Platone (428/427– 348/347 a.C.) – Chi, pur possedendo una erudizione enciclopedica, e pur avendo particolare abilità in molte tecniche, è privo però della scienza di ciò che è meglio per l’uomo, si fa trascinare di volta in volta da ciascuna delle altre conoscenze e così finisce per trovarsi travolto dai flutti.

Platone - Alcibiade minore 01

«Il possesso di molte scienze, quando non è accompagnato dalla scienza di ciò che è meglio sempre in ogni caso, poche volte è utile e il più delle volte danneggia. [ …] E chi per altro possiede la cosiddetta erudizione enciclopedica (πολυμαθία) e politecnica (πολυτεχνία), ma sia privo di questa scienza e sia menato di volta in volta da ciascuna di queste altre conoscenze, non si troverà giustamente e senza metafora in gran tempesta come chi sia fra i flutti del mare senza pilota, col rischio di perire in ogni istante».

Platone, Alcibiade secondo, 146 e –147 a-b.


Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le relazioni con gli stranieri sono atti di particolare sacralità. Lo straniero si trova ad essere privo di amici e parenti, e quindi è affidato in modo particolare alla solidarietà degli dei e degli uomini. Non c’è colpa peggiore per un uomo che un torto fatto ai supplici
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non esiste male maggiore che un uomo possa patire che prendere in odio i ragionamenti. L’odio contro i ragionamenti, e quello contro gli uomini, nascono nella stessa maniera.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È questo il momento nella vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un essere umano: quando contempla il bello in sé. La misura e la proporzione risultano essere dappertutto bellezza e virtù.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – L’educazione è l’orientamento dell’anima alla virtù. La virtù è il piacere verso ciò che bisogna amare e l’avversione verso ciò che bisogna odiare
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene. E il vivere bene è lo stesso che vivere con virtù e con giustizia. Per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia.
Platone & Aristotele – Il principio della filosofia non è altro che esser pieni di meraviglia, perché si comincia a filosofare a causa della meraviglia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È infatti la costituzione dello Stato che forma gli uomini, buoni, se essa è buona, malvagi in caso contrario.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Cosa di più bello avrei potuto fare nella mia vita se non affidare alla scrittura ciò che è di grande utilità per gli uomini e portare alla luce per tutti la vera natura delle cose?
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – La musica dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose.  Essa è l’essenza dell’ordine, ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le forme di educazione al retto orientamento del piacere e del dolore vengono meno in gran parte agli uomini e si corrompono troppe volte nella vita. le opinioni vere e stabili è fortunato chi le possiede sulla soglia della vecchiaia.
Platone (428/427 – 348/347 a.C.) – il sogno raccomandava di creare musica, e siccome la filosofia è la musica massima, dunque io la facevo.
Platone (428/427 – 348/347 a.C.) – Non ti vergogni a darti pensiero delle ricchezze e invece della intelligenza e della verità e della tua anima non ti dai affatto né pensiero né cura? Non dalle ricchezze nasce virtù, ma dalla virtù nascono ricchezze e tutte le altre cose che sono beni per gli uomini.
Platone (428/427–348/347 a.C.) – Nell’uomo che ha imparato a contemplare l’infinito universo della bellezza, le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l’amore per il sapere, per la filosofia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non dimentichiamo che l’unica moneta autentica, quella con la quale bisogna scambiare tutte le cose, non sia piuttosto la saggezza, e che solo ciò che si compera e si vende a questo prezzo sia veramente fortezza, temperanza, giustizia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama Idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal ragionamento.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Video-recensione di Massimiliano Biscuso e Stefania Pietroforte sul libro di Francesco Verde, «A cosa serve oggi fare storia della filosofia? Una modesta riflessione».

Francesco Verde 02

Multiverso – Letture
Video-recensione
Intorno al libro di Francsco Verde, A cosa serve oggi fare storia della filosofia? Una modesta riflessione.


C’è bisogno oggi, da parte degli storici,
di una rinnovata assunzione di
responsabilità civile.
S. Luzzatto

Coperta 298

Francesco Verde
A cosa serve oggi fare storia della filosofia? Una modesta riflessione
indicepresentazioneautoresintesi
 

Il titolo di questo volumetto potrà sembrare irriverente, tuttavia porsi la domanda sul senso del fare storia della filosofia oggi è auspicabile per varie ragioni, non da ultimo per il diffuso disinteresse nei riguardi degli studia humanitatis. Le pagine di questo lavoro non intendono fornire risposte onnicomprensive o soluzioni assolutamente valide circa una questione davvero enorme ma vogliono offrire un contributo al dibattito, oggi più che mai vivo (specialmente in Italia), sull’utilità delle discipline umanistiche. L’esito delle (modeste) riflessioni che il lettore troverà qui è una seria e convinta difesa della storia e del suo metodo investigativo, fondato innanzitutto sul rigore e sul rispetto dell’oggetto di indagine. Il metodo storico, se applicato in termini rigorosi, è sempre rivolto, almeno in prima istanza, verso il suo oggetto, dunque verso quanto è altro rispetto alla capacità interpretativa dello storico. La stima per l’oggetto di indagine dovrebbe tradursi, più in generale, in rispetto verso chi e verso ciò che è altro da noi: in tal modo il metodo storico potrà essere vantaggioso al fine del miglioramento della comunità in cui si vive.

[…] filosofia e condotta pratica di vita,
specialmente riguardo alla direzione dello Stato,
di regola non si troveranno unite in una persona.
La filosofia non può essere definita una guida.
Tuttavia, il filosofo interpreterà al meglio
il suo ruolo di guida se rimane fedele alla teoria
e cerca di promuoverla facendo tutto il possibile.
Egli può confidare sul fatto che una progressiva
comprensione mostrerà i suoi frutti nella vita pratica.
E. Stein


Eoicuro

F. Verde, Epicuro

Epicuro è uno dei più significativi filosofi antichi di età ellenistica, il cui pensiero ha influenzato in modo rilevante la storia della filosofia occidentale successiva. Questo volume intende essere un’introduzione alla filosofia di Epicuro che si struttura in un sistema coerente e ordinato, costituito da tre parti distinte ma connesse fra loro: la parte epistemologica del sistema, la scienza della natura e, infine, l’etica, che rappresenta l’autentico coronamento e il fine unico e privilegiato a cui la filosofia mira.

***

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Profilo di Francesco Verde


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. Ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.

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«Abbiamo rinunciato (o ci siamo lasciati costringere a questa rinuncia) a considerare noi stessi (o le nazioni o le classi o l’umanità) come i soggetti della storia; ci siamo detronizzati (o lasciati detronizzare) e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia, anzi un solo altro soggetto: la tecnica, la cui storia non è, come quella dell’arte o della musica, una fra le altre, bensì la storia, o perlomeno è diventata la storia nel corso del più recente sviluppo storico; il che trova terribile conferma nel fatto che dal suo corso e dal suo impiego dipende l’essere o il non-essere dell’umanità» (p. 258).

«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento awiene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi» (p. 1).

Günter Anders, L’uomo è antiquato, voI. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992.


Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.
Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ronald D. Laing (1927-1989) – Se uno dice che gli uomini sono macchine può essere considerato un grande scienziato. Ma se dice di essere lui stesso una macchina …? L’esperienza che si ha di se stessi e degli altri come persone è primaria. Essa si valida da sé.

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«Se uno dice che gli uomini sono macchine può essere considerato un grande scienziato; ma se uno dice di essere lui stesso una macchina di solito viene considerato un pazzo. [ … ] Come giustamente consideriamo pazzi quegli individui che si sentono automi, macchine o parti di meccanismi, o animali, perché non considerare ugualmente pazzesca una teoria, come quella medica, che considera le persone come automi o come macchine, dove il loro corpo è visualizzato come un semplice meccanismo in grado di rispondere solo a uno sguardo fisico o chimico. L’esperienza che si ha di se stessi e degli altri come persone è primaria; essa si valida da sé; la sua esistenza è precedente a tutti i problemi di ordine scientifico o filosofico sulla sua origine o sulle sue possibili spiegazioni.

Ronald D. Laing, The divided Self [1959], tr. it. L’lo diviso, Einaudi, Torino 1969, pp. 16, 28


Ronald D. Laing (1927-1989) – Fuori formazione o … fuori rotta? Il criterio di “fuori formazione” è quello positivistico. Il criterio di “fuori rotta” è quello ontologico.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Petite Plaisance – Le Tre Grazie (Charites) nell’arte. Una galleria delle opere dedicate nel corso dei secoli.

Le Tre Grazie

Nella mitologia greca Charis (Χάρις), Grazia, e al plurale Charites (Χάριτες), Grazie è il nome di tre dee (secondo Esiodo: Aglaia [luminosità, splendore], Eufrosine [gioia, letizia] e Talia [pienezza, prosperità, fioritura]) figlie di Zeus ed Eurynome. Scrive Aldo Lo Schiavo (Charites. Il segno della distinzione, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 27 ss.): «Fra il nome delle dee e il nome comune Χάρις c’è indubbia connessione. Del nome comune i lessici registrano varie sfumature di significato, che i Latini, con felice intuizione ma con inevitabile approssimazione, rendevano col termine gratia. Fondamentale, fra gli altri, risulta il valore semantico indicante una qualità oggettiva, vale a dire la grazia o bellezza, la leggiadria, l’incanto, lo splendore che promanano da persone o cose. Sono qualità che segnalano un elemento di distinzione e che sottintendono forse una qualche idea di misura: non si ha vera bellezza se non accompagnata da giusta proporzione, da grazia appunto. […] Il lessico impiegato da poeti, storici, oratori ci dice dunque quanto ampia e diversificata sia l’area di riferimento del termine Χάρις […]».


Petite Plaisance – Χαρις. «Karis» è grazia, bellezza, leggiadria, incanto, amabilità, delicatezza, dolcezza, benevolenza, benignità, gratitudine, riconoscenza, rispetto, considerazione, segno di riguardo, segno di affabilità, perfino dono oblativo, e dunque: senso della comunanza.
Aldo Lo Schiavo – Il sapere filosofico, quando non si isola in un formalismo tecnico fine a se stesso, trae sostanziale giovamento dall’analisi delle origini e del radicamento delle rappresentazioni mentali nel fitto tessuto di esigenze, sentimenti, reazioni individuali e collettive espresse nelle concrete situazioni in cui gli uomini operano e costruiscono la loro civiltà.

Le Tre Grazie (Charites) nell’arte

Una galleria delle opere, e a seguire ogni singola opera in ordine cronologico.


Le Tre Grazie, disco d’oro da Cipro, IV secolo a.C., Metropolitan Museum of Art di New York City.


Le Tre Grazie.
Mosaico delle Terme romane nei pressi di Tarso (Turchia).


Le Tre Grazie.
Casa del suonatore di cetra, affresco del I sec. a Pompei.

Le Tre Grazie, copia romana del II sec.


Francesco Del Cossa, Le Tre Grazie, 1470.


Sandro Botticelli, Le Tre Grazie, 1477-82, particolare dal dipinto La Primavera, Galleria degli Uffizi, Firenze.


Raffaello Sanzio, Le Tre Grazie, tra il 1504 e il 1505, Musée Condé.


Antonio da Correggio, Le Tre Grazie, 1519.


Cranach il Vecchio, Le Tre Grazie, 1531.


Jacopo Carucci, detto il Pontormo, Le Tre Grazie, 1535.


Palma il Giovane, Le Tre Grazie, 1611.


Jacques Blanchard, Uomo che sorprende Venere e le grazie dormienti (1631–33).


Peter Paul Rubens, Le Tre Grazie, 1639.


Carle van Loo, Le Tre Grazie, 1763.


Jean-Baptiste Regnault, Le Tre Grazie, 1797-1798.


Antonio Canova, Le Tre Grazie , prima versione, ora al Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.


Antonio Canova, Le Tre Grazie, seconda versione, 1814-17,ora al Viictoria and Albert Museum, London.


James Pradier, Le Tre Grazie, 1831.


Bertel Thorvaldsen, Le Tre Grazie, 1851.


 Edward Burne-Jones, Le Tre Grazie, 1885.


Kolo Moser, Le Tre Grazie,1900.


Romain de Tirtoff, Erté, Le Tre Grazie,1920.



Pablo Picasso, Le Tre Grazie, 1925.


Robert Delaunay, Le Tre Grazie, 1925.


Niki de Saint Phalle (1930-2002), Le Tre Grazie.


Salvatore Fiume (1915-1977), Le Tre Grazie.


Dorit Levinstein, Le Tre Grazie , 1990 .


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Karl Jaspers (1883-1969) – La discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi. Un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione.

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«È una sofferenza della mia vita, che si affatica nella ricerca della verità, il constatare che la discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi, perché essi tacciono, enunciano qualche proposizione incomprensibile, parlano d’altro, affermano qualcosa di incondizionato, discorrono amichevolmente senza aver realmente presente ciò che prima s’era detto, e alla fine non mostrano alcun autentico interesse per la discussione. Da una parte infatti si sentono sicuri, terribilmente sicuri, nelle loro verità, dall’altra par loro che non valga la pena prendersi cura di noi, uomini duri di cuore. Ma un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione, e soprattutto esige che ogni questione fideistica, in quanto enunciata nel linguaggio umano, in quanto rivolta a oggetti e appartenente al mondo, possa essere messa di nuovo in questione, non solo esteriormente e a parole, ma dal profondo di noi stessi. Chi si trova nel possesso definitivo della verità non può parlare veramente con un altro, perché interrompe la comunicazione autentica a favore del suo contenuto di fede».

Karl Jaspers, La fede filosofica, a cura di U. Galimberti, Cortina, 2005, pp. 132-133.


Karl Jaspers (1883-1969) – Solo attraverso la verità diveniamo liberi, la verità è la dignità dell’uomo.
Karl Jaspers (1883-1969) – Filosofare presuppone una visione del mondo ed è espressione specifica di un se-stesso originariamente libero. Filosofano veramente solo quegli uomini che sono originariamente se stessi e che nel filosofare si incontrano e si legano tra loro.
Karl Jaspers (1883-1969) – La verità cresce in un processo che include l’uomo nella sua totalità e risulta dall’intreccio di pensiero e vita, compiendo l’uomo una metamorfosi di se stesso.

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Aldo Lo Schiavo – Il sapere filosofico, quando non si isola in un formalismo tecnico fine a se stesso, trae sostanziale giovamento dall’analisi delle origini e del radicamento delle rappresentazioni mentali nel fitto tessuto di esigenze, sentimenti, reazioni individuali e collettive espresse nelle concrete situazioni in cui gli uomini operano e costruiscono la loro civiltà.

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Gli studiosi della religione e del mito ellenici hanno prestato in genere scarsa attenzione alla figura delle Charites, che pure ritorna non di rado nelle fonti poetiche e letterarie e persino nelle testimonianze archeologiche. Ha poca consistenza una teoria di qualche tempo fa, ma di largo seguito, che le considera espressione di una religiosità agraria e ctonia, interessata ai fenomeni della vegetazione e fertilità dei campi. La stessa cosa, invero, potrebbe dirsi di un’infinità di altre divinità venerate in tempi remoti, quando quella preoccupazione assorbiva quasi per intero le energie della comunità. In realtà sfugge a detta ipotesi un’ampia gamma di funzioni e di qualità che le fonti, fin dall’età arcaica, ascrivevano a quelle dee; qualità e funzioni diverse fra loro, relative a campi di esperienza molteplici, ma che tuttavia, ad un esame attento, rivelano una nota o tratto comune, a sua volta indicativo di uno specifico ruolo assegnato alle dee.
Tale ruolo specifico va individuato e riconosciuto alle Charites, come del resto ad altri gruppi divini, quali le Muse, le Horai, le Moire, sebbene essi compaiono per lo più nel corteggio di grandi divinità. Il fatto è che nel fluido pantheon della religione olimpica ogni figura divina, maggiore o minore che sia, va considerata, più che in sé e isolatamente, nell’intreccio molto ampio di nessi e relazioni che la legano ad altre divinità secondo schemi mutevoli, variamente significativi. Se dietro ogni divinità traluce un’idea del mondo sotto questo o quell’aspetto particolare, è pur vero che nell’intreccio dei rapporti fra i diversi personaggi dell’Olimpo emerge la visione d’insieme di un universo, ritmico e ordinato, quale i Greci se lo rappresentarono.
Le Charites non si sottraggono a questa norma, poiché anch’esse concorrono con la loro natura specifica a definire quel cosmo, esse che lasciano il segno del loro splendore là dove liete posano lo sguardo.
Circostanze di tempo e di luogo incidono, ovviamente, sulla caratterizzazione del gruppo delle Charites, mettendo in evidenza ora uno ora altro elemento della loro natura, segnalando una funzione ed altre lasciandole in ombra. Questo vale per ogni figura del pantheon greco. Non si può prescindere, perciò, dall’indagine storica per chiarire lo svolgersi di idee o intuizioni che pur si celano dietro le rappresentazioni di ciascun personaggio divino. Si tratta di idee che, da una prima intuizione mitica, a volte assai penetrante, riemergono e si chiariscono anche in altre espressioni della vita culturale. Nondimeno, scorgere nel loro svolgimento storico una linea evolutiva coerente verso la piena esplicazione razionale delle stesse, secondo l’abusato paradigma ‘dal mito al logo’, risulta oggi alquanto ingenuo, schematico o semplicistico. Pensiero mitico e pensiero logico s’intersecano più spesso di quanto comunemente si creda; e ciò, per la verità, non solo nel mondo letterario e filosofico della Grecia antica. Del resto, l’intuizione sottesa all’immagine mitica costituisce pur sempre un’operazione intellettuale. E se, da una parte, il mito utilizza schemi mentali a cui non si può negare una certa razionalità, dall’altra parte la riflessione critica muove quasi sempre da un assunto, da un dato intuitivo, da un quid non dimostrato. Con qualche prudenza metodica, è possibile ritrovare nello sviluppo di temi filosofici impostazioni e atteggiamenti mentali recepiti pure in altri ambiti culturali. Il cammino delle idee, all’interno di un’esperienza determinata di civiltà, presenta innovazioni e approfondimenti persino talvolta radicali, ma rivela anche una sua continuità di fondo, senza di cui quella civiltà non avrebbe unità e identità storica.
Nella presente indagine, comunque, si è cercato di contemperare per quanto possibile e la linea analitico-sistematica e quella propriamente storica, nell’intento di evitare i rischi che entrambe comportano se utilizzate separatamente l’una dall’altra, in maniera esclusiva. Infatti, privilegiando il metodo analitico si finisce per racchiudere in un modello rigido, definito una volta per tutte, elementi che invece hanno assunto modulazioni differenti in tempi e situazioni mutate; per contro, adottando esclusivamente il metodo storico, il più delle volte si perde per strada il senso unitario di un’idea che permane al di là delle sue molteplici manifestazioni nel corso delle vicende culturali.
I contributi fomiti negli ultimi decenni dalla riflessione sul mito rimangono ancora poco sfruttati dagli storici del pensiero filosofico; i quali, salvo rare eccezioni, continuano a guardare alla produzione mitica delle culture antiche come ad un fenomeno confinato nel tempo delle origini di quelle culture, rivelatore di una mentalità in sostanza prerazionale, radicalmente diversa da quella scientifica e logica espressa dalla prima filosofia . Si continua cioè a presupporre una cesura netta fra l’uno e l’altro fronte. Eppure la filosofia greca, persino nei suoi momenti più alti, si è misurata sempre con temi, immagini, categorie elaborate dalla letteratura mito-poetica e mito-teologica che l’hanno preceduta e che l’hanno accompagnata fino alla tarda antichità. In ciò sta certo una delle ragioni della sua ricchezza problematica, dell’apertura e laicità dei suoi interessi. Del resto è noto che il sapere filosofico, quando non si isola in un formalismo tecnico fine a se stesso, non può che trarre sostanziale giovamento dall’analisi delle origini e del radicamento delle rappresentazioni mentali nel fitto tessuto di esigenze, sentimenti, reazioni individuali e collettive espresse nelle concrete situazioni in cui gli uomini operano e costruiscono la loro civiltà. La storia delle idee si pone a mezza strada, come un ponte di raccordo, fra le espressioni diffuse di cultura e la pura ricerca filosofica. Il transito su tale ponte resta possibile in entrambe le direzioni. Possibilità storica, non c’è dubbio, perché di fatto verificatasi; ma anche possibilità teorica, se le manifestazioni di cultura diffusa non vogliono privarsi della luce della ragione e se la razionalità filosofica non intende perdere i contatti con la ricchezza della vita.
Omero, per ricordare il caso più eclatante, è citato dai filosofi greci di ogni età; e però, lo stesso Omero in certo senso filosofa, fin già nel modo in cui organizza la materia del suo racconto. Come ben sanno i filologi, ogni analisi dell’evoluzione del linguaggio, compresi alcuni termini del vocabolario filosofico, non può che prendere le mosse dagli antichi poemi. In Omero poi (come ho cercato di mostrare in un capitolo dell’Omero filosofo dedicato alla teologia dei poemi e alle strutture del mito) troviamo applicati al mondo divino una serie di correlazioni, di schemi formali, di principi regola tori, i quali non raggiungono certo l’astrazione e la chiarezza e la sinteticità dei concetti, ma riescono tuttavia a svolgere un’importante funzione di organizzazione dell’esperienza e a riflettere una determinata visione del mondo. La successiva letteratura greca, a partire dalla Theogonia di Esiodo, continua a offrire materiali preziosi in questo campo; e le figure degli dèi, col variopinto corredo di racconti che li riguardano, restano a lungo il centro di un vasto sforzo di pensiero, una parte almeno del quale esprime una forma embrionale di categorizzazione del reale.
Il presente lavoro sulle Charites s’inserisce in tale linea di ricerca, che ovviamente si avvale secondo i casi di tutte quelle testimonianze in cui si rivela la forza di un’idea, la sua prima formazione e la sua capacità di affermarsi in contesti più ampi. Perciò, oltre i documenti privilegiati costituiti da testi poetici, teologici e filosofici, anche le testimonianze relative alle forme di culto, alle espressioni artistiche, alle istituzioni sociali e politiche diventano utili nel tentativo di ricostruire quel complesso di significati e valori che, nel caso in esame, sono stati tramandati sotto il nome collettivo delle tre figlie di Zeus e di Eurynome.

Aldo Lo Schiavo, Charites. Il segno della distinzione, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 9-13.


INDICE

Premessa
I. Le Charites nel culto
II. Charis e la luce. Lo splendore delle Charites
III. Elementi di uno statuto teologico. Aglala, Euphrosyne e Thalia, figlie di Zeus e di Eurynome
IV. Nel segno di Apollo. La vittorza negli agoni, il canto del poeta, l’educazione degli efebi
V. Nel segno di Afrodite. Amore, bellezza e grazIa
VI. Nel segno di Efesto. Bellezza e ornamenti. Natura, tecnica, arte
VII. Nel segno di Hermes. Le Charites degli incontri sociali, la parola eloquente, peitho e apate
VIII. La charis della città democratica. Demos, Charites e la gratitudine pubblica
IX. La charis della paideia filosofica e la kalokagathia
X. Il contributo del pensiero mitico all’etica-estetica della distinzione

Bibliografia delle opere citate


Aldo Lo Schiavo (n. 1934) è stato ispettore centrale nel Ministero della pubblica istruzione per l’insegnamento della filosofia. È stato redattore capo e poi direttore della rivista «Annali della Pubblica Istruzione». Ha presentato un’interpretazione critica del pensiero gentiliano nel saggio La religione nel pensiero di G. Gentile («La Cultura», 1968, pp. 333-378) e nei due volumi La filosofia politica di G. Gentile (Roma 1971) e Introduzione a Gentile (Roma-Bari 1974, collana «I Filosofi»). Si è poi dedicato allo studio del pensiero greco, ed ha pubblicato a riguardo: Il contributo della tragedia attica al razionalismo antico (Roma 1979) e Omero filosofo. L‘enciclopedia omerica e le origini del razionalismo greco (Firenze 1983).


Quarta di copertina

Sebbene frequentemente richiamate da poeti e scrittori greci, le Charites sono state poco studiate dalla critica moderna nella loro natura specifica e nei nessi che le legano alle figure maggiori del pantheon olimpico. Eppure esse conferiscono a quel pantheon una luce particolare, espressiva dei valori laici della civiltà greca. Quasi dappertutto i Greci scorgevano il segno della loro presenza, delle loro splendide qualità: nel cielo illuminato dal vario splendore degli astri, sulla terra colorata di fiori a primavera, negli oggetti lavorati con maestria, nell’impresa dell’atleta vittorioso, sul viso delle giovani donne, nella parola perspicua dell’oratore, negli incontri festosi della comunità, nel buon governo della città, in tutto ciò che si fa apprezzare e ammirare per una qualche nota superiore, per un tratto di particolare distinzione. In effetti, dietro il mondo a vivi colori delle Charites s’intravede un’etica-estetica della distinzione, che tende a mettere d’accordo la natura e l’uomo, la bellezza fisica e le qualità morali, la valentìa dei singoli ed il prestigio della comunità. Un’etica-estetica a cui hanno collaborato pensiero mitico e pensiero filosofico, entrambi attenti a non sacrificare la varietà, la molteplicità, le differenze presenti nel reale, a favore di un’unità monolitica che tutto livella ed oscura.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Aldo Lo Schiavo…














M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Jean Baudrillard (1929-2007) – Non c’è più scambio simbolico al livello delle formazioni sociali moderne. Non più come forme organizzatrici.

Jean Baudrillard 04

«Non c’è più scambio simbolico al livello delle formazioni sociali moderne; non più come forme organizzatrici. Certamente, il simbolico le assilla come la loro morte; ma, proprio perché non ne regola più la forma sociale, esse non ne conoscono più che l’assillo, l’esigenza continuamente preclusa dalla legge del valore. E se, dopo Marx, una certa idea della Rivoluzione ha tentato di aprirsi un varco attraverso questa legge del valore, essa è da tempo ridiventata una Rivoluzione secondo la Legge. La psicoanalisi gira intorno a questo assillo, ma nello stesso tempo lo esclude circoscrivendolo nell’inconscio individuale».

Jean Baudrillard, L’échange symbolique et la mort (1976); tr. it., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979, p. 11.


Jean Baudrillard (1929-2007) – La morte è immanente all’economia politica. È per questo che essa si vuole immortale.
Jean Baudrillard (1929-2007) – L’uomo non smette di espellere quello che egli è, quello che prova, quello che significa ai propri occhi con tutti gli artefatti tecnici che egli ha inventato, e all’orizzonte dei quali sta scomparendo.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Jean Starobinski (1920-2019) – Le malattie umane non sono mere specie naturali. Il medico osserva la malattia come un fenomeno biologico, ma, isolandolo, nominandolo, classificandolo, ne fa un’astrazione. Sia dalla prospettiva del malato che da quella del medico, la malattia è un fatto di cultura e muta al mutare delle condizioni culturali.

Jean Starobinski 02

 

«Non è possibile ripercorrere la storia del trattamento della malinconia senza interrogarsi sulla storia della malattia stessa. Infatti, da un’epoca all’altra, non soltanto si modificano le terapie, ma non sono neppure identici gli stati designati col nome di malinconia o di depressione. Lo storico si trova in presenza di una doppia variabile. Per quanto si sia vigili, certe confusioni sono inevitabili. E quasi impossibile riconoscere nel passato le categorie nosologiche che ci sono oggigiorno familiari. Le storie di malati che troviamo nei libri antichi ci inducono nella tentazione di una diagnostica retrospettiva. Ma manca sempre qualcosa: innanzitutto la presenza del malato. La nostra terminologia psichiatrica, tanto spesso esitante di fronte al malato in carne e ossa, non può certo vantare una maggior certezza quando si trova di fronte semplicemente un racconto o un aneddoto. Le storielle psichiatriche, di cui si accontenta la maggior parte dei medici fino al XIX secolo, se sono divertenti, sono certamente anche insufficienti.

Esquirol si compiaceva di ripetere che la follia è la “malattia della civiltà”. Le malattie umane, in effetti, non sono mere specie naturali. Il paziente subisce il suo male, ma lo costruisce anche, o lo riceve dall’ambiente; il medico osserva la malattia come un fenomeno biologico, ma, isolandolo, nominandolo, classificandolo, ne fa un’astrazione e, così facendo, esprime un momento particolare di quell’avventura collettiva che è la scienza. Sia dalla prospettiva del malato che da quella del medico, la malattia è un fatto di cultura e muta al mutare delle condizioni culturali.

La persistenza della parola malinconia, conservatasi nel linguaggio medico sin dal V secolo a.C., non attesta altro, e lo si comprende facilmente, che il gusto della continuità verbale: si ricorre ai medesimi vocaboli per alludere a fenomeni diversi. Una simile fedeltà lessicografica non è inerzia: pur trasformandosi, la medicina intende affermare l’unità del suo modo di procedere attraverso i secoli. Ma non dobbiamo lasciarci ingannare dalla somiglianza delle parole: sotto la continuità della malinconia, i fatti designati variano sensibilmente. Non appena gli antichi constatavano una paura o una tristezza persistenti, la diagnosi pareva sicura: in tal modo confondevano, agli occhi della scienza moderna, depressioni endogene, depressioni reattive, schizofrenie, nevrosi d’ansia, paranoie, ecc. Da questo conglomerato primitivo, a poco a poco sono emerse talune entità cliniche più distinte e si sono succedute le ipotesi esplicative più contraddittorie. E dunque i farmaci proposti per la cura della malinconia nel corso dei secoli non hanno a che vedere con la medesima malattia né con le stesse cause. Alcuni di essi si propongono di correggere una discrasia umorale, altri mirano a modificare un particolare stato di tensione o di debilitazione nervosa, altri ancora sono messi in campo per distrarre il malato da un’idea fissa. E chiaro che i diversi tipi di cura in cui ci imbatteremo si riferiscono a condizioni cliniche e a sintomi che oggi giudicheremmo molto lontani tra di loro.

Quasi tutta la patologia mentale ha potuto essere messa in rapporto, fino al Settecento, con l’ipotetico atrabile: una diagnosi di malinconia implicava un’ assoluta certezza quanto all’origine del male; responsabile era questo umore corrotto. Se le manifestazioni della malattia erano molteplici, la causa era piuttosto semplice. Abbiamo fatto giustizia di tale ingenua sicurezza, fondata sull’immaginario. Non abbiamo più l’arroganza di trinciare giudizi categorici sulla natura e il meccanismo del rapporto psicofisico. La psichiatria del XIX secolo, non potendo assegnare a tutte le depressioni un sostrato anatomo-patologico, come era riuscita a fare per la paralisi generale, si è sforzata di isolare una serie di varietà morbose di tipo sintomatico o “fenomenologico”. Facendosi più precisa, la nozione moderna di depressione copre un territorio molto meno ampio della malinconia degli antichi. Alla facile e non verificata eziologia che ha caratterizzato lo spirito prescientifico, si è sostituita la descrizione rigorosa e si è coraggiosamente confessato che le vere cause restano ignote. Una cura pseudospecifica e pseudocausale ha ceduto il passo a qualcosa di più modesto, che sa di essere meramente sintomatico. Una simile modestia, quanto meno, lascia via libera alla ricerca e all’invenzione.

Jean Starobinski, L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino 2014, pp. 5-6.


Jean Starobinski (1920-2019) – Quando la speranza vira al nero, quando più niente ci porta al futuro, la realtà presente si disloca, i suoi elementi non posseggono più il potere di tenere insieme. Ma l’inchiostro della malinconia ha la possibilità del bagliore, dello splendore fulgido per sempre.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La trasformazione dell’essere umano in solo corpo pulsionale è, in assoluto, la violenza massima che si possa immaginare.

L'omicidio di Willy

Salvatore Bravo

La trasformazione dell’essere umano in solo corpo pulsionale è,
in assoluto, la violenza massima che si possa immaginare

 

 

Gewalt

La Gewalt (violenza) è la legge del capitalismo nella fase neoliberista. La violenza è infinita, al punto che la trasformazione dell’essere umano in solo corpo pulsionale è, in assoluto, la violenza massima che si possa immaginare. L’essere umano è ontologicamente fondato sul dualismo: res cogitans/res extensa. Il capitalismo opera per ridurlo a sola res extensa.
Corpo-vetrina in vendita, merce tra le merci, ha un unico attributo che lo distingue dalle altre merci: gli appetiti che servono per sostenere il sistema in perenne crisi. La sovrapproduzione, ormai strutturale, è risolta con la riduzione dell’essere umano a sola res extensa dagli infiniti appetiti indotti. Il circolo della violenza è scientemente organizzato mediante strategie orchestrate dal mondo mediatico e digitale. Tutto è merce, nessuno sfugge al ruolo di consumatore e merce nel contempo. La sovrastruttura – con i suoi servi – opera esaltando il diritto individuale alla mercificazione: nessun limite dev’essere dato al diritto di consumare ed alle voglie. La nuova religione del capitale trasforma le voglie in sacri diritti a cui non ci si può sottrarre. Si mette in atto la “libertà negativa” descritta da Hobbes nel Leviatano: ogni desiderio è lecito, per cui ogni impedimento umano o non umano va abbattuto. Libertà solitaria ed atomistica, in cui l’altro è solo piacere da consumare in vista delle nuove voglie. Tra i piaceri non vi sono gerarchie etiche, ma sono tutti leciti ed egualmente ammessi. È in questo contesto che vanno inseriti i fatti di Colleferro: le responsabilità sono individuali e sociali. Il noto è sconosciuto, come affermava Hegel. In questo caso l’evidenza delle responsabilità sociali, di cui si tace, sono lapalissiane. I protagonisti sono solo corpo esposto in vetrina alla ricerca di conferme pulsionali e narcisistiche. Sono figli di facebook e della cattiva maestra televisione (Popper). I mezzi mediatici-digitali sono il veicolo del valore di scambio di merci e di corpi. Se si osa criticare l’eguaglianza merce-corpo, se si osa proporre limiti, si è tacciati di moralismo, di essere retrogradi e violenti. Il capitale si è impossessato delle parole, è l’unico deputato a parlare. Gli araldi del libero scambismo sono uomini e specialmente donne. Giornaliste ammiccanti e seduttive condannano la violenza, ma difendono la libertà di essere solo corpo esposto; la libertà narcisistica in nome della quale sedurre e strappare l’oggetto del desiderio con ogni mezzo. I corpi sono rifatti, il potere è parte di loro, è collassato nel corpo vissuto, per cui tuonano contro la violenza che le ha fagocitate. Tra le parole delle nuove trombettiere del potere, non vi è critica alcuna al sistema che produce mostri, ma semplice condanna ad eventi di cronaca la cui genetica non è spiegata. La si occulta, perché si devono rimuovere le complicità con la violenza dell’ignoranza e della disinformazione. Si giunge ad atti estremi passando gradualmente per un processo che innesca la violenza a partire dalle parole prive di concetto, ma che orientano l’attenzione sulla forza: vincenti, perdenti, competizione, carriera sono parole del dire quotidiano che costruiscono un mondo darwiniano. Le donne ultime arrivate nel nuovo Eden del capitale non contestano, non proteggono i loro figli, hanno abdicato alla funzione umana di trasmettere valori e mediare la rigidità delle regole. Non proteggono dallo sguardo predatorio le proprie figlie ed i propri figli, anzi li incoraggiano, perché il mondo è da mordere, da conquistare, che ciascuno porti a casa il proprio trofeo piccolo o grande che sia. I padri si sono liquefatti, rincorrono comportamenti adolescenziali, in tale vuoto, abita la violenza, alligna e prolifera ovunque. Nessuna voce si alza per condannare le brutalità quotidiane come parte organica del sistema, come la verità che si rende palese dinanzi a noi, e che invoca la responsabilità civile, etica e filosofica. I corpi medi (partiti-sindacati) essenza della democrazia non intervengono, sono ormai integrati nel sistema.

Si finge scandalo, perché il sistema deve continuare a vivere, perché non si vuole rinunciare alla violenza, dalla normalità della violenza non ci si vuole congedare. Vi è una dipendenza dalla svalorizzazione dell’essere umano, perché essere solo corpo pulsionale è più semplice, vivere nell’immediatezza senza concetto libera dalla responsabilità di essere persone. Il sistema prolifera ed esalta le trombettiere della libertà negativa, le quali denunciano ogni limite, ogni libertà costruita sul riconoscimento relazionale del limite e specialmente sulla fatica del cercare il senso nella realtà. Il silenzio e le rimozioni sono miccia per la coazione a ripetere delle violenze, tutto accade, ma le responsabilità sono solo individuali, per cui, che le violenze continuino pure, in nome della libertà regressiva e narcisistica.

 

Diritto e razionalità

Nella teogonia greca Giove, il potere, è sostenuto nel suo esercizio da Dike (la giustizia) e da Temi (diritto naturale-Terra). Senza giustizia e diritto, il potere è solo violenza, irrazionale, e dunque, minaccia di far cadere il mondo nel caos. Dike indica i valori da realizzare con il sostegno di Temi sua madre. Giove (padre) e Temi (madre) nel loro agire ordinato attuano la giustizia, ovvero Dike, figlia di Giove e Temi. La violenza, l’ingiustizia brutale prolifera nel vuoto delle madri e dei padri, le prime in carriera, i secondi perennemente bambini.

Oggi il potere non ha giustizia e non conosce diritto, ma ha imposto la violenza quale struttura del vivere, in tal modo, siamo tutti complici. Su questo dovremmo farci delle domande, ne siamo tutti coinvolti. Il potere senza razionalità è la gabbia d’acciaio nella quale le contraddizioni continuano a creare tensioni incontrollabili; nella gabbia d’acciaio non si è al sicuro, e tutto può accadere. Si noti la violenza del linguaggio, anche in coloro che vorrebbero porsi dialetticamente rispetto ad esso. Per uscire dalla violenza bisogna rimettere in discussione il sistema in toto, guardare la violenza che scorre nelle nostre vite, nelle nostre parole, ciò è necessario per capire la gravità del problema. Nella violenza siamo tutti implicati con responsabilità e ruoli diversi, non vi sono anime belle, da questo bisogna iniziare per capire l’abisso del neoliberismo.

Salvatore Bravo

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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