«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Livio Rossetti, Strategie macro-retoriche. Prefazione di Mauro Serra. ISBN 978–88–7588-280-8, 2021, pp. 192, formato 130×200 mm, Euro 16 – Collana “Il giogo” [130]. In copertina: Joan Mirò, Il mio Alfabeto, 1972.
È strano che in una società invasa da forme di comunicazione sapiente e anche astuta (quindi insidiosa) qual è la nostra non si registri una congrua offerta di strumenti analitici sulle procedure cui è normale ricorrere in ogni momento. In effetti, nel rivolgere la parola, nello scrivere o anche soltanto nel rispondere al telefono si manifestano moltissime scelte, alcune involontarie e altre consapevoli. Queste scelte delineano l’impostazione e il senso di ciò che io, per esempio, ho finito per dire o scrivere. Quindi parlano di me, del mio stato d’animo, dell’idea che mi ero fatta sul conto della persona o delle persone cui mi sono rivolto, dell’idea che mi ero fatta della situazione, di cosa credevo di fare e dei criteri che ho saputo adottare nel decidere cosa dire e come esprimermi, di cosa tacere, che cosa lasciare intendere etc. E a essere carica di tutti questi impliciti è ogni iniziativa comunicazionale, semplice o impegnativa che sia. Per cercare di penetrare nei segreti della comunicazione e individuare anche ciò che transita sotto traccia, c’è poco da fare: bisogna attrezzarsi e prendere confidenza con cose così diverse come la ‘retorica dell’anti-retorica’, il feedback comunicazionale, la soglia critica, la saturazione, i meta-segnali e altro ancora. Questo libro fornisce l’apparato concettuale di cui c’è bisogno per mettersi a scavare in profondità.
Il nome di Livio Rossetti è facilmente associato alla filosofia greca – Socrate e Platone, Parmenide e Zenone – mentre non è intuitivo associarlo al tema della retorica, che è rimasta un filone leggermente in ombra della sua produzione scientifica. In effetti il volume sulle strategie macro-retoriche (1994), ora in seconda edizione, è nato a margine dei suoi studi sul dialogo socratico (alcuni dei quali figurano in Le dialogue socratique, Paris 2011) e avrebbe dovuto fornire le premesse concettuali per indagini più specifiche sull’insidiosa sapienza comunicazionale di Platone, indagini che però… devono ancora materializzarsi. Docente di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni, Rossetti ha pubblicato, da ultimo, Verso la filosofia: nuove prospettive su Parmenide, Zenone e Melisso (Baden Baden 2020), che si può considerare l’editio maior di Parmenide e Zenone sophoi ad Elea (in questa stessa collana, Pistoia 2020), mentre
I. Iniziative comunicazionali, strategie comunicazionali e retorica
1. L’iniziativa comunicazionale 2. Individuare gli ‘incantesimi’ di ordine comunicazionale 3. Impostazione dell’iniziativa comunicazionale e forme di finissage 4. Progettare una iniziativa comunicazionali significa… 5. Identificare e analizzare l’impianto macroretorico
II. La formattazione dell ’unità comunicazionale
1.Una formattazione a molti livelli. Il feedback comunicazionale 2. Gli obiettivi da raggiungere
III. Ricettore ideale, distanza critica, dissimulazione. Il contratto comunicazionale
1. Lettore ideale e ricettore ideale. Il ruolo della dissimulazione 2. Contratto letterario e contratto comunicazionale. Il foedus iniquus
IV. Gestione dell a soglia critica e forme di saturazione
1. Orizzonte di attesa, soglia critica e forme di saturazione 2. La pretesa di incidere sulla soglia critica 3. Risalire alla soglia critica prefigurata dal locutore
V. La comunicazione form attante. Il ‘sottotesto’
1. Farsi largo nella mente altrui; la pretesa di ‘comandare a casa nostra’ 2. La semplificazione: grimaldello con cui si aggirano le difese altrui 3. Quando l’intreccio di contenuti epistemici e valori comunicazionali resiste all’analisi
VI. Formattazione e obsolescenza degli standard comunicazionali. Come difendersi dall a formattazione sapiente?
1. Siamo sicuri che la magia dell’evento comunicazionale funzioni ancora? 2. Understatement, autoironia e ‘retorica dell’anti-retorica’ 3. Le difese su cui possono contare i ricettori 4. Identificare il sovraccarico comunicazionale
VII. Conclusioni. Oltre la formattazione
Bibliografia
Appendice – Verso una rhetorica universalis
1. La mia comunicazione non è mai del tutto spontanea 2. Platone e la retorica degli altri 3. Le ossessioni dei moderni e le loro ‘aggressioni’ alla retorica 4. Oltre il mero arrocco. Nuovi aspetti della relazione retorica-filosofia nel Novecento 5.Verso una nuova idea di verità 6. Verso una nuova idea di retorica: la rhetorica universalis Nota bibliografica
In questo Parmenide e Zenone sophoi a EleaLivio Rossetti ci propone una marcia di avvicinamento a due pensatori antichi di primissimo ordine. Il suo proposito è stato di lavorare su due ‘pezzi da museo’ che ci sono stati trasmessi pieni di polvere e di incrostazioni esegetiche, riportarli alla luce e tornare a osservarli da vicino. Pretesa eccessiva? Non proprio, perché di Parmenide si sta riscoprendo solo ora lo stupefacente sapere naturalistico che pure formava parte integrante del suo poema, e di conseguenza il suo insegnamento richiede di essere visto da una prospettiva profondamente rinnovata. Quanto poi ai paradossi di Zenone, essi sono stati per lo più trattati come problemi da risolvere o calcoli da eseguire, senza considerare che Zenone avrà avuto interesse a idearli, non certo a risolverli e dissolverli. Quindi, anche qui, netto cambio di prospettiva. L’autore ci invita dunque a guardare a questi due personaggi estremamente creativi senza pensare alle tradizioni interpretative, con la mente sgombra, con rinnovata curiosità. Lo fa con competenza, ma usando un linguaggio piano, cordiale, arioso, partendo dai luoghi e dal contesto. Avvicinarsi a quel mondo sarà una scoperta.
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Livio Rossetti …
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Salvator Rosa (1615-1673), Allegoria della menzogna.
Salvatore Bravo
Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno, abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.
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La pratica della menzogna conosciuta In questi decenni difficili l’inaudito e l’osceno spesso sono il pane quotidiano, ma nulla accade, niente sembra portare effetti sostanziali nella prassi politica e comunitaria. La meraviglia panica innanzi a tale realtà-verità dovrebbe essere oggetto di una riflessione profonda da parte di uomini e donne di buona volontà che vivono la difficile pratica della verità. In un quadro storico apparentemente razionale, ma in realtà irrazionale, servile e malinconico, tutto sembra accadere, ma nulla cambia, non vi è prassi, ma solo abitudine ed indifferenza. L’informazione – con la sua abbondanza di fonti – rende possibile constatare che la verità degli accadimenti – narrati secondo la liturgia ufficiale – non è tale. Rppure sembra che la verità non emerga. Se si pone ascolto alle conversazioni comuni è palese che, in media, non si ha fiducia alcuna nella narrazione mediatica, eppure si finge di credere, e passivamente si torna alle attività quotidiane. La verità non è seppellita da sovrastrutture complesse, ma è dinanzi a noi. Anche quando si ha il sospetto che il racconto ufficiale non corrisponda al vero, nulla si fa per approfondirlo: lo si accetta per sopravvivere quietamente. In tale contesto raccontare la verità dei fatti di cronaca non sortisce risultato alcuno, difficilmente si ottiene il passaggio all’autocoscienza individuale e collettiva. I processi di riconfigurazione del reale storico non sembrano effettuarsi, si vive in una dimensione forse “assolutamente nuova”, in un limbo tra verità e “menzogna conosciuta”: si intravede forse la verità, ma si pratica la menzogna. Tale comportamento è divenuto ora di massa: i popoli si nutrono di questo nuovo veleno che penetra nel corpo delle istituzioni come nelle relazioni interpersonali, nelle parole e negli sguardi, creando una sostanziale sfiducia nella prassi. Si vive nella caverna platonica, pare volutamente. La verità e la “menzogna conosciuta” convivono senza procurare conflitti etici o lacerazioni interiori. La vita si riduce all’attimo presente. Si strappa l’attimo senza contestualizzarlo. Ci si accontenta di ritagliarsi attimi di vita (lasciando sullo sfondo l’ombra della verità) e si accetta la pratica della “menzogna conosciuta” o anche soltanto sospettata. Regna la divina indifferenza. Pertanto, ogni evento di cronaca – con le sue liturgie – resta confinato in un spazio e in un tempo sospeso, la vita continua senza che nulla accada. I recenti fatti di cronaca, la complessità pandemica, l’uccisione dell’ambasciatore in Congo sono eventi che vengono accettati secondo le liturgie ufficiali, pur sapendo che il vero non è detto. Eppure ciò non muove a ricercare, non attiva una azione autonoma di indagine alla ricerca della verità. Si assiste semplicemente all’ennesimo spettacolo in scena fingendo di credere allo spettacolo della menzogna.
Scenografia della menzogna Primo Levi ci ha insegnato – in I sommersi e i salvati – la tragedia della contemporaneità, ci ha indicato una verità evidente che non possiamo ignorare e che può servirci come categoria per capire il nostro difficile presente: normalmente si sceglie di essere parte della zona grigia, ovvero la verità evidente è saputa, ma non ci si schiera, ci si limita a sperare di non cadere vittime della macchina della menzogna che uccide la verità come gli esseri umani. La zona grigia si globalizza. Sappiamo tutti che la finanza governa, che la politica è al servizio degli interessi superiori della finanza, che la democrazia – dapprima ridotta a semplice procedura senza sostanza – ora è sospesa anche nella sua pratica procedurale. Sappiamo che in Africa non muoiono martiri e santi, ma uomini e donne, che l’aziendalizzazione delle istituzioni privilegia i possidenti ed esclude dai servizi il popolo. I servizi sociali senza i quali i popoli sono plebi, sono “offerti” secondo una qualità associata al reddito, eppure nulla accade, benché l’ingiustizia sia evidente. La menzogna è trasmessa, secondo formule linguistiche, che ammiccano alla verità, e la trasformano in menzogna. Il linguaggio da casa dell’essere-verità è divenuto la casa della menzogna conosciuta. Si sopravvive in questa palude grigia, in cui gradualmente si diffonde un razzismo che classifica le genti secondo il censo, eppure si plaude al multiculturalismo, ai diritti individuali, ci si scandalizza dei feminicidi, la ritualizzazione è ascoltata, come se ci si credesse, sapendo che sono solo scenografie della menzogna. Mettere in atto processi genealogici di ricategorizzazione del reale significherebbe “responsabilità e coinvolgimento personale”. Si preferisce fingere di acconsentire alle versioni ufficiali, pur sapendo che mentono. Il potere crea catalizzatori di consenso, a cui si aderisce nominalmente, ma si ha il sentore che la ricostruzione è troppo semplice, troppo ripetitiva e che i fatti non possono essere spiegati con semplice logica manichea. Si finge di credere sperando di scampare al pericolo ed alla responsabilità personale: si sopravvive, perché la zona grigia è fatta di sopravvissuti.
Nichilismo passivo Cercare la ragione profonda del successo della zona grigia è arduo, e ci si può spostare da cause storiche contingenti: la caduta del comunismo novecentesco, la lotta per la sopravvivenza nella globalizzazione liberista sfibra le energie, in quanto si deve lottare per difendere ciò che domani nella competizione potrebbe essere tolto, per cui l’atomocrazia – col suo carico di solitudine – diviene la normalità quotidiana. Vi è una realtà più profonda, forse, che rafforza l’indifferenza davanti alla verità sospettata e conosciuta ed alla pratica della menzogna, ed essa è che l’Occidente ha sostituito la verità con l’esattezza, per cui verità e menzogna sono equiparate, sono niente, perché l’esattezza numerica e scientifica ha divorato la verità, è stata la “cattiva maestra” dell’Occidente. L’esattezza è entrata nel cuore e nell’anima dell’Occidente, si è sviluppata una monomania collettiva: tutto è riportato alla sola quantità, pertanto non vi sono altre categorie razionali con cui disporsi e sentire gli accadimenti. Solo l’esattezza parla e muove all’agire. L’educazione all’imprenditorialità generalizzata ha tale fine ultimo, per cui se si uccide un intero continente per i suoi minerali che servono per l’informatica e l’energia pulita ciò è coerente con l’esattezza, e la realtà dello sfruttamento e della violenza non provocano scandalo. La verità è complessità logica, dialettica ed etica, per cui il potere domina perché la zona grigia è complice e vittima di questa diseducazione globale alla verità. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita non provocano azioni e reazioni, perché l’esattezza esige che la vita sia normalmente mercificata, e le parole della mercificazione sono l’unico linguaggio dell’Occidente: la zona grigia sa che tale prassi è la verità, ma accetta l’esattezza come fosse l’unica strada percorribile, pur sapendo ed intuendo che tale modalità di vivere non rientra nel “bene”.
Ogni agire politico deve confrontarsi con il rischio di infrangersi contro l’esattezza, contro l’abitudine ad agire solo perseguendo interessi personali legati all’utile. Si può ipotizzare che quando gli ultimi residui di resistenza saranno trascesi, non si avranno più paradigmi per discernere e sospettare che le versioni ufficiali sono ideologiche. Si deve, affinché ciò non accada, lavorare per la verità, per riportare in luce la differenza tra verità e menzogna. Ancora una volta è la filosofia che può riportare la verità al centro del suo discorso gnoseologico ed ontologico, in modo che la democrazia divenga pratica e ricerca della verità, e non un ideale ideologico da usare per far accettare i “bombardamenti etici”, l’irrilevanza e l’omogeneità culturale come mezzo per privare persone e popoli della loro identità. Spetta a coloro che ascoltano la tragedia etica del presente riprendere il cammino verso la verità sapendo che non vi è certezza del risultato. Si devono riaprire «i chiostri de la verità»[1] come diceva Giordano Bruno nella Cena de le ceneri. Ognuno può dare il proprio contributo a tale operazione filosofica, nessuno è escluso. Siamo all’anno zero, pertanto bisogna cominciare da tale verità per capire il presente.
Salvatore Bravo
[1] Giordano Bruno, La cena de le ceneri, Einaudi Torino, 1995 p. 20.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
È indubbio che ogni epoca finisce per esercitare, se non una censura basata su codici tassativi e più o meno espliciti, almeno una deformazione congiunturale del testo. Un tempo si era soliti dire che il primo passo per una lettura adeguata di un’opera consisteva nel definirne il circolo ermeneutico: compito di un critico o di un lettore (suggeriva Leo Spitzer)[1] era quello di partire dalla periferia e di compiere in senso inverso, risalendo verso il centro, il percorso che era stato originariamente compiuto dal creatore. Una volta raggiunto il centro, si poteva ragionevolmente pensare di avere conquistato la verità dell’opera perché quella «verità», certa e rassicurante, esisteva e perché si riteneva che una strategia adeguata avrebbe permesso di conquistarne la chiave.
La fragilità del modello è risultata evidente appena si è messo in dubbio il postulato che l’opera in sé possedesse un significato unico, accertabile e metastorico, definito una volta per tutte dal suo creatore. Ci si è accorti allora che, nel corso della loro vita secolare, i testi sono stati sottoposti a una serie di deformazioni talvolta volontarie (come nel caso della censura), ma molto più spesso preterintenzionali e in nessun modo imputabili alla responsabilità del lettore. Il quale, anche quando si muove secondo i dettami della più rigorosa filologia, e – alle prese con un testo antico – utilizza con la massima attenzione e precisione il codice linguistico del tempo, non può elidersi, non può fare in modo che quel codice abolisca il suo codice. Ci sarà sempre, come ha detto Bachtin,[2] un inevitabile scarto linguistico che finirà col produrre deformazioni. C’è una coscienza di lettore, una coscienza ermeneutica che si misura con un’altra coscienza, «con la coscienza di un testo», e la tensione tra queste due coscienze porta inevitabilmente a disegnare un modello irriducibile al cerchio, ma che fa piuttosto pensare a un’ellisse.[3]
Mario Lavaggetto, Oltre le usate leggi. Una lettura del Decameron, Einaudi, Torino 2019, p. 26.
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[1] L. Spitzer, Critica linguistica e storia del linguaggio, Laterza, Bari 1954, pp. 12 ss.
[2] M. Bachtin, Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle altre scienze umane, in Id., L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino 1988, pp. 291 ss.
[3] M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, p. 24.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«[…] la virtù rende buona la nostra vita e, insieme, la salva, la sottrae alla distruzione e alla dismisura, le impedisce di cadere nell’eccesso, di dirigersi pericolosamente verso quegli estremi che, insieme, la rendono viziosa e la annientano.
Dare misura al proprio agire: è questo il compito impegnativo che si richiede a chi vuole agire virtuosamente. Ma in questa virtù come capacità di “dar misura” a se stessi e al proprio agire riemerge quel significato di virtù come forza che abbiamo ricordato precedentemente. Perché, per “darsi misura” occorre essere forti, nel duplice senso del “farsi forza” (per intraprendere il duro cammino in direzione del giusto mezzo) e dello “sforzarsi” (per contenere quella parte di sé che ci allontana da questo obiettivo). Come è stato detto «abbiamo bisogno della massima forza morale per combattere i nostri cattivi impulsi e tutte le nostre virtù in realtà consistono nell’evitare il vizio».[1] Talvolta, afferma lo stesso Aristotele, si tratta di forzare la propria natura. Esattamente come fa chi deve raddrizzare un legno storto:[2] lo spinge fortemente nella direzione contraria a quella che, a causa di un difetto, ha assunto, allo scopo di farlo diventare diritto. Così è per l’essere umano, naturalmente portato in una direzione piuttosto che in un’altra, incline per natura a compiere certe cose piuttosto che altre. E di questa inclinazione bisogna tenere conto, senza sottovalutare l’estrema difficoltà dell’impresa e senza irrigidirsi in schemi preconfezionati, limitandosi a scegliere, quando la situazione lo richiede, perfino il minore dei mali.[3] Allora chi è virtuoso è retto e la sua rettitudine si manifesterà in ogni scelta, in ogni azione, in ogni modo di rapportarsi alle proprie passioni. In tale corretta amministrazione del pathos risiede, pertanto, il fondamento di una vita buona e bella, a livello individuale e anche a livello collettivo, in quanto la virtù rappresenta l’anello di congiunzione – di una congiunzione sana e feconda – tra l’individuo e il mondo: «l’ἀρετή umana è un’abi(tua)lità acquisita e perfezionata che ha origine e causa nel proponimento […], a sua volta tensionalità desiderante che proviene da bouleusis, una catena i cui anelli connettono, senza interruzioni, interiorità e relazionalità dell’essere umano, il quale è dalla nascita dotato di logos e propenso alla vita di comunità»[4] (pp. 43-44.).
«La virtù, insomma, ci rende armonici e rende bella, armonica ed equilibrata la nostra esistenza, dato che, come si ricorda nel Carmide: “una vita condotta con temperanza deve essere anche bella”.[5] È per questo che una vita senza virtù non può che essere costitutivamente eccessiva, sgraziata, brutta (pp. 47-48.).
«Una vita felice, è, dunque, una vita che prospera, ma che prospera soprattutto grazie alla virtù, che sa produrre la bellezza e l’armonia. Felice, infatti, può essere detta una vita armonica, una sinfonia ben eseguita, uno spartito ben suonato. Certo, però, che un modello di questo tipo si rivelerebbe niente più che un quadretto stucchevole se non tenesse conto di un fatto che, nella sua assoluta ordinarietà, risulta addirittura banale: la felicità si realizza nella vita umana e quindi è costretta a misurarsi, quotidianamente, con mille elementi disarmonizzanti. Primo fra tutti il dolore, la dissonanza esistenziale per eccellenza, e, con il dolore, tutta quella sterminata gamma di piccole e grandi disarmonie che ogni giorno abbruttiscono il quadro, guastano la melodia» (p. 52).
«La virtù, in questo quadro, è e deve essere non solo qualcosa di teorizzato, ma qualcosa di “praticato”, è e deve essere la cosa più importante, la cosa di maggior valore, ciò da cui ogni esistenza può essere resa bella e degna di ammirazione e senza cui, al contrario, tutto va in malora, la mescolanza si distrugge, in preda all’eccesso, alla dismisura, all’assenza di limiti» (p. 54).
Arianna Fermani, Virtù, Unicopli, Milano 2021
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[1] J. N. Shklar, Ordinary Vices, Harvard University Press, 1984; trad. it. S. Sabattini: Vizi comuni, il Mulino, Bologna 1986, p. 276.
[2] «Instaurare nell’anima la medietà è un compito difficile, poiché comporta un vero e proprio “raddrizzamento” di quelle tendenze naturali. All’inclinazione verso il piacere occorre contrapporre una spinta di segno contrario, uno sforzo che viene paragonato a coloro che tentano di far diventare diritti i legni sorti» (Silvia Gastaldi, Le immagini della virtù. Le strategie metaforiche nelle Etiche di Aristotele, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1994, p. 89).
[3] «Infatti uno degli estremi è più sbagliato, mentre l’altro lo è meno; e dal momento che è arduo cogliere perfettamente il centro, con una seconda navigazione, come dicono, si devono scegliere i mali minori; e questo potrà avvenire soprattutto nel modo che diciamo. E quindi si deve esaminare quali sono le cose per cui siamo portati. Infatti persone diverse sono portate, per natura, a cose diverse. Questo, d’altra parte, risulterà chiaro dal piacere e dal dolore che nascono in noi. Dobbiamo dunque spingerci nella direzione opposta; infatti allontanandoci molto dall’errore arriveremo al giusto mezzo, come fanno coloro che raddrizzano i legni storti… Certo, è difficile, e lo è soprattutto nei casi particolari; infatti non è facile stabilire come, con chi, per quali motivi e per quanto tempo arrabbiarsi; infatti anche noi, talvolta, lodiamo coloro che lo fanno troppo poco, e li chiamiamo miti, a volte, invece, lodiamo coloro che hanno un carattere duro e li chiamiamo virili. Ma mentre non è biasimato chi si allontana solo in piccola misura dal bene, né se devia verso il difetto né se lo fa verso l’eccesso, il contrario accade per chi si allontana in misura maggiore; infatti costui non passa inosservato. Non è facile stabilire col ragionamento fino a che punto e in che misura è degno di biasimo; infatti non lo è neppure nessun’altra delle cose sensibili; esse, infatti, rientrano nei casi singoli e il giudizio su di esse spetta alla sensazione. Tutto ciò mostra, quindi, che lo stato abituale intermedio è lodevole in tutti i casi, ma che a volte si deve tendere maggiormente verso l’eccesso e a volte verso il difetto; in questo modo, infatti, conseguiremo nel modo più facile il giusto mezzo e il bene» (Aristotele, Etica Nicomachea, II, 9, 1109 a 33-1109 b 26).
[4] F.C. Papparo, in G. Alicandro, Atletismo della virtù. Sulla φιλίαin Aristotele, Edizioni ETS, Pisa 2018, pp. 24-25.
L’αρετή di un individuo, come pure quella di un animale o di una realtà inanimata, è per un greco la sua migliore realizzazione, la perfetta esecuzione del proprio compito; la virtù di un qualsiasi essere è ciò per cui ne va del suo valore, ciò che realizza quel determinato essere proprio perché lo fa essere “ciò che è”. Il volume attraversa le ricchissime nozioni di αρετή e di virtus, nel lungo e stratificato arco storico che va da Omero a Proclo, intrecciandole a questioni, altrettanto complesse e appassionanti, quali quelle di responsabilità dell’agire, vizio, piacere e dolore, vita felice e così via. In un serrato “corpo a corpo” con i testi e con le riflessioni degli antichi – che oltre che a parlare a noi, su queste tematiche, più che mai, parlano di noi – il testo è impreziosito da due strumenti utili ad orientarsi nei diversi profili, storici e concettuali, del tema d’indagine: Lessico delle virtù e Glossario delle virtù.
Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana.
Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele
Editore: eum, 2006
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano. La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti Premessa I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni II “Essere” e “dirsi in molti modi” Introduzione I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele II. Autenticità delle tre Etiche III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù Capitolo primo: Giustizia e giustizie Capitolo secondo: La fierezza Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca” Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni Bibliografia Indice dei nomi
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.
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Interiorità e anima: la psychè in Platone
Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
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Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
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Il ‘simposio’ di Platone
J. Rowe, Arianna Fermani
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
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ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.
282 Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon, Arianna Fermani, Luca Grecchi, Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta, a cura di Luca Grecchi, Immanenza e trascendenza in Aristotele. ISBN 978-88-7588-190-0, 2017, pp. 384, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Il giogo” [79]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele collocata nel cuore di Piazza Aristotele nella città di Salonicco in Grecia.
283 Luigi Ruggiu, Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino. ISBN 978-88-7588-186-3, 2017, pp. 496, formato 170×240 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [80]. In copertina: Mosaico dello zodiaco e delle Quattro Stagioni. Ostia Antica, Magazzini. Dalla Necropoli di Porto all’Isola Sacra, Tomba 101.
284 Massimo Bontempelli, Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero. Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello. ISBN 978-88-7588-188-7, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [81]. In copertina: Henri Matisse, Icaro, tavola a pochoir, pubblicata nel 1947 sulla rivista Jazz.
285 Maura Del Serra, L’albero delle parole. Con uno scritto di Domenico Segna: Lettera ad una professoressa delle scuole medie. ISBN 978-88-7588-184-9, 2017, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Elaborazione grafica del fotogramma di Andreas Kassel, 3XTonino, dedicato a Tonino Guerra.
286 Daniele Orlandi, T. Lettera ad una madre sul primo amore. Disegni di Sara Prebottoni. ISBN 978-88-7588-180-1, 2017, pp. 432, formato 140×210 mm., Euro 20. In copertina: Sara Prebottoni, Afonie emotive. Disegno e composizione fotografica, 2017. Elaborazione grafica di Sara Bolletta.
287 Giorgio Mazzanti, Edi Natali, Diego Pancaldo, Roberto Presilla, Francesco Ricci, Antonella Spitaleri, Fausto Tardelli, La città tra idealità e realtà. A cura di Edi Natali. ISBN 978-88-7588-182-5, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15. In copertina: Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo, ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti (1338-1339), Palazzo Pubblico di Siena.
288 José Jorge Letria, Il deserto innominabile. Poesie. Testo portoghese a fronte. Cura e traduzione di Simonetta Masin. ISBN 978-88-7588-192-4, 2017, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Salin de Giraud, Camargue. Fotografia di Simonetta Masin.
289 Mario Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica. ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [82]. In copertina: Affresco raffigurante gli Istrumenta sciptoria. In quarta: bassorilievo del tempio di Esculapio di Atene.
Tanti incontri della nostra vita, tanti rapporti umani sono basati semplicemente sul fatto che si dà una moneta o una banconota a qualcuno in cambio di un francobollo o di un giornale, sanza sapere niente di quella persona.
Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti.
Avevo subodorato l’atmosfera di viltà, compromesso o di prudenti silenzi da una parte, di rudi abusi di forza, di una smania di arrivismo, di quella piatta demagogia accostata alle realtà dell’arbitrario dall’altra, che è, o finisce per essere, l’aria irrespirabile di tutte le dittature»
Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti.
Postfazione
di Marguerite Yourcenar
Una prima versione di Moneta del sogno, appena più breve, è apparsa nel 1934. L’opera attuale è ben più di una semplice ristampa o anche di una seconda edizione rivista e ampliata con brani inediti. Alcuni capitoli sono stati quasi interamente riscritti e a volte notevolmente sviluppati; in certi punti, i ritocchi, i tagli, le trasposizioni non hanno risparmiato quasi nessuna riga del vecchio libro; in altri, al contrario, grandi blocchi della versione del 1934 sono rimasti invariati. Per come si presenta oggi, il romanzo è quasi per metà una ricostruzione degli anni 1958-1959, ma una ricostruzione in cui il nuovo e il vecchio s’intrecciano a tal punto che è pressoché impossibile, persino per l’autore, distinguere in quale momento cominci l’uno e finisca l’altro.
Non solo i personaggi, i loro nomi, i loro caratteri, i rapporti reciproci, e lo sfondo in cui agiscono sono gli stessi, ma anche i temi principali e secondari del libro, la struttura, il punto di partenza degli episodi e il più delle volte il loro punto d’arrivo permangono immutati. Al centro del romanzo vi è sempre il racconto, per metà realistico, per metà simbolico, di un attentato antifascista a Roma nell’anno XI della dittatura. Come in precedenza, alcune figure tragicomiche più o meno legate al dramma o a volte affatto estranee a esso, ma quasi tutte più o meno consapevolmente in balia dei conflitti e degli slogan dell’epoca, si concentrano attorno a tre o quattro personaggi dell’episodio centrale. Al primo Moneta del sogno apparteneva anche l’intento di scegliere dei personaggi che a prima vista potrebbero sembrare sfuggiti da una Commedia, o meglio, da una Tragedia dell’Arte moderna, ciò al solo fine di porre subito in evidenza quanto ognuno di essi ha di più specifico, di più irriducibilmente singolare, e di lasciare quindi intuire quel quid divinum più essenziale della loro stessa persona. Lo slittamento verso il mito o l’allegoria era pressoché simile nelle due versioni, e ambiva ugualmente a confondere in un tutto unico la Roma dell’anno XI dalla nascita del fascismo e la Città in cui s’intreccia e si disfa in eterno l’avventura umana. Infine, la scelta di un mezzo volutamente stereotipato, quello della moneta che passa di mano in mano, per collegare tra loro episodi già imparentati dalla riapparizione degli stessi personaggi e dei medesimi temi, o dall’introduzione di temi complementari, esisteva già nella prima versione del libro, e la moneta da dieci lire rappresentava come qui il simbolo del contatto tra esseri umani sprofondati, ognuno alla propria maniera, nelle passioni e nella propria intrinseca solitudine. Quasi sempre, riscrivendo in parte Moneta del sogno, mi è capitato di dire, in termini a volte molto diversi, quasi esattamente la stessa cosa.
Ma, se è così, perché imporsi una ricostruzione tanto considerevole? La risposta è molto semplice. Nel corso della rilettura, alcuni brani mi erano parsi troppo deliberatamente ellittici, troppo vaghi, a volte troppo ornati, troppo contratti o troppo diluiti o anche, a volte, soltanto mal riusciti. Gli interventi che rendono il libro del 1959 un’opera diversa da quella del 1934 tendono tutti alla presentazione più completa, e dunque più minuziosa, di alcuni episodi, allo sviluppo psicologico più accentuato, a semplificare e a chiarire certi aspetti e, per quanto possibile, ad approfondirne e ad arricchirne altri. In diversi punti ho cercato di rafforzare la componente realistica, in altri quella poetica, il che alla fine è o dovrebbe essere la stessa cosa. I passaggi da un piano all’altro, le brusche transizioni dal dramma alla commedia o alla satira, frequenti nella prima versione, oggi lo sono ancora di più. Ai procedimenti già impiegati, narrazione diretta e indiretta, dialogo drammatico, e persino aria lirica, è andato ad aggiungersi in rarissime occasioni un monologo interiore che, lungi dal voler mostrare, come quasi sempre avviene nel romanzo contemporaneo, un cervello-specchio che riflette passivamente il flusso delle immagini e delle impressioni che scorrono, qui si riduce ai soli elementi basilari della persona, e pressoché alla semplice alternanza del sì e del no.
Potrei moltiplicare questi esempi, destinati a interessare chi scrive romanzi più di chi li legge. Mi sia almeno consentito di smentire l’opinione corrente secondo la quale riprendere in mano una vecchia opera, ritoccarla, a maggior ragione riscriverla in parte, è un’impresa inutile se non nefasta, inevitabilmente priva di slancio e di ardore. Al contrario, ho goduto dell’esperienza diretta e del privilegio di vedere questa sostanza fissata in una forma da così tanto tempo ridiventare duttile, di rivivere un’avventura da me immaginata in circostanze che neanche ricordo più, infine di ritrovarmi in presenza di certe vicende romanzesche come dinanzi a situazioni vissute in passato che, per quanto si possano esplorare ulteriormente, interpretare meglio o spiegare più diffusamente, non ci è più consentito cambiare. La possibilità di apportare all’espressione di idee o di emozioni che non hanno mai smesso di abitarci il beneficio di una più lunga esperienza umana, e soprattutto artigianale, mi è parsa un’occasione troppo preziosa per non essere accolta con gioia, e anche con una sorta di umiltà.
È soprattutto l’atmosfera politica del libro a non variare da una versione all’altra e così doveva essere, affinché questo romanzo ambientato nella Roma dell’anno XI restasse esattamente datato. Quei pochi fatti immaginari, la deportazione e la morte di Carlo Stevo, l’attentato di Marcella Ardeati, si collocano nel 1933, vale a dire in un’epoca in cui le leggi speciali contro i nemici del regime infierivano da alcuni anni, e molti attentati dello stesso genere contro il dittatore erano già avvenuti. Tutto ciò, d’altra parte, accade prima della spedizione in Etiopia, prima della partecipazione del regime alla guerra civile spagnola, prima dell’avvicinamento e del repentino asservimento a Hitler, prima della promulgazione delle leggi razziali e, beninteso, prima degli anni di confusione, di disastri, ma anche di eroica resistenza partigiana della seconda grande guerra del secolo. Era dunque importante non mescolare all’immagine del 1933 quella, ancora più cupa, degli anni che videro il compimento di ciò che il decennio 1922-1933 conteneva già in embrione. Conveniva lasciare al gesto di Marcella il suo aspetto di protesta pressoché individuale, tragicamente isolata, e alla sua ideologia quella traccia dell’influenza di dottrine anarchiche che, sino a tempi ancora recenti, hanno così profondamente segnato la dissidenza italiana; bisognava lasciare a Carlo Stevo il suo idealismo politico in apparenza superato e in apparenza futile, e al regime stesso quel presunto aspetto positivo e trionfante che a lungo ha costituito l’illusione non tanto, forse, del popolo italiano quanto dell’opinione pubblica straniera. Una delle ragioni per le quali Moneta del sogno è parso degno di una nuova edizione è che fu a suo tempo uno dei primi romanzi francesi (il primo, forse) a guardare in faccia la vacua realtà che si celava dietro la tronfia apparenza del fascismo nel preciso momento in cui tanti scrittori in visita nella penisola si compiacevano nell’incantarsi ancora una volta dinanzi al tradizionale pittoresco italiano o nel guardare ammirati ai treni che partivano in orario (almeno in teoria), senza degnarsi di conoscerne la destinazione.
Come tutti gli altri temi del libro, e forse anche di più, il tema politico si ritrova rafforzato e sviluppato nella versione attuale. L’avventura di Carlo Stevo occupa un maggior numero di pagine, ma tutte le circostanze indicate sono quelle che figuravano già brevemente o implicitamente nella prima edizione. Le ripercussioni del dramma politico sui personaggi secondari sono più marcate: l’attentato e la morte di Marcella sono commentati en passant (cosa che non accadeva in precedenza) non solo da Dida, la vecchia fioraia del quartiere, e da Clément Roux, il viaggiatore straniero, ma anche dalle due sole nuove comparse introdotte nell’economia del libro: la proprietaria del caffè e il dittatore stesso, che qui d’altronde permane essenzialmente qual era nel vecchio romanzo, un’ombra enorme proiettata sul contesto; ora la politica inebria l’alcolista Marinunzi quasi quanto la bottiglia. Infine, Alessandro e Massimo, ognuno alla propria maniera, si sono rinsaldati nella loro veste di testimoni.
Forse nessuno si stupirà che nella versione attuale la nozione del male politico giochi un ruolo più considerevole rispetto alla precedente, né che Moneta del sogno del 1959 sia più amaro o più ironico di quello del 1934, che già lo era. Ma, nel rileggere le nuove parti del libro come se si trattasse dell’opera di un altro, mi colpisce particolarmente che il contenuto attuale sia al tempo stesso un po’ più aspro e un po’ meno cupo, che alcuni giudizi sul destino umano siano forse un po’ meno categorici e tuttavia più definiti, e che i due principali elementi del libro, il sogno e la realtà, cessino di essere due entità distinte, pressoché inconciliabili, per fondersi maggiormente in quel tutto che è la vita. Le correzioni di pura forma non esistono. La sensazione che l’avventura umana sia ancora più tragica, se mai è possibile, di quanto già sospettassimo venticinque anni or sono, ma anche più complessa, più ricca, a volte più semplice, e soprattutto più strana di quanto avessi già tentato di dipingerla un quarto di secolo prima, è stata forse la ragione che più di ogni altra mi ha indotta a riscrivere questo libro.
Mount Desert Island, 1959
Marguerite Yourcenar, Moneta del sogno, Bompiani, 2017, pp. 191-196.
Quarta di copertina
Roma, 1933. Il romanzo italiano di una grande scrittrice
Considerato il romanzo italiano di Marguerite Yourcenar, “Moneta del sogno” è il racconto, in parte realistico e in parte simbolico, di un attentato antifascista nella Roma dell’anno XI della dittatura, in una giornata di primavera. Scritto nel 1933 e rielaborato interamente nel 1959, il romanzo si snoda in nove episodi intrecciati l’uno all’altro da una moneta d’argento da dieci lire che passa di mano in mano da un personaggio all’altro come in una messinscena teatrale o cinematografica. Iniziato durante una visita in Italia, durante la quale l’autrice fu spettatrice della Marcia su Roma e delle tensioni che seguirono il delitto Matteotti, “Moneta del sogno” si distinse fra tutte le opere letterarie dell’epoca per la forte presa di posizione contro l’immagine che la propaganda ufficiale dava del nostro paese e per l’intuizione dei fatti gravi e irrimediabili che incombevano sull’Europa. Un romanzo importante da un punto di vista letterario e politico, da scoprire o riscoprire oggi in una nuova traduzione che ne restituisce per intero tutta la potenza.
La serata è più silenziosa del solito, mi preparo con la radio spenta e la fantasia accesa. Prendo un vestito sobrio e particolare al tempo stesso, mi immagino indossarlo bevendo un prosecco al bar del teatro. Che anche questo fa parte della serata in fondo, penso, quasi a giustificare questa immagine. Un prosecco, il bar, le persone … stasera stranamente mi soffermo su questo tipo di dettagli, quando penso alle ore che mi aspettano. Ho un tuffo al cuore e mi manca quasi il respiro quando immagino la fila all’ingresso, quel cauto camminare cercando di controllare la voglia di entrare nella hall calda e liberarsi del peso della giacca, quel cercare di mantenere un’elegante distanza dall’ospite che ci precede, pur riuscendo ad annusare distintamente il profumo emanato dalla sua sciarpa.
Il saluto alla maschera che controlla i biglietti: gli chiederò da che parte debba dirigermi per trovare il mio posto, anche se lo so benissimo, tanta è la voglia di parlare. Di vedere mani che indicano, gesticolano, che prendono il mio biglietto tra le dita e me lo restituiscono e per spiegare ancora una cosa me lo sottraggono nuovamente per poi consegnarmelo un’ultima volta, sfiorandomi perfino il dorso della mano. Immagino poi la fila al bar, immagino di guardare con benevolenza il cameriere mentre tocca i contanti e poi tocca la mia brezel e poi di nuovo le banconote e poi ancora il cibo altrui, senza guanti e senza rimedio, con allegria e noncuranza. Qualcuno mi pesta un piede per sbaglio, tanto ci tiene al vassoio con le quattro birre che deve ritirare, si gira e si scusa, con una risata di cui sento il vento sulla guancia. Gli sorrido, inalando il suo buonumore.
Quando trovo il mio posto le luci della sala sono ancora accese. Dopo pochi secondi che mi sono seduta arrivano quattro persone che desiderano raggiungere le loro poltrone più avanti nella stessa fila. Mi sorridono, come si sorride a teatro quando si desidera raggiungere una poltrona più avanti nella stessa fila. Sorrido anche io e mi alzo, mi schiaccio contro la mia poltrona chiusa, loro si schiacciano contro la fila davanti, ma il loro fondoschiena struscia contro le mie cosce e il mio addome. Questa stessa scena avrà luogo ancora quattro, cinque volte. Poi potrò stare seduta un po’ più a lungo, prima di dovermi alzare l’ultima volta per far passare la signora che siede alla mia destra. Quella davanti a me indossa un vestito azzurro spento con uno scollo sulla schiena. Il collier argento e i capelli biondi raccolti si gonfiano e sgonfiano con ogni suo respiro, la pelle è dorata e mi sembra di percepirne la tiepida aura profumata.
Poi le luci si spegneranno, e succede che si sentono più forti i respiri, le parole, le risate, quando è buio e sta per cominciare la magia. Si sente la vicinanza, si sente l’energia della folla pronta al miracolo, si sente la sintonia dell’attesa.
Ma intanto attendo, attendo che il tassista raggiunga il teatro. Gli biascico qualche battuta ma non mi sente, la mia voce non riesce a superare la barriera di plexiglass posta tra i sedili posteriori e quelli anteriori. Allora mi ricordo di quell’altra sera, che forse dovrei chiamare mattina, erano le 4 circa, dopo la serata di tango. Salgo sul taxi e il tassista turco mi fa mille domande sulla serata, ha sentito parlare della folle milonga berlinese di Kreuzberg e vuole sentire che ne penso. Gli piace la danza, ma se ne occupa indirettamente dice lui, lui suona il saz e gli altri ballano. Se suona bene, ballano di gusto. Tu hai ballato di gusto, osserva, chiudendo il finestrino “perché sennò ti ammali, sei tutta bagnata”. E sì, ero tutta bagnata, del mio sudore e di quello delle decine e decine di persone che avevano ballato dentro l’aria tropicale della stanza dal pavimento rosso. Abbiamo riso, con quel tassista, mi ha concesso di fumare nella sua macchina, mi ha offerto una birra, ne aveva diverse lì, gli ho detto va bene, ma accosta che ce la fumiamo insieme questa sigaretta, in onore della musica e del ballo.
Contatto, promiscuità dell’anima, Berlino è la città perfetta, anche per quella del corpo, ma quella sera è stata così, ore di danze sfrenate, una sigaretta col tassista, poi ancora quattro chiacchiere con una che, povera anima, anche lei con il cane che doveva pisciare alle 5 del mattino. Il tassista frena e accosta, siamo arrivati davanti al teatro. Sono contenta, pago e scendo, lui riparte.
La piazza è deserta, il teatro è chiuso. Ci sono dei cartelli davanti, non descrivono la prossima produzione, bensì il funzionamento dei tamponi. Il teatro è diventato un grande mercato di tamponi rapidi. Ma a quest’ora no purtroppo, quasi penso che sarei entrata comunque, pur di entrare.
Mi sento chiusa fuori dal calore che ho immaginato. Penso alle persone che non vedrò, penso all’arte di cui non farò esperienza. Sono impalata davanti al portone chiuso, quando avverto come un alito di vento alle mie spalle. Non oso girarmi. Lo sento di nuovo, e insieme individuo come un sussurrio. Le voci si fanno gradualmente più forti. Declamano, piangono, ridono, urlano, sussurrano, scherzano. Virtuosamente modulano toni e modi dei mille personaggi che sono rimasti chiusi fuori dal teatro. Anche il vento è aumentato nel frattempo, e nella piazza deserta distinguo il frullio di piroette, salti, attese e rincorse. Alzo gli occhi e davanti dietro e intorno al teatro scopro centinaia di frammenti di scenografia, tele e pezzi dei panorami più esotici che camuffano l’edificio dentro al quale dorme il palcoscenico.
«Questo mare, questi monti, queste isole, questo cielo – che qui e soltanto qui dovesse sbocciare l’A-lètheia, e gli dèi potessero, anzi dovessero proprio qui rientrare nella sua luce salvifica, che qui l’essere dominasse come presenza e istituisse l’abitare umano, è per me oggi più degno di stupore e più impossibile che mai da pensare fino in fondo (…). Dobbiamo portare con noi in Grecia molte cose da meditare, molte cose già poetate in precedenza, per poi ricevere quel qualcosa di più che è incomparabile: la sorpresa della pura presenza».
FRANCO CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari, p. 36.
Franco Cassano, già ordinario di Sociologia dei processi culturali, è professore emerito presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari. Tra le sue pubblicazioni: Approssimazione (il Mulino 1989); Partita doppia (il Mulino 1993); Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo (il Mulino 2001); Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni (Dedalo 2004); Tre modi di vedere il Sud (il Mulino 2009); Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (con Andrea Riccardi, Lindau 2013). Ha curato con Danilo Zolo L’alternativa mediterranea (Feltrinelli 2007); Tre modi di vedere il Sud (il Mulino 2009).
«Gli uomini che hanno potere dovrebbero scendere dalle auto blindate e iniziare a passeggiare. Una passeggiata vuol dire essere restituiti alla strada e alla nudità casuale delle persone, guardare gli alberi, i palazzi o il mare, inseguire pensieri spesso splendidamente banali. Passeggiare vuol dire avere un cane per amico, oppure un amico libero come un cane, con cui parlare di tutto, uno che ti ascolta e ha voglia di perdere tempo con te. Passeggiare è […] assaggiare l’aria […] con la pelle, d’estate cercare l’ombra e d’inverno il sole. Passeggiare è commentare i titoli dei giornali con uno che non conosci, indicare una strada a un passante, ricordarsi di comprare qualcosa prima di tornare. Passeggiare è imbattersi in chi non t’aspetti, […] è fermarsi al bar e guardare la gente che passa, parlare con chiunque dell’ultima partita, tanto per scambiarsi calore. Passeggiare è giocare dolcemente con la giornata, decidere che ne puoi perdere un pezzo perché lo vuoi guadagnare. Passeggiare è il piacere dell’anonimato e quello della compagnia, incrociare gente che non conosci e facce note, salutare o non salutare […]. Passeggiare è evadere dalla corsa feroce, da quell’assedio che chiude le porte da cui potrebbe entrare la vita, da quelle giornate murate che fanno del telefono cellulare un cellulare di polizia. Passeggiare è mettere la punteggiatura ai giorni, andare a capo, voltare pagina, creare intervalli, parentesi o punti interrogativi. Passeggiare vuol dire infiltrare un po’ di vacanza in ogni giornata, lasciare aperta una fessura nel quotidiano, sapendo che la sorpresa può entrare anche dalle porte strette. Passeggiare […] vuol dire […] mettere le virgolette a ciò che pretende di essere assoluto, resistere a tutte le militarizzazioni. […] Passeggiare è un’arte povera, un far niente pieno di cose […]. Passeggiare è abbandonare la linea retta, […] girare a vuoto nella penombra, non aver paura di ascoltarsi. […] Passeggiare è ritornare a se stessi e a quella parte di noi che è la premessa di tutto […]. Passeggiare è il desiderio del ragazzo e dell’anziano, un’arte che l’adulto ha rimosso e sostituito con l’agonismo del jogging e della fitness. Passeggiare non serva a tenersi in forma, ma a dare forma alla vita» (Franco Cassano, Modernizzare stanca, pp. 149-150).
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice».
L. G.
Quarta di copertina
La dolcezza è una virtù fondamentale che rende migliori le relazioni umane, e mai come in questo periodo di grandi incertezze se ne sente il bisogno. Questo saggio di Luca Grecchi analizza dapprima, alla luce della filosofia greca classica, alcuni dei contenuti essenziali per la comprensione della dolcezza, come la verità, il bene, la virtù. In un secondo momento, descrive le principali strutture etiche affini alla dolcezza, ma che dalla stessa si differenziano, costituendone talvolta semplicemente delle componenti: la gentilezza, la tenerezza, l’umiltà, la misericordia, la gratuità, la forza, la semplicità e la finezza. Di queste qualità, che il nostro tempo spesso altera, la dolcezza costituisce il coronamento e la compiuta realizzazione.
Luca Grecchi (Codogno, 1972) insegna per le cattedre di Filosofia Morale e di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra i suoi libri più recenti, Leggere i Presocratici(2020) e tre volumi della collana «Questioni di filosofia antica» delle Edizioni Unicopli, ossia Natura, Uomo e Ricchezza (rispettivamente 2018, 2019 e 2021). Ha scritto inoltre Conoscenza della felicità(Petite Plaisance, 2005).
Pagine 170 – Euro 17,00
Indice
Introduzione di Silvia Vegetti Finzi
PRIMO CAPITOLO: Per introdurre il discorso
La dolcezza come virtù
L’uomo: un ente da definire
Il bene: un concetto da definire
Il rispetto e la cura come relazioni costitutive del bene
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