«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Passa come un filo trasparente e sottile tra le dieci Sibille che parlano nel libro di Margherita Guidacci, un filo fatto di vento, acqua, sabbia, nebbia, velo, tremore, tutto ciò insomma che è segno della mutevolezza del Tempo e della precarietà delle piccole grandi vicende che lo declinano e lo lasciano così sospeso sulla sua fragilità e sulla sua feroce tenacia. E nel passare quasi impercettibile di quel filo attraverso isole, mari, monti, valli, antri, brilla la tenacia delle cose che, perché sfuggono, esigono sempre nuovi accostamenti e svelamenti. Dalle piccole misteriose cose della terra al Mito. Così le Sibille, grazie alla voce innamorata di Margherita Guidacci e alla precisione delle sue conoscenze, percorrono a ritroso il tempo della storia sino alla sua radice mitica e rappresentano la possibilità del sentire e del conoscere di guardare ai suoi contenuti con quasi incantato distacco. Muovendosi dentro una loro personalissima Recherche, queste dieci Sibille ci rendono tutto l’oro dell’antico sguardo, conciliano colpe e pentimenti, allestiscono ponti tra terra e cielo, abbracciano i vivi e i morti e sembrano risanare con il balsamo della poesia quelle ferite su cui, loro malgrado, furono destinate a sollevare il velo. Davvero un libro prezioso questo di Margherita Guidacci, puntuale nei rimandi storici ed espressivo di tenera intenzionalità nell’incontro tra la sua voce e quella delle Sibille, che qui non pre-dicono, ma ricordano – e nella parola “ricordo” batte il cuore – sino alla dimensione confessionale dell’ultima parte in prosa in cui Margherita ci prende per mano e fiduciosa della nostra degnità, ci porta nel mondo intimo della casa, del suo tempo, delle sue amicizie mentre, lei Sibilla, cerca la parola-vaso in cui far cadere – o da cui trarre – il senso dolceamaro dell’effimero.
Danila Boggiano
Danila Boggiano È nata nel 1951 a Sestri Levante dove vive. Si è laureata in Filosofia all’università di Genova. Ha pubblicato le raccolte di versi Piccole foglie e sparse (S. Marco dei Giustiniani, 1997); La pazienza del tempo (Resine, 1999); La tessitrice di vento (Le Mani, 2004); Amorosi sentieri (Bastogi, 2008) e Inconsapevole musa (S. Marco dei Giustiniani, 2010). Cura il “Quaderno”, pubblicazione del Centro di cultura “Agave” di Chiavari. E naturalmente tiene conferenze e presenta libri, qui e là, dove capita e quando può.
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Nel tempo che stiamo vivendo viene imponendosi una specialissima forma d’estetismo, che tende a conferire alla tecnica le prerogative che un tempo erano peculiari dell’arte. Crescentemente l’estetico mostra di contrapporsi all’artistico e di volerlo soppiantare. Si esclude che l’arte, in qualunque modo, possa proporsi alla vita come modello alternativo, negandola nella sua immediatezza per porre l’esigenza di un suo rinnovamento radicale. Non per questo è lecito dire che ci troviamo in un momento poco favorevole all’estetica. A giudizio dei più, il mezzo per un’estetizzazione tendenzialmente totale della vita è costituito proprio dalla tecnica, la quale sembra in grado di realizzare cose prima impensabili, trasformando la realtà in un immenso, variopinto spettacolo, in una fantasmagoria simile a quella delineata con geniale preveggenza da Goethe nel secondo Faust. Se è vero che l’estetica quale discorso e riflessione sull’arte sembra ormai superata, non più che un orpello meramente decorativo, e se la stessa arte sembra condannata come qualcosa di ormai superfluo, non di meno si può dire che l’estetica, declinata in un modo che la renda complice della tecnologia, non sia mai stata così in auge. L’espansione tendenzialmente illimitata della tecnica reca con sé il fenomeno dell’esteticità diffusa. In Italia questo concetto è stato diffuso ormai trent’anni fa da uno dei maggiori teorici dell’estetica del Novecento – Dino Formaggio. Ma nel suo caso aveva un senso molto diverso da ciò a cui stiamo assistendo. Significava che l’arte non è slegata dall’esperienza, che non è distinguibile dal lavoro, e che i confini arte e artigianato sono spesso assai labili. Voleva dire conferire all’arte un ruolo assai importante in una civiltà degna di questo nome, riconoscendo che i suoi “prolungamenti” si espandono in tutte le direzioni, qualificando la realtà in tutti i suoi aspetti in senso simbolico. L’esteticità diffusa di cui si parla oggi è ben altra cosa. Non si tratta di riconoscere il ruolo della tecnica come modalità del fare artistico, ma della tendenza alla spettacolarizzazione totale. È alla tecnica che si conferisce la dignità estetica per eccellenza, alla tecnica quale sostituto dell’arte, la quale ormai appare disarmata e ridicola, quasi un segno di arretratezza in confronto con l’efficacia della tecnica, capace di cancellare le distanze, di alterare lo spazio e il tempo, d’imporsi come una sorta di nuova magia, potenziata dal dispiegarsi della ragione strumentale, non subordinata ad alcunché di esteriore e ignara di qualsivoglia finalità. La stessa distinzione tra mezzi e fini risulta ormai impensabile. Il mezzo s’impone come fine a sé, tendendo in tal modo a uno sviluppo illimitato. La tecnica si afferma nella sua totale autonomia e gli effetti che produce, in scala gigantesca, risultano sempre meno prevedibili e comunque assai difficilmente controllabili dall’esterno. È il resto a doversi sottomettere alla tecnica, non l’inverso. In questo senso può ben definirsi una favola. In altre parole, l’arte non è più una critica della tecnica volta al fine di disalienarla, riportandola alla dimensione del fare concreto: al contrario, la tecnica viene esaltata come “più estetica” dell’arte, capace di sprigionare un’energia decostruttiva, derealizzante. La tecnica viene esaltata come forza ludica, gioiosamente creativo-distruttiva, divenendo ormai una sorta di parodia satanica di ciò che un tempo si celebrava come autonomia dell’arte. Le conseguenze di un siffatto, inedito “estetismo” sono ben note: fine delle ideologie (comunque le si voglia intendere) , fine della storia, avvento del nichilismo come condizione di un libero gioco dei significati, che vicendevolmente si annullano nella gioiosa accettazione del non-senso. Informazione e cultura diventano spettacolo; i comportamenti si teatralizzano; ogni autenticità scompare; tutto si logora e consuma; le teorie si riducono a vaniloquio; trionfa la simulazione, adorata dai cultori più fanatici dell’informatica. L’arte finisce inesorabilmente ai margini, vivacchiando come può, in attesa di morire di disperazione. Perso il carattere romantico di rivelazione dell’assoluto, non più concepibile come vicario della rivoluzione o anticipazione della vera vita, sembra non avere più alcun diritto di sopravvivenza. Il suo destino è morire d’inedia. La sua stessa morte sembra aver perso ogni solennità, mentre il suo vincitore, la tecnica, può scatenarsi senza più alcun disturbo, promuovendo un’esteticità trionfante che si gloria del crollo di qualsivoglia sistema di valori. Etica ed estetica, che nell’arte, pur conflittualmente, si richiamavano a vicenda, si separano a detrimento della prima, incapace di resistere ai continui attacchi dell’altra. Quei prodotti a cui si vuole ancora dare il nome di opere d’arte non sono in realtà che delle contraffazioni. La tecnica è più capace dell’arte, la quale, a confronto, sembra assai rozza. Raggiunge una perfezione prima impensabile, ma in una totale falsità. La conseguenza ultima di tutto questo è la perdita irreparabile della dimensione del sacro e di ogni senso del mistero. Il tramonto dell’arte lede fibre prima vitali mettendo in questione la nozione stessa di uomo.
Tito Perlini, Le spectacle réussira-t-il à tuer l’art?, «Catholica» – Autunno 1997, tr. di E. Cerasi: Lo spettacolo ucciderà l’arte?, in Id., Attraverso il ninichilismo. Saggi di teoria critica, estetica e letteratura, Prefazione di C. Magris, a cura di E. Cerasi, Nino Aragno Editore, Torino 2015, pp. 641-643.
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L’incomprensione del presente cresce fatalmente dall’ignoranza del passato.
Marc Bloch,Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino 1969.
L’errore non si propaga, non si amplia, non vive […] che ad una condizione: trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole. In essa, incosciamente, gli uomini esprimono i loro pregiudizi, i loro odi, i loro timori, tutte le loro emozioni forti. Grando stati d’animo collettivi sono i soli ad avere il potere di trasformare in una leggenda una percezione distorta.
Ma in merito a esse la storia non ci arreca se non insufficienti chiarimenti. I nostri antenati non si ponevano affatto questo tipo di problemi; essi rigettavano l’errore quando l’avevano riconosciuto come tale; non s’interessavano al suo sviluppo. E per questo che le indicazioni che ci hanno lasciato non ci permettono di soddisfare le nostre curiosità, ch’essi ignoravano. Lo studio del passato deve, in questo campo, basarsi sull’osservazione del presente. Lo storico che cerca di capire la genesi e lo sviluppo delle false notizie, deluso dalla lettura dei documenti, penserà naturalmente a rivolgersi ai laboratori degli psicologi. Gli esperimenti che vi s’istituiscono quotidianamente sulla testimonianza, saranno bastevoli a fornirgli l’insegnamento che l’erudizione gli nega? Non credo affatto; e ciò per svariate ragioni.
[…] La falsa notizia di stampa ha certo il suo interesse: ma a condizione che se ne riconoscano i caratteri tipici. Di solito essa rappresenta qualcosa d’assai poco spontaneo. Senza dubbio talvolta capita che una voce, diffusa nel paese, o in un certo gruppo sociale, sia riportata, in piena buona fede, da un giornalista; vi sarebbe molta ingenuità nel negare ai reporters ogni ingenuità. Ma nella maggior parte dei casi la falsa notizia di stampa è semplicemente un oggetto fabbricato; essa è forgiata dalla mano d’un professionista con uno scopo preciso, per influenzare le opinioni, per obbedire a una parola d’ordine […].
Una notizia falsa nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; essa non è casuale se non in apparenza, o, più precisamente, tutto ciò che v’è di fortuito in essa è l’incidente iniziale, assolutamente casuale, che scatena il lavorio delle capacità d’immaginazione, ma questa messa in moto non ha luogo se non perché le immaginazioni sono già pronte e in silenzioso fermento. Un avvenimento, una percezione distorta per esempio, la quale non andasse nel senso in cui già propendono gli spiriti di tutti, tutt’al più potrebbe costituire l’origine d’un errore individuale, ma non una falsa notizia popolare e ampiamente diffusa. Se ho l’ardire d’utilizzare un termine cui i sociologi hanno dato un valore secondo me troppo metafisico, ma che è comodo e dopo tutto ricco di senso, la falsa notizia è lo specchio in cui «la coscienza collettiva» contempla le sue fattezze.
Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Introduzione di Maurice Aymard. Traduzione di Gregorio De Paola, Donzelli, Roma 2004.
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[…] Si tratta di porre queste domande: si capisce la musica? e come si capisce? e di purificare le nozioni in esse contenute dalle imprecisioni e dalle inesattezze che la sbadataggine approssimativa del parlar corrente, senza riflessione, può avervi annesso. Un primo fatto si deve osservare, nel quale le opinioni ricevute divergono dalla realtà e dànno luogo a errore. Si dice comunemente: «lo non capisco la musica» o: «il tale capisce la musica», come se capire o non capire la musica fossero due condizioni ben distinte, separate con un taglio netto e tali che si debba uscire interamente dall’una per entrare nell’altra: come si passa dalle tenebre alla luce girando la chiavetta dell’interruttore. Quest’opinione, sanzionata nell’uso comune della lingua parlata, è la più erronea che si possa tenere sull’argomento e fuorvia terribilmente da ogni retta nozione di ciò che sia capire la musica. Capire la musica è una facoltà, che può essere più o meno sviluppata, come correre, far la lotta, disegnare, discorrere amabilmente in conversazione, ma non avviene mai che manchi totalmente in un individuo; non si dà quindi il caso limite di qualcuno che non possegga affatto questa facoltà e che, per mezzo di qualche studio o di qualche cura, riesca ad acquistarla. Sebbene sia possibile perfezionarla e affinarla con l’esercizio. Capire o non capire la musica sono espressioni sbrigative ed esagerate, come: capire o non capire la matematica. In realtà, anche chi viene giustamente classificato tra le persone che «non capiscono la matematica», ne capisce sempre abbastanza per controllare se il negoziante lo truffa nel dargli il resto e per fare quei quattro conti de le necessità della vita ci impongono. Sono quindi infiniti i gradi attraverso cui si dispone negli individui la facoltà di comprendere la musica[…] Vediamo di ragionarci sopra e di cavarne qualche insegnamento, principalmente questo: che nella musica non c’è altro da capire se non la musica stessa. Cosa credete infatti che Mozart avesse capito nel Miserere di Allegri? forse qualche misterioso e recondito senso che rimaneva chiuso ai comuni mortali, al di là delle note di musica? Ma no, semplicemente aveva capito molto bene le note, tanto bene da ricordarsele tutte, una per una, quelle migliaia di note che compongono il Miserere di Allegri. Non si tratta di sentire qualchecosa di più che gli altri, ma di capire più o meno bene quello che tutti sentiamo con le nostre orecchie. Invece è incredibilmente alto il numero di persone per cui gustare la musica significa abbandonarsi, ben rincantucciati nella loro poltrona, a una specie di nirvana con produzione di oziose fantasticherie[…] Per quanto si sia combattuto contro questo errore, che fa della musica un semplice titillamento dell’immaginazione, relegandola nella funzione d’una qualsiasi droga stupefacente, come l’haschisch o l’oppio, esso risorge sempre nella maniera più pervicace e dove meno uno se l’aspetterebbe. Non solo le sale da concerto son sempre piene di gente che pratica questo innocuo vizietto, il che sarebbe il minor male; ma ogni tanto c’è qualcuno che salta su con gran sicumera a predicare che questo è il vero modo d’intendere la musica e che ogni altro è semplicemente indice di aridità sentimentale e di cerebralismo […]. Questo modo d’intendere, o meglio di fraintendere la musica, viene dedotto per analogia dal modo che teniamo continuamente, in ogni ora della nostra giornata, per intendere la parola parlata o scritta, quando venga usata non già per un fine artistico, ma per scopi di pratica comunicazione. In questi casi la parola viene usata come un simbolo: non è lei che conta, non è lei il fine ultimo per cui l’impieghiamo, ma veramente dietro di lei c’è qualcosa a cui si tratta di pervenire, a cui facciamo pervenire gli altri per mezzo della parola, e questa non ha che un valore strumentale. Questa radicale differenza di natura che c’è tra la musica (o l’arte, in genere) e i discorsi di pratica comunicazione, si manifesta in piena luce nella possibilità che quest’ultimi presentano, di lasciarsi riassumere, mentre è evidentemente impossibile riassumere una sinfonia o un quartetto. Una sinfonia è semplicemente se stessa: le proprie note, dietro le quali non c’è niente che si tratti di andare a scoprire e che si possa rendere con parole. (Naturalmente, sarebbe un grossolano errore credere che una sinfonia si riassuma citandone i temi fondamentali: non si riassume un bel niente perché la musica consiste proprio in quello sviluppo dialettico che muove dai dati tematici iniziali. La citazione dei temi può servire molto bene a ricordare la sinfonia a chi l’abbia già sentita, o tutt’al più a suggerirne, a chi non la conosce, una pallida idea, ma nessuno ardirebbe dire di conoscere una sinfonia per averne sentito i temi). Del resto, la parola stessa tende a questa condizione di insostituibilità, appena cessi di venire usata per scopi pratici di comunicazione e si sublimi in poesia. E quanto più ci si accosti alla poesia più vicina a noi, tanto più si fa evidente questa fuga dalla poesia di ogni elemento concettuale da cogliere al di là della parola. Capire la musica, dunque, e non qualchecosa che se ne stia appiattato dietro la musica, è un’operazione attiva dell’intelligenza e della memoria attentissime quella a cogliere e questa a ricordare tutti i nessi e i rapporti che legano nel tempo le labili apparizioni sonore. Occorre insistere su questo elemento di collaborazione attiva che si richiede all’ascoltatore, e che implica necessariamente una tensione mentale e quindi una fatica, perché è opinione antica e diffusa che la musica sia invece un godimento passivo, una distensione e un abbandono alla fantasticheria irresponsabile. «Che mi solea quetar tutte mie voglie», dice Dante dell’amoroso canto di Casella.
Massimo Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Einaudi, Torino 1965, pp. 51-55.
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“Se esiste chi ti dà la libertà, quella non è libertà. Perché sia libertà, nessuno te la può dare: devi prenderla tu, tu solo!“
José Dolores (Evaristo Marquez, nel film di Gillo Pontecorvo, «Queimada» [1969])
Si può ascoltare l’intero dialogo nelle sequenze del film Queimada, che mostrano la cattura del combattente rivoluzionario José Dolores da parte dell’imperialismo inglese impersonato da William Walker (Marlon Brando), cliccando qui:
L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management. Vera libertà è emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia nella comunità liberata dai postulati del plusvalore
Diversity Management Il dispositivo di inclusione agisce ad ogni livello. Proliferano figure professionali che operano capillarmente nella pancia del sistema. Il controllo è mascherato con la menzogna conosciuta. Si invoca l’inclusione, si applaude all’assimilazione per neutralizzare la possibilità di percorsi alternativi. L’inclusione riporta ogni gruppo umano all’interno del sistema per normalizzarlo ed evirarlo del potenziale rivoluzionario ed emancipativo. Si invoca la democrazia, in realtà si organizzano pratiche di gerarchizzazione verticistica. Il diversity management (gestore delle differenze) è la nuova figura professionale addetta all’inclusione; le aziende private possono usufruire del manager delle differenze al fine di aumentare la produttività. Il gestore delle differenze nelle aziende ha il compito di favorire l’integrazione: è il manager-tutor, la cui presenza denuncia un pregiudizio atavico, ovvero i diversi non hanno capacità decisionali e relazionali autonome, ma – da figli di un dio minore – devono essere accompagnati nell’integrazione aziendale. Il manager deve agire allo scopo di includere per curvare la creatività dei diversi verso la produzione. I “creativi-diversi” devono avere nel manager un punto di riferimento che interviene per evitare conflitti e contradizioni che possano minacciare la capacità competitiva dell’azienda. Il fine è la governance dell’azienda, la produzione rallenta qualora vi siano ostilità striscianti e non. Invece, puntando sulla valorizzazione inclusiva, si incentiva la capacità di competere dell’azienda e il suo successo sul mercato. I diversi sono “notoriamente dei creativi”: anche questo è un pregiudizio, non li si riconosce come “persone”, ma come “creature speciali e divergenti” da usare all’occorenza. La frontiera dello sfruttamento ha trovato una nuova miniera da cui attingere risorse a basso costo. Soggetti fragili e disponibili alla gratitudine verso coloro che “li accettano e accolgono” facilmente si lasciano usare dal sistema, in quanto non discernono nell’abbaglio di una normalità agognata e mai conosciuta l’uso strumentale che, ancora una volta, si fa di essi. La trappola è palese: usare le differenze per farne la pattuglia di difesa dell’azienda, e spingere l’incluso a dipendere dalla famiglia-azienda fino a richiedere che lavori creativamente, spontaneamente e volontariamente al massimo delle sue possibilità. Il dispositivo di inclusione sterilizza la prospettiva critica di coloro che spinti ai margini con maggiore chiarezza possono elaborare percorsi emancipativi di uscita dal sistema.
Collaborazione produttiva La relazione comunitaria nella quale i soggetti si confrontano e affrontano per creare il mondo con il logos e con la potenza della parola è sostituita con collaborazione produttiva. Le differenze si trascendono nel comune obiettivo della squadra aziendale: vincere e competere. Sono private della forza plastica creativa per essere orientate verso l’utile. L’inclusione diviene un meccanismo di depauperamento della dialettica dell’esodo dal sistema. Al suo posto vige l’azienda con il diversity management che omogeneizza i comportamenti e gli obiettivi. In tal modo elimina le differenze, le rende secondarie: alla fine della rieducazione i lavoratori sono posti sulla stessa linea di intenzioni e valori. Alla conclusione del percorso non deve restare che l’asservimento al mercato. Le donne, le persone omosessuali, i disabili sono, ancora una volta, umiliati e offesi perché usati dal sistema che ne negava le identità, e che ora, con una torsione ideologica, li utilizza come alfieri nella difesa del mercato che li accoglie, ma chiede loro di rinunciare alle loro identità, di assottigliarle fino a farle vaporare. Le differenze divengono flatus vocis, propaganda neoliberale alla ricerca di consensi e di servi fedeli dinanzi alle sempre più palesi contraddizioni del sistema capitale. Sono oggetto di una gestione psicologica e burocratica, e in tale gestione dall’alto l’autonomia è ceduta all’azienda che con il suo apparato stabilisce strategie, linguaggi e tattiche mediante le quali trasformare i creativi in un’occasione di espansione e consolidamento nel mercato. La valorizzazione delle competenze e delle abilità porta al potenziamento dell’organizzazione, la quale gradualmente diventa un corpo unico in posizione d’attacco. Il diversity management deve valorizzare (e agire su) una serie di differenze classificate in diversità primarie e secondarie, le prime sono:
cultural diversity
gender diversity
ageing diversity
disability diversity
Anche le diversità secondarie devono essere valorizzate: il background educativo, l’età, l’esperienza lavorativa, la situazione famigliare. La diversità secondaria è acquisita con l’esperienza esistenziale. Il diversity management è in realtà un supervisore che deve trasformare ogni potenzialità in investimento che produce plusvalore per l’azienda.
Integralismo aziendale L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management il quale ha il compito di sfruttare tutte le componenti dell’azienda e di rappresentare la strategia come “inclusiva” e “positiva”. Deve pubblicizzare la politica di accoglienza aziendale in modo da ottenere consenso sul mercato e vendere il prodotto inclusione come qualsiasi merce, lo scopo è aumentare la produttività del 20 % o 30%. Le persone dal sistema azienda non sono valutate per il loro valore irrepetibile, ma per il successo lavorativo, pertanto possiamo facilmente dedurre che nel caso i creativi non producano secondo le aspettative saranno ricondotti alla loro marginalità. Le aziende, inoltre, con l’inclusione manipolano l’opinione pubblica, si autorappresentano come i trombettieri delle differenze con il sostegno dei media che creano un frame della libertà e dell’inclusione finalizzato a consolidare il neoliberismo e a rimuovere le critiche e le verità che mettono in dubbio la gabbia d’acciaio dell’aziendalismo. Le aziende – per acquisire consensi sul mercato – pubblicizzano l’integrazione, che diviene pubblicità a buon mercato. La precarietà, i morti sul lavoro, l’ineguaglianza sociale e i diritti sociali sono rimossi dall’orizzonte cognitivo della collettività che si limita a ripetere le formule verbali del sistema. L’azienda si fa artefice del rispetto verso i diversi e nel contempo è complice dello sfruttamento delle nazioni in perenne sviluppo economico costretti all’emigrazione. Gli emigrati rientrano nell’operazione di inclusione del diversity management, per cui il mercato neoliberale costruisce una cornice positiva di se stesso da vendere e ciò gli consente di sfruttare e saccheggiare le nazioni che accettano gli investimenti e di precarizzare in patria ogni componente lavorativa. Le differenze sono in questo contesto “risorse umane”, materia prima da convertire in artiglieria nella competizione per l’assalto al mercato. Le diversità vengono annichilite nel loro valore identitario per essere addomesticate nel sistema della produzione e del consumo infinito. Il capitalismo vincerà sempre sin quando il frame di sistema non sarà oggetto di critica e prassi. Per rompere la cornice della propaganda sono indispensabili le domande e la problematizzazione delle parole. Il diversity management è il gestore delle differenze e ciò presuppone un concetto di normalità quale paradigma con cui valutare e definire le alterità; in questo caso la normalità è la forma mentis aziendale, per cui si mette in atto un nuovo tipo di internamento celato da inclusione. Le forme dell’internamento variano nel tempo, ma hanno sempre il compito di dominare per consolidare il presente. Le differenze producono saperi divergenti che vengono assoggettati e normalizzati con l’inclusione. Il dispositivo di normalizzazione mette in atto nuove strategie di internamento difficili da riconoscere, agisce sul linguaggio in modo che le parole non corrispondono all’azione. È necessario che tra le parole e l’esperienza vi sia l’attività di mediazione del logos con il quale smascherare l’inganno del politicamente corretto. Il primo gesto-parola di un resistente è riaprire la catena dei perché con la quale riportare le parole nella concretezza materiale dei processi produttivi e di dominio:
“Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido[1]”.
Il primo “perché” da riattivare è il domandarsi il motivo per il quale “i diversi” e “i normali” non possono liberamente ed autonomamente riconfigurare le loro relazioni, ma devono subire la gestione di una figura esterna che deve stabilire i confini e le finalità dell’integrazione. Il potere nella forma dl dominio deve neutralizzare ogni spazio di libertà per riportarlo all’interno della cornice della produttività. L’autonomia può disegnare scenari alternativi, e specialmente, può svelare che “i normali” come “i diversi” sono nel giogo del potere, e quindi per rompere potenziali solidarietà si interviene con figure professionali che posseggono le parole, sono i padroni di saperi aziendali con cui tacitare ogni processo comunitario di consapevolezza. Il secondo “perché” è l’uso della lingua inglese per indicare la professione di “gestore delle differenze”. La lingua non è uno strumento neutro, e l’uso della lingua anglosassone è un atto di vassallaggio verso il capitalismo americano, un atto di sudditanza e di resa senza condizioni che non ha eguali nella storia. La catena dei “perché” potrebbe proseguire assieme alle contraddizioni di un sistema “sensibile verso i diversi”, ma che ha abbassato il livello di sicurezza nell’attività lavorativa in modo speculare alle retribuzioni: la morte sul lavoro è entrata tra le banalità del quotidiano. Si svela con il diversity management la verità che si nasconde dietro il palcoscenico della “sensibilità” verso le differenze: una realtà razzista, classista e cinica che usa ogni mezzo per produrre plusvalore. La gestione delle differenze non è inclusione, ma funzionalizzazione delle stesse, una nuova forma di razzismo, in cui se non si produce secondo gli obbiettivi della dirigenza si è fuori del sistema, e ciò riguarda tutti. In assenza di dialettica ogni “inserimento” è incorporamento coatto imbellettato da lotta contro le disuguaglianze e le discriminazioni.
La libertà è l’emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia identitaria nella comunità liberata dai postulati del plusvalore. Bisogna alzare gli scudi del concetto e della prassi contro i processi di normalizzazione in atto.
Salvatore Bravo
[1] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance Pistoia, 2004, pag. 6.
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Maurizio Migliori, La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni. Introduzione di Luca Grecchi.
ISBN 978-88-7588-247-1, 2019, pp. 592, Euro 38 – Collana “Il giogo” [100]. In copertina: Vasilij Kandinskij, Verso l’alto (Empor), 1929, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia.
ZENONE E PLATONE: DUE DIALETTICHE A CONFRONTO Da una realtà aporetica a una realtà unimolteplice
«L’uno è molti e infiniti e i molti sono uno». Filebo 15E3-4
In questo contributo si intende delineare un quadro comparativo della dialettica così come intesa da Zenone di Elea e poi inverata e, allo stesso tempo, superata da Platone. A questo fine ci muoveremo su tre fronti:
la delineazione dei tratti essenziali della dialettica di Zenone;
il giudizio platonico sulla dialettica di Zenone, ricavabile dall’incipit del Parmenide;
la presentazione della dialettica di Platone come superamento e inveramento di quella zenoniana.
Una premessa terminogica
Prima di entrare nel vivo del confronto tra Zenone e Platone è necessaria però una breve premessa, perché il termine dialettica ha assunto, nel corso della storia della filosofia, una pluralità di sensi e di accezioni che è bene distinguere. Essenzialmente incontriamo tre figure di dialettica:
intesa come filosofia, cioè come uno strumento che svela la natura di una realtà che è essa stessa dialettica, nella quale positivo e negativo convivono;
come dialogica, cioè come tecnica della discussione;
come tecnica di confutazione.
[…]
La concezione zenoniana della dialettica risulta conservata e innovata dalla dialettica platonica: risulta conservato infatti il processo di innalzamento, per cui dalla contraddizione delle conseguenze si traggono risultati che concernono le premesse (nel caso del paradosso della freccia abbiamo visto come la conclusione contraddittoria permette di invalidare la premessa), ma in un senso nuovo. L’analisi dialettica, svelando la complessità dei nessi che costituiscono il reale, ci costringe a cercare la chiave per capire la non contraddittorietà della struttura apparentemente aporetica e ci indica il cammino per superare la contraddizione tramite un trascendimento ontologico. Il fatto di risalire a una dimensione filosoficamente più alta, però, non dissolve l’aporia ma, lasciandola essere tale al suo livello, consente di inquadrarla in una visione coerente e vera del reale: un qualsiasi essere umano, in sé considerato, è realmente e irriducibilmente uno e molti.
Questo richiede una visione estremamente articolata del reale, una visione multifocale, e un metodo che sia, per sua natura, adeguato alla comprensione di una realtà uni-molteplice, ma implica anche la consapevolezza che è impossibile trovarsi di fronte a un modello unico di descrizione del reale: infatti nella dialettica platonica c’è la movenza dell’unificazione, della risalita ai principi (quindi della sintesi), ma c’è anche il senso dell’irriducibilità del reale: l’infinito è irriducibile e resta in perenne conflitto con il limite, come ci ricorda il Filebo:
«SOCRATE: Dunque, poiché le cose sono così ordinate, bisogna che cerchiamo di porre in ciascuna situazione sempre un ‘unica Idea per ogni cosa: infatti, noi ve la troveremo insita; se dunque l’abbiamo individuata, dobbiamo esaminare se dopo una ve ne siano due, se no tre o qualche altro numero, e, di nuovo, allo stesso modo per ciascuna di quelle, fino a che non si vede dell’uno posto all’inizio non solo che è uno, molti e infiniti, ma anche quanti è; l’Idea dell’ illimitato non bisogna attribuirla alla molteplicità, prima di averne individuato il numero totale, mediano tra l’infinito e l’uno, e solo allora lasciare che ciascuna unità di tutte le cose vada nell’illimitato» (16C7-E2).
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Sommario
Una premessa terminologica La dialettica din Zenone I molti simili e dissimili e il paradosso della freccia Il confronto tra Zenone e Platone: il Parmenide La dialettica platonica come superamento e invermento di quella di Zenone Il nesso tutto-parte I nessi tra le Idee: il Sofista Considerazioni conclusive
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Lucia Palpacelli…
L’Eutidemo di Platone. Una commedia straordinariamente seria, Vita e Pensiero, 2009
L’analisi di Lucia Palpacelli affronta in modo nuovo il testo, rifiutando la tradizionale lettura ‘panironica’, che consente di aggirare le tante ‘stranezze’ del dialogo interpretandole come giochi ironici, in ultima istanza poco comprensibili. Al contrario, l’autrice mostra come il dialogo rifletta il pensiero platonico e si riveli un’opera molto significativa all’interno del corpus. L’Eutidemo diventa così un prototipo della ‘scrittura filosofica’ di Platone, che lancia una continua sfida al lettore, chiamato a intendere i problemi proposti e a sviluppare autonomamente le linee di soluzione offerte in forma allusiva.
Aristotele interprete di Platone. Anima e cosmo, Morcelliana, 2013
Il volume mette a confronto analiticamente le opere fisiche di Aristotele con i dialoghi platonici sulle stesse tematiche (in particolare con il Timeo), per ricostruire la complessa articolazione del concetto di physis, dal cosmo alla considerazione degli esseri viventi. La via critica seguita, e indicata dai testi stessi, permette di ricostruire un percorso che si configura sempre come bifronte: le innegabili e, in alcuni casi, fondamentali divergenze tra Aristotele e Platone si innestano su comuni tematiche e domande, per cui, lì dove si segna una distanza, si deve anche riconoscere un punto di accordo. Il rapporto tra Aristotele e Platone va delineandosi in queste pagine nella cifra distintiva di un movimento di vicinanza/lontananza, che rende possibile cogliere il senso e l’effettivo valore della critica aristotelica.
Aristotele, La generazione e la corruzione Testo greco a fronte, a cura di M. Migliori e L. Palpacelli, Bompiani, 2013
Il “De generatione et corruptione”, opera poco conosciuta e sottovalutata, svolge un ruolo importante nelle riflessioni fisiche di Aristotele. Lo Stagirita affronta e risolve le questioni concernenti i quattro tipi di mutamento, distinti secondo la categoria di riferimento: la generazione e corruzione secondo la sostanza, l’aumento-diminuzione secondo la quantità, l’alterazione secondo la qualità, la traslazione secondo il luogo. L’articolazione di tali temi si sviluppa in un ricco confronto con i filosofi del tempo, con la ripresa della centrale tematica delle cause fisiche e con espliciti riferimenti al Motore immobile trattato nella Metafisica. L’ampia introduzione di Maurizio Migliori, che affronta le questioni di fondo proposte in questo testo, è completata da un saggio bibliografico di Lucia Palpacelli che espone criticamente tutti gli studi apparsi nell’ultimo trentennio. La traduzione e il commentario di Migliori sono stati rivisti e arricchiti sulla base di un analogo aggiornamento bibliografico. Il lettore ha così a disposizione un testo completo, presentato in un’ottica unitaria e sorretto da una lettura critica aggiornata.
La natura intermedia di Eros. Pausania e Aristofane a confronto con Socrate, in: «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 3 – 2016, Vita e Pensiero, 2016
In this paper, speeches of Socrates, Pausanias and Aristophanes are analysed combining them together. This analysis is performed starting from the concept of intermediate (metaxuv) which allows us to construe Pausians’ speech as preparatory with respect to Socrates’ speech, and Aristophanes’ speech as its denial. Indeed, the concept of intermediate is applied to Eros 1) in embryo in Pausianas’ speech (which finally distinguishes two kinds of Eros) and 2) openly in Socrates’ speech. In this regard, the two speeches are connected and they show a progression 1) from a strictly practical and ethical-behavioural level (Pausanias’ speech) 2) to a theorical-metaphysical level based on Eros’ nature (Socrates’ speech). Aristophanes, on the other hand, defines Eros as a desire of total fusion, his view is corrected and downscaled by Socrates enforcing the concept of intermediate.
Claudia Baracchi, Enrico Berti, Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Lucia Palpacelli, Luigi Ruggiu, Mario Vegetti, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta
Il presente volume è il terzo di una serie di collettanei aristotelici, cominciata nel 2016 con Sistema e sistematicità in Aristotele, e proseguita nel 2017 con Immanenza e trascendenza in Aristotele, tutti editi a mia cura presso questa casa editrice. A questi volumi hanno partecipato alcuni fra i maggiori studiosi italiani dello Stagirita, che desidero nuovamente ringraziare per la loro disponibilità e gentilezza, ma soprattutto per l’ennesimo dono che hanno voluto fare agli studi aristotelici. Il volume di quest’anno, Teoria e prassi in Aristotele, nasce con l’intento di esaminare alcune distanze, spesso rilevate dagli studiosi, fra la teoria e la prassi nel pensiero aristotelico. Il tema è stato analizzato, come di consueto, secondo una pluralità di punti di vista ed approcci. L’apertura del volume, come da tradizione, è stata anche stavolta un dialogo generale tra lo scrivente e Carmelo Vigna. A questo dialogo, sempre come da tradizione, ha fatto seguito un commento di Enrico Berti, caratterizzato da notazioni profonde ed essenziali. Di seguito, vi sono stati interventi assai puntuali inerenti soprattutto il piano etico (Marcello Zanatta), politico (Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Alberto Jori), teoretico (Claudia Baracchi, Mario Vegetti), economico (Silvia Gullino, Luigi Ruggiu), sociale (Giulio Lucchetta) e scientifico (Lucia Palpacelli). Il volume è già sufficientemente ampio, per cui mi posso limitare, in questa occasione, ad un ricordo speciale, quello dell’amico Mario Vegetti, che ci teneva molto ad essere presente con un saggio. Rammento con affetto la sua ironia sui «dialogoni metafisici» fra me e Vigna che aprono questi volumi. Per il 2019, l’intenzione è di iniziare una trilogia sul pensiero platonico, cominciando con un collettaneo sulle Leggi, un dialogo relativamente poco indagato, rispetto almeno alla Repubblica. Tutto questo, come sempre, si potrà attuare – oltre che mediante la collaborazione di ottimi studiosi, negli anni divenuti amici – grazie alla passione culturale di Carmine Fiorillo, fondatore e “reggitore” di Petite Plaisance, al quale anche stavolta esprimo la mia vicinanza e gratitudine.
Luca Grecchi
Lucia Palpacelli
La pluralità metodologica nel pensiero aristotelico:tra teoria e prassi
Le diverse prospettive possibili per conoscere la realtà Ogni scienza considera lo stesso oggetto da punti di vista diversi Ogni scienza ha i suoi principi La relazione tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto: in sé e per noi La coscienza del limite umano nella conoscenza Il rapporto tra lo statuto ontologico dell’oggetto e il livello epistemologico L’estrema varietà della prassi metodologica L’approccio dialettico Un problema terminologico Alcuni esempi della movenza dialettica La diversa articolazione della movenza “dal generale al particolare” Da ciò che è più chiaro per noi a ciò che è più chiaro per natura Il valore dell’esperienza e dei fatti L’acqua più fredda che umida: la necessità teorica vince sul dato empirico La scienza non sbaglia, ma lo scienziato sì Considerazioni conclusive
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Monsieur de Saint Colombe pronunciò a voce bassissima questi lamenti:
«Ah! Mi ricolgo unicamente a ombre divenute ormai troppo antiche! […] Ah! se … ci fosse al mondo un essere vivente che apprezzasse la musica! Potremmo parlare! […]
Allora Monsieur Marais […] grattò la porta del capanno.
«Chi c’è che sospira nel silenzio della notte».
«Un uomo che fugge i palazzi e che cerca la musica».
[…]
«Che cosa cercate, signore, nella musica?».
«Cerco i rimpianti e le lacrime».
[…]
«Signore, posso chiedervi un’ultima lezione?», domandò Monsieur Marais …
«Signore, posso tentare una prima lezione?», rispose Monsieur de Saint Colombe […] e disse che desiderava parlare:
«È difficile, signore. La musica esiste semplicemente per parlare di ciò che la parola non può esprimere. In questo senso essa non è del tutto umana. Allora voi avete scoperto che non è fatta per il re?».
[…]
«È per una cialda donata all’invisibile?».
«Neppure. Che cos’è una cialda? La si vede. Ha un sapore. La si mangia, non è niente».
«Non so più cosa dire, signore. Credo che bisogna lasciare un bicchiere per i morti …».
«Ci siete quasi».
«Una piccola fonte per coloro ai quali il linguaggio è venuto meno. Per l’ombra dei fanciulli. […] Per gli stati che precedono l’infanzia. Quando si era senza respiro. Quando si era senza luce».
Dopo qualche istante sl volto vecchio e rigido del musicista comparve un sorriso ….
Pascal Quignard, Tous le matins du monde [1991], trad. it. di Graziella Cillario: Tutte le mattine del mondo, Analogon Edizioni, Astii2017, pp. 1214-118.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Diego Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune. Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
ISBN 978-88-7588-255-6, 2020, pp. 448, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [118]. In copertina: Anonimo, Il mondo sotto il berretto del matto, 1600 ca. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.
Sotto il segno di Mercurio. Vita di Orazio, Osanna Edizioni 1992.
Johann Wolfgang Goethe, Nausicaa, a cura di Sotera Fornaro, Osanna Edizioni 1994.
ohann Wolfgang Goethe, Achilleide, a cura di Sotera Fornaro, Salerno editore 1998
Percorsi epici. Agli inizi della letteratura greca, Carocci 2003.
L’origine dell’epica va cercata nel bisogno umano di raccontare. Una città, una donna, una guerra, il viaggio: questi i nuclei tematici dei poemi di Omero, che si sviluppano attorno a racconti dalle radici antiche, a lungo tramandati oralmente prima di cristallizzarsi nella scrittura. La poesia omerica, agli inizi della letteratura greca, fu sempre nell’antichità considerata «divina», ed ancora suscita stupore per le sue infinite possibilità di lettura. Questo libro ripercorre alcune questioni e temi epici. Destinato a chi si voglia accostare all’epica greca arcaica, pur non conoscendo necessariamente il greco antico, il suo scopo è fornire un’introduzione alle opere che hanno condizionato l’immaginario letterario occidentale, recuperando perciò il gusto e la necessità della loro lettura, anche solo in traduzione. Nella prima parte sono contenute le premesse indispensabili per avvicinarsi all’epica con consapevolezza storica e letteraria; la seconda, invece, è un itinerario attraverso le immagini della poesia, esplicite e implicite, dei poemi di Omero e di Esiodo, per verificare come l’epica descriva se stessa. Le figure ed i concetti principali della storia degli studi omerici compaiono in forma di lemmi nel repertorio finale.
Introduzione alla filologia greca, a cura di Heinz-Günther Nesselrath e Sotera Fornaro, Salerno editore 2004.
L’Introduzione alla filologia greca fornisce un panorama della scienza dell’antichità greca e dei suoi attuali metodi e compiti. Il curatore si è avvalso della collaborazione di 25 specialisti tedeschi, austriaci, svizzeri, inglesi e italiani, concependo la struttura dell’opera in modo da offrire introduzioni dettagliate, affidabili e aggiornate alle singole discipline che insieme costituiscono un quadro completo della scienza dell’antichità. Questa nuova esposizione complessiva si rivolge agli studiosi di letteratura greca e di discipline affini (filologia classica, storia antica, archeologia): essa costituisce uno strumento per lo studio individuale, un sussidio didattico e una prima introduzione alle singole discipline. Edizione in brossura.
Introduzione alla filologia greca, a cura di Heinz-Günther Nesselrath, Sotera Fornaro, Salerno 2004
L’Introduzione alla filologia greca fornisce un panorama della scienza dell’antichità greca e dei suoi attuali metodi e compiti. Il curatore si è avvalso della collaborazione di 25 specialisti tedeschi, austriaci, svizzeri, inglesi e italiani, concependo la struttura dell’opera in modo da offrire introduzioni dettagliate, affidabili e aggiornate alle singole discipline che insieme costituiscono un quadro completo della scienza dell’antichità. Questa nuova esposizione complessiva si rivolge agli studiosi di letteratura greca e di discipline affini (filologia classica, storia antica, archeologia): essa costituisce uno strumento per lo studio individuale, un sussidio didattico e una prima introduzione alle singole discipline. Edizione rilegata.
Antigone. Storia di un mito, Carocci 2012.
Dalla messa in scena della tragedia di Sofocle ad Atene, nel V secolo a.C, la figura di Antigone non ha più conosciuto momenti di eclissi nella storia della letteratura, del teatro, del pensiero. Il suo mito ha posto e pone domande inderogabili: qual è il rapporto tra potere e giustizia? Quali sono i limiti della legge? Ci si deve opporre all’ingiustizia perpetrata dallo Stato? Il martirio è una forma utile di resistenza? Può il potere disporre del corpo del nemico? In che cosa consiste la diversità politica e di genere di Antigone? Ogni epoca ha risposto diversamente a tali questioni e ha prodotto un’Antigone sua propria: l’amante, la santa, la terrorista, l’ebrea torturata nei campi di concentramento, la ribelle di una gioventù bruciata. “Antigone” è diventato dunque un nome-simbolo, capace di rappresentare situazioni anche lontanissime dalla cultura occidentale e senza più alcun legame con il contesto in cui Sofocle scrisse e rappresentò la sua tragedia. Le ricezioni dell’Antigone sono perciò infinite: il libro offre una guida alle più significative di esse in ambito europeo, dal teatro greco antico sino ad oggi.
Walter Hasenclever, Antigone, a cura di Sotera Fornaro, Mimesis 2013
Scritta in trincea durante la prima guerra mondiale, l’Antigone di Walter Hasenclever denuncia l’insensatezza di tutte le guerre ed è un grido pacifista nel mezzo dell’orrore. L’Antigone greca, che paga con la vita la sua ribellione alle leggi dello Stato in nome di una legge divina non scritta ma inderogabile, diventa in questo dramma espressionista una profetica e rassegnata martire della violenza politica di ogni genere. È la vittima non solo di un sanguinario potere tirannico, ma anche di un proletariato sbandato e assetato di vendetta. Questa tragedia giovanile esprime l’oscuro presagio di una schiera di ‘demoni’ che avrebbero saputo conquistare le masse e portare alla catastrofe il mondo già provato da una prima, terribile guerra. Quella di Hasenclever è dunque la prima Antigone politica del XX secolo, stranamente sfuggita alla censura: va accostata all’Antigone del romanzo Novembre 1918 di Alfred Döblin e alla più celebre Antigone di Bertolt Brecht (1948). L’Antigone di Hasenclever da una parte, quella di Brecht dall’altra, sono infatti erme poste a confine di due momenti decisivi nella storia della cultura tedesca e, pur in una visione pessimistica della storia, esprimono attraverso il riuso di un mito antico la possibilità di ripartire dall’arte dopo essere giunti al punto zero della ‘civiltà’ europea.
Che cos’è un classico? Il classico in J. M. Coetzee, Edizioni di Pagina 2013
Che cos’è un classico? I classici svolgono un ruolo concreto nella vita? Per quale mistero hanno la capacità di infondere coraggio e forza alle vittime di poteri politici aberranti? Perché attraverso i classici accettiamo meglio la malattia e l’avvicinarsi della morte? Sono questi alcuni degli interrogativi a cui lo scrittore di origine sudafricana J.M. Coetzee risponde nei suoi romanzi e nei suoi saggi. Attraverso la scrittura di Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003 e oggi uno degli scrittori più famosi al mondo, questo libro riflette sul concetto di classico dal punto di vista di una classicista di mestiere e approda ad alcune seppur provvisorie conclusioni. Classico è ciò che è umano e si oppone alla barbarie; ciò che resiste e aiuta a resistere all’orrore e alla violenza. Classico è sempre un atto d’amore, per la vita, per l’umanità, per l’idea stessa dell’amore. Classico è quel che perdura, passando al vaglio del tempo e di giudici competenti. Classico è il cuore che cerchiamo in un mondo spesso senza cuore.
Antigone ai tempi del terrorismo. Letteratura, teatro, cinema, Pensa Multimedia 2016
Eidolon. Saggi sulla tradizione classica, a cura di Sotera Fornaro e Daniela Summa, Edizioni di Pagina 2013
Il riflesso, l’immagine, l’eidolon dei testi e delle opere ‘classiche’ ha continuato ininterrottamente a riverberarsi nella letteratura e nell’arte occidentale moderna e contemporanea; lo studio dei Greci ha condizionato la nascita e lo sviluppo delle istituzioni universitarie e museali; il confronto con la vita politica e sociale dell’antichità ha plasmato riflessioni filosofiche e storiografiche. I saggi qui raccolti offrono esempi di storia della tradizione classica dal XVIII secolo ad oggi. Marco Castellari scrive dell’Antigone di Bertolt Brecht rivista nel 2006 da George Tabori; Sotera Fornaro affronta il frammento drammatico Prometeo di Goethe; Mario Marino esamina un manoscritto inedito di Johann Gottfried Herder con annotazioni sul De rerum natura; Corinne Bonnet ricostruisce il ruolo attribuito a Cartagine nella Storia romana di Theodor Mommsen; Daniela Summa disegna un panorama delle vicende storiche e individuali che hanno accompagnato dagli inizi dell’Ottocento l’elaborazione del corpus epigrafico di Cipro; Carlotta Santini delinea il confronto sul mito tra Thomas Mann, Karoly Kerényi e Furio Jesi; Eleonora Cavallini tratta dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese e del giudizio che ne dette Italo Calvino.
Bernhard Zimmermann, La commedia greca. Dalle origini all’età ellenistica, a cura di Sotera Fornaro, Carocci 2016
Il libro è una storia della commedia greca, dei suoi autori, delle sue occasioni rappresentative e dei suoi contesti politici e sociali, dalle origini sino al III secolo a.C. Questa traduzione è condotta sulla nuova edizione del 2006 ed è arricchita da un’appendice originale sulle testimonianze epigrafiche della commedia greca, a cura di Daniela Summa, ricercatrice all’Accademia delle Scienze di Berlino. Zimmermann affronta la questione dell’origine della commedia greca, delinea le tappe del suo assurgere a genere letterario, ne esamina la struttura, la metrica, la musica, dà indispensabili notizie sull’architettura teatrale, la messa in scena, le maschere e i costumi; passa quindi in rassegna, con numerosi riferimenti antologici, i drammi traditi di Aristofane e quelli di Menandro, ma anche i frammenti degli autori della commedia “di mezzo” e “nuova”. Il volume si conclude con un panorama, in parte inedito, di storia della ricezione.
Agosto, Edizioni di Pagina 2017
Un ragazzo, Ahmed, dorme per strada; una donna lo scorge dalla sua finestra e decide di aiutarlo. Ha inizio così, in una notte d’estate, un legame difficile, che va avanti tra la comprensione e l’ostilità. Intanto, tra i vicoli stretti di una piccola città vicino al mare, accadono violenze inspiegabili e circolano misteri: forse si sta preparando un attentato. E chi è davvero l’enigmatica Bintou, la sorella silenziosa e discreta, che prega nella moschea e sembra animata da una irremovibile fede? In un crescendo d’ansia e di solitudine, trascorre un feroce agosto assolato. Dopo quel mese vissuto in sospeso tra desideri d’amore ed acute nostalgie del passato, nessuno sarà più lo stesso di prima.
Un uomo senza volto. Introduzione alla lettura di Luciano di Samosata, Pàtron 2019.
«Non conosco classico più classico di questo classico seriore, minore e manierista», scriveva nel 1974 Pier Paolo Pasolini recensendo i Dialoghi di Luciano, apparsi per i ‘Millenni’ di Einaudi con la prefazione di Leonardo Sciascia. Con la definizione di ‘classico’, il poeta di Casarsa intendeva descrivere la capacità di Luciano di vedere i «dettagli reali in modo tanto economico quanto incantevole», e di vederli con «occhio acuto e metallico», teso a incidere nella realtà a lui contemporanea, senza compassione, con l’attenzione alle piccole cose e alle meno appariscenti delle creature. Pasolini si identificava con lo scrittore antico, perché come lui soffriva della consapevolezza di trovarsi in un «vicolo cieco della storia, e della storia letteraria», e guardava all’ormai irrecuperabile passato con nostalgia: in tale buio della storia, presagio anche della fine imminente della propria vicenda individuale, Pasolini rileggeva Luciano, ritrovando e condividendo quel riso satirico impietoso della cultura del proprio tempo, con l’amara coscienza che, come lui stesso, Luciano «anziché corrodere, minare, demistificare – da filosofo ‘cane’ come il suo mitico Menippo – la propria cultura, corrode, mina e demistifica la vita stessa». Oggi, in un periodo che forse può definirsi da ‘fine del mondo’, nell’era della realtà virtuale e della post-verità, si vuole con questa introduzione invitare ancora alla lettura di quest’autore, di cui pure non sappiamo quasi nulla, tranne che veniva da Samosata, lontana città sull’Eufrate e che visse nel pieno II sec.d.C.. Un autore su cui l’antichità stese il silenzio, e che nei secoli è stato oggetto di giudizi antitetici, dall’ammirazione allo spregio. Un autore, dunque, destinato a restare un «uomo senza volto», come scriveva Alberto Savinio: ma i cui discorsi e dialoghi offrono ancora infinito materiale di riflessione, con il loro caleidoscopio di tipi umani e di caratteri, la derisione delle manie intellettuali e delle mode culturali, l’intelligenza nel comprendere il libro della vita per trarne mondi di fantasia, l’accuratezza con cui rappresentano la fenomenologia delle emozioni, l’uso delle immagini e della loro evocazione, il confronto originale con temi e generi tradizionali, l’esperienza delle arti non verbali e per-formative, la profonda umanità e la disincantata filosofia morale.
Berlino. Tra passato e futuro, Cue Press 2019
Il genere testuale della ‘guida turistica’ viene applicato alla materia del teatro. Un percorso attraverso i luoghi dove si consuma il rapporto con la cultura materiale, nello spazio vivo della comunità. Ma i teatri sono anche spazi e architetture capaci di svelare tracce di civiltà passate, luoghi meravigliosi per passare una serata e lasciarci raccontare, attraverso la loro storia e i loro spettacoli, la vita stessa della città. Poi lo spettacolo finisce, e la vita continua, allora saremo pronti a consigliarvi locali e ottimi ristoranti. Ancora, quindi, il teatro e la città: un luogo continuo e dinamico, energicamente legato all’epoca e al tessuto urbano in cui si inserisce, ecco quello che si respira nei teatri del mondo. Quante volte, visitando una capitale europea, vi siete chiesti: «Ma dove saranno i teatri?», «Quali saranno gli spettacoli più vicini al mio gusto?», «Quali artisti?». Allora, o restate in albergo, oppure leggete la nostra guida teatrale. Una serie progettata e realizzata insieme ad Andrea Porcheddu, che ci porterà in giro per il mondo: New York, Berlino, Londra, Tunisi, Hong Kong, Buenos Aires, Milano, Praga… Benvenuti a Berlino! Una città che è cambiata molto nel corso degli anni e in particolar modo nel secolo scorso, in cui si è trovata divisa in due sfere d’influenza; caotica ma meravigliosa, ricca d’arte e soprattutto di teatro, dal Berliner Ensemble di Brecht alla Volksbühne [teatro del popolo], nati nella DDR e tuttora teatri per antonomasia della capitale tedesca. Un tuffo nella peculiarità di questa città, di questa cultura che ha conosciuto artisti tra i più grandi di tutti i tempi.
Saffo, Ode all’amata, a cura di Sotera Fornaro, Mucchi 2020
Dei nove libri della poetessa greca Saffo ci sono rimasti solo sparuti frammenti, e solo una poesia per intero. Tuttavia quei versi attraversano i secoli, segnando la lirica amorosa e imponendo persino una nuova misura del sentimento d’amore; la figura evanescente di Saffo, amante disperata e donna teneramente innamorata, ha segnato l’immaginario occidentale ed è diventata l’archetipo del dissidio tra arte e vita, tra letteratura e sentimento. Anche i più celebri dei frammenti di Saffo, però, restano enigmi: così il fr. 31 Voigt, che è stato interpretato sia come l’ode della follia erotica e dei suoi sintomi fisici, sia come il canto più addolorato della gelosia. Innumerevoli sono le traduzioni di quest’ode, che ci è giunta mutila proprio alla fine, a partire da quella latina di Catullo. La prima traduzione italiana a noi nota data 1572, ed è di uno sconosciuto letterato dal nome Francesco Anguilla. In questa storia infinita, gli interpreti e i traduttori sono per lo più gli uomini: eppure l’ode di Saffo canta delle sensazioni, forti sino alla morte, provocate dall’amore di una donna verso un’altra donna. Così in questo libro si propongono 10 versioni, più o meno libere, talora riscritture, di dieci donne, dalla ‘Saffo del Cinquecento’, Gaspara Stampa, sino alle più vicine Iolanda Insana e Alda Merini.
Antigone. Usi e abusi di un mito dal V secolo a. C. alla contemporaneità, a cura di Sotera Fornaro e Raffaella Viccei, Edizioni di Pagina 2021
La figura di Antigone si aggira da secoli nelle culture e nei contesti più lontani e diversi: ripercorrere tutte le metamorfosi della figlia di Edipo appare perciò impresa impossibile. Molte zone d’ombra restano nella storia delle Antigoni e molte domande irrisolte. Ad esempio, poco note sono le rappresentazioni iconografiche del mito; quasi sconosciuta è l’Antigone sororale e politica del teatro italiano del Cinquecento. Cosa significano nel pensiero giuridico le ‘leggi non scritte’ di Antigone? Perché Antigone oggi può perdere la statura eroica e diventare personaggio da melodramma? Si può parlare di un ‘modello Antigone’ nella critica letteraria e nella scrittura delle donne? Altri interrogativi insoluti ci pone il testo stesso della tragedia di Sofocle, un classico globale quant’altri mai. Con alcuni di tali argomenti e questioni si misurano i saggi che abbiamo qui raccolto, conclusi dalle considerazioni di Massimiliano Civica per la ‘sua’ “Antigone” in scena.
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Al popolo della pace, la poesia incipitale di questa raccolta, letta da Maura Del Serra nel 2009 in occasione dell’iniziativa 25 TV per 25 guerre, realizzata dall’artista Gerardo Paoletti per “World March” Associazione Mondiale per la Pace, era finora l’unica traccia esistente di interpretazione autoriale dei suoi testi. Adesso, con la selezione di altre 54 poesie, l’autrice offre ai suoi lettori/ascoltatori, un articolato ventaglio della sua produzione poetica, dei temi, luoghi, voci e ritratti in cui l’esperienza personale si fa corale e universale.
Nutrita con intensità empatica e dialogica dalle radici culturali e sapienziali dell’Occidente nel loro intersecarsi con le vene più feconde delle tradizioni orientali, la poesia della Del Serra è percorsa dal costante agonismo tra assolutezza metatemporale della rivelazione e tenebre della violenza storica, solitudine identitaria e unanimismo creaturale, con un ethos appassionato e rigoroso e con una finezza ed originalità stilistica scandita con vibrante emozione anche dalla sua viva voce.
Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, già comparatista nell’Università di Firenze, ha riunito le sue poesie nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010; Scala dei giuramenti, Roma, Newton Compton, 2016; Bios, Firenze, Le Lettere, 2020. Tutti i suoi testi teatrali sono pubblicati nei volumi: Teatro e Altro teatro, Pistoia, petite plaisance, 2015 e 2019.
Fra gli autori da lei tradotti dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo: Cicerone, Shakespeare, Woolf, Mansfield, Tagore, Proust, Weil, Lasker-Schüler, Sor Juana Inès de la Cruz. (www.mauradelserra.com)
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