le ingiustizie sono sostanzialmente conseguenti, di fatto Severino giudica inemendabili le modalità sociali che le causano. La tesi proposta è che se si viola ciò che si considera inviolabile, come la dignità umana, significa che non è veramente inviolabile e le lamentele in tal senso sarebbero solo il pianto del perdente.[21] Di fronte a questa logica si va al di là di ogni confutazione disapprovazione. Ma per Severino affidarsi all’indignazione non ha significato: «Per migliaia di anni gli uomini sono vissuti senza avvertire questa indignazione. E l’indignazione può tornare nell’oscurità».[22] Dunque il filosofo dichiara un punto di vista non al di sopra, ma al di là di ogni parte in campo sul pianeta. Ma nei suoi giudizi, l’operazione intellettuale che di fatto si realizza è la svalutazione di ogni aspirazione e di ogni tentativo pratico di superare l’orizzonte dell’orribile presente, per fornire una prospettiva talmente irreale da non poter sussistere nemmeno come speranza, cioè un preteso tramonto dell’Occidente (sempre inteso come la dimensione filosofica e pratica scoperta dai Greci), cui comunque assisterebbero in pochi o nessuno, se nel frattempo la distruzione non sarà fermata.
La scienza e la tecnica (ovvero il feticismo tecnologico)
Essenziale, nel pensiero del nostro filosofo, è il rapporto con la scienza e la sua applicazione pratica, la tecnica. Non esiste una reale dicotomia fra la cultura filosofica e la cultura scientifica. È vero che mentre la prima si propone una visione globale del reale, la seconda, invece, isola settori di indagine particolari e sempre più ristretti. Ma questo sezionamento separa le cose tra di loro e dal tutto allo scopo di renderle più facilmente dominabili. Ne risulta una efficacia di intervento sulla realtà nemmeno lontanamente paragonabile alle forme pre-scientifiche. Quindi la tecno-scienza realizza sempre più compiutamente ciò che comunque è sempre stata l’esigenza ultima anche dell’umanesimo che l’ha preceduta e preparata: la volontà di potenza.[23]
D’altra parte, se una qualsiasi forma umanistica di pensiero rappresenta una struttura immutabile e dunque una fede, a sua volta «l’azione tecnologica [che si basa sulla presunta ripetibilità dei fenomeni; A.F.] è possibile solo in quanto si ha fede, ossia non si dubita di ciò che la coscienza scientifica conosce come ipotesi e quindi come dubitabile».[24]
L’insieme di uomini e mezzi che esercitano la potenza nella sua forma moderna viene definito «Apparato tecnico-scientifico». Esso è sorto come uno strumento, in particolare del capitalismo, ma la competitività sfrenata con il socialismo reale e all’interno del capitalismo stesso, nonché la necessità dell’Occidente di mantenere la supremazia nei confronti del resto del mondo, avrebbero generato, secondo Severino, un’inversione da mezzo a scopo. E cita come precedente il suggestivo esempio del denaro, che, sorto inizialmente come strumento per far circolare gli oggetti, poi diviene scopo della produzione degli oggetti stessi, ormai concepiti come merci. Le ideologie e i sistemi economici sarebbero costretti dalla loro stessa logica interna ad aumentare indefinitamente la loro potenza tecnico-scientifica, fino a subordinare a questa e a snaturare progressivamente i loro scopi iniziali. Per es., secondo Severino, il crollo del socialismo sovietico non sarebbe dovuto a motivi economici e/o politici, ma all’esplodere della contraddizione insita nell’esistenza di un sistema con retaggi ideologici tali da costituire un ostacolo all’incremento della Potenza tecnologica. Stadio finale dell’evoluzione dell’Occidente (e, ormai, di tutto il pianeta), l’«Apparato» incarna e riassume l’esigenza di beatitudine del Paradiso cristiano, nonché esprime compiutamente il Superuomo nietzscheano. Esso non è neutrale e non può essere guidato: «Ha un’etica propria e un proprio scopo da realizzare: l’accrescimento indefinito della propria potenza».[25] Per questo inesorabile scopo, alcuna importanza possono avere ingiustizie e miserie, ma nel momento in cui ne fosse raggiunto il culmine, sarebbero possibili perfino l’«autogoverno democratico» dei popoli e il soddisfacimento di tutte le esigenze umane prima ineluttabilmente neglette perché considerate d’ostacolo al Fine ultimo e purché tali, naturalmente, da non pregiudicare la Potenza stessa, che assumerebbe i requisiti del Dio della tradizione.
Questa visione complessiva sembra distante dalla realtà. È vero che i sistemi economici affidano alla scienza e alla tecnica le loro ambizioni di supremazia, ma è anche vero che senza interessi pratici, concreti, e in particolare di una potenza sociale di cui il capitalista è l’agente, secondo la lezione di Karl Marx, questo «Apparato» non solo non sarebbe sorto, ma la sua evoluzione-corsa verso l’onnipotenza non avrebbe motivo di esistere. È vero che l’«Apparato» è prodotto dalla civiltà occidentale, ma sempre, con ogni evidenza, solo come strumento per l’ascesa indefinita di quel sistema di rapporti sociali e materiali che di questa civiltà è l’attuale, ma non necessariamente definitivo, compimento: il modo di produzione capitalistico. Ciò non toglie che in questo contesto l’«Apparato» possa anche assumere una connotazione mistica, un significato astratto, come la “merce” o lo “Stato democratico” di marxiana memoria, ma sempre e comunque in modo funzionale, come negli esempi citati, ai rapporti di forza nella società. In definitiva, se la fuoriuscita dal capitalismo sarebbe la Tecnica, cioè lo stesso principio di dominio espresso in modo asettico, metaforico e dunque innocuo, ci troviamo di fronte a una tesi inutilizzabile ai fini dell’emancipazione dell’uomo.
Il modello giapponese
Un significativo esempio di banalizzazione della realtà si nota nell’analisi, compiuta da Severino, del «modello giapponese». Per un verso essa è condivisibile: i principi socialdemocratici del welfare e della democrazia industriale sono estranei alla cultura giapponese, ma il prevalere pratico del modello di produzione nipponico, afferma Severino, non è un semplice fatto storico riguardante quella particolare civiltà. Tutto, però, si riduce alla riaffermazione del consueto schema generale: «Nel successo del modello giapponese dell’impresa si rende più visibile che altrove l’inevitabilità del processo in cui ogni forza ideologica [il sistema aziendale militarizzato impregnato di spirito nazionalista; A.F.] che tenta di controllare l’Apparato e di servirsene come mezzo per la realizzazione di uno scopo ideologico, è destinata a fallire e a subordinare la realizzazione dei propri scopi alla realizzazione dello scopo che l’Apparato possiede di per sé stesso».[26]
In tal modo, intanto, non si tiene conto che è il capitale ad appropriarsi di tutto ciò che favorisce i suoi scopi (come attesta appunto l’espansione del modello toyotista, e precedentemente fordista, con lo smantellamento e la sussunzione di modi di vivere, culture, nonché istituzioni preesistenti). Ma soprattutto qui non c’è coscienza, invece, del fatto che «la tecnologia viene inclusa come parte integrante della strategia aziendale, nello studio di quelle che complessivamente vengono definite ‘attività’ che creano ‘valore’, non in forma separata, tecnicistica e neutrale, ma a fianco del lavoro vivo rappresentato, quale risorsa fondamentale e centrale, come capitale umano. La razionalità del sistema viene spinta al di là della massimizzazione del profitto, il che non vuol dire che non sia più il profitto stesso il fine della produzione capitalistica, bensì che l’orizzonte decisionale deve progettare la profittabilità d’impresa in un più lungo andare, proprio per garantirne una permanenza certa a fronte del suo movimento in caduta».[27] Dunque l’applicazione della tecnologia in realtà viene sapientemente dosata dal capitale, poiché se diminuisce troppo la quota di lavoro vivo fornita dall’operaio, si verifica la temuta tendenziale caduta del saggio di profitto. Sono fattori di questo tipo, dunque, a risultare sempre preminenti e non, invece, lo sviluppo di questo fantomatico apparato fine a sé stesso. A chi analizza la nuova organizzazione tecnologica del lavoro, anche da un punto di vista cronologico risulta che essa è stata applicata solo come completamento di un precedente programma di ristrutturazione volto ad «aumentare intensità e condensazione del lavoro, e non la produttività»,[28] poiché è principalmente il lavoro vivo, umano, per ammissione degli stessi tecnici aziendalisti, che conferisce valore al prodotto finale, la merce. Certo Severino potrebbe affermare che da una contraddizione di questo tipo si evincerebbe solo un ipotetico singolo conflitto di interessi fra tecnologia e capitale destinato a risolversi, a lungo termine, con il prevalere della prima. Ma, daccapo, da dove trarrebbe , la tecnologia, questa presunta tendenza all’affermazione, essa che è sorta e sussiste totalmente sussunta al capitale, come ormai ogni realtà di questo pianeta?
Storia e ideologia
Funzionale e conseguente alla visione generale di Severino è una parte descrittiva contenuta nei suoi libri, dove più facilmente si può cogliere un determinato grado di distorsione. Citiamo solo qualche esempio: «Le democrazie prevalgono sulle dittature e i totalitarismi, lo stesso capitalismo non concepisce più sé stesso come legge naturale eterna».[29] Tesi opposta a quanto constatiamo giorno per giorno con la globalizzazione e tutta l’ideologia neoliberista che vi è cresciuta sopra, nonché con il tramonto dei principi giuridici fondamentali della civiltà occidentale. Inoltre, il Cristianesimo e la democrazia, anziché essere , caso mai, sostanzialmente funzionali o sovrastrutturali al capitalismo (sebbene la religione abbia ormai perso la funzione di legittimazione del potere e sia considerata solo un intralcio per la liberalizzazione consumistica dei costumi), secondo Severino sarebbero forme ideologiche in concorrenza con esso. Di conseguenza, «non si profila allora una situazione in cui anche il Cristianesimo e la democrazia dovranno o cedere alla strapotenza dell’organizzazione capitalistica della società, oppure resistere e organizzarsi secondo i criteri dell’efficienza scientifico-tecnologica, rinunciando sempre di più a se stessi?».[30]
Sinceramente, è difficile concepire dei “partigiani” del Cristianesimo o della “democrazia” impegnati in una corsa tecnologica per battere il capitalismo.
Ancora: «Il capitalismo dovrà rendersi conto che distruggendo la terra, distrugge sé stesso». Dunque esso sarebbe costretto a limitare la corsa al profitto per salvaguardare la base naturale della produzione economica, cioè, secondo Severino, a rinunciare a sé stesso e volgere al «declino».[31] Non solo sembra troppo debole e artificioso come argomento, ma allora, inoltre, il capitalismo sarebbe già declinato per il semplice fatto di aver consentito, a suo tempo, uno stato sociale.
Inoltre: «Oggi si riconosce che, contrariamente a quanto pensava Marx, la produzione capitalistica fa aumentare il livello di vita delle masse delle società industriali»,[32] affermazione, questa, che lasciamo alla riflessione del lettore sufficientemente informato sullo stato di cose esistente anche nelle “società industriali”, che vede un ineluttabile degrado della qualità di vita di masse sempre più imponenti.
Poi: il capitalismo si sarebbe convinto, a suo tempo, «che il perfezionamento del macchinario, il cui sottoprodotto era il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’elevazione del salario, avrebbe consentito un maggior incremento del profitto».[33] Ebbene, questo «miglioramento» e questa «elevazione» sembrano quanto meno discutibili. Inoltre, «il capitalismo è anche la forza che oggi consente la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra»,[34] e di conseguenza, secondo Severino, la sua esistenza sarebbe da considerarsi necessaria. Forse è così per la banale constatazione che si tratta dell’unico modo di produzione ormai rimasto e in ogni caso è il primo che non garantisce la sopravvivenza dei suoi schiavi salariati.
Proseguiamo con gli argomenti storici. La lotta contro il comunismo, nel dopoguerra, «per essere efficace doveva essere segreta», e quindi «inevitabilmente illegale (e chi se ne meraviglia e se ne scandalizza o è ingenuo o mente), giacché in regime di democrazia parlamentare tutto ciò che è legale deve essere pubblico».[35] Per cui, «sembra dunque necessario depenalizzare le forme illegali della lotta anticomunista,[36] tranne che nel caso del terrorismo di Stato, con relative stragi. Ma solo perché – si affretta a specificare il filosofo – ciò sarebbe improponibile davanti all’opinione pubblica… Infine Severino afferma che a suo tempo il Partito Comunista avrebbe rinunciato (sottinteso: a malincuore) alla sua scontata natura antidemocratica per adeguarsi ai canoni della Costituzione. Dunque il PCI avrebbe compiuto solo perché costrettovi dalla situazione internazionale post-bellica il doloroso passo di giungere al rispetto di quell’insieme di super-norme che esso stesso – ignora Severino – come grande componente della società, in sede di Assemblea Costituente, aveva grandemente contribuito a elaborare! E tutto il lungo travaglio degenerativo di questo partito, conseguente alla sua natura storicista e produttivista, dall’iniziale intransigenza bordighiana, alla guerra di posizione gramsciana, alla democrazia progressiva togliattiana, al consociativismo, ecc. fino allo auto-scioglimento finale, è rimosso in maniera stupefacente.
Si nutriva, dunque, la speranza di udire quasi un nuovo verbo o quantomeno di ricevere un conforto, da una sponda autorevole, nel confronto impari con il grigio “pensiero unico” filocapitalista dominante. Purtroppo, invece, nei suoi testi E. Severino elabora poche tesi tagliate con l’accetta, entro le quali costringe quella realtà che si vede andare in ben altre direzioni, compiendo così un’operazione avente lo scopo di comprovare la validità delle sue analisi sulla cultura occidentale e che diventa comunque funzionale all’ideologia dominante qualunque sia la sua intenzione soggettiva. C’è un aspetto sostanzialmente ignorato nella visione “politica” di Severino. Si tratta dell’aspirazione dei popoli al miglioramento delle condizioni di esistenza, che può essere più o meno consapevole o evoluta, ma è una forza sostanzialmente mai completamente riducibile alle costrizioni oggettive, economiche, politiche o “tecnologiche” che la comprimono.
Nelle analisi sull’esistente elaborate da Severino domina un pragmatismo cinico e assoluto. Dunque, per quanto il filosofo miri a porsi al di là di ogni parte ideologica , è difficile non scorgere in questa linea di pensiero delle conseguenze che infine si sposano con le istanze di una cultura di “destra economica”, per usare ancora questa vecchia categoria. Infatti il preconizzato trionfo del pragmatismo tecnologico non costituisce la vittoria di una tendenza neutra, bensì rappresenta l’affermarsi di un totalitarismo inedito, ma pur sempre classista. C’è il sospetto che Severino sia sostanzialmente ben accetto nel mondo della cultura dominante non solo perché considera ineluttabile il trionfo della Tecnica (cioè il capitalismo) come Heidegger e Galimberti, ma anche perché il suo ripristino dell’ontologia è apparente e fuorviante, dunque innocuo per il potere. Il concetto severiniano dell’essere (che lo scrivente ritiene inconcepibile, sul piano strettamente logico, senza il suo contraltare, il nulla) non ha niente a che fare con l’eternità dei significati umani,[37] né con la totalità sociale, e ovviamente, se si accetta la dottrina della deduzione sociale delle categorie , nemmeno con la interpretazione dell’essere parmenideo come metafora di una stabile e buona legislazione come difesa dall’attacco crematistico , interpretazione cara al compianto filosofo Massimo Bontempelli. Infine, l’estensione integralista del principio di non contraddizione alla nientificazione degli enti empirici ricorda – mutatis mutandis – l’arbitrarietà con la quale Engels applicò la dialettica hegeliana al mondo della natura. Tutto questo si può interpretare come l’apoteosi di un “intelletto astratto”.
Antonio Fiocco
Note
[1] E. Severino, Il declino del capitalismo, Rizzoli,1993.
[2] E. Severino, Il giogo, Adelphi,1989, pag. 61.
[3] Ibidem, pag. 85.
[4] Ibidem, pagg. 85-86.
[5] E. Severino, La filosofia futura, Rizzoli, 1989, pag. 10.
[6] Ibidem, pag. 16.
[7] Ibidem, pag. 119.
[8] E. Severino, Il giogo, op. cit., pag. 88.
[9] E. Severino, Destino della necessità, Adelphi,1980. Il saggio in questione è contenuto in questo testo.
[10] E. Severino, La filosofia futura, op. cit., pag. 17.
[11] Eschilo viene considerato da Severino come un grande filosofo che si esprime nella forma della tragedia.
[12] «La grandezza del pensiero greco porta sulla terra il bagliore della follia estrema in cui tutte le cose sono annientate», in: E. Severino, La guerra, Rizzoli, 1992, pag. 96.
[13] «Il dialogo è lo scontro tra due fedi, che ancora non si è tradotto nella bruta violenza fisica […]. Il dialogo è il momento teorico della violenza», in: E. Severino, La guerra, op. cit., pag. 85.
[14] Ma, se è così, non è una “fede” anche quella «filosofia futura» indicata dal Severino quale radicale alternativa al pensiero occidentale?
[15] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 106.
[16] André Lalande, Dizionario critico di filosofia, edizione italiana, Mondadori,1980.
[17] E. Severino, La guerra, op. cit., pagg. 21-22.
[18] Ibidem, pag. 136.
[19] Ibidem, pag. 70.
[20] Ibidem, pag. 96.
[21] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag.110: «Ogni decisione è dunque innocente. Innocente anche ogni uccisione».
[22] E. Severino, La guerra, op. cit., pag.134.
[23] «La religione, l’arte, la morale sono azioni tecniche che si trovano in contraddizione con la propria essenza tecnica e quindi sono destinate a risolversi in quella forma tecnica che non è in contrasto con la propria essenza», in: E. Severino, Destino della necessità, op. cit., pag. 250.
[24] Ibidem, pag. 390
[25] E. Severino, La filosofia futura, op. cit., pag. 114.
[26] Ibidem, pag. 81.
[27] Carla Filosa, Gianfranco Pala, La qualità è quantità: totale, in “Marx centouno” n. 15, pag. 61.
[28] Ibidem, pag. 59.
[29] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 18.
[30] Ibidem, pag. 51.
[31] «Il capitalismo è la volontà che il profitto non sia limitato da alcunché. Perseguire il profitto insieme a qualche altro scopo complementare – come la salvaguardia della Terra – significa uscire dal capitalismo», in E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 94. Infatti, per inciso, tutto indica comunque che il capitalismo non intenda salvaguardare la Terra.
[32] Ibidem, pag. 74.
[33] Ibidem, pag. 77.
[34] Ibidem, pag. 101.
[35] Ibidem, pag. 176.
[36] Ibidem, pag. 188.
[37] Per questo si rimanda al grande saggio di Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà, C.R.T.- Petite Plaisance.
Franco Lorenzoni, «I bambini pensano grande», Sellerio, 2014: «Tra le tante culture che ci sono al mondo, io credo che esista anche la cultura infantile»
Tra le tante culture che ci sono al mondo, io credo che esista anche la cultura infantile. Una cultura per sua natura provvisoria, perché riguarda il nostro incontrare e pensare il mondo nei primi anni, ma che in qualche modo sopravvive in parti profonde di noi tutta la vita.
È una cultura preziosa, perché vicina all’origine delle cose e capace di continuo stupore.
I bambini scambiano il dettaglio con il tutto, credono all’incredibile, non soggiacciono al principio di non contraddizione e, soprattutto, si sentono sconfinati, con le emozioni positive e negative che questo comporta.
Sconfinati e sconfinanti, perché bambine e bambini hanno un modo di rapportarsi ai confini molto diverso dal nostro. I confini tra mondo esterno e mondo interno, tra ciò che è vivo e ciò che non è vivo, tra percepire e immaginare non conoscono frontiere armate e passaporti, come per noi adulti.
I bambini attraversano continuamente questi confini e uniscono e mescolano mondi diversi, perché si mettono continuamente in gioco e credono nei giochi che fanno. I bambini, infatti, sanno credere e non credere a una cosa al tempo stesso, come avviene per anni con la storia di Babbo Natale.
Questa sospensione di incredulità è importante, perché è alla base di ogni arte e di ogni possibilità di godere dell’arte. Nella sospensione dell’incredulità, inoltre, sta la radice della possibilità di incontrare ed aprirci ad altri mondi ed anche la tensione, ancor più importante, a non accontentarci di come va il mondo.
Credo che non dovremmo dimenticare mai che di questa sospensione i bambini sono i nostri maestri.
Maestri troppe volte inascoltati.
Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande, Sellerio, 2014.
Franco Lorenzoni – “I bambini pensano grande…” – YouTube
Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia
Capita spesso, a chi si occupa di filosofia, di dovere difendere la propria disciplina dalle critiche di chi la ritiene inutile. Mi è capitato anche, durante le consuete domande finali che seguono gli incontri pubblici, di dovere rispondere a genitori preoccupati del fatto che il figlio si fosse iscritto alla facoltà di Filosofia, a causa della probabile disoccupazione futura che ne sarebbe derivata. Premesso che insegno, da una posizione accademica peraltro molto marginale, in una università pubblica, e che non ho dunque interessi privati da difendere, mi sono sentito in quelle occasioni di rassicurare questi genitori con il seguente argomento.
Se è vero – alcune università private forniscono statistiche differenti – che i laureati in Filosofia hanno scarse possibilità occupazionali, è altrettanto vero che questi ragazzi hanno la possibilità di acquisire una educazione alla vita (alla buona vita) non riscontrabile in alcuna altra facoltà universitaria. Ciò, purtroppo, non è vero sempre, in quanto dipende molto dai docenti che si incontrano, dalle letture che consigliano, dalla cura che manifestano per i propri studenti. Tuttavia, un giovane appassionato al pensiero che si iscrive a Filosofia, troverà sicuramente sulla propria strada quanto meno gli antichi filosofi greci, e da loro imparerà molto, anche ciò che serve a lenire le preoccupazioni economiche, comprensibili in un modo di produzione sociale conflittuale ed escludente.
Tutta la filosofia antica, da Omero ad Epicuro, ripete infatti in modo costante la necessità di avere ben chiaro il proprio limite umano, di mantenere la giusta misura, di non ricercare nulla di troppo, se si desidera vivere bene. Questi insegnamenti, opportunamente elaborati, costituiscono uno dei principali antidoti contro gli eccessi del nostro tempo. La modernità capitalistica propone il consumo come criterio della partecipazione sociale, il denaro come criterio del benessere individuale, ed il lavoro come criterio della realizzazione esistenziale: per questo motivo anche famiglie non disagiate si preoccupano eccessivamente della occupazione dei figli.
Chi legge starà forse pensando che non ho ancora risposto alla preoccupazione di quei genitori. In realtà penso di avere risposto, nei limiti in cui è possibile farlo. La risposta consiste nell’indicare che chi esce da una facoltà di Filosofia con delle buone basi classiche, interiorizza che l’uomo è limitato, e che dunque per vivere bene gli basta un numero limitato di cose. Chi interiorizza questa consapevolezza si rivolgerà forse verso una attività lavorativa meno remunerata, ma certo più ricca di senso e valore per la propria vita; una vita che, se pure lo condurrà a guadagnare meno, gli consentirà più facilmente di evitare quegli errori che spesso inducono anche chi ha buoni redditi a sperperarli, dietro la rincorsa affannosa del locale in cui passare il tempo, della costante organizzazione dei weekend, della ansiogena rincorsa all’ultimo bene di status.
Indubbiamente, mi si può rispondere che oggi non è facile neppure trovare quel tipo di lavoro minimale. Qui però il discorso si fa generale, e non riguarda più la facoltà di Filosofia, ma la totalità sociale complessiva. Finché vivremo in un mondo in cui il fine di ogni attività è il massimo profitto, sarà infatti sempre possibile la disoccupazione (la disoccupazione è come noto profittevole per il capitale, poiché riduce i salari). Solo quando riusciremo a realizzare un contesto sociale complessivo in cui sia prevista la collaborazione di tutti affinché nessuno manchi del necessario – un modello comunitario di società che Aristotele avrebbe definito “naturale” –, sarà possibile una ripartizione democratica del lavoro da svolgere e della produzione da realizzare, al fine della buona vita. Fino ad allora, ciò sarà impossibile.
La filosofia serve anche a far comprendere questi grandi orientamenti generali, ossia a mostrare che un altro mondo, migliore di quello attuale, è possibile. Essa dunque, specie nella sua originaria matrice greca, è vicina a quella concretezza da cui troppo spesso invece, soprattutto oggi – per colpa anche di alcuni “filosofi” –, si ritiene che faccia astrazione.
Luca Grecchi
Già pubblicato su “Sicilia Journal” del 20-11-2015.
Dello stesso autore nel Blog di Petite Plaisance:
A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare
Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo
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Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno
Luca Grecchi (1972), direttore della rivista di filosofia Koinè e della collana di studi filosofici Il giogo presso la casa editrice Petite Plaisance di Pistoia, insegna Storia della Filosofia presso la Università degli Studi di Milano Bicocca. Da alcuni anni sta strutturando un sistema onto-assiologico definito “metafisica umanistica”, che vorrebbe costituire una sintesi della struttura sistematica della verità dell’essere. Esso rappresenta, nella sua opera, la base teoretica di riferimento sia per la fondazione di una progettualità sociale anticrematistica, sia per la interpretazione dei principali pensieri filosofici. Grecchi è soprattutto autore di una ampia interpretazione umanistica dell’antico pensiero greco, nonché di alcuni studi monografici su filosofi moderni e contemporanei, e di libri tematici su importanti argomenti (la metafisica, la felicità, il bene, la morte, l’Occidente). Collabora con la rivista on line Diogene Magazine e con il quotidiano on line Sicilia Journal. Ha pubblicato libri-dialogo con alcuni fra i maggiori filosofi italiani, quali Enrico Berti, Umberto Galimberti, Costanzo Preve, Carmelo Vigna.
Libri di Luca Grecchi
L’anima umana come fondamento della verità (2002) è il primo libro di Grecchi, che pone, in maniera stilizzata, il sistema metafisico umanistico su cui sono poi strutturati i suoi libri successivi. La tesi centrale di questo libro è appunto che l’anima umana, intesa come la natura razionale e morale dell’uomo, è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere. Questo sistema metafisico costituisce la base per una analisi critica della attuale totalità sociale, e per una progettualità comunitaria finalizzata alla realizzazione di un modo di produzione sociale conforme alle esigenze della natura umana.
Karl Marx nel sentiero della verità (2003) costituisce una interpretazione metafisico-umanistica del pensiero di Marx, che viene analizzato nei suoi nodi essenziali, spesso in aperta critica con la secolare tradizione marxista. Nato originariamente come elaborazione degli studi di economia politica dell’autore compiuti negli anni novanta del Novecento, il testo assume carattere filosofico-politico. Marx è analizzato come il pensatore moderno che, rifacendosi implicitamente al pensiero greco, realizza la migliore critica al modo di produzione capitalistico, pur non elaborando – per carenza di fondazione filosofica – un adeguato discorso progettuale.
Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx costituisce in un certo senso una integrazione del precedente Karl Marx nel sentiero della verità. Il testo effettua una sintesi originale, appunto, sia della dialettica di Hegel che della teoria di Marx. Pur riconoscendo l’influenza del pensiero di Hegel nelle opere del Marx maturo, Grecchi propone la tesi che il pensiero di Marx, strutturatosi nei suoi punti cardinali prima del suo studio attento ed approfondito della Scienza della Logica, sia nella sua essenza non dialettico. Una versione sintetica di questo libro è stata pubblicata sulla rivista Il Protagora nel 2007.
La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio (2004) con introduzione di Franco Toscani, è una sintesi monografica sul pensiero del grande teologo scomparso nel 1996. Il testo presenta al proprio interno una analisi del pensiero ebraico e cristiano, unita ad una rilettura poetica ed umanistica del testo biblico. Il tema centrale è quello della morte, e della speranza nella resurrezione su cui Quinzio ripetutamente riflette, e che vede continuamente delusa. Al di là dei riferimenti religiosi, la riflessione del teologo si presta ad una profonda considerazione sulla fragilità della vita umana.
Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino (2005) con introduzione di Alberto Giovanni Biuso, è una sintesi monografica sul pensiero del grande filosofo italiano. Il testo presenta al proprio interno una analisi critica del nucleo essenziale della ontologia di Severino e delle sue analisi storico-filosofiche e politiche. Esiste uno scambio di lettere fra Severino e Grecchi in cui il filosofo bresciano mostra la sua netta contrarietà alla interpretazione ricevuta. Il testo, tuttavia, è segnalato nella Enciclopedia filosofica Bompiani come uno dei libri di riferimento per la interpretazione del pensiero severiniano.
Il necessario fondamento umanistico della metafisica (2005) è un breve saggio in cui, prendendo come riferimento la metafisica classica (ed in particolare le posizioni di Carmelo Vigna), l’autore critica la centralità dell’approccio logico-fenomenologico rispetto al tema della verità, ritenendo necessario anche l’approccio onto-assiologico. Per Grecchi infatti la verità consiste non solo nella descrizione corretta di come la realtà è, ma anche di come essa – la parte che può modificarsi – deve essere per conformarsi alla natura umana. Si tratta del primo confronto esplicito fra la proposta di Grecchi della metafisica umanistica e la metafisica classica di matrice aristotelico-tomista.
Filosofia e biografia (2005) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Umberto Galimberti. Nel testo si ripercorre il pensiero galimbertiano nei suoi contenuti essenziali, ma si pone in essere anche una serrata analisi di molti temi filosofici, politici e sociali, in cui spesso emerge una sostanziale differenza di posizioni fra i due autori. Di particolare interesse le pagine dedicate al pensiero simbolico, all’analisi della società, ed alla interpretazione dell’opera di Emanuele Severino. Percorre il testo la tesi per cui la genesi di un pensiero filosofico deve necessariamente essere indagata, per giungere alla piena comprensione dell’opera di un autore.
Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti (2005), con introduzione di Carmelo Vigna, è un testo monografico completo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo. Si tratta di un testo in cui Grecchi, sintetizzando la complessa opera di questo autore, prende al contempo posizione non solo nei confronti della medesima, ma anche di filosofi quali Nietzsche, Heidegger, Jaspers, che nel pensiero di Galimberti costituiscono riferimento imprescindibili. Vigna, nella sua introduzione, ha definito il libro «una ricostruzione seria ed attendibile del pensiero del filosofo» in esame.
Conoscenza della felicità (2005), con introduzione di Mario Vegetti, è uno dei testi principali di Grecchi, in cui l’autore applica il proprio approccio classico umanistico alla società attuale, mostrando come essa si ponga in radicale opposizione alle possibilità di felicità. L’autore, seguendo la matrice onto-assiologica del pensiero greco, mostra che solo conoscendo che cosa è l’uomo risulta possibile conoscere cosa è la felicità. Scrive Vegetti, nel testo, che Grecchi è «pensatore a suo modo classico», per il suo «andar diritto verso il cuore dei problemi». Il libro è assunto come riferimento bibliografico, per il tema in oggetto, dalla Enciclopedia filosofica Bompiani. .
Marx e gli antichi Greci (2006) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Costanzo Preve. Nel testo viene effettuata una analisi non tanto filologica, quanto ermeneutica e teoretica dei rapporti del pensiero di Marx col pensiero greco. I due autori, concordando su molti punti, colmano così in parte una lacuna della pubblicistica su questo tema, che risulta essere stato nel tempo assai poco indagato. Di particolare interesse l’analisi effettuata dai due autori di quale potrebbe essere, sulla base insieme del pensiero dei Greci e di Marx, il miglior modo di produzione sociale alternativo rispetto a quello attuale.
Vivere o morire. Dialogo sul senso dell’esistenza fra Platone e Nietzsche (2006), con introduzione di Enrico Berti, è un saggio composto ponendo in ideale dialogo Platone e Nietzsche su importanti temi filosofici, politico e morali: l’amore, la morte, la metafisica, la vita ed altro ancora. Scrive Berti, nella sua introduzione, che, come accadeva nel genere letterario antico dell’invenzione, Grecchi non nasconde lo scopo “politico” della sua opera, la quale «risulta essere innanzitutto un documento significativo di amore per la filosofia e di vitalità di quest’ultima, in un momento in cui l’epoca della filosofia sembrava conclusa».
Il filosofo e la politica. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la vita politica (2006) è una ricostruzione del pensiero filosofico-politico di Platone effettuata in un continuo confronto con le vicende della attualità. In questo libro Grecchi pone esplicitamente Platone, in maniera insieme divulgativa ed originale, come proprio pensatore di riferimento. Il filosofo ateniese infatti, a suo avviso, pur scrivendo molti secoli or sono, rimane tuttora colui che ha offerto le migliori analisi, e le migliori soluzioni, per pensare una migliore totalità sociale, ossia un ambiente comunitario adatto alla buona vita dell’uomo.
La filosofia politica di Eschilo. Il pensiero “filosofico-politico” del più grande tragediografo greco (2007) costituisce una interpretazione, in chiave appunto filosofico-politica, dell’opera di Eschilo. Lo scopo principale di questo libro è quello di “togliere” Eschilo dallo specialismo degli studi poetico-letterari, per inserirlo – come si dovrebbe fare per tutti i tragici greci – nell’ambito del pensiero filosofico-politico. Nel testo viene presa in carico l’analisi precedentemente svolta da Emanuele Severino ne Il giogo (1988), ritenendone validi molti aspetti ma giungendo, alla fine, a conclusioni opposte circa il presunto “nichilismo” di Eschilo.
Il presente della filosofia italiana (2007) è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i più importanti filosofi italiani contemporanei pubblicati dopo il 2000. Gli autori analizzati vengono ripartiti in quattro categorie: 1) pensatori “ermeneutici-simbolici” (Sini, Vattimo, Cacciari, Natoli); 2) pensatori “scientifici-razionalisti” (Tarca, Antiseri, Giorello); 3) pensatori “marxisti-radicali” (Preve, Losurdo); 4) pensatori “metafisici-teologici” (Reale). Il testo è arricchito da due appendici e da una ampia postfazione di Costanzo Preve. In questi testi Grecchi oppone criticamente, ai vari approcci, il proprio discorso metafisico-umanistico.
Corrispondenze di metafisica umanistica (2007) è una raccolta di testi in cui sono contenuti scambi epistolari, nonché risposte di Grecchi ad introduzioni e recensioni di suoi libri. Il testo rispecchia la tendenza dell’autore a prendere sempre seriamente in carico le altrui posizioni; secondo Grecchi, infatti, di fronte a critiche intelligenti, sono solo due gli atteggiamenti filosofici possibili: o fornire argomentate risposte, o prendere atto della correttezza delle critiche e rivedere le proprie posizioni. Il tema caratterizzante il testo è dunque la “lotta amichevole” per la emersione della verità.
L’umanesimo della antica filosofia greca (2007) è un libro in cui Grecchi effettua, in sintesi, la propria interpretazione complessiva della Grecità. Partendo da Omero, e giungendo fino al pensiero ellenistico, l’autore mostra come non la natura, né il divino, né l’essere furono i temi principali del pensiero greco, bensì l’uomo, soprattutto nella sua dimensione politico-sociale. L’uomo infatti assume centralità, in vario modo, in tutti i vari filoni culturali della Grecità, dal pensiero omerico a quello presocratico, dal teatro fino all’ellenismo.
L’umanesimo di Platone (2007) è un testo monografico sul pensiero di Platone, da Grecchi in quegli anni ritenuto come il più rappresentativo della Grecità. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse interpretazioni finora effettuate del pensiero platonico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Platone la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la centralità della posizione anti-crematistica, all’interno di una considerazione progettuale e della totalità sociale.
L’umanesimo di Aristotele (2008) è un testo monografico sul pensiero di Aristotele, che sarà poi da Grecchi ripreso negli anni successivi come struttura teoretica di riferimento. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse tematiche del pensiero aristotelico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Aristotele – così come in Platone, ma in forma differente – la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la centralità della posizione anti-crematistica, all’interno di una considerazione progettuale della totalità sociale.
Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? (2008), con introduzione di Giovanni Casertano, è un libro suddiviso in due parti. Nella prima parte, prendendo come riferimento alcuni fra i principali manuali di storia della filosofia italiani, Grecchi mostra come essi spesso non definiscano l’oggetto del loro studio, ossia la filosofia, dichiarandola talvolta addirittura indefinibile. L’autore, invece, offre in questo libro la propria definizione di filosofia come caratterizzata da due contenuti imprescindibili: a) la centralità dell’uomo; b) la ricerca, il più possibile fondata ed argomentata, della verità dell’intero. Nella seconda parte l’autore esamina dieci possibilità alternative su “chi fu il primo filosofo”, giungendo a concludere che, pur all’interno del contesto comunitario della riflessione greca, il candidato più accreditato risulta essere Socrate.
Socrate. Discorso su Le Nuvole di Aristofane (2008) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore Guida, di un discorso che avrebbe potuto essere tenuto da Socrate ad Atene l’indomani della rappresentazione della famosa commedia di Aristofane. Si tratta, come è nello stile della collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e spiritosa, in cui Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria interpretazione, insieme umanistica ed anticrematistica, del pensiero socratico. Tale interpretazione risulta convergente con quelle offerte, nella medesima collana, da Mario Vegetti su Platone e da Enrico Berti su Aristotele.
Occidente: radici, essenza, futuro (2009), con introduzione di Diego Fusaro, è un testo in cui l’autore analizza il concetto di Occidente e le sue tradizioni culturali costitutive, sempre in base al proprio sistema metafisico-umanistico. Analizzando le radici greche, ebraiche, cristiane, romane e moderne, ma soprattutto l’attuale contesto storico-sociale, Grecchi coglie nella prevaricazione derivante dalla smodata ricerca crematistica l’essenza dell’Occidente, ed individua per lo stesso un futuro cupo. Il testo è arricchito dal dialogo con Fusaro, alla cui introduzione Grecchi risponde in una appendice finale.
Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la buona vita (2009), è una raccolta di brevi saggi in cui l’autore, prendendo spunto da alcuni passi del pensiero platonico, e più in generale del pensiero greco classico, affronta sinteticamente alcune tematiche centrali per la vita umana (l’amore, la famiglia, la filosofia, la storia, le leggi, la democrazia, l’educazione, l’università, la mafia, la libertà, ecc.), col consueto approccio attualizzante, ovvero facendo interagire – nel rispetto del contesto storico-sociale dell’epoca in cui tale pensiero nacque – il pensiero platonico col nostro tempo. Il libro è arricchito da un lungo saggio finale di Costanzo Preve, intitolato “Luca Grecchi interprete dei filosofi classici Greci” (con risposta), in cui il filosofo torinese sintetizza le posizioni dell’autore.
L’umanesimo della antica filosofia cinese (2009) costituisce il primo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale (l’unica nel nostro paese effettuata da un solo autore). Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero cinese risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia cinese, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero cinese.
L’umanesimo della antica filosofia indiana (2009) costituisce il secondo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero indiano risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia indiana, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero indiano.
L’umanesimo della antica filosofia islamica (2009) costituisce il terzo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero islamico risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia islamica, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero islamico.
A partire dai filosofi antichi (2010), con introduzione di Carmelo Vigna, è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Enrico Berti. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, apportando interpretazioni originali non soltanto – anche se soprattutto – dei principali filosofi antichi, ma anche di quelli moderni e contemporanei. Non mancano inoltre considerazioni su temi di attualità, nonché su temi di interesse generale, quali l’educazione, la scuola e la politica. Scrive Vigna, nella introduzione, che «questo testo è tra le cose più interessanti che si possano leggere oggi nel panorama della filosofia italiana».
L’umanesimo di Plotino (2010) è un libro in cui l’autore colma una distanza temporale fra il periodo classico ed il periodo ellenistico della Roma imperiale. Il testo si divide in due parti. Nella prima, in ossequio alla tesi per cui ogni pensiero filosofico deve essere inserito all’interno del proprio contesto storico-sociale (anche in quanto è all’interno del medesimo che esso spesso “deduce” le proprie categorie), l’autore realizza una analisi del modo di produzione sociale greco e di quello romano, per tracciare alcune differenze importanti fra l’epoca classica e l’epoca ellenistica. Nella seconda parte, che è la più ampia, è invece analizzato, in base alle dieci tematiche ritenute centrali, il pensiero di Plotino.
Perché non possiamo non dirci Greci (2010) è un libro in cui l’autore sintetizza, in termini divulgativi, le proprie posizioni generali sui Greci. Il testo prende spunto dalla rilettura, in controluce, del classico di Benedetto Croce intitolato Perché non possiamo non dirci cristiani, per mostrare non solo come le radici greche siano almeno altrettanto importanti di quelle cristiane per la cultura europea, ma soprattutto che una loro ripresa sarebbe fortemente auspicabile. Il testo è completato da una ampia appendice inedita che costituisce una analisi critica del pensiero ellenistico (in rapporto a quello classico) incentrata sulle opere di Epicuro e di Luciano di Samosata.
La filosofia della storia nella Grecia classica (2010) è il testo ermeneutico forse più originale di Grecchi. Alla cultura greca si attribuisce infatti, solitamente, la nascita dei tronchi di pressoché tutte le discipline filosofiche e scientifiche tuttora studiate nella modernità (con varie ramificazioni). Tradizionalmente, tuttavia, la filosofia della storia è ritenuta essere disciplina moderna, senza precedenti antichi. Analizzando l’opera di storici, letterati e filosofi dell’epoca preclassica e classica, l’autore mostra invece le radici antiche anche di questo campo di studi, contribuendo ad un chiarimento teoretico della disciplina stessa.
Sulla verità e sul bene (2011), con introduzione di Enrico Berti e postfazione di Costanzo Preve, è un libro-dialogo con uno dei maggiori filosofi italiani, Carmelo Vigna. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, insieme agli importanti temi teoretici ed etici che danno il titolo al volume. Scrive Berti, nella introduzione, che si tratta di «una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa».
Gli stranieri nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore, prendendo distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano gli antichi Greci come vicini alla xenofobia, mostra che, sin dall’epoca omerica, essi furono invece aperti all’ospitalità verso gli stranieri. Preceduto da una analisi anti-ideologica delle categorie di “razza”, “etnia”, “multiculturalismo” ed altre, Grecchi rimarca come sia stato centrale, nel pensiero greco classico, il concetto di “natura umana”, il quale possiede basi teoretiche salde ed una costante presenza nella riflessione greca, che l’autore appunto caratterizza come “umanistica”.
Diritto e proprietà nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore prende in carico i temi poco indagati del diritto e della proprietà nella antica Grecia. Si tratta di temi molto importanti per comprendere il contesto storico-sociale in cui nacque la cultura greca, e che pertanto non possono essere ignorati da chi studia la filosofia di questo periodo. Il testo sviluppa inoltre un confronto con il diritto romano – che si rivela assai meno comunitario di quello greco – e con il nostro tempo, per mostrare come la cultura greca possieda, anche sul piano giuridico, contenuti che sarebbero tuttora importanti da applicare.
L’umanesimo di Omero (2012) è un libro in cui l’autore effettua una analisi teoretica ed etica del pensiero omerico, inserendo l’antico poeta nel novero del pensiero filosofico, rompendo il tradizionale isolamento nel campo letterario che da secoli caratterizza questo autore. Grecchi insiste in particolare sul carattere di educazione filosofica dei poemi omerici, mostrando come essi abbozzino temi ontologici e soprattutto assiologici poi elaborati dalla intera riflessione classica. Il testo si distingue per il continuo aggancio dei miti omerici alla contemporaneità.
L’umanesimo politico dei “Presocratici” (2012) è un libro in cui l’autore, centralizzando il carattere politico-sociale del loro pensiero, prende distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano questi pensatori come “naturalisti”, e che li separano sia dalla poesia e dal teatro precedenti, sia dalla filosofia e dalla scienza successive. L’autore, facendo riferimento agli studi di Mondolfo, Capizzi, Bontempelli e soprattutto Preve, mostra il nesso di continuità del pensiero presocratico con l’intero pensiero greco classico. Risultano centrali, in questa trattazione, le figure di Solone e Clistene, oltre a quelle più consuete di Eraclito, Parmenide e Pitagora.
Il presente della filosofia nel mondo (2012), con postfazione di Giacomo Pezzano, è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i maggiori filosofi contemporanei non italiani (fra gli altri Bauman, Habermas, Hobsbawm, Latouche, Nussbaum, Onfray, Zizek). Nella introduzione si rileva, come caratteristica principale della filosofia del nostro tempo, la presenza in solidarietà antitetico-polare di una corrente scientifico-razionalistica ed, al contempo, di una corrente aurorale-simbolica. Esse occupano il centro della scena escludendo dal “campo di gioco” la filosofia onto-assiologica di matrice classica, presente oramai solo in un numero limitato di studiosi.
Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi non si limita a descrivere il pensiero dell’autore considerato ma, come è nel suo approccio, valuta; in maniera solitamente concorde, eppure talvolta anche critica, in particolare nella opposizione fra metafisica classica e metafisica umanistica.
Il necessario fondamento umanistico del “comunismo” (2013) è un libro scritto a quattro mani con Carmine Fiorillo, in cui gli autori mostrano come la diffusa critica (marxista e non) al modo di produzione capitalistico, priva di una fondata progettualità, risulti sterile ed inefficace. Assumendo come base principalmente il pensiero greco classico (ma anche le componenti umanistiche di altri orizzonti culturali), gli autori mostrano che solo mediante una solida fondazione filosofica è possibile favorire la progettualità di un ideale modo di produzione sociale in cui vivere, che gli autori appunto definiscono – ma differenziandosi fortemente dalla tradizione marxista – “comunismo”.
Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia (2013) è un pamphlet in cui si mostra che le attuali modalità accademiche di insegnamento della filosofia, incentrate sullo specialismo, non ripropongono più il modello greco classico della filosofia come ricerca fondata ed argomentata della verità onto-assiologica dell’intero, che Grecchi assume invece ancora come centrale. L’autore mostra come la causa principale di questa situazione sia attribuibile ai processi socio-culturali del modo di produzione capitalistico.
La musa metafisica. Lettere su filosofia e università (2013), con Giovanni Stelli, costituisce uno scambio epistolare nato dal commento di Stelli al pamphlet Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia. A partire da questo tema lo scambio ha assunto una rilevanza ed una ampiezza tale, estendendosi a contenuti storici, culturali e politici, da renderne di qualche utilità la pubblicazione. In esso Grecchi anticipa alcuni temi portanti del suo testo che sarà intitolato Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere, cui sta lavorando dal 2003.
Discorsi di filosofia antica (2014) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sull’uomo nella cultura greca, da Omero all’ellenismo, tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2013. Esso accoglie inoltre i testi di alcune conferenze sul pensiero antico svolte dall’autore nel 2013 e 2014, ed in particolare, in appendice, un saggio inedito sulla alienazione nella antica Grecia. Quest’ultimo è un tema poco indagato in quanto mancano, alla mentalità filologica – poco teoretica – tipica del mondo accademico di oggi, i necessari riferimenti testuali (i Greci non avevano nemmeno la parola “alienazione”); questo saggio tuttavia può aprire un filone di ricerca su una tematica tuttora inesplorata.
Omero tra padre e figlia (2014) è un libro-dialogo con Benedetta Grecchi, figlia di 6 anni dell’autore, sulle vicende di Odisseo narrate appunto nella Odissea di Omero. Il testo costituisce – come recita il sottotitolo – una “piccola introduzione alla filosofia”, passando attraverso i contenuti educativi dell’opera omerica già delineati dall’autore nel libro L’umanesimo di Omero. Questo dialogo tra padre e figlia mostra come la filosofia possa passare anche ai bambini evitando, da un lato, di essere ridotta a “gioco logico”, e dal lato opposto di essere presentata come “chiacchiera inconcludente”.
Discorsi sul bene (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sul Bene tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2014. In appendice sono aggiunte una intervista filosofica e due relazioni su temi etico-politici. Il testo si rivela importante in quanto, all’interno di un approccio aristotelico – in cui in sostanza il Bene è il fine verso cui ogni ente, per natura, tende –, Grecchi indica nel rispetto e nella cura dell’uomo (e del cosmo: gli elementi portanti del suo Umanesimo) i contenuti fondamentali del Bene.
Discorsi sulla morte (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2015. L’autore, delineando le principali concezioni della morte presenti nella storia della filosofia, con particolare riferimento agli antichi Greci ed a Giacomo Leopardi, mostra come la rimozione di questo tema costituisca una delle principali concause di alcune psicopatologie del nostro tempo.
L’umanesimo della cultura medievale (2016) è un libro che raccoglie i contenuti umanistici del pensiero medievale. Rispetto alle interpretazioni tradizionali, ancora caratterizzate da una descrizione del Medioevo come età oscura, questo testo mostra il carattere umanistico in particolare della Scolastica aristotelica. Rispetto ai consueti autori di riferimento, ossia Agostino e Tommaso, particolare importanza è attribuita in questo volume a due autori del XIII secolo, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia (solitamente poco considerati), nonché alle ripetute condanne ecclesiastico-accademiche dell’aristotelismo che ebbero il loro punto culminante nel 1277.
L’umanesimo della cultura rinascimentale (2016) è un libro che critica la tradizionale interpretazione umanistica del pensiero rinascimentale del XIV e XV secolo. Rispetto, infatti, alla vulgata comune, che ritiene centrale in questo periodo la riscoperta filologica ed ermeneutica dei testi di Platone e di altri autori antichi, Grecchi reputa centrale la filocrematistica, e dunque la rottura – operata da modalità sociali sempre più privatistiche e mercificate, cui la cultura dell’epoca si adeguò – del legame sociale comunitario proprio dell’epoca medievale. Il Rinascimento costituì dunque, a suo avviso, la prima apertura culturale verso la modernità capitalistica.
In preparazione:
Umanesimo ed antiumanesimo nella filosofia moderna (e contemporanea);
L’umanesimo greco-classico di Spinoza;
Il sistema filosofico di Aristotele;
Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere.
Walter Benjamin (1892-1940) – Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera
«C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera».
Walter Benjamin, dalle tesi Sul concetto di storia, Einaudi, 1997, pp. 35.
Mary Cassatt (1844-1926)
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Petite Plaisance è lieta di annunciare l’uscita del volume
«TEATRO»
di Maura Del Serra
Mercoledì 25 novembre 2015
I 23 testi inclusi nel volume – scritti dal 1985 al 2015 – sono preceduti dall’Introduzione di Antonio Calenda e accompagnati da un’Appendice contenente le Introduzioni che comparivano nelle singole edizioni. Il prezzo di copertina del libro (864 pagine) è di Euro 35,00.
I primi 100 lettori che faranno richiesta del volume direttamente all’editrice (info@petiteplaisance.it) al momento dell’uscita del libro lo riceveranno al loro recapito al prezzo speciale di Euro 28,00.
Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento.
I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale.
In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.
Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, ha riunito la sua opera poetica nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010. Ha tradotto dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo e ha dedicato monografie e saggi critici a numerosi scrittori italiani ed europei.
Indice
Introduzione di Antonio Calenda
Nota cronologica ragionata
La fonte ardente. Due atti per Simone Weil
L’albero delle parole
La Fenice
La Minima
Andrej Rubljòv
Il figlio
Lo Spettro della Rosa
Specchio doppio. Favola drammatica
Agnodice. Commedia drammatica
Guerra di sogni. Mito futuribile
Stanze. Versi per la danza
Trasparenze. Versi per la danza
Sensi. Versi per la danza
Kass
Dialogo di Natura e Anima
Trasumanar. L’atto di Pasolini
Isole. Poema scenico
Eraclito
Scintilla d’Africa
Specchi. Cellula drammatica
La vita accanto
Isadora
La Torre di Iperione. Hölderlin e gli altri
Appendice
Mario Luzi: Introduzione a La fonte ardente
Daniela Belliti: Introduzione a La fonte ardente
Nino Sammarco: Introduzione a L’albero delle parole
Mario Luzi: Introduzione a La Fenice
Daniela Marcheschi: Introduzione a La Minima
Ugo Ronfani: Introduzione a Andrej Rubljòv
Giovanni Antonucci: Introduzione a Agnodice
Giovanni Antonucci: Introduzione a Guerra di sogni
Misha Van Hoecke: Nota a Stanze
Ugo Ronfani: Introduzione a Isole
Jacopo Manna: Introduzione a Eraclito
Marco Beck: Introduzione a Scintilla d’Africa
Cristina Pezzoli: Nota di regia a La vita accanto
Maura Del Serra – Wikipedia
Pagine di Maura Del Serra
ANTOLOGIA POETICA
Maura Del Serra, aforismi
Parole in coincidenza 8: Maura Del Serra tradotta da Dominique Sorrente
Maura Del Serra e Cristina Campo
Maura Del Serra, “Tentativi di certezza. Poesie 1999-2009”
Silvio Ramat: L’opera del vento, di Maura del Serra
William Gass (1924) – Sembra incredibile la facilità con cui sprofondiamo nei libri
«Sembra incredibile la facilità con cui sprofondiamo nei libri,
li attraversiamo, trasformiamo pagine clamorose in sogni senza suono».
William Gass, Fiction ad the Figures of Life.
Vladimir Nabokov (1899-1977) – Il miracolo di qualche segno sicritto sulla pagina
«Siamo assurdamente assuefatti al miracolo che qualche segno scritto possa racciudere immagini immortali, intrecci di pensiero, mondi nuovi, con persone vive che parlano, piangono, ridono».
Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, Adelphi, 2002
Alessandro Monchietto – Defatalizzare la realtà è il compito che ci attende
Intervista già pubblicata su:
Periodico di cultura, attualità e informazione del Centro Culturale ITALICUM
Anno XXX, Giugno 2015.
Nei giovani del XXI° secolo è ben visibile l’estinzione dell’eredità storico – culturale del ‘900. Nelle nuove generazioni sono assenti (tranne che in marginali minoranze), contrapposizioni e conflittualità ideologiche. Sono altresì scomparsi i pregiudizi ideologici e pertanto, è dato riscontrare nelle nuove generazioni una visione della realtà più razionale e disincantata rispetto ai giovani della seconda metà del ‘900. Non esiste tuttavia continuità storico – culturale tra le generazioni vecchie e nuove e quindi non esistono più nemmeno i necessari punti di riferimento politici e filosofici per la formazione di una nuova coscienza critica dinanzi alle problematiche della società capitalista globalizzata.
Spinoza ricordava che chi detiene il potere ha costantemente bisogno di raccontare a se stesso e agli altri che le persone sono affette da passioni tristi, nella consapevolezza che alimentare tali passioni serve a rendere sempre più passivi e assoggettabili gli uomini. Fedeli a tale assunto, gli attuali tutori dell’ordine simbolico continuano imperterriti a ricordare che, se dalla storia è lecito trarre ammaestramenti, uno di questi è sicuramente la certezza secondo cui i nostri strenui tentativi di “mettere le cose a posto” producono spesso ancor più caos e confusione, e che i nostri sforzi di eliminare contingenze e incidenti sono poco più che un gioco delle probabilità.
Ci viene dunque ripetuto che – come tutti gli abitanti del secolo breve hanno amaramente appreso – anche i piani più accurati e studiati nei minimi dettagli han l’odiosa tendenza ad andare storti e a sortire risultati ben diversi da quelli sperati. Davanti alle catastrofi mondiali, a quelle avvenute e a quelle incombenti, veniamo invitati ad abbandonare le “aggressività attivistiche” e a ritirarci nella confortevole sfera del lasciar stare. «Se non facciamo nulla – scrive a riguardo Peter Sloterdijk – non aizziamo neppure la tigre, dalla cui groppa non sarebbe poi agevole scendere; se si può “lasciar stare” non si verrà continuamente incalzati da progetti resisi autonomi. […] coltivando una prassi di sobria astensione, si eviterà di scatenare il circolo attivistico e vizioso della coazione a ripetere».
Stiamo vivendo in un periodo in cui la certezza che la storia avesse un senso (per dirla con Gaber «qualcuno era comunista perché noi siamo con la storia, perché la rivoluzione? …Oggi, no. Domani, forse… Ma dopodomani, sicuramente!»), un periodo in cui si era convinti che il capitalismo avesse “gli anni contati”, si è rovesciato dialetticamente nella sicurezza – tale da diventare un pilastro del senso comune – che il mondo che ci troviamo davanti è qualcosa di immodificabile e intrascendibile. Il sistema è un grande Moloch invincibile, contro cui è inutile battersi e cui al massimo si può strappare qualche concessione.
Se dovessi cercare un punto di continuità tra generazioni vecchie e nuove, tenderei a rinvenirlo proprio in questo atteggiamento fatalista, il quale recide alla radice ogni prospettiva di emancipazione, di corto come di lungo respiro.
Gli artefici della seconda restaurazione (cfr. A. Badiou, Il Secolo, Milano 2006), agghindati ancora dai loro abiti cognitivo-mentali da sessantottini gaudenti, hanno assunto come principale mansione l’avvelenamento dei pozzi da cui avevano bevuto in gioventù, in modo che nessun altro possa più abbeverarsi. Parallelamente le giovani generazioni, abbagliate dai racconti dei padri e intrappolate nel cono d’ombra da questi generato, si limitano a riproporre l’anacronistico teatro di strada dei genitori e/o a metabolizzare di riflesso la delusione sociale per una sconfitta che non gli appartiene e che non hanno mai vissuto.
Quel che loro rimane – o, più giustamente, ciò che ritengono sia loro concesso – è l’auto-relegarsi in una sorta di opposizione di sua maestà, che al più sfonda porte aperte ed esibisce insolenze calcolate. I ragazzi che corrono con caschi e scudi di plexiglass per le strade, che salgono sui monumenti, che appaiono e scompaiono nelle periferie e nelle banlieue dando fuoco ad automobili e bidoni della spazzatura, mostrano come la degenerazione della politica in una forma di spettacolo (G. Debord) ha non solo trasformato il fare politica in mera pubblicità (avvilendo il discorso politico e riducendo le elezioni a competizioni tra tifosi), ma ha anche reso sempre più arduo il compito di organizzare una reale opposizione politica.
Non serve a niente frantumare cabine telefoniche o incendiare auto se non si persegue uno scopo che integri l’atto vandalico in una prospettiva storica. La collera del distruttore di cabine e dell’incendiario si consuma infatti nella propria espressione: si limita al tentativo di fracassare la nebbia con un bastone.
Come notavi, è completamente assente una critica ragionata e ad ampio raggio dell’“edificio capitalistico”: gli odierni contestatori si contentano di mettere a soqquadro per un po’ una singola stanza, senza poi essere in grado di avanzare alcunché che non si riduca banalmente ad un generico rifiuto di intaccare l’attuale stato di cose. L’utopia che ci guida non è più un sovvertimento radicale della realtà, ma l’idea che sia possibile mantenere uno stato sociale all’interno del sistema: «trenta o quarant’anni fa – nota Slavoj Žižek – sognavamo il socialismo dal volto umano. Oggi, invece, l’orizzonte più lontano, più radicale, della nostra immaginazione è il capitalismo globale dal volto umano. Le regole del gioco restano le stesse, però lo rendiamo un po’ più umano, più tollerante, con un po’ di welfare in più».
La crisi sistemica tuttora perdurante nell’occidente e il fenomeno della precarietà immanente (cioè, oltre che economica anche esistenziale), che investe soprattutto le nuove generazioni, viene vissuta dai giovani del XXI° secolo come un insieme di destini individuali. Non si riscontra in essi la visione di un comune destino, non si generano cioè, forme di socialità e solidarietà comunitarie idonee a costituire un pensiero unitario per la formazione di nuove classi sociali che si contrappongano alle oligarchie dominanti.
Se – riassumendo quanto detto sopra – dovessi esprimere in una frase la caratteristica più importante dell’attuale situazione psico-politica occidentale, direi che l’indignazione (in particolare giovanile) non sa più produrre nessuna idea del mondo.
In una situazione caratterizzata dalla disfatta, dalla dissoluzione e dal discredito delle istanze critiche che hanno dominato il Novecento, e in assenza di una teoria che renda possibile trasformare l’indignazione in argomentazioni che si pongano sul terreno della ribellione razionale, si è fatto strada negli ultimi decenni il profilo di una società “ringhiosa”, in cui si lotta sempre più duramente per conservare ciò che si ha e si rischia di perdere, attraverso strategie rigorosamente individuali.
Oscillando senza tregua tra colpevolizzazione di sé e demonizzazione del mondo, gli odierni figli di un io minore vedono nella loro posizione sociale il semplice riflesso delle proprie capacità; si limitano pertanto ad auto-incolparsi delle ingiustizie subite, senza mai scandagliare la linea che segna il confine tra istanze sistemiche e istanze biografiche.
Da quando Margaret Thatcher ha sentenziato che la società – per la politica – «è morta», demandando qualsiasi responsabilità agli individui e costringendo i nuovi cittadini globali a trovare – come suggerito da Ulrich Beck – «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche» (detto altrimenti, a non fare più affidamento su alcun interlocutore istituzionale, ma solo sulle proprie capacità), è tramontato il vecchio concetto di Società ed è nata una nuova immagine del “sociale” come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più soli nelle proprie vite.
Nella seconda età del capitalismo (l’epoca – definita da Preve “dialettica” – del compromesso fordista, dall’avvento dello Stato assistenziale, ecc.), l’attività padronale era inquadrata da dispositivi regolamentari, da legislazioni fiscali, da strutture sociali, da tradizioni culturali, da una certa legislazione sul lavoro ecc. Il sistema era fondato su rapporti gerarchici di dominio all’interno dei quali era ancora possibile una certa contestazione: in tale situazione «il dominio del capitale si manifestava in modo esplicito come un rapporto di dominio fra persone» (B. Perret). Paradossalmente il rapporto gerarchico permetteva la contestazione, mentre oggi il nemico diventa del tutto impersonale.
In un capitalismo post-borghese e post-proletario ciò che sembra essersi rotto è proprio il legame che rapporta la felicità del ricco all’infelicità del povero; le sventure (individuali e sociali) non appaiono più come crimini di un nemico contro cui puntare il dito e unire le proprie forze per contrastarlo e farlo retrocedere, ma come colpi del destino inferti da forze misteriose nascoste dietro nomi bizzarri e impenetrabili come: mercati finanziari, condizioni globali di scambio, competitività, offerta e domanda.
Ogni soggetto è oggi portato a considerarsi e a comportarsi in tutte le dimensioni della sua esistenza come un portatore di capitale da valorizzare: nell’attuale epoca neoliberale la vita è una costante “gestione dei rischi” che richiede una rigorosa astensione dalle pratiche pericolose e il controllo permanente di sé. La vita pertanto si presenta unicamente come il risultato di scelte individuali: la malattia, la disoccupazione, il fallimento scolastico o l’esclusione sono considerati semplicemente conseguenze di “calcoli sbagliati”.
Tali problematiche confluiscono in una visione contabile dei capitali che ognuno accumulerebbe e gestirebbe per tutto il corso della vita. Le difficoltà dell’esistenza, l’infelicità, la miseria sono fallimenti di questa gestione, per difetto di lungimiranza, prudenza, fermezza di fronte ai rischi. L’individuo subisce così un addomesticamento delle proprie reazioni di indignazione, favorendo la rassegnazione o, in altri termini, la costruzione di una “predisposizione psicologica” a subire l’infelicità.
Secondo il dettato della “rivoluzione neoliberale” non si tratta semplicemente di trasformare tutti in tecnici o scienziati dell’economia, ma è in gioco qualcosa di più profondo: si può essere insegnanti, medici, editori, ma prima di essere questo si è economisti, nel senso che qualsiasi ambito professionale o persino personale comporta la gestione di ciò che si fa, delle risorse che si hanno e soprattutto di sé in quanto capitale, in quanto impresa da amministrare e che si auto-amministra. La funzione imprenditoriale appartiene al soggetto in quanto tale a prescindere da ciò che fa; tutto ciò che di specifico vuole essere può esserlo, ma a partire da il proprio amministrare, intraprendere, ecc.
La disoccupazione diffusa e l’emarginazione sociale vissuta dai giovani in questa contemporaneità capitalista producono un senso di estraneazione e rigetto nei confronti di questa società. Ma, mi chiedo, se è il disagio sociale a far sorgere nei giovani una coscienza critica, nei giovani che riescono poi ad accedere ad una condizione economica e professionale soddisfacente, tale coscienza critica viene meno. Anzi, per essi é del tutto naturale l’omologarsi all’ideologia delle classi dominanti. Lo stato di disagio sociale quindi, non determina forme di protesta interne al sistema capitalista considerato, seppure inconsciamente, immanente ed immutabile, data l’impossibilità di concepire un modello politico – sociale ulteriore e diverso?
A differenza di quanto viene continuamente ripetuto, non è tanto la scarsità di volontà politica che contraddistingue la gioventù flessibile e precaria di oggi, ma il fatalismo. Essa non soffre di uno scarso potenziale di ribellione, ma di un eccesso di gelo che si riflette nell’incapacità di catalizzare gli individui attorno a programmi di carattere generale: tale potenziale si dissipa immancabilmente in quel mosaico di movimenti costruiti attorno a una specifica causa ed una specifica occasione (diritto alla casa, lotta all’ennesima riforma del mercato del lavoro, TAV ecc.), in una forma di impegno che è sempre vulnerabile di interrompersi se non viene continuamente stimolata da fatti che la rendano attuale.
In assenza di una chiara nozione di sfruttamento e in assenza di speranze per un cambiamento sociale, il rifiuto dell’ingiustizia sociale è in un certo senso regredita al suo stimolo originario: la semplice indignazione. Oggi, di fronte ai rischi dell’esclusione, tutti sono partecipi di un sentimento di paura, per sé, per i famigliari, per gli amici o per i figli. Insomma, tutti sono consapevoli del fatto che ogni giorno in Europa aumenta il numero degli esclusi e si moltiplicano le minacce di esclusione, e nessuno può onestamente ripararsi dietro il velo di un’ignoranza che – in qualche maniera – lo assolverebbe.
Non tutti invece pensano che le vittime della disoccupazione, della povertà e dell’esclusione sociale siano anche vittime di un’ingiustizia. In altri termini, molti cittadini separano l’idea della sofferenza da quella dell’ingiustizia. Agli occhi di coloro che adottano tale dissociazione, la sofferenza patita è certamente una sfortuna, ma questa sfortuna non chiama necessariamente alla reazione politica. Può suscitare compassione, pietà, carità, ma non necessariamente rabbia o un appello all’azione collettiva.
Se è vero che negazione della realtà e percezione della possibilità sono due facce della stessa medaglia (P. Virno), l’incapacità di percepire il proprio ambiente come soltanto possibile e non necessario fa tutt’uno con l’incapacità di negarne in maniera esplicita la supposta naturalità, di negarne il carattere di inemendabilità e intrascendibilità, di negare che esaurisca tutti i modi possibili di essere della realtà, di negare che i suoi confini siano chiusi rispetto a ogni altro possibile diverso modo.
Come riattivare l’immaginazione e la speranza sociale dopo che il fallimento di un’esperienza storica enorme (il cosiddetto Socialismo reale), ma pur sempre limitata e puntuale, è stato trasfigurato in trauma politico assoluto?
La mia proposta (o meglio quello che non posso che definire un semplice “studio di fattibilità”) è avvicinarsi alla filosofia della storia – quel settore del pensiero che si occupa precisamente di ripensare il mondo come storia e dunque come possibilità – cercando di analizzarla attraverso la prospettiva della psicologia collettiva.
Partiamo da un presupposto: l’animale umano è storico, e tale termine va colto nel duplice senso per cui è aperto al processo storico e necessita di una storia in cui potersi inserire e riconoscere, vale a dire che ha bisogno di un contesto narrativo di cui prendere parte, tanto passivamente (sentirsi parte di) quanto attivamente (partecipare a). L’animale umano è un animale assetato di senso e di narrazione, che vive intrecciando storie e che costruisce la propria identità in maniera storico-narrativa.
In questo frangente la mia strategia – delineata in un breve saggio intitolato Per una filosofia della potenzialità ontologica – è di recuperare in modo consapevole, premeditato e provocatorio l’arma concettuale definita “filosofia della storia” (ritenuta da molti fuori corso, obsoleta, non più degna di plausibilità) cercando di sostituire alla prospettiva dell’«essere-secondo-necessità» la concezione dell’«essente-secondo-possibilità» (dynamei on).
I dispositivi di filosofia della storia sono dispositivi pesanti e anche pericolosi: la filosofia della storia nel momento in cui esce da un libro e diventa carne politica si ammanta di quella magica proprietà di dare un senso all’insensato; e l’insensato in politica è spesso la violenza. Un altro rischio è di arrivare all’idolatria del fatto, procurando una sorta di legittimazione “di alto livello” dei vincitori (come è stato spesso rimproverato a Hegel): l’ossessione del senso nelle vicende storiche porta infatti inevitabilmente alle grandi narrazioni e all’utilizzo (cosciente o meno) della quinta operazione, la quale fissa il risultato ancor prima di eseguire il calcolo. Tuttavia anche l’abbandono di ogni filosofia della storia implica dei prezzi da pagare, poiché comporta la difficoltà di immaginare un contesto in cui l’azione individuale possa essere riportata a forme di convergenza con l’agire degli altri.
Da una parte l’interpretazione della storia come continuum (come direzionalità) ha il grosso problema di poter saturare l’orizzonte della possibilità, dall’altra però lo sbriciolamento dell’accadere in contingenza – il totale sgretolamento di qualunque struttura collettiva di senso – abbandona l’individuo alla tragica percezione della propria impotenza e solitudine, ponendoci in condizioni di veri e propri ultimi uomini (cfr. D. D’Andrea, Etica e politica in Max Weber, Roma 2005).
Chi prende energicamente le distanze da ogni impostazione di filosofia della storia (magari salmodiando sulla “fine delle grandi narrazioni”), spesso si dimostra curiosamente pronto a riconoscere “tendenze macrosistemiche”, “logiche impersonali”, “imperativi funzionali”, nozioni che in definitiva sono il parente prossimo (secolarizzato, funzionalizzato) di quella stessa filosofia della storia tanto stigmatizzata.
Il discorso a mio modo di vedere andrebbe spostato sul tipo di filosofia della storia, ossia sulla tipologia, sul modo; una filosofia della storia costruita non per telos, non per “compimento” ma costruita per alternative, succedersi di alternative, succedersi di opportunità e di occasioni che al tempo stesso aprono e chiudono nuove possibilità; in sostanza una filosofia della storia senza una “trazione anteriore”, senza un’attrazione del fine.
Non necessariamente filosofia della storia vuol dire definizione e descrizione di un itinerario che termina con una “fine” o con un “compimento”. È possibile pensare a filosofie della storia di tenore tutt’affatto diverso, dove ci sia spazio per la contingenza e per un “orizzonte di possibilità”.
Data l’assenza di prospettive lavorative ed il degrado istituzionale endemico dell’Italia dei nostri giorni, l’emigrazione in altri paesi dell’occidente è divenuta per un giovane, oltre che una prospettiva, un’aspirazione legittima ad un destino diverso, quasi un mito di emancipazione collettivo. E’ però assente qualsiasi problematica riguardo il futuro del nostro paese, privato delle migliori risorse umane ed ostaggio delle oligarchie corrotte della politica, subalterne alla Nato ed alla BCE. L’emigrazione, in tale contesto non mi sembra dunque una opportunità, ma semmai un sintomo di rassegnazione, il simbolo di quel nomadismo produttivo prodotto dalla globalizzazione. Inoltre, nutro seri dubbi circa le possibilità per i giovani di oggi di affermazione professionale all’estero nel lungo termine. Nel sistema capitalista il lavoro precario è una condizione permanente ed imprescindibile. La forma merce è infatti estensibile anche alle risorse umane, destinate al consumo immediato ed alla rapida obsolescenza.
Purtroppo quello a cui stiamo assistendo è un processo di “mezzogiornificazione” dell’Europa così come definita dal Premio Nobel Paul Krugman, il quale evidenziava già nel 1991 che con la moneta unica l’Europa sarebbe stata investita da intensi processi di concentrazione della produzione e dell’occupazione nei paesi economicamente più forti, mentre le aree periferiche del continente europeo sarebbero state colpite da fenomeni di desertificazione produttiva e di migrazione verso l’estero.
Si assiste così ad un fenomeno – definito dagli esperti brain drain – per cui lavoratori qualificati, che non riescono a trovare lavoro nelle poche realtà italiane ancora produttive, finiscono per spostarsi in Paesi industrialmente più evoluti; e per converso, in Italia, alla scarsità di manodopera, si supplisce con il ricorso a stranieri, spesso non altrettanto qualificati, con la conseguenza che tale processo accelera la formazione di Paesi di serie A e di serie B anche all’interno della tanto acclamata eurozona.
I flussi migratori attuali hanno dunque effetti particolarmente perversi: lungi dal contribuire a guarire il mondo dai problemi scaturiti dall’esplosione demografica degli ultimi secoli, essi concorrono a mantenere strutture d’ineguaglianze di sviluppo su scala mondiale. Essi sono certamente una valvola di sfogo, calmano temporaneamente il male, ma non guariscono affatto il malato.
Nella storia del mondo, l’emigrazione ha sempre comportato una sconfitta e un dramma per chi se ne va e per la propria comunità. La novità dell’epoca attuale – a dispetto della retorica del cosmopolitismo – è tuttavia quella di apparire come la forma di società più dispendiosa e prodiga nello sprecare talenti umani che l’umanità abbia mai visto.
A fuggire oggigiorno sono quasi sempre giovani di alto profilo, ma essi non sempre riescono a svolgere all’estero il lavoro sperato. Come tu sottolineavi, sono sempre di più gli italiani che emigrano non per coronare il sogno professionale di una vita ma per fare lavori anche molto umili, spesso mansioni che in Italia – come si usa dire – “gli italiani non vogliono più fare”. Essi rifiutano, in patria, di assumere lavori da loro ritenuti ingrati (spazzino, cameriere, domestico, fruit picker), giungendo poi a svolgere le stesse attività lontano dagli sguardi della propria comunità di appartenenza.
Nella puntata di Ballarò del 22 ottobre 2013 la trasmissione di Giovanni Floris fece quello che probabilmente sarà ricordato come il primo servizio giornalistico della sua storia: un’inchiesta sulla diffusione dei mini-jobs, il contratto più frequente tra i giovani italiani emigrati nel nord Europa. La giornalista descrisse quello dei mini-jobs come un «meccanismo infernale», una specie di tunnel «dal quale è difficile uscire». Avendo diversi amici emigrati all’estero, posso garantire che la retribuzione prevista da tali contratti è talmente ridicola (nella maggior parte dei casi sotto i 500 euro al mese) da non garantire la sussistenza del lavoratore che la riceve; conseguentemente, per vivere, questi lavoratori hanno assoluto bisogno di percepire tutta una serie di aiuti e sussidi, che comprendono redditi di integrazione del salario, aiuti per il pagamento dell’affitto, buoni per il mantenimento dei figli ecc.
Per continuare a percepire tali sussidi, il lavoratore deve tuttavia dimostrare di meritarseli: in pratica, non può permettersi di rifiutare alcuna offerta di lavoro, qualsiasi essa sia, pena perdita del sussidio; e lo Stato, dal canto suo, può permettersi di esercitare un controllo invasivo e paternalista sui percettori dei sussidi, con un monitoraggio costante sulla loro situazione patrimoniale, sui movimenti di capitale, addirittura sulle loro abitudini di vita. Ritroviamo così, sotto una nuova forma, una politica (definita elegantemente Welfare to Work) che mira a penalizzare il lavoratore disoccupato, affinché sia per così dire incitato a ritrovare un lavoro il più presto possibile, senza potersi accontentare troppo a lungo degli aiuti ricevuti.
Sia detto tra parentesi: il lavoratore, che vede ridotto al minimo il suo potere contrattuale e anche la sua dignità, non rappresenta più un grande costo per l’azienda: attraverso questa nuova regolamentazione del mercato del lavoro (che viene percepita in Italia come un “modello da imitare”) le imprese ricevono, di fatto, un finanziamento pubblico, tanto che il giurista Luciano Barra Caracciolo ha parlato di indebiti aiuti di Stato, che potrebbero costituire una violazione dei Trattati europei da parte della Germania.
In conclusione, l’obiettivo delle élite non è più sopprimere in modo puro e semplice qualsiasi assistenza ai disoccupati, ma fare in modo che l’aiuto statale conduca a una maggiore docilità dei lavoratori privi d’impiego. Si tratta di fare del mercato del lavoro un mercato molto più conforme al modello della pura concorrenza, non per un semplice scrupolo dogmatico, ma per meglio disciplinare la manodopera sottomettendola agli imperativi della redditività.
I giovani vengono in tal modo rinserrati dietro le sbarre di un precariato dal quale non emergeranno i migliori, ma quelli della spina dorsale più flessuosa.
I giovani non rappresentano più l’avvenire della nostra società. Il ricambio generazionale è assente, il dominio delle geronto-oligarchie è evidente a tutti. La contestazione giovanile, fenomeno naturale e necessario per il rinnovamento della società è ormai un relitto storico del ’900. La giovinezza è una condizione naturale e temporale dell’uomo, così come la maturità e la vecchiaia. Oggi, la moda, la cultura, i costumi impongono un giovanilismo mediatico, artificiale, perpetuo. Questa società ha prodotto un individuo ibrido, senza età e senza personalità definita. Infatti si può essere solo giovani, o diversamente giovani, come diceva Costanzo Preve. Tu cosa ne pensi?
Gli uomini hanno sempre temuto la morte e insieme desiderato di vivere in eterno. Nondimeno, la paura della morte diventa più intensa in una società che ha abbandonato ogni ambizione emancipativa e che dimostra scarso interesse per la posterità.
Una società che teme di non avere un futuro non può infatti essere molto attenta ai bisogni delle nuove generazioni. La retorica giovanilistica che pervade la nostra società evidenzia l’indifferenza di chi ha ben poco da trasmettere alla generazione successiva e vede come prioritario il proprio diritto alla realizzazione di sé. Vivere per il presente – vivere per se stessi, non per i predecessori o per i posteri – è infatti l’ossessione dominante. Poiché il futuro si fa minaccioso e incerto, soltanto gli sciocchi rimandano a domani il divertimento che possono avere oggi.
La convinzione che la nostra società sia senza futuro, se da un lato si basa su una visione realistica dei pericoli che ci attendono, dipende simmetricamente da una incapacità narcisistica di identificarsi con le generazioni future o di sentirsi inseriti nel corso della storia. Stiamo perdendo rapidamente il senso della continuità storica, il senso di appartenenza a una successione di generazioni che affonda le sue radici nel passato e si proietta nel futuro. È la perdita del senso del tempo storico a generare l’indifferenza cui accennavi per le generazioni future, la quale si coniuga all’utopia tecnologica di un futuro liberato dal flagello della vecchiaia.
Come evidenziato da Christopher Lasch, il narcisismo emerge come forma tipica di strutturazione del carattere di una società che ha perso interesse per il futuro. Da un lato le coppie di sposi che rimandano o rifiutano la maternità e la paternità (spesso anche per indiscutibili ragioni pratiche), dall’altro i riformatori sociali che auspicano una “crescita di popolazione zero”, testimoniano il lento dissolversi di qualsiasi interesse per la posteriorità e l’incertezza diffusa rispetto all’interrogativo se la nostra società debba riprodursi o meno.
In questa situazione, il pensiero della nostra sostituzione definitiva e della nostra morte diventa assolutamente insostenibile e produce tentativi di abolire la vecchiaia e di prolungare la vita indefinitamente. Quando gli individui si scoprono incapaci di provare alcun interesse per quello che succederà nel mondo dopo la loro morte, aspirano a restare eternamente giovani e per la stessa ragione non desiderano più riprodursi. Quando la prospettiva di essere sostituiti da altri diventa insopportabile, il generare dei figli, garanzia di questa sostituibilità, viene visto come una forma di autodistruzione.
La personalità narcisistica non ha dunque alcun interesse per il futuro e non fa niente per procurarsi le tradizionali consolazioni della vecchiaia, la più importante delle quali consiste nel credere che le generazioni future continueranno la propria opera. Come scrive Lasch, questa era la situazione in cui in passato «amore e lavoro si fondevano nella sollecitudine per i posteri e in particolare nel tentativo di fornire alla generazione più giovane gli strumenti per poter portare avanti i compiti assunti da quella precedente. Il pensiero di continuare a vivere vicariamente nei nostri figli (più in generale, nelle generazioni future) ci aiutava a rassegnarci alla nostra sostituzione». Questa sollecitudine per i posteri è orientata a soddisfare il bisogno umano di trovare un senso all’esistenza e conseguentemente è in grado di mobilitare positivamente le energie delle persone. Gli uomini, l’unica specie che sa di dover morire, sono infatti anche, per compensazione, gli unici ad aspirare a una “compensazione postuma”.
Avviluppati in un orizzonte culturale che ha rinunciato al futuro, gli individui sembrano oggi privati degli stimoli a sacrificarsi per il bene dei figli e della società, regredendo a comportamenti infantili anziché applicarsi a raggiungere determinati obiettivi, e rinunciando all’atto maturo per eccellenza, che è quello della trasmissione.
Il totale sgretolamento di qualsiasi principio o forma di organizzazione degli eventi caratteristico di questo periodo storico ci pone – come dicevamo – in condizioni da ultimi uomini, abbandonati fatalisticamente all’alito gelido di una realtà che siamo stati istruiti ad accogliere come immodificabile.
Dal punto di vista di un’interrogazione storico-filosofica dell’oggi, questo immiserimento prospettico può essere combattuto comprendendo che il senso critico deriva necessariamente dal senso storico, che è in ultima istanza il senso della continuità.
La posizione umana nel mondo è a mio modo di vedere il prodotto di una immagine del mondo (Weltbild) o un immaginario sociale: la definizione del rapporto tra essere umano e mondo (che sia esso di adattamento, rifiuto, fuga, coinvolgimento e via discorrendo) passa attraverso immagini, o – più precisamente – il medium rappresentato da una qualche immagine del mondo che articola rappresentazioni, pratiche, percezioni, immaginari. Gli immaginari sociali rappresentano il luogo a partire da cui e in cui l’individuo si auto-interpreta, definendo i propri bisogni, aspettative e possibilità, organizzando le proprie strategie politiche e le prestazioni di cui può essere capace.
La cosiddetta “fine delle grandi narrazioni” è una grande frottola che ci si è voluti raccontare in questi ultimi decenni: il pensiero critico deve al contrario iniziare a proporne di nuove, smettendola di lasciare questo campo in mano ad altri.
Quella qui proposta è una modalità di ragionamento che parte dal presupposto secondo cui le immagini del mondo perimetrano un orizzonte di possibilità, e dall’idea che – come rilevato da Georges Sorel già a inizio Novecento – senza una credenza che dia senso ad una compagine di individui, non può darsi alcun tipo di associazione e dunque alcuna lotta. L’uomo è un essere narrante, e può rispondere alla domanda «Che cosa devo fare?» soltanto se riesce a trovare la risposta a una domanda antecedente: «Di quale storia o quali storie mi trovo a far parte?» (A. MacIntyre).
La filosofia ha dunque prima di tutto il compito di mettere in moto il movimento “a ritroso” e straniante per cui ciò che è o appare come reale viene colto come possibile, come concrezione più o meno felice di una precedente possibilità, che non era dunque certo l’unica e che non era perciò in grado di esaurire la ricchezza del possibile.
È a partire da tale aspetto che il pensiero critico deve muovere al fine di far vacillare l’ecosistema della rassegnazione: defatalizzare la realtà e immaginare un rapporto soggetto-storia aperto e problematizzante (che non si risolva cioè in una passiva accettazione del dato) è il compito che ci attende.