Romano Guardini (1885-1968) – L’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. È nostalgia di evadere dalla dissipazione, divertere dal superficiale, ricoverarsi nel mistero delle cose ultime, è ricerca della semplicità ricca di contenuto. Malinconia è desiderio d’amore, desiderio di unità vivente.

Romano Guardini 02

[…] La spinta verso il nascondimento e verso il silenzio non significa già timore di scontrarsi con la realtà che facilmente ferisce, quanto significa, in ultima analisi, l’interiore gravitare dell’anima verso il grande centro; significa spinta violenta verso l’interiorità e l’approfondimento, verso quella regione, dove la uscita che sia dal caos di ciò che è pura casualità, entra in sicuro porto; dove la vita, sganciata dalla molteplicità delle singole manifestazioni, dimora nella semplicità del fondo delle cose: semplicità ricca di contenuto. È la nostalgia di evadere dalla dissipazione, per ricuperarsi nel raccoglimento del tutto; di sfuggire all’abbandono di chi si sente in preda all’esistenza esteriore, e vuol stare invece nel riserbo e nella protezione del santuario; di divertire da ciò che è superficiale, e ricoverarsi nel mistero delle cause ultime: la nostalgia dei grandi malinconici verso la notte e le Madri.

Albrecht Dürer – Melencolia I, La Malinconìa, 1514.

Malinconia vuol dire connessione con l’oscuro fondo dell’essere – e «oscuro», in questa accezione, non comporta senso peggiorativo. Non significa contrasto con la luce, la quale è bella ed è buona. Non significa «tenebra», significa il vivo controvalore della luce. […]
Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. Splendono chiari, a lui, i colori del mondo; a lui risuona con dolcezza più intima, la musica interiore. […] Dall’essere del malinconico sbocca e trabocca a fiotti la vita; a lui come a nessuno, dato di esperimentare la sfrenatezza dell’intera esistenza. Sempre, credo io, connessa con la bontà. Connessa col desiderio che la vita si svolga secondo la bontà e la gentilezza, e sia benefica per gli altri. […]
Qui proprio siamo al cuore della malinconia, la quale, in ultima analisi, non è altro se non desiderio d’amore. Amore, in tutte le sue forme, in tutti i suoi gradi; dalla sensibilità più elementare, sino al più alto amore dello spirito. Lo slancio vitale, il cuore della malinconia è l’Eros: desiderio d’amore e di bellezza. […] Poiché una natura amante sta aperta. È disposta a passare dall’altra parte, è disposta ad accogliere, a dare e a ricevere. È fiduciosa. Non sta in guardia. Prova dolore della transitorietà delle cose, soffre perché le viene tolto ciò che ama. La bellezza vivente è sempre passeggera. E al fianco della bellezza sta la morte. Nondimeno, quasi a difesa estrema contro tutto ciò, ecco la nostalgia di ciò che è eterno e infinito, di ciò che è assoluto; nostalgia di ciò che semplicemente è perfetto; di ciò che è inaccessibile e riposto, profondo al massimo, e interiore; di ciò che è intangibile e aristocratico, nobile e prezioso.
È desiderio di ciò che Platone affermò essere il vero fine dell’Eros: del bene supremo, il quale a un tempo è la vera e propria realtà, ed è la bellezza in sé e per sé, imperitura, sconfinata; è desiderio d’impadronirsi di tale realtà, che sola può compierci, di assumerla e assorbirla, di riunirci a lei. Cosa davvero singolare, e che può essere seguita e constatata attraverso tutta la storia della umana ricerca e dell’umano pensare: noi sentiamo una insoddisfazione particolarmente violenta per ciò che è finito; una volontà di distinguerci, in maniera particolare e con particolare intensità, nell’atto stesso di impadronirci di tale assoluto. Non basta a noi di riconoscerlo, e assumerlo nelle nostre azioni con una volontà eticamente cosciente; c’è in noi un desiderio di unione, di contatto da essere a essere; un desiderio di immergerci, bere ed essere dissetati. Un desiderio di unità vivente.
[…] L’anima disposta da natura alla malinconia è sensibile ai valori, li desidera. Desidera ciò che è prezioso al massimo grado, desidera il sommo bene. Con tutto ciò, par quasi che proprio questo desiderio dei supremi valori le si rivolti contro, poiché vi si accompagna, di regola, come un senso dell’impossibilità di ottenerli. Senso, che può associarsi a determinate esperienze: qui, di aver fallito in tali e tali cose; lì, di aver mancato al dovere; altrove, ancora, di aver perduto tempo, d’essersi giocato non so che d’irrecuperabile … Non sono se non appigli a qualcosa di più profondo: al senso dell’impossibilità, che in certo qual modo accompagna e quasi previene quella nostalgia. […]

Romano Guardini, Ritratto della malinconia, Morcelliana, Brescia 2006, pp. 57-67.


Romano Guardini (1885-1968) – Chi non ama la vita non ha pazienza con essa: la pazienza è l’uomo in divenire che comprende giustamente se stesso, è una forza tranquilla e profonda
Romano Guardini (1885-1968) – Non basta fare il bene, ma occorre anche farlo nel modo giusto. Si deve scegliere e si può ottenere qualcosa di più alto solo se si rinuncia a ciò che è più basso. L’esistenza dell’uomo che vive in modo degno implica questa trasposizione ad un piano più alto.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – “Novel food”: la nuova frontiera del mutamento antropologico

Novel food

Salvatore Bravo

“Novel food”: la nuova frontiera del mutamento antropologico

 

Novel food
L’uomo è ciò che mangia scrive Feuerbach in Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, “Der Mensch ist was er isst” deriva dall’assonanza tra “ist” (terza persona singolare del verbo “sein”, “essere”) e “isst” (terza persona singolare del verbo “essen”, “mangiare”), con tale gioco di parole il filosofo comunica la relazione tra alimentazione e spirito. Il cibo condiziona lo spirito, perché il corpo e il sangue non sono semplici meccanismi, ma l’alimentazione configura l’attività del corpo vissuto che diviene spirito in una relazione circolare. Ogni gesto e comportamento vive nel corpo vissuto determinandone la sostanza. Lo spirito si magnifica nella vita, ascende o discende dalle sue possibilità di sviluppo in relazione all’aria che respira, all’ambiente in cui si muove, al cibo di cui si nutre, alle relazione che sostiene con ogni componente che lo tiene in vita. Il cibo non è solo energia, per un essere umano è veicolo di storia e comunità. La rivoluzione antropologica in atto ha lo scopo di “diminuire” e “diluire” l’umanità per renderla oggetto di dominio. La disumanizzazione contamina ogni spazio ed attività vitale per determinare una metamorfosi irreversibile. “Novel food” è la nuova frontiera che concorrerà al cambiamento antropologico che si aggiunge all’atomismo sociale, all’idolatria dell’economia e della scienza asservita alla stessa fino alla mutazione della lingua e dei linguaggi secondo le indicazioni dei signori della globalizzazione. Nessuna identità deve sopravvivere al rullo compressore della globalizzazione. Lo sradicamento dev’essere totale per condurre i popoli all’ateismo: la verità e l’universale devono essere rimossi dal linguaggio comune, devono scomparire dall’orizzonte dei significati per essere sostituiti dalle identità liquide e dallo scetticismo depressivo. L’attacco alle culture dell’alimentazione non è neutro, ma essenziale nello logica del nichilismo. L’unità europea ha decretato la possibilità e legittimità di cibarsi di insetti in nome della transizione verde con il regolamento 2015/2283 del 25 novembre 2015 entrato in vigore il primo gennaio 2018. Nessuna discussione sulle possibili alternative, nessun contradittorio, come ormai accade da decenni. Gli ordini giungono senza volto e senza dialettica: si prescrive il cambiamento nella quiescenza generale. L’alimentazione tramite gli insetti ha l’effetto di sradicare la cultura della terra, della trasformazione dei prodotti agricoli a cui è associata la cultura umanistica e della convivialità. Non è secondario in tale prospettiva inaugurare un nuovo mercato intonso, il capitalismo assoluto in affanno è alla perenne ricerca di nuove possibilità di espansione e ciò non può che avvenire nell’ottica di una falsa rivoluzione: in Francia, Belgio ed Olanda il mercato degli “insettivori” è fiorente e in ascesa, pertanto ci dobbiamo omogeneizzare alla nouvelle cuisine come se non avessimo storia e cultura alimentare. L’essere umano del futuro nella sua furia green dovrà nutrirsi di insetti proteici a basso costo. Si può immaginare, in primis, che il cibo tradizionale non scomparirà, ma sarà per pochi privilegiati, mentre le masse plebeizzate dovranno nutrirsi di insetti: la colpa demografica dev’essere pagata con il cambio di abitudini, con la dimenticanza della cultura alimentare di appartenenza. Il nuovo essere umano plebeizzato nel cibo e nello spirito guarderà agli insetti come ad un valore da acquisire per la sua alimentazione. Lo sguardo rapace si allargherà fino ad osservare gli insetti come fonte di energia, anche gli esseri più minuscoli saranno percepiti nell’ottica della trasformazione acquisitiva ed alimentare, nulla deve sfuggire allo sfruttamento e al plusvalore. La vita minuscola o grande che sia sarà categorizzata all’interno della sola logica acquisitiva e del mercato. L’unione europea solletica le nuove generazioni a non avere pregiudizi, ma ad adattarsi al nuovo corso alimentare. Cambieranno le estetiche e le percezioni sensoriali, il nuovo regime alimentare comporterà una serie di effetti volutamente rimossi. Come guarderemo e vivremo gli antichi ed i nostri genitori? Naturalmente come estranei e stranieri appartenenti ad una superata era umana. L’alimentazione non è solo cibo, ma spirito che ci unisce agli avi da cui abbiamo ereditato tecniche agricole e valori a cui sono associate culture comunitarie. La trasmissione di una tradizione non è cadaverica, ma plastica, si pensa e si crea all’interno di un legame che umanizza. La rivoluzione alimentare spezzerà ogni linea di contiguità e continuità nel tempo. L’identità liquida fino ad evaporare non si costruisce solo con l’annichilimento delle identità linguistiche, culturali e di genere, ma anche e specialmente mediante il cibo quest’ultimo è un gesto che si ripete più volte al giorno, per cui attraverso la nuova alimentazione deve passare il messaggio che il passato è un “Medioevo” da sotterrare con le nuove abitudini decise dalle oligarchie imperanti. La possibilità di sostituire la carne con i legumi è esclusa a priori, vi è un disegno di ridefinizione dell’essere umano da parte di un nuovo e tragico illuminismo che ha sostituito la razionalità critica con il dogmatismo economicistico e crematistico.


 

Senza alternative, solo obbedienza
Lo sfruttamento e l’inquinamento possono essere ampiamente limitati con un’agricoltura della decrescita, in cui l’agri-sfruttatore sia sostituito dal contadino che applica tecniche agricole tradizionali ed innovative a basso impatto ambientale. Non secondario è educare ad un diverso rapporto con il cibo e con le merci in genere, non sprecare, ma consumare in modo consapevole è una possibilità esclusa a priori, in quanto bisogna allevare in serie generazioni di sfruttatori e consumatori senza alternativa. Il problema autentico che non si vuole risolvere è il produttivismo e l’ingiusta distribuzione delle risorse. Per non riformare il sistema si è disposti a spingere i popoli e i meno abbienti a nutrirsi di insetti prodotti e venduti da coloro che continueranno a nutrirsi di cibo tradizionale. Il cibo per censo è la nuova frontiera dell’ordoliberismo europeo. La cementificazione avanza, il deserto da metafora filosofica diviene verità quotidiana, e dinanzi ad un disastro che potrebbe essere irreversibile la soluzione è “cibo per tutti a base di insetti”. Il paradigma del capitale deve restare invariato, ed affinché ciò sia ed avvenga ogni cambiamento è sostenuto e giustificato senza la mediazione della ragione dialettica. Il fine ultimo dietro la cortina fumosa delle parole è plebeizzare le masse, purché il mercato viva, addomesticarle alla passività, indurle in nome del progresso a rinunciare alla propria storia, globalizzarsi nel cibo come in ogni abitudine e scelta. Tale obiettivo ha lo scopo di debilitare le identità, senza di esse l’umanità non è che materiale terroso tra le mani del Prometeo furioso delle nuove oligarchie. Nel silenzio siderale del “nuovo che avanza” ogni parola veicolo di pensiero, ogni gesto consapevole di resistenza è prassi preziosa di difesa dell’umano contro l’ateismo programmato del sistema. I consumatori non sono ancora del tutto sudditi, ma cittadini che con le loro scelte determinano il futuro, ancora una volta “il nuovo avanza” non in modo neutro, sono i popoli a determinare con la loro obbedienza ed indifferenza la rivoluzione in atto, pertanto come ci ha insegnato Vico la storia è posta dall’umanità, pertanto sarà la scelta dei popoli l’ultima parola sulle trasformazioni in atto. La vera rivoluzione è nel comprendere, in primis, che se ognuno agisce per togliere la propria minuscola castagna dal fuoco l’incendio divamperà e travolgerà carnefici e vittime legati dal vincolo sottile di un’ambigua complicità. L’agricoltore in questa fase può essere protagonista della storia, se torna ad avere il controllo sulla produzione e a disinvestire sullo sfruttamento della terra. L’agricoltura vive in modo più immediato e diretto lo sfruttamento delle multinazionale e la desertificazione umana e morfologica: il cemento avanza dalle città in decrescita demografica verso le campagne annichilendole e sfruttandole. Ogni gesto personale è determinante per una svolta etica e politica, perché è molto di più di un gesto, esso si integra con la prassi critica di molti e diventa testimonianza da cui può sorgere un nuovo inizio, è solo potenzialità, ma la storia si gioca sulla fiducia nell’impossibile.

Salvatore Bravo

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Søren Kierkegaard (1813-1855) – Situazione tremenda, quella di una coscienza che abbia subìto, sin dall’infanzia, una compressione tale che tutta l’elasticità dell’anima e tutta l’energia della libertà non riescano più a scrollarla.

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«Situazione tremenda, quella di una coscienza che abbia subìto, sin dall’infanzia, una compressione tale che tutta l’elasticità dell’anima e tutta l’energia della libertà non riescano più a scrollarla. Gli affanni della vita possono bene gravare su una coscienza; quando però si presentano in età più avanzata, manca il tempo perché possano rivestire i caratteri di una forma quasi congenita: diventano un semplice episodio, un momento, e mai qualcosa capace di dominare la stessa coscienza. Qualora invece si sia stati sin dalla prima età compressi a quel modo, si resta come un bambino che, estratto a forza di ferri dal seno materno, si porta dietro di continuo il ricordo dei dolori di sua madre».

Søren Aabye Kierkegaard, Tagebücher, Ausw. u. Uebersetz. y. Th. Haecker, 1923, I, 180 [Journal, 1843; IV A 60]. Cfr. S.A. Kierkegaard, Diario, tr. it. di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980, t. 3, pp. 69-70.


Søren Kierkegaard (1813-1855) – Occorre essere sinceri di fronte alla possibilità

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Wisława Szymborska (1923-2012) – Utopia è l’isola dove tutto si chiarisce. Qui ci si può fondare su prove. Qui cresce l’albero della Giusta Ipotesi. Dalla sua cima si spazia sull’Essenza delle Cose. Malgrado le sue attrattive l’isola è deserta, e le tenui orme visibili sulle rive sono tutte dirette verso il mare.

Wisława Szymborska002

UTOPIA

 

Isola dove tutto si chiarisce.

Qui ci si può fondare su prove.

L’unica strada è quella d’accesso.

Gli arbusti fin si piegano sotto le risposte.

Qui cresce l’albero della Giusta Ipotesi

con rami districati da sempre.

Di abbagliante linearità è l’albero del Senno

presso la fonte detta Ah Dunque E’ Così.

Più ti addentri nel bosco, più si allarga

la Valle dell’Evidenza.

Se sorge un dubbio, il vento lo disperde.

L’eco prende la parola senza che la si desti

e chiarisce volenterosa i misteri dei mondi.

A destra una grotta in cui giace il senso.

A sinistra il lago della profonda Convinzione.

Dal fondo si stacca la verità e lieve viene a galla.

Domina sulla valle la Certezza Incrollabile.

Dalla sua cima si spazia sull’Essenza delle Cose.

Malgrado le sue attrattive l’isola è deserta,

e le tenui orme visibili sulle rive

sono tutte dirette verso il mare.

Come se da qui si andasse soltanto via,

immergendosi irrevocabilmente nell’abisso.

Nella vita inconcepibile.

 

Wislawa Szymborska, Grande numero, Libri Scheiwiller, 2006.


Wislawa Szymborska – «SULLA MORTE SENZA ESAGERARE». Non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale. La morte è sempre in ritardo di quell’attimo.
Wisława Szymborska (1923-2012) – La poesia non tollera né il superfluo, né il vano.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giuliano De Marco – Percorsi metafisici.     Sulle tracce di Giovanni Romano Bacchin (1929-1995), il professore-artigiano, uno dei più grandi pensatori italiani del Novecento.

Giovanni Romano Bacchin - Giuliano De Marco

Giuliano De Marco

Percorsi metafisici

Sulle tracce di Giovanni Romano Bacchin (1929-1995)

    ***

La lettura di Theorein, la seconda delle opere postume di Giovanni Romano Bacchin (la prima è Haploustaton, Firenze, Arnaud,1995), si presenta alla stregua di una scalata in montagna, dove si procede a piccoli passi, con l’obiettivo di arrivare in alto, magari in cima. E al termine delle seicentoventotto pagine del volume, pubblicato da Aracne editrice, nel 2017, grazie al lavoro paziente e minuzioso del prof. Giovanni Castegnaro, che ne ha curato l’edizione – potendo contare sul dattiloscritto originale, ricevuto dalla vedova di Bacchin, la prof.ssa Cesira Crocesi, e su una copia pro manuscripto, conservata dal prof. Aldo Stella –, si viene colti da quella vertigine che si placa solo di fronte alla visione d’insieme, garantita dall’unità dello sguardo.
Ad accompagnarci lunga la strada, le parole commosse di un suo grande amico, il prof. Enrico Berti, uno dei più autorevoli studiosi di Aristotele a livello mondiale, che nella Prefazione fornisce tutti gli elementi per ripercorrere i passaggi centrali della vita e delle opere di Bacchin: dagli anni giovanili alla vocazione sacerdotale (poi abbandonata, mai rinnegata), fino al matrimonio religioso e alla docenza, da Perugia a Padova, interrotta da quel malore improvviso sulla spiaggia di Rimini, una mattina di gennaio del 1995.
A più di vent’anni da quel tragico evento – rimasto vivo nella memoria di studenti e colleghi –, Berti rende onore alle notevoli capacità speculative del collega, ritenuto

«uno dei più grandi pensatori italiani del Novecento, ma che purtroppo pochissimi conoscono, perché non fece una grande carriera accademica, non frequentò congressi o periodici, non pubblicò con case editrici dalla grande distribuzione. Credo di essere tra i pochi che possono fare questo, almeno in parte, perché l’ho conosciuto prima di tanti suoi allievi, amici e ammiratori, ed ho trascorso vicino a lui il periodo decisivo della sua, e della mia, formazione filosofica» (dalla Pref., p. 9).

Ma chi era in realtà Giovanni Romano Bacchin, il professore-artigiano che concepiva la filosofia vissuta in presenza, parola dopo parola, senza alcun presupposto? Era un seminatore di talenti, distribuiti al suo personalissimo auditorium metafisico, fatto non solo di giovani, pronti a confrontarsi sotto la sua guida, continuamente, con i grandi della storia del pensiero; e infatti «alle sue lezioni – ricorda sempre Berti nella prefazione – accorrevano anche anziani, impiegati, preti, professionisti, tutti affascinati dal suo modo di parlare e, soprattutto, dal suo modo di pensare e di far pensare» (dalla Prefazione, p. 13).

Aveva questo carattere coinvolgente Bacchin, sempre alle prese con domande cruciali, stringenti, mai consolatorie sui tanti perché dell’esperienza (domande che si ponevano e fluivano nello stesso istante in cui venivano formulate); ed era talmente concentrato sulla riflessione filosofica da non dare peso alla sua vicenda professionale, alle opportunità di progredire nella carriera accademica. Se non fosse stato per Berti, che era a capo dell’Istituto e lo segnalò alla facoltà, Bacchin, forse, non avrebbe mai ricevuto l’incarico d’insegnare Filosofia teoretica a Padova.

Ma veniamo al tema fondamentale del testo – che raccoglie gli scritti e le meditazioni di Bacchin durante cinque corsi accademici, tra il 1978 e il 1983 (come ricorda Giovanni Castegnaro nella sua nota editoriale) – e cioè a quel ragionamento filosofico nella sua espressione originaria, vissuto così da Bacchin:

«La metafisica non è più tale se essa risulta comprensibile. Se essa risulta ‘comprensibile’ già non è più metafisica, stante che la funzione sua propria verrebbe espletata da ciò che la ‘comprende’: non solo la metafisica è incomprensibile, l’incomprensibilità è l’essenza stessa della metafisica, appunto perché lo ‘oltre’ non può venire compreso da ciò che esso oltrepassa per definizione» (G. R. Bacchin, Theorein, Aracne editrice, Roma, 2017, p. 20).

Quindi, non un punto di partenza qualsiasi, un riferimento oggettivo per il classico avvio di una discussione, ma qualcosa che fosse infinitamente più stimolante: lo sfondo teoretico di una libertà liberante da ogni costrizione preliminare, «perché ogni parola è un progetto» – sono parole di Bacchin – e non ci sono acquisizioni date; dal momento che «una richiesta che preceda la domanda di verità non può essere vera» (G.R. Bacchin, Theorein, cap. 1.27, p. 94).
Tutto il volume è attraversato da questa volontà di farsi sostenere dalla sola forza delle argomentazioni dialettiche (che si susseguono nei quattro capitoli, densissimi, di Theorein), per documentare, dopo un confronto con la critica del pensiero moderno e contemporaneo – da Cartesio a Kant, fino a Hegel e Husserl – quanto sia ingenuo il tentativo di fondare la scienza e la filosofia sull’esperienza immediata.
Su questa corda invisibile si è mosso Bacchin, che aveva a cuore una cosa su tutte: poter accogliere le scoperte del suo periodare, farsi tutt’uno con la sua ricerca, ricevere linfa vitale da quel «domandare che è un tutto domandare», dalla «problematicità pura» della filosofia – come l’aveva definita il suo maestro Marino Gentile –; cioè inseguire la domanda sul perché di tutta l’esperienza, per trasformarla in una domanda di senso globale ancora più radicale, che reclama un principio trascendente in grado di spiegare tutta la storia umana. (Sulla problematicità pura si veda M. Gentile, Filosofia e umanesimo, La Scuola Editrice, Brescia 1947, p.12 e sgg.). E nel voler rielaborare il pensiero di Gentile, Bacchin fece due osservazioni fondamentali, come sottolinea Berti, sempre nella prefazione:

«1) La problematicità pura è ‘improblematizzabile’, perché ogni tentativo di problematizzarla, cioè di metterla in discussione, è un atto di problematicità, e dunque non fa che riproporla. Era questo un argomento simile a quello usato da Descartes a proposito del dubbio: il dubbio è indubitabile, perché ogni tentativo di dubitarne non fa che riproporlo. Esso dunque mostrava che la problematicità pura era il punto di partenza innegabile, inconfutabile, incontrovertibile, della filosofia , che rispetto al dubbio cartesiano aveva il vantaggio di non essere un atto soggettivo, interno, privato, ma di essere l’espressione dell’intera esperienza, la quale non si presentava più come un oggetto esterno rispetto al soggetto, secondo il dualismo tipico dell’intera filosofia moderna, ma faceva tutt’uno col soggetto, era insieme soggetto esperiente, oggetto esperito e atto dell’esperire. Guadagno, quest’ultimo, dell’idealismo di Hegel, prima, e di Giovanni Gentile, poi.

2) La problematicità pura – seconda osservazione di Bacchin – non è solo il punto di partenza della filosofia, cioè la semplice posizione del problema metafisico, cui debba seguire una soluzione diversa secondo, ad esempio, il percorso indicato da Padovani. Essa è già di per sé l’intero discorso metafisico, perché manifesta l’insufficienza dell’esperienza a spiegare sé stessa e quindi è già di per sé la richiesta, la domanda, ma una domanda insopprimibile e ineludibile (grazie alla sua ‘improblematizzabilità’) di un principio trascendente, cioè dell’intera metafisica».

(dalla Pref., pp. 11 e 12).

Di questo percorso, consumato in 35 anni di esperienze accademiche – molte delle quali condivise da Giovanni Romano Bacchin con Enrico Berti e Franco Chiereghin, il triangolo, come li chiamava Marino Gentile – il volume Theorein si fa testamento di vita e progetto mai completamente realizzato, come aveva intuito lo stesso Bacchin, già nei primi anni Sessanta, quando prese consistenza la sua vocazione all’indagine metafisica. E infatti scriveva così:

«Ogni sfasamento ed ogni alterazione della metafisica – scriveva – sono dunque per se stessi alterazione e quindi dimenticanza del senso dell’ essere o decadimento dell’essere ad un senso che per non esser il suo è, piuttosto, un non-essere; altra giustificazione non ha infatti la metafisica se non l’autenticità  del senso in cui essa è considerazione dell’essere, autenticità che è poi l’essere stesso nel suo porsi, perché svelare l’essere significa almeno lasciare che esso sia ciò che è, semplicemente, indipendente da qualsiasi intervento su di esso» (G.R. Bacchin, Intero metafisico e problematicità pura, sta in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, vol. LVII, n. 2-3, 1965, p. 305).

Un brano che lascia intravedere il criterio costante, il tormento, il fuoco, la molla che ha tenuto fermo Bacchin al suo programma di lavoro; perché pensare in questo modo, con lui, significa, ancora oggi, voler navigare nelle fessure della realtà, intesa come storia complessiva dell’uomo. Vuol dire penetrare nelle fibre più sottili della sua struttura, dove non ci sono detriti, sedimenti di adulterazione o camuffamento, per mettersi alla ricerca dell’essere che fluisce e si dona nella sua purezza, si dispiega, rivelandosi allo sguardo di chi l’accoglie con animo docile.
Forse, per questo tratto dominante della sua personalità di studioso, mai incline a schivare gli equivoci connaturati alla meditazione metafisica – e, forse, anche per l’opzione fondamentale di rigore teoretico che ha sorretto tutto il suo agire –, il professore di Belluno è stato dimenticato in fretta dalla cultura italiana nel suo insieme; attraverso una forma di occultamento delle opere e del pensiero, che è la peggiore dimenticanza possibile per uno studioso – prova ne sia la forte difficoltà a reperire i suoi scritti anche nelle librerie antiquarie. Sembrava esserne consapevole, il professore, quando scriveva così:

«Chi decide di essere incomprensibile ha già deciso con ciò di non ritenersi mai ‘incompreso’, appunto perché si è collocato al di là dell’orizzonte segnato dalla comprensione. Appunto perché toglie ogni possibilità di venire compreso, egli toglie ogni possibilità di ritenersi incompreso».

(G. R. Bacchin, Theorein, cit. p. 22).

Come spesso accade a persone della sua tempra, anche a Giovanni Romano Bacchin è toccato in sorte il destino dei solitari: riuscire a riposare solo nelle menti di chi l’ha vissuto quotidianamente e apprezzato nei corsi universitari; di quei volti assetati di schiettezza e veracità che hanno visto in lui un indomito scalatore nell’essere, dell’esperienza umana, per inseguire una sazietà mai soddisfatta, mai goduta appieno, pronta a convertirsi in nuova esigenza di domanda; perché la filosofia – come amava ripetere spesso – «è abissale presenza della verità assente».

Chi ritrova qualche traccia del suo itinerario, e ha la pazienza di attraversare le pagine di Theorein, può avvertire quelle vibrazioni che percepivano i suoi studenti in aula, quelli che respiravano filosofia assieme a Bacchin; ma più ancora impara a mettersi al suo fianco, in compagnia di quei lettori che non avevano mai sentito il suo nome. Prima d’ora.

[avvertenza: il volume di Giovanni Romano Bacchin, Theorein, è un pod, l’acronimo dell’anglicismo ‘print on demand’; per cui, chi fosse interessato a recuperarne una copia, potrà ordinarlo presso una libreria, o direttamente alla Editrice Aracne, e riceverlo nel giro di 5-6 giorni lavorativi].


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Tito Perlini (1933-2013) – la rivoluzione non è Negazione del passato, ma ciò cui essa s’oppone: Il capitalismo, che è antitetico allo sviluppo della civiltà e che mira solo a conservare se stesso. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente, ma chi insorge contro tale falsa conservazione.

Tito Perlini 01

Tito Perlini ha osservato acutamente che nell’atteggiamento rivoluzionario di Rosa Luxemburg si rintraccia pure un aspetto importante di conservazione:

 

«Nella Luxemburg si fondono paradossalmente le figure antitetiche del rivoluzionario integrale e del conservatore. L’impegno rivoluzionario è rivolto contro il capitale, il dominio del quale sulla società non può venir corretto, ma deve essere spezzato pena la condanna della società stessa alla rovina. Ciò che si tratta di conservare è il patrimonio civile dell’umanità che rischia di venir compromesso irreparabilmente dalla barbarie capitalistica. E’ necessario rivoluzionare integralmente il modo di produzione e la rete di rapporti che da esso derivano per impedire che la sua logica infernale distrugga la civiltà umana. Negazione del passato non è la rivoluzione, ma ciò cui essa s’oppone. Il capitalismo mira solo a conservare se stesso, facendo strame del passato, imprigionando il presente nella sua cecità, togliendo al futuro ogni prospettiva rispondente ai bisogni e alle esigenze degli uomini. Il capitalismo è antitetico allo sviluppo della civiltà. Rispetto ad essa è falsa conservazione destinata a rivelarsi come il proprio contrario, come distruzione. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente che fa insieme ingiuria al passato e al futuro, ma chi insorge contro tale falsa conservazione assumendo il ruolo del rivoluzionario, teso a dar luogo ad una svolta radicale della storia per impedire a questa di precipitare nell’abisso».[1]

Parole di straordinaria lucidità, queste risalenti al 1971 di Tito Perlini a commento dell’aut-aut luxemburghiano, ancor più vere oggi, nell’epoca della devastazione ambientale del pianeta intero, in cui l’abisso che si avvicina sempre più non riguarda soltanto le modalità della convivenza umana, ma la sopravvivenza stessa della specie umana e di tutti gli esseri viventi.

Franco Toscani

[1] Tito Perlini, Il ruolo della cosiddetta ‘teoria del crollo’ nel pensiero di Rosa Luxemburg, in “aut aut”, Lampugnani Nigri editore, novembre-dicembre 1971, pp. 69-70.

 


Tito Perlini (1931-2013) – «ATTRAVERSO IL NICHILISMO Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria», Aragno editore, 2015

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.


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Livio Rossetti – Convincere Socrate. Tre scene, Nota introduttiva di Linda M. Napolitano Valditara

Livio Rossetti - Convincere Socrate

Livio Rossetti

Convincere Socrate

Nota introduttiva di Linda M. Napolitano Valditara

ISBN 978–88–7588-285-3, 2021, pp. 96, Euro 12 – “Antigone. Collana di teatro” [13].

indicepresentazioneautoresintesi



I am grateful for having had opportunity to read your wonderful “Convincere Socrate”. Truly, you make the characters come alive. My favorite scene was the second scene, where Socrates’ friends are trying to come up with a plan. So true to life to have lots of side issues and irrelevant thoughts voiced in meetings where a decision needs to be made. The reader experiences the effect that is experienced also in tragedy, in that s/he sees actors acting in the hope or even confidence that they will be able to effect a result that the reader knows will be impossible. And trying to change Socrates is up there with trying to change fate.

David J. Murphy, New York

***

 

«Non c’è dubbio che solo dopo aver letto con attenzione e a lungo meditato l’ampia letteratura socratica (i numerosi lògoi sokratikòi restatici, sia pur spesso in frammenti), come Rossetti fa da molto tempo, si possa scrivere un testo simile, dove ogni personaggio, battuta, rinvio, cenno ha precisa base nelle fonti e viene ri-usato però con deliberata levità».

Linda M. Napolitano Valditara (dalla nota introduttiva)

“Chi di noi è la nuova Euriclea?”

Nota introduttiva di
Linda M. Napolitano Valditara

A inizio estate 2019 leggevo questo piccolo prezioso lavoro teatrale di Livio Rossetti, Convincere Socrate, per farne una recensione. Lo conoscevo già per averne, pochi mesi prima, condiviso la recitazione con l’autore, con colleghi, dottorandi e studenti all’Università di Verona, scegliendomi – da studiosa di Socrate e Platone – l’intrigante parte di Santippe, la stizzosa incomprensiva sposa del protagonista.

Riprendere in mano il testo due anni dopo per questa Introduzione mi fa un effetto strano: anzitutto perché sento ben netta la distanza esistenziale da allora, quando in università si lavorava in presenza e si condividevano, senza forse comprenderne l’implicita ricchezza, tutti gli aspetti e modi del nostro magnifico lavoro filosofico. Una vita fa: tutto è cambiato col coronavirus e abbiamo imparato anche noi a interagire ‘da schermo’ e, prim’ancora, nella prima fase della pandemia, a impartire audio-lezioni parlando per ore… ai libri del nostro studio, senza poter guardare negli occhi i nostri studenti.

Il contenuto testuale e filosofico sapientemente filtrato da Rossetti in pièce teatrale dice invece tutt’altro, che non pochi sanciscono essere ormai del tutto perduto: un vivere insieme, un syzên, ripreso anche da Platone nella sua Lettera VII (341c-d), un con-dividere – uno davanti all’altro, a volto scoperto e senza ubbie di distanza di sicurezza – parole, desideri, speranze, timori e azioni; qualcosa che l’ultimo anno pare aver cancellato per sempre, mettendo a nudo solo il crudo, individualistico gioco, la terribile selezione solipsistica del ‘si salvi chi può’, da solo, e peggio per gli altri…

La cosa strana è però che, nel far risaltare così tutta la differenza dalla ‘vita di prima’, l’impianto del lavoro di Rossetti – appunto un rifacimento teatrale curato e godibile – non solo non appare datato e superato dallo tsunami pandemico: tutto al contrario, per quanto punta sull’interazione, su quanto si fa e si dice davanti all’altro, insieme con lui e anche in dissenso da lui, rivendica con forza un modo di vivere-insieme che nessun distanziamento può cancellare o render irrilevante e superfluo. Quel suo trattenersi a parlare in piazze, strade, palestre e assemblee di Atene fu soprattutto un poter e dover essere per l’essere umano, mai a sufficienza sapiente, destinato perciò alla vita di ricerca senza cui non sarebbe un uomo (Platone, Apologia, 38a): una vita che però non si può vivere da soli, separati dagli altri – tanto che, se poi dagli altri non si viene compresi, la vita può tirarsi dietro perfino un rischio mortale, com’è quello della condanna comminata a Socrate. Proprio il verificarsi di situazioni estreme esige – ancora e anche allora – che siano rimeditate insieme le ragioni che quella vita hanno nutrito e che non possono esser sconfessate neppure dinnanzi alla prospettiva di perdere la vita biologica.

Socrate non si lascia convincere – da chi pure ama e che lo ama – a fuggire davanti alla morte e ancora dialoga per ribadire e rivendicare quanto insieme con loro ha fin lì imparato, anche se ora non può accettare l’invito alla fuga davanti alla morte. Quale insegnamento migliore da meditare insieme, ridandogli voce e interpretandolo, in una pandemia che – notizia di stamani, 22 aprile 2021 – ha già fatto, nel mondo, tre milioni di morti? [… continua a leggere nel libro …]



Livio Rossetti, Strategie macro-retoriche.
Prefazione di Mauro Serra.
ISBN 978–88–7588-280-8, 2021, pp. 192, formato 130×200 mm, Euro 16 – Collana “Il giogo” [130].
In copertina: Joan Mirò, Il mio Alfabeto, 1972.


È strano che in una società invasa da forme di comunicazione sapiente e anche astuta (quindi insidiosa) qual è la nostra non si registri una congrua offerta di strumenti analitici sulle procedure cui è normale ricorrere in ogni momento.
In effetti, nel rivolgere la parola, nello scrivere o anche soltanto nel rispondere al telefono si manifestano moltissime scelte, alcune involontarie e altre consapevoli. Queste scelte delineano l’impostazione e il senso di ciò che io, per esempio, ho finito per dire o scrivere. Quindi parlano di me, del mio stato d’animo, dell’idea che mi ero fatta sul conto della persona o delle persone cui mi sono rivolto, dell’idea che mi ero fatta della situazione, di cosa credevo di fare e dei criteri che ho saputo adottare nel decidere cosa dire e come esprimermi, di cosa tacere, che cosa lasciare intendere etc. E a essere carica di tutti questi impliciti è ogni iniziativa comunicazionale, semplice o impegnativa che sia.
Per cercare di penetrare nei segreti della comunicazione e individuare anche ciò che transita sotto traccia, c’è poco da fare: bisogna attrezzarsi e prendere confidenza con cose così diverse come la ‘retorica dell’anti-retorica’, il feedback comunicazionale, la soglia critica, la saturazione, i meta-segnali e altro ancora. Questo libro fornisce l’apparato concettuale di cui c’è bisogno per mettersi a scavare in profondità.

Il nome di Livio Rossetti è facilmente associato alla filosofia greca – Socrate e Platone, Parmenide e Zenone – mentre non è intuitivo associarlo al tema della retorica, che è rimasta un filone leggermente in ombra della sua produzione scientifica. In effetti il volume sulle strategie macro-retoriche (1994), ora in seconda edizione, è nato a margine dei suoi studi sul dialogo socratico (alcuni dei quali figurano in Le dialogue socratique, Paris 2011) e avrebbe dovuto fornire le premesse concettuali per indagini più specifiche sull’insidiosa sapienza comunicazionale di Platone, indagini che però… devono ancora materializzarsi.
Docente di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni, Rossetti ha pubblicato, da ultimo, Verso la filosofia: nuove prospettive su Parmenide, Zenone e Melisso (Baden Baden 2020), che si può considerare l’editio maior di Parmenide e Zenone sophoi ad Elea (in questa stessa collana, Pistoia 2020), mentre



Sommario

Questo libro

Prefazione di Mauro Serra

I. Iniziative comunicazionali, strategie comunicazionali e retorica

1. L’iniziativa comunicazionale
2. Individuare gli ‘incantesimi’ di ordine comunicazionale
3. Impostazione dell’iniziativa comunicazionale e forme di finissage
4. Progettare una iniziativa comunicazionali significa…
5. Identificare e analizzare l’impianto macroretorico

II. La formattazione dell ’unità comunicazionale

1.Una formattazione a molti livelli. Il feedback comunicazionale
2. Gli obiettivi da raggiungere

III. Ricettore ideale, distanza critica, dissimulazione. Il contratto comunicazionale

1. Lettore ideale e ricettore ideale. Il ruolo della dissimulazione
2. Contratto letterario e contratto comunicazionale. Il foedus iniquus

IV.  Gestione dell a soglia critica e forme di saturazione

1. Orizzonte di attesa, soglia critica e forme di saturazione
2. La pretesa di incidere sulla soglia critica
3. Risalire alla soglia critica prefigurata dal locutore

V. La comunicazione form attante. Il ‘sottotesto’

1. Farsi largo nella mente altrui; la pretesa di ‘comandare a casa nostra’
2. La semplificazione: grimaldello con cui si aggirano le difese altrui
3. Quando l’intreccio di contenuti epistemici e valori comunicazionali resiste all’analisi

VI. Formattazione e obsolescenza degli standard comunicazionali.
Come difendersi dall a formattazione sapiente?

1. Siamo sicuri che la magia dell’evento comunicazionale funzioni ancora?
2. Understatement, autoironia e ‘retorica dell’anti-retorica’
3. Le difese su cui possono contare i ricettori
4. Identificare il sovraccarico comunicazionale

VII. Conclusioni. Oltre la formattazione

Bibliografia

Appendice – Verso una rhetorica universalis

1. La mia comunicazione non è mai del tutto spontanea
2. Platone e la retorica degli altri
3. Le ossessioni dei moderni e le loro ‘aggressioni’ alla retorica
4. Oltre il mero arrocco. Nuovi aspetti della relazione retorica-filosofia nel Novecento
5.Verso una nuova idea di verità
6. Verso una nuova idea di retorica: la rhetorica universalis
Nota bibliografica

Soggettario

Indice dei nomi


Livio Rossetti – Parmenide e Zenone “sophoi” a Elea
Livio Rossetti – Rodolfo Mondolfo storico della filosofia antica
Livio Rossetti – Due falsI originali d autori di «qualità»: Enrico Berti (Arisotele) e Mario Vegetti (Platone).
Livio Rossetti – Anche i bambini pensano: tre modalità primarie di favorire lo sviluppo della filosofia germinale. Il libro di Dorella Cianci e Massimo Iiritano, «Pensare da bambini».

Livio Rossetti 01

Livio Rossetti

Parmenide e Zenone, sophoi ad Elea

Presentazione di Mariana Gardella Hueso.

ISBN 978-88-7588-256-3, 2020, pp. 160, Euro 15

indicepresentazioneautoresintesi

In questo Parmenide e Zenone sophoi a Elea Livio Rossetti ci propone una marcia di avvicinamento a due pensatori antichi di primissimo ordine. Il suo proposito è stato di lavorare su due ‘pezzi da museo’ che ci sono stati trasmessi pieni di polvere e di incrostazioni esegetiche, riportarli alla luce e tornare a osservarli da vicino.
Pretesa eccessiva? Non proprio, perché di Parmenide si sta riscoprendo solo ora lo stupefacente sapere naturalistico che pure formava parte integrante del suo poema, e di conseguenza il suo insegnamento richiede di essere visto da una prospettiva profondamente rinnovata. Quanto poi ai paradossi di Zenone, essi sono stati per lo più trattati come problemi da risolvere o calcoli da eseguire, senza considerare che Zenone avrà avuto interesse a idearli, non certo a risolverli e dissolverli. Quindi, anche qui, netto cambio di prospettiva.
L’autore ci invita dunque a guardare a questi due personaggi estremamente creativi senza pensare alle tradizioni interpretative, con la mente sgombra, con rinnovata curiosità. Lo fa con competenza, ma usando un linguaggio piano, cordiale, arioso, partendo dai luoghi e dal contesto. Avvicinarsi a quel mondo sarà una scoperta.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Livio Rossetti …


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Antonio Tabucchi (1943 − 2012) – Piacerebbe a certi poeti, ma non è un luogo, è un buco: intendo nella rete. C’è una rete nella quale pare sia ormai impossibile non essere catturati, ed è una rete a strascico. In questa rete io insisto a cercare buchi.

Antonio Tabucchi 01

«Come piacerebbe questo luogo a certi poeti […].
Mi è perfino venuto da pensare che quest’isola non esista, e di averla trovata solo perché la stavo immaginando.
Non è un luogo, è un buco: intendo nella rete.
C’è una rete nella quale pare sia ormai impossibile non essere catturati, ed è una rete a strascico.
In questa rete io insisto a cercare buchi».

Antonio Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi,  Feltrinelli, Milano 2001, p. 13.

Politeia . Castelli Romani – 1871. La Comune di Parigi e «L’insorto» di Jules Vallès. Sabato, 22 maggio 2021, ore 17,0.

Jules Vallès- Politeia

Sabato, 22 maggio 2021, ore 17,0.

Per collegarsi:

https://join.skype.com/acNNTCKTot8g

Jules Vallès

L’insorto.

Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli.

ISBN 978-88-7588-207-5, 2019, pp. 320, Euro 27.

indicepresentazioneautoresintesi

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – il titanismo femminista della maternità di Naomi Campbell simboleggia il trionfo della tecnica (Gestell) come ir-razionalità calcolante.

Naomi Campbell mamma!

Nell’annuncio sui social non ha specificato il nome o quando è nata la bambina. La supermodella in passato aveva parlato a lungo sul suo desiderio di diventare mamma: nel 2014 aveva confidato alla stilista Diane von Furstenberg che “pensava tutto il tempo di avere bambini, a prescindere dell’essere o non essere in una relazione con un partner. Aveva poi detto tre anni dopo alla rivista dell'”Evening Standard” che “grazie alla scienza, pensava ora di poterlo fare quando avrebbe voluto“. (ANSA).


Salvatore Bravo

il titanismo femminista della maternità di Naomi Campbell
simboleggia il trionfo della tecnica (Gestell) come ir-razionalità calcolante


Naomi Campbell è diventata madre a 51 anni. L’annuncio sui social: i media esaltano la scelta di essere madre nella maturità e la discrezione con cui la modella ha curato la nascita “che annunciano”. Nessuna riflessione è stata svolta, non contro la persona, ma su una tendenza ormai consolidata e sempre sostenuta dal neo-femminismo liberale. La maternità in età avanzata è esaltata come una nuova conquista, un nuovo diritto del neoliberismo alleato con le tecnologie. Si occultano i dati essenziali. La maternità senza padre avvenuta molto probabilmente con le tecniche di riproduzione, in questo caso, è il segno di un nuovo individualismo, mai apparso nella storia umana, in cui la nascita appartiene all’individuo e non alla coppia. Si nega la natura duale della nascita in nome di un diritto che ha il sapore di altro. Il diritto è della sola madre, il figlio non ha diritto ad un padre e ad una madre, ma nasce nel taglio di un desiderio solitario consolidato dal potere economico e dal successo. Il destino del figlio è consegnato alla classe sociale del desiderante. L’età avanzata espone la madre, in questo caso, al rischio potenziale di non poter accudire per motivi di salute il figlio in futuro, ma a tale contingenza compensa la ricchezza della stessa. La possibilità di vivere la seconda giovinezza in un’età in cui le persone comuni già si orientano verso la vecchiaia, pensando alla futura pensione e a quello che sarà, denota l’appartenenza della modella ad un mondo di dèi e dee irraggiungibili. I media occultano, dunque, la verità di fondo che la maternità avanzata è “diritto” per censo e non altro. Le altre donne, invece, hanno un tasso di natalità basso per la precarietà lavorativa e per la violenza della cultura individualista imperante: sono spinte alla carriera, che spesso presuppone uno sfruttamento legalizzato, la speranza di un lavoro stabile e di un avanzamento comportano con gli anni la rinuncia alla generazione, ad una vita affettiva e comunitaria. Lo stesso modello di vita diventa a seconda del censo privilegio per alcune e per altre/altri semplice rinuncia che si rivela con gli anni ad una vita indegna di essere vissuta: naufragano in un mondo di cose e di illusioni e la libertà da tutto e da tutti si rivela essere solo disincanto. La violenza di tale condizione è taciuta dai media come dalle donne, le quali diventano più realiste del re, difendono il sogno titanico di una libertà senza limite e progetti, in tal modo devengono, loro malgrado, le crociate di un potere che le vuole suddite e silenziose. Le violenze peggiori sono quelle subite senza consapevolezza. La maternità di Naomi Campbell, inoltre, simboleggia il trionfo della tecnica (Gestell) come ir-razionalità calcolante: un figlio a fine carriera, quando non può essere di impaccio alla stessa. Il calcolo razionale stabilisce obiettivi e tempi in base a finalità soggettive. Il nuovo modello rampante del neo-femminismo anglosassone è organico al liberismo; ogni azione è finalizzata ad un risultato, non ci sono sorprese, la vita dev’essere dominata in base ai programmi personali, non c’è spazio per gli uomini, e la vita di coppia. Il nuovo nucleo sociale di base è la donna che si autoriproduce in solitudine, se il censo lo permette, e consegna la nascita ai media per un altro successo, per una nuova visibilità organizzata ad arte (si pensi all’immagine dell’annuncio). La violenza del neoliberismo va colta non solo nelle sue contraddizioni sociali, ma anche nella concretezza della vita quotidiana, negli episodi apparentemente minori, ma che rilevano la verità di un sistema censitario e violento che ha dissolto ogni limite e razionalità oggettiva in nome del diritto che si ribalta in titanico capriccio. Non una parola da parte dei media e delle donne sugli uomini e le donne costretti a rinunciare alla maternità e alla paternità ed indotti a vivere in una realtà di violenza, in cui il diritto a tutto è solo privilegio per pochi e tristezza quotidiana per tutti. Il transumanesimo si realizza a piccoli passi, dietro le nascite tardive vi è anche il desiderio di dirigere la natura ed i ritmi biologici verso finalità soggettive: si profila un’età di esseri che possono tutto e troppo e di servi (la maggioranza) che devono imparare a rinunciare. La sussunzione è la verità del capitalismo liberista che fa fatica ad emergere nella consapevolezza collettiva in metamorfosi verso nuove forme di antiumanesimo.

Salvatore Bravo

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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