«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Fratello! Non mi sono scoraggiato né perso d’animo.
La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Intorno a me ci saranno altri uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo. Me ne sono reso conto. Quest’idea si è fatta di carne e sangue. È la verità! Quella testa che creava, si nutriva della vita superiore dell’arte, che ha compreso e si è abituata alle nobili esigenze dello spirito, quella testa ormai si è staccata dalle mie spalle. Ne è rimasto il ricordo e le immagini create, ma rimaste ancora senza forma. Lasceranno cicatrici, è vero! Però in me è rimasto il cuore, e quella carne e quel sangue che ancora possono amare, soffrire, desiderare e ricordare, e in fondo anche questa è vita! On voi! le soleil!».
Lettera di Fëdor Dostoevskij al fratello M.M. Dostoevskij, 22 dicembre 1849, San Pietroburgo, fortezza di Pietro e Paolo, in FëdorDostoevskij,Lettere, a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia De Florio, Alice Farina e Elena Freda Piredda, il Saggiatore, Roma 2020.
Quarta di copertina
Fëdor Dostoevskij è uno dei più grandi scrittori di ogni tempo. Le sue opere sono annoverate tra i capolavori della letteratura di ogni epoca e luogo e, ancora oggi, nutrono lettori di tutto il mondo. Sono romanzi totali, monumenti letterari che contengono un sapere universale e manifestano la complessità della nostra esistenza travalicando confini e generazioni. Così le Lettere che Dostoevskij ha affidato alle mani dei suoi familiari, dei suoi amori, dei suoi sodali costituiscono, come scrive Alice Farina nell’introduzione, «il romanzo di una vita», «un’opera letteraria parallela all’opera, ma anche sorgente viva per l’opera stessa». E difatti sembrano traboccare di materiale romanzesco: l’arresto per aver frequentato un circolo di socialisti utopici, la condanna a morte, la grazia ottenuta pochi minuti prima di salire al patibolo; il confino in Siberia e la persecuzione della malattia; la continua e strenua battaglia per migliorare la propria condizione economica senza sacrificare nulla della propria arte. Ma questo materiale è qui innestato all’interno di una vita, la quale non può che diventare a sua volta sorgente creativa, in un continuo gioco di vasi comunicanti.Per buona parte inedite in Italia, queste pagine testimoniano poi gli scatti e le evoluzioni del pensiero di Dostoevskij, permettendoci di osservarne da vicino i movimenti interiori, come quando nel 1839, a soli diciotto anni, dichiara con orgoglio al fratello di voler dedicare la propria vita a svelare il mistero dell’essere umano. Le Lettere qui raccolte – ora interamente ritradotte, a comporre l’epistolario di Dostoevskij più completo mai pubblicato in Italia – raccontano questa missione; tracciano le linee di un’autobiografia intima e coinvolgente e rivelano una personalità infuocata, dedita alla letteratura fino allo stremo delle forze; offrono un nuovo sguardo sul suo percorso intellettuale e sulla genesi di opere che hanno cambiato per sempre la letteratura, sollevando interrogativi che ancora reclamano risposte. Sono la lente d’ingrandimento sulla vita di uno scrittore che ha esplorato gli abissi della condizione umana e ne è uscito più vivo che mai.
Da quando il denaro […] ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi [siamo] diventati ora mercanti ora merce in vendita.
Seneca
«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.
Un buon affare è il massimo di tutte le arti»
Andy Warhol
Great Seal of the United States, Diritto dello stemma.
Great Seal of the United States, Rovescio dello stemma.
Sul Great Seal (Grande Sigillo) degli Stati Uniti e sul dollaro furono scritte dai “Padri Fondatori” degli Stati Uniti tre frasi in Latino invece che in Inglese. Due di esse furono tratte liberamente da Virgilio. Si sentivano gli eredi di Augusto, e comunque si autocebravano con questa ascendenza che li legittimava alla loro “missione storica”.
Annuit coepitis è la versione affermativa (“Dio è favorevole all’impresa”) della preghiera troiana a Giove “Audacibus annue coepitis” (Eneide, IX, 625); e “Novus ordo s[a]ec[u]lorum” viene dalla Egloga IV di Virgilio, significativamente quella in cui si troverebbe una anticipazione del cristianesimo. E guarda un po’: l’Eneide esprime un programma ideologico che corrisponde al programma politico di Ottaviano detto Augusto, l’iniziatore dell’Impero romano.
Quando si parla della “vocazione imperiale” degli USA!
E Joseph Robinette Biden Jr., al di là delle evidenti macroscopiche difformità con lo «stupido e infantile Trump» (come lo definisce Michael Wolff), a cosa si sente “vocato”? Muterà forse il fine del dollaro “umanizzando” il suo corso e rendendolo meno “imperiale”?
Carmine Fiorillo
«Fare soldi è un’arte, lavorare è un’arte.
Un buon affare è il massimo di tutte le arti».
Andy Warhol
«Da quando il denaro, che tanti magistrati e tanti giudici tiene avvinti, che addirittura crea magistrati e giudici, ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi, diventati ora mercanti ora merce in vendita, non esaminiamo più la qualità, ma il prezzo. Per interesse siamo onesti, per interesse siamo disonesti, e inseguiamo la virtù fin tanto che c’è la speranza di guadagnarci, pronti a cambiare rotta se il vizio promette di più. I nostri genitori ci hanno inculcato l’ammirazione per l’oro e l’argento, e la cupidigia, instillata in noi fin da piccoli, ha messo radici profonde ed è cresciuta con noi. Cosi il popolo intero, in tutte le altre cose discorde, su questo soltanto conviene: questo ammirano, questo si augurano per i loro cari, questo consacrano agli dèi, come espressione massima delle cose umane […]. I costumi si sono ridotti a un livello tale che la povertà è considerata maledetta e infamante, disprezzata dai ricchi, invisa ai poveri».
Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 115, 10-11; trad. di C. Nonni.
«Fin dalla remota antichità due capacità conoscitive sono state considerate come le più nobili: l’ascoltare e il vedere. I diversi popoli talvolta hanno messo l’accento sull’una, talvolta sull’altra; l’antica Grecia esaltava la superiorità del vedere, l’Oriente attribuiva maggior valore all’udire. Ma, comunque si rispondesse alla domanda su quali delle due fosse superiore, mai si è dubitato del ruolo centrale di queste due capacità negli atti conoscitivi e, di conseguenza, mai si è dubitato del valore straordinario dell’arte figurativa e dell’arte della parola: esse sono attività che si radicano nei più preziosi sforzi della conoscenza.
L’osservazione fin qui condotta sulle due massime attività ci consente di trarre un bilancio quanto all’attività conoscitiva in generale. Essa costruisce simboli: simboli del nostro rapporto con la realtà. Il presupposto della nostra attività, sia per l’arte pittorica che per l’arte della parola, è la realtà. Dobbiamo percepire l’effettiva esistenza di ciò con cui veniamo a contatto, di modo che inizi un’attività culturale, riconoscibile nella sua globalità come necessaria e preziosa. Senza il presupposto di questo realismo la nostra attività si rivela o esteriormente utile, al servizio del raggiungimento di qualche profitto molto prossimo, ovvero esteriormente dispersiva, un’occupazione artificiale del tempo. Se non comprendiamo che ogni atto di cultura è verità, non saremo in grado di riconoscergli dignità interiore e vera umanità. L’illusionismo, in quanto attività che non conta sulla realtà, rinnega per sua natura la dignità umana. Il singolo uomo si chiude nel soggettivo e taglia in questo modo il legame con l’umanità, e di conseguenza verso la comprensione umana. Se non si percepisce la realtà del mondo, allora si disgrega l’unità della coscienza universale e, di conseguenza, anche l’unità della personalità cosciente di sé».
Pavel A. Florenskij,Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2003, p. 93.
La modernità (da intendersi qui come contemporaneità) è l’epoca della scienza e della tecnica, non della filosofia, che pure, occupandosi dell’intero, ne costituisce la base. La scienza e la tecnica, le quali si occupano delle parti, senza una consapevolezza filosofica sono però cieche rispetto al fine di cui sono strumenti. Tale fine, da almeno un paio di secoli, è purtroppo dettato dal modo di produzione capitalistico, e consiste dunque nella massima valorizzazione del capitale, il quale non ha nessuna cura per l’uomo e nessun rispetto per la natura. In merito alla effettuale priorità moderna della scienza e della tecnica sulla filosofia, concordano sia la maggioritaria componente liberale della modernità, sia la minoritaria componente marxista. Per ambedue queste componenti, il pensiero filosofico-politico classico è infatti secondario in quanto “non scientifico”. Ciò, per il pensiero liberale, lo rende “pericoloso”, in quanto esso – non richiesto – effettua analisi ed emette giudizi sulla totalità sociale; ciò, per il pensiero marxista, lo rende invece “inefficace”, in quanto il pensiero filosofico-politico classico si illude soltanto di effettuare analisi ed emettere giudizi sulla totalità sociale. In sostanza, ciò che il pensiero moderno critica più duramente del pensiero filosofico-politico classico è la sua pretesa di fondazione onto-assiologica, ritenuta arbitraria, e la sua conseguente – e pertanto ancor più arbitraria – “utopia progettuale”. Del concetto di “utopia” si sono date almeno due interpretazioni. La prima, liberale, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero totalitario e violento (un sostenitore di questa tesi fu ad esempio Karl Popper). La seconda, marxista, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero astratto ed illusorio (sostenitori di questa tesi furono anche, almeno in parte, Karl Marx e Friedrich Engels). L’etimologia greca del termine «utopia», coniato da Tommaso Moro, in qualunque modo venga ricavata, se in alcun caso può autorizzare la interpretazione liberale, può invece autorizzare la interpretazione marxista, che considera in sostanza l’utopia come la descrizione non di un «cattivo luogo», bensì come la descrizione di un «non luogo», ovvero di qualcosa di irrealizzabile nella storia. Tuttavia, come lo stesso Moro fa ben comprendere nel suo celebre testo, l’etimologia greca più verosimile del termine, ma soprattutto la più auspicabile, è quella per cui l’utopia descrive un «buon luogo» ideale in cui vivere, un modo di produzione sociale ideale conforme alla natura umana. È questa del resto la migliore definizione possibile di “comunismo”: quella di un modo di produzione sociale in cui gli uomini possano vivere in modo armonico realizzando la propria natura razionale e morale, dunque realizzando se stessi in modo compiuto. Contro ogni interpretazione “utopica” del comunismo (ossia contro ogni “progettazione di un buon luogo ideale in cui vivere”) si è, come accennato, schierato pressoché tutto il pensiero marxista, a cominciare da quello originario di Marx ed Engels. Questo erroneo e fuorviante approccio – la cui genesi è da ricavare nel clima scientistico-positivistico in cui si formò il pensiero marxiano e marxista – deve essere radicalmente rivisto, in quanto costituisce un regresso anche rispetto alla antica tradizione platonica. Soffermermandosi, sebbene sinteticamente, sul pensiero utopico di poco antecedente la nascita della modernità, strettamente derivato dal pensiero antico, si può dire quanto segue. I nomi dei due principali utopisti premoderni di epoca rinascimentale sono noti a tutti: Tommaso Moro e Tommaso Campanella. Il primo si ispirò fortemente a Platone, il secondo si ispirò fortemente al primo (oltre che al pensiero cristiano), a riprova di come il pensiero filosofico-politico classico sia stato il principale ispiratore del comunismo premoderno, ossia premarxiano. Nonostante tale rapporto diretto – o forse anche a causa dello stesso – Marx ed il marxismo ritennero in linea generale il tentativo utopico-progettuale del pensiero filosofico classico, così come quelli di Moro, Campanella e degli altri socialisti di epoche successive, “utopici” nel senso di “astratti, illusori, irrealizzabili”. Marx ed il marxismo ritennero tali questi tentativi in quanto non basati, a loro avviso, sulla analisi delle condizioni storico-sociali presenti, ma solo sul concetto classico – per loro assai discutibile – di “natura umana”. L’utopia progettuale pre-moderna fu insomma, per Marx ed il marxismo, nonostante alcuni meriti della medesima, quasi inservibile sia sul piano pratico (in quanto si basava sulla politica anziché sulla storia), sia sul piano teorico (in quanto si basava sulla filosofia anziché sulla scienza). Questa tesi è da ritenere errata. Pur nella consapevolezzza – basti consultare le molteplici pubblicazioni edite in proposito da Petite Plaisance negli ultimi 25 anni – del valore filosofico e scientifico del materialismo storico, e dunque della importanza della analisi storico-sociale, si sottolinea però che, senza mai giungere ad una consapevole comprensione filosofica, l’analisi storico-sociale, per quanto “scientifica”, non conduca a nulla. Molte premesse marx-engelsiane che si volevano “scientifiche” si sono peraltro rivelate errate in quanto, verosimilmente, inserite all’interno di un quadro di riferimento di tipo “scientistico-fideistico” – che ne richiedeva la “certezza” ma che come tale non era in grado di garantirla –, e non all’interno di un quadro filosofico classico, in cui invece avrebbero potuto essere valutate entro un più corretto orizzonte di “potenzialità” onto-assiologica.
Tornnando in ogni caso, per un momento, a Platone, occorre rilevare che, ispirandosi al suo pensiero, anche Moro e buona parte degli utopisti partirono dalla analisi critica e dalla valutazione negativa del proprio contesto storico-sociale, per delineare un modo di produzione sociale ideale storicamente realizzabile. Può essere interessante, per comprendere – in continuità col precedente pensiero greco e cristiano, ed in anticipazione del successivo pensiero moderno di Spinoza, Fichte, Hegel e Marx – il contenuto umanistico ed anticrematistico del pensiero utopico rinascimentale, riportare alcuni brani tratti proprio dall’Utopia di Moro che, se si escludono alcuni pensatori stoici, fu colui che per primo recuperò la grande progettualità ideale platonica. Moro, che scrisse Utopia nel 1516, analizzò in maniera lucida la realtà del proprio tempo, ed individuò sin da allora nella proprietà privata dei mezzi della produzione sociale, e nella conseguente centralità della merce e del denaro, la radice principale dei maggiori mali sociali. Contrariamente, infatti, a tutti coloro che considerano Moro e gli utopisti come pensatori astratti e fantasiosi, la lettura di qualche brano dell’Utopia potrà confermare che Moro aveva idee molto concrete e chiare. A suo avviso, in effetti, è letteralmente impossibile ben governare e far fiorire una buona comunità laddove tutto si misuri sulla ricchezza privata. Moro fu d’accordo con Platone su questo punto, e dunque ritenne che il solo modo per perseguire il benessere della comunità consiste nell’applicare in ogni campo il principio di uguaglianza; ma tale principio, sia per Platone che per Moro, non può essere rispettato nel momento in cui si tollera la proprietà privata. Secondo Moro, finché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale continuerà ad avere un ruolo centrale, la parte migliore della umanità rimarrà schiacciata dall’inevitabile fardello della povertà e della miseria. Egli peraltro non si limitò alla ricerca delle cause della disarmonia sociale ma, coerentemente, propose anche delle soluzioni che, a suo avviso, avrebbero dovuto essere accettate dai governanti per ricostituire un minimo di giustizia e di armonia sociale. In maniera analoga a Marx ed Engels – ma anche, ancora una volta, a Solone e Platone – Moro propose infatti di porre un limite ai terreni che ognuno può possedere, e al denaro che ciascuno può accumulare. Egli fu però consapevole che, senza la realizzazione di un modo di produzione compiutamente comunitario, con simili riforme potevano solo essere mitigati i mali cui accennava, un po’ come assidue e continue cure possono solo lenire le sofferenze di un corpo prossimo alla morte. Di curarlo a fondo non se ne parla nemmeno, finché esiste la proprietà privata. Non fosse che per queste parole, Moro risulta essere assai più radicale di molti “intellettuali di sinistra” che pure oggi vanno per la maggiore, i quali o si rifiutano di fare proposte, o fanno proposte “riformistiche” spacciandole per rivoluzionarie, o ipotizzano inverosimili “salti in avanti”. Moro invece, consapevole che «dove tutto si misura col denaro, si devono necessariamente esercitar molte arti del tutto senza senso, a servizio soltanto del lusso e del capriccio», riteneva che fossero completamente da rivoluzionare le finalità e le modalità della produzione, ma che ciò non potesse essere fatto senza un preliminare rivoluzionamento delle forme della proprietà. Se infatti la proprietà dei mezzi della produzione fosse comune, anche il lavoro potrebbe essere comune e pertanto l’attività da svolgere potrebbe essere distribuita nelle occupazioni necessarie al soddisfacimento dei bisogni primari, occupando un tempo assai minore, ma sufficiente per produrre tutto ciò che serve per vivere felici. In effetti, per Moro, tutto il tempo che non è strettamente necessario per i bisogni primari dovrebbe essere meglio impiegato dai cittadini, dedicandosi alle attività dello spirito e della cultura. In rapporto alle scarne affermazioni di Marx su come dovrebbe essere il comunismo, Moro – che pure non utilizza mai questo termine – sembra avere le idee molto più chiare, sottolineando innanzitutto la necessità di una pianificazione della produzione e della distribuzione: i prodotti del lavoro devono essere portati in determinati edifici, per essere divisi a seconda del genere; da questi magazzini si deve prendere solo ciò di cui si ha bisogno, senza dare in cambio denaro né prestazioni particolari. E, d’altronde, perché si dovrebbe prendere più di quanto risulti bastante, sapendo che non verrà mai a mancare nulla? In questo modo, scrive Moro, l’intero paese sarà come un’unica famiglia, in cui i comportamenti non comunitari saranno socialmente condannati. Per Moro, gli abitanti dell’isola di Utopia, ossia i futuri uomini di una società comunista, saranno felici in quanto non subiranno più il dominio della economia, ma lasceranno primeggiare la politica o, meglio ancora, la filosofia. «La questione fondamentale che costoro si pongono è in che cosa consiste la felicità dell’uomo», ed essa consiste nel «vivere secondo natura». La natura, a sua volta, «invita a vivere gioiosamente sostenendosi a vicenda». Privarsi di qualcosa per darla ad un altro è segno di umanità e gentilezza, ed è soprattutto motivo di arricchimento spirituale. Questa la struttura comunitaria che fu propria, in seguito, di varie utopie. Tutte o quasi queste utopie, da Moro in avanti (almeno fino al XIX secolo), hanno in effetti non solo stigmatizzato la proprietà privata ed il mercato, ma anche lo sfruttamento, la alienazione ed i lunghi orari di lavoro. Chiunque ritenga ogni fondato modello di totalità sociale come un qualcosa che si connoterebbe soltanto come statico ed astratto, non comprende il carattere insieme dinamico e concreto delle utopie. Tale carattere è stato in effetti messo in evidenza da pochi studiosi, fra cui sicuramente Luigi Firpo, secondo cui l’utopia si oppone sempre ad un determinato sistema ed alla sua ideologia, e pertanto agisce appunto come forza dialettica all’interno del processo storico. Un altro autore che si è espresso in tal senso – esperto, non a caso, di utopie antiche – è stato Lucio Bertelli, per il quale «il rapporto fra utopia e realtà è dialettico, nel senso che lo stesso insegnamento delle condizioni date e rifiutate si presenta come un’operazione di rettifica globale, che affonda le sue radici in una analisi radicale della realtà stessa». Da un lato il liberalismo, e dall’altro il marxismo, hanno attaccato il concetto di utopia (pur diversamente inteso). Tuttavia, l’utopia intesa come «buon luogo» ideale, come «paradigma in cielo» (lo scriveva Platone nella Repubblica, 592 B), rimane un elemento insostituibile per il pensiero umano, poiché per favorire la realizzazione di una totalità sociale migliore non vi è modo più appropriato che pensarla prima nelle sue strutture essenziali, valutando teoreticamente appunto prima se essa possa reggere alla prova dei fatti ed essere desiderabile, così da porsi poi come modello realizzabile. Nonostante, infatti, le due discutibili concezioni dell’utopia prodotte dal liberalismo e dal marxismo, essa rimane sostanzialmente un progetto al contempo di critica radicale del proprio contesto storico-sociale, e di costruzione teorica di un modo di produzione sociale alternativo. In un contesto come l’attuale, in cui regnano ingiustizia, sofferenza, povertà, alienazione, sfruttamento, l’unico motivo che spinge le persone a non voler abbandonare il capitalismo è l’incertezza nei confronti del mondo che potrà esserci, una volta che quello presente sia stato sostituito. Ebbene: nei limiti del possibile, ossia nei limiti della contingenza storica che necessariamente accompagnerà l’eventuale realizzazione di questo progetto, la «buona utopia» vuole proprio ridurre questa incertezza, ritenendo di poterlo fare non descrivendo le presunte leggi scientifiche della storia che dovrebbero portare al superamento del capitalismo, bensì delineando i princípi filosofici tramite cui questo progetto di superamento può e deve essere realizzato. La filosofia infatti, assai più della storia, costituisce la principale modalità culturale che può produrre una risposta politica di ampio respiro, la quale abbia come Soggetto l’intero genere umano trascendentalmente inteso (e non una singola classe). L’armonia, la comunità, la felicità o sono di tutti o di nessuno, poiché non si può essere realmente felici (ossia vivere in modo armonico e comunitario) quando una così gran parte dell’umanità soffre per cause evitabili. Poiché le cause di sofferenza umana (su vari piani) determinate dalle modalità sociali capitalistiche sono evitabili, è necessario pensare ad una nuova progettualità comunista, semplicemente per coerenza verso ciò che l’umanità richiede per realizzare compiutamente se stessa. Facciamo però un passo alla volta. Circa la tesi della possibilità di delineare in anticipo i tratti generali di un modo di produzione sociale alternativo, va detto che anche i critici del capitalismo più vicini alla filosofia tendono a diffidarne. Costoro ritengono in effetti che, così come si possono conoscere – data la limitatezza della condizione umana – solo poche facce di quel prisma poliedrico che è la storia dell’uomo, allo stesso modo si possono conoscere solo poche facce di quel prisma poliedrico che è l’uomo. L’uomo insomma, essendo – come molti filosofi nel corso del tempo hanno scritto – un ente troppo complesso per poter essere definito, sarebbe a loro avviso un ente che non possiede una natura stabile, bensì una natura mutevole nei diversi contesti storico-sociali. Per questo motivo non sarebbe pensabile alcuno stabile progetto di modo di produzione sociale ideale alternativo. Non dobbiamo stupirci della forza di questa tesi, che anche Marx, come ricordato, ha sostenuto in ampi passaggi della sua opera. Non dobbiamo stupircene poiché sostenere che una natura umana esiste, che può essere definita e che la sua struttura è razionale e morale (ossia che essa, per realizzarsi e rendere l’umanità felice, deve operare per la verità e per il bene), vincola, impegna, impone di realizzare nella vita, in ogni momento, i comportamenti migliori, quelli umanamente più rispettosi e fraterni, che certamente sono inizialmente i più difficili da porre in essere nell’attuale contesto storico-sociale. Non si tratta, sostenendo la tesi della esistenza e della definibilità della natura umana, di essere vittime del mito della “trasparenza totale” dell’uomo, che ci farebbe ritenere capaci di conoscere ogni lato di quel famoso prisma cui si accennava in precedenza. Si tratta solo di comprendere che l’uomo, come ogni ente facente parte dell’essere, possiede necessariamente una essenza, una sostanza, un contenuto stabile al di là delle sue empiriche molteplici determinazioni (anche il prisma, del resto, pur avendo molteplici facce, rimane pur sempre sostanzialmente un prisma), e che tale contenuto può dall’Uomo essere compreso. La «buona utopia» oggi è necessaria poiché, nella attuale devastazione materiale e spirituale della vita posta in essere dal modo di produzione capitalistico, per rapportarsi al futuro ci si deve affidare alla dimensione del “progetto”, ossia ad una visione d’insieme di ciò che gli uomini sono e di ciò che devono essere per realizzare una umanità felice.
Effimero, «l’essere umano è il sogno di un’ombra», scriveva Pindaro. Gli faceva eco Platone, che vedeva le anime, nel loro transito mortale, vivere solo qualche istante, forse un giorno: psychai ephemeroi.
Psyche è anche il nome della farfalla, e lievi, quasi impalpabili come farfalle sono gli umani. Ma anche senza fondo e spaventosi nella loro smisuratezza.
La filosofia greca sembra sorgere in risposta a questa esperienza contrastante. L’umano si scopre non solo vulnerabile, soggetto alle erosioni interiori ed esteriori del tempo, ma esso stesso pericoloso, luogo di una voragine di oblio e incoscienza, e in quanto tale capace di scatenare nel mondo il suo delirio, la violenza prevaricatrice.
È qui che si radica, in tutta la sua urgenza, l’imperativo delfico della conoscenza di sé e, a esso legato, quello della misura, della modulazione.
«Il senso della vista è cambiato con il passaggio al digitale. Prendiamo la storia della fotografia: è finita con la scomparsa dei negativi. Poi è cominciato qualcos’altro: quella rivoluzione digitale che è tutt’ora in atto. Ci siamo ancora troppo dentro per comprenderne realmente la portata. La disponibilità del mezzo fotografico sempre e in ogni luogo ha reso l’atto stesso del vedere meno prezioso. La fotografia è diventata un’attività casuale. Non importa più l’azione del vedere, ma il suo risultato digitale. E il risultato non è mai stato interessante per uno che di immagini se ne intendeva come Cartier-Bresson. Per lui guardare era un atto misterioso, sacro. Lo sviluppo di una fotografia arrivava molto tempo dopo».
Wim Wenders, I pixel di Cézanne e altri sguardi su artisti, Contrasto, 2017.
Quarta di copertina
Alcuni incontri sono stati fatali per Wim Wenders. Affinità artistiche, rapporti personali o professionali lo hanno legato a grandi pittori come Edward Hopper, Andrew Wyeth e, naturalmente, Cézanne; fotografi come Peter Lindbergh, James Nachtwey e Barbara Klemm e registi come Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni, Anthony Mann, Douglas Sirk, Samuel Fuller, Manoel de Oliveira e Yasujiro Ozu, o personalità come Pina Bausch e lo stilista giapponese Yohij Yamamoto. “I pixel di Cézanne” raccoglie i testi, in parte ancora inediti, scritti da Wenders negli ultimi 25 anni su questi personaggi. Ma il filo rosso che unisce le riflessioni del regista tedesco è il suo sguardo e l’inesauribile interesse per “l’atto del vedere”, in un rapporto indissolubile fra pensiero, scrittura, arte visiva e cinema.
«Ora poiché la merce è destinata allo scambio fin dal momento della sua produzione, il produttore, già a livello di produzione diretta, prima dell’atto dello scambio, equipara il suo prodotto con una determinata somma di valore (denaro), e il suo lavoro concreto a una determinata quantità di lavoro astratto. […] Questa equiparazione deve preliminarmente avvenire “nella coscienza”, per potersi poi realizzare nello scambio effettivo. […]. Ora, il problema sta nella differenza tra “esistenza materiale” e ”funzionale” delle cose, tra prodotto del lavoro e sua forma sociale, tra cose e rapporti di produzione tra persone “concresciuti” alle cose, espressi cioè nelle cose. Ciò che si rivela è dunque la connessione inseparabile tra la teoria del valore di Marx e i suoi principi metodologici generali, formulati nella teoria del feticismo delle merci […]. Abbiamo a che fare con un rapporto umano che acquista la forma di cosa e in questa forma si collega al processo della distribuzione sociale del lavoro. In altre parole si tratta della reificazione di un rapporto di produzione tra persone».
Isaak I. Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx, FeltrineIli, Milano 1976, pp. 59-60.
Nato come ampliamento del precedente Aristotle’s Ethics as First Philosophy (Cambridge University Press, Cambridge 2008), L’architettura dell’umano: Aristotele e l’etica come filosofia prima (Vita e Pensiero, Milano 2014) di Claudia Baracchi è un’opera molto particolare che presenta, fin dall’inizio, due anime: se si può inserire nella più classica e scolastica tradizione degli studi aristotelici per il tema scelto e per l’ampia mole del materiale preso in esame e dei passi filologicamente analizzati, allo stesso tempo ha un’impostazione totalmente radicale che ne sorregge l’andamento. Alla traduzione e al fitto commento di numerosi passi dello Stagirita, che rimangono il canovaccio seguito per tutto il percorso, si accompagna, infatti, il tentativo di rivedere il senso complessivo della sua speculazione, complicandolo con dei nuovi elementi che ne scardinano l’impalcatura tradizionale per poi riassemblarla da capo.[1] Concentrandoci su questo secondo aspetto, che è direttamente proporzionale all’alto rischio qui assunto, l’obiettivo che si vuole conseguire è espresso dallo stesso titolo: presentare l’etica aristotelica non tanto come una filosofia tra le altre, ma come la vera e propria, e l’unica, filosofia prima. Infatti, si vuole leggere «l’articolazione filosofica della conoscenza scientifico-teoretica […] come fondata sul vivere-in-azione, su dati fenomenologici, esperienziali e sensibili».[2] Se ne risulta che, proprio nello Stagirita, l’indagine teoretica si basa essenzialmente sul coinvolgimento della sensibilità e dell’azione, «allora l’etica (lo studio strutturale di tali ineludibili condizioni) è la disciplina che in modo cruciale, se non esclusivo, dischiude le origini, i principi e gli assunti della conoscenza e finanche della sapienza».[3] L’etica si configura, quindi, come la capacità di cogliere l’umano nella sua originarietà e a questo si deve il suo carattere primario tra le filosofie, che sancisce la sua stessa necessità per il posizionamento delle altre.[4] Ora, anche se questo quadro preliminare potrebbe instillarne il dubbio, qui si è ben lontani da un’impostazione à la Gadamer e à la Arendt che, nel secolo precedente, hanno avuto al centro del loro pensiero queste tematiche, suscitando negli stessi critici reazioni contrastanti tra loro.[5] Se ciò non avviene, è perché, riassumendo estremamente il movimento di L’architettura dell’umano, la posizione dell’etica al vertice della filosofia non vuole portare a un semplice ribaltamento della gerarchia delle scienze in Aristotele, quanto a un suo ripensamento che, in un certo senso, pone l’etica stessa come ontologia e, quindi, come ciò che fonda e struttura l’essere stesso degli uomini e la sua intelligibilità, che è anch’essa essenzialmente pratica. Infatti, non c’è un’etica incentrata solo sulla prassi che supera la teoreticità dell’ontologia e delle altre scienze mantenendo, in questa gerarchizzazione, un primato e, con esso, una separatezza rispetto a queste ultime, ma vi è il tentativo di far convergere i due orizzonti per porre l’etica all’inizio di esse. In altri termini, si tratta di pensare l’etica come il punto nevralgico di dispiegamento dello stesso mondo in un’interazione tra prassi e teoria che è sempre più necessario accettare per il fatto che né la teoria né la prassi si danno separatamente, quanto in un’ineludibile interazione reciproca.[6]
Tuttavia, anche con questa precisazione, la paradossalità (da intendersi letteralmente e, quindi, come un qualcosa che va contro, sopra e scansa l’opinione comune) di presentare l’etica come filosofia prima rimane: tenendo conto di tutte le difficoltà del tema, così come delle varie interpretazioni, in Aristotele la filosofia prima è la scienza dell’ente in quanto ente e delle cause, diverse, della stessa realtà. Che la filosofia prima sia l’ontologia, la teologia e la metafisica – con tutte le complicazioni di quest’ultimo termine –, non significa nient’altro che porla nella sua necessità rispetto al darsi e al pensarsi del reale. Nessun’altra scienza teoretica può aspirare a questo titolo, e non lo possono tantomeno fare quelle pratiche e poietiche, che hanno altre finalità. Infatti, rimanendo aderenti ai testi aristotelici, l’impossibilità di assurgere l’etica a filosofia prima sta anche e soprattutto nel fatto che essa, con tutte le difficoltà di tematizzazione che presenta, non ha nemmeno come fine il sapere, ma, tradizionalmente, quell’azione che l’allontana di nuovo dalla primarietà di quella che poi è diventata l’ontologia propriamente detta – o, di nuovo, la teologia e la più complicata metafisica. La filosofia prima si rivolge alla conoscenza delle realtà immutabili, e non all’azione e alla produzione.[7] Ora, per far fronte a questa situazione, si svela il vero e proprio asse portante del libro, che non è rappresentato tanto della rilettura degli Analitici Secondi e di alcuni libri della Metafisica, a cui pure si dedica molto spazio, ma dall’apertura dell’idea tradizionale di etica, che ne esce totalmente trasformata. Sullo sfondo di un’analisi molto dettagliata, ci si concentra su Omero, Esiodo, Erodoto[8] e perfino Platone[9] per scavare sul senso abituale di etica, problematizzando quell’“ἦθος” da cui poi essa è derivata. Se “ἦθος” significa, nella classicità, “carattere”, ma anche “costume”, “tradizione” e “abitudine”, in origine indicava la dimora di determinati animali e la casa di una particolare popolazione, finanche del sole. Al di là di quello che poi l’etica è andata a esprimere, Omero, Esiodo, Erodoto e, in un frangente, anche Platone non hanno mai tematizzato un “ἦθος” che, fin da subito, indica quelle qualità degli uomini che successivamente si sono condensate nella stabilità del “carattere”, ma con esso ci si rapporta a un qualcosa che interessa il dispiegarsi originario della vita stessa e il suo legame con un determinato mondo. È proprio questo l’aspetto che qui si vuole mantenere – e lo si fa anche proiettandolo sull’esperienzialità umana, che trova nell’“ἦθος” la sua condizione di possibilità. Alla luce di ciò, sulla scorta di un sentire che, al di là di una certa filosofia araba,[10] si riallaccia molto al Brief über den „Humanismus” di M. Heidegger, che in queste pagine ci sembra trovare una grande eco,[11] si può sì sostenere che l’etica sia la filosofia prima, ma purché si abbandoni una sua definizione stretta, che è quella che invero si desume dalle tre Etiche e da opere a esse contigue. L’etica non attiene semplicemente alle virtù e alla felicità umana, ma è il prodursi e il venire al mondo degli stessi esseri viventi. Quindi, non bisogna assumere l’etica nella limitatezza della disciplina sul comportamento corretto o scorretto degli uomini, oppure sulla scorta di una delle altre accezioni ricavate dalle Etiche e da altri testi aristotelici, ma si deve intenderla come ciò che riguarda il fenomeno umano nel suo complesso e nel suo complessivo dispiegarsi. Proprio per questo motivo l’etica può essere detta filosofia prima, essendo che la filosofia prima si occupa, da sempre, della e delle manifestazioni originarie del mondo. Tuttavia, mettendo per un momento da parte un’analisi più puntale dell’opera, sorge già una domanda, che non riguarda direttamente il suo contenuto, ma è un nodo ermeneutico che per forza di cose si impone durante la lettura: si può forzare così tanto la categoria dell’etica per poi leggere, attraverso essa, l’intera filosofia di Aristotele, che nella sua vera e propria formulazione non la contiene? Per delineare una risposta, bisogna cominciare dall’omonimia, ovviamente voluta, con l’Éthique comme philosophie première[12] di E. Lévinas,[13] che, per quanto non sia minimante un testo su Aristotele, ci sembra contenere lo spirito dell’opera che stiamo analizzando: con Lévinas si ha l’occasione di pensare l’etica nella sua primarietà perché è questo che, nel concreto, compone la stessa vita – ineffabile se non nella pratica, che oltrepassa, di fatto, la razionalità tradizionale. Al di là del binarismo tra vero e falso e di tutti gli altri teoricismi, bisogna porre la stessa verità in termini irriducibilmente diversi e altri da quelli a cui siamo stati abituati. Quindi, si tratta di raffigurarla, proprio con Lévinas, attraverso l’originarietà dell’etica e dello stare insieme degli uomini, che ha alla sua base un mistero che impedisce all’etica stessa di essere colta, e determinata, una volta per tutte. Per quanto ci caratterizzi, l’etica sfugge a quella cristallizzazione che la razionalità discorsiva le impone.[14] Ora, se è palese il background a cui guarda l’Autrice, che ci permette di leggere Aristotele tramite Lévinas, ma anche Lévinas tramite Aristotele, è perché, al di là di ogni storicismo, il motore della ricerca risulta essere il seguente: si tratta di tenere aperta, sempre e comunque, la possibilità dell’interpretazione e di innervarla ogni volta dandole nuova linfa. Al di là dei riferimenti, la filosofia risulta attraversata dagli stessi ineludibili nodi, che si devono riattivare e portare alla luce anche capovolgendo quelle che sono le sue formulazioni più abituali. Tenendo conto del terreno da cui muove, la filosofia deve continuare a interrogarsi, con l’impossibilità di terminare una volta per tutte le interpretazioni che la caratterizzano, anche perché qualsiasi risposta che si dà ha poi la necessità di essere nuovamente riaffermata.[15] Detto ciò, lasciando inevitabilmente sullo sfondo una discussione più profonda di questo nodo, che travalica anche lo spazio di un commento, bisogna riconoscere che, se la chiave interpretativa utilizzata è molto forte, a onor del vero è sostenuta coerentemente dall’inizio alla fine di tutta l’opera, su cui si mette costantemente alla prova. Infatti, a quest’altezza del discorso, quello stesso legame con la teoria precedentemente messo in campo inizia a farsi più chiaro: ampliare il significato di etica permette di leggere nella loro eticità l’inizio della conoscenza – e, quindi, l’αἴσθησις – ma anche lo stesso principio di non contraddizione, che è alla base della validità di qualsiasi asserzione, soprattutto scientifica. Di nuovo, non si tratta di porre la loro eticità tramite delle ricadute e delle conseguenze pratiche che essi possono avere, ma, all’opposto, come l’empiricità e la praticità del terreno da cui scaturiscono. Non potendo essere dedotti da nessun ragionamento, così come da nessuna ragione in senso forte, il sostrato dell’αἴσθησις e quello del principio di non contraddizione sono etici – e non possono che essere tali. In altri termini, non c’è un pensiero che, in origine, non sia incarnato e corporale e, soprattutto, che non si sviluppi dallo stare insieme degli uomini e dal manifestarsi, frammentario in sé, dell’umano. Riprendendo un’osservazione dell’Autrice, che però ha alle spalle lo scarto tra il λόγος e il νοῦς, così come una disamina della dialettica, si afferma questo:
«Non è che l’etica soltanto, nella sua imprecisione e nel suo concentrarsi sul pratico, possa avere un fondamento esclusivamente dialettico. Piuttosto, le scienze stesse, ognuna di esse, sono in ultima analisi basate su principi definiti dialetticamente – dove, ovviamente, definiti dialetticamente significa articolati attraverso le pratiche della comunicazione e della comunanza, e quindi essenzialmente appartenenti alla fenomenicità e alla fenomenologia dell’ethos umano».[16]
In questo senso, si può ora aggiungere che, se l’inizio della conoscenza insito nell’αἴσθησις è un qualcosa di irriducibilmente etico, è perché niente è già dato nella mente umana e tutto si forma nel momento in cui si esperisce quello che ci sta intorno, dove l’accoglimento di questa datità, che è una delle espressioni dell’αἴσθησις, sblocca anche il sapere e tutte le sue potenzialità intrinseche. Lo stesso valga per il principio di non contraddizione, il quale, come fondamento di ogni conoscenza, è indimostrabile per chi voglia farlo se non nel momento in cui lo si nega, motivo per cui la dimostrazione, nella sua impossibilità teoretica, rimane essenzialmente pratica e, quindi, etica. Ponendo sempre l’accento su questo aspetto, si è poi proposta una rilettura del famoso incipit della Metafisica, che fa perno sullo stretto collegamento tra la conoscenza e la stessa vista, fonte particolare della prima. Infatti, non è scorretto dire che «tutti gli uomini per natura tendono al conoscere (τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται)», ma sarebbe meglio affermare che «essi per natura desiderano aver visto (τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται)». La conoscenza è sempre sensibile e sensoriale e lo stesso verbo che qui viene scelto, εἰδέναι, ha un rimando ineludibile alla vista, per cui ogni sapere non può fare a meno di un qualsiasi organo sensorio – e la vista sarebbe solo un esempio. Se gli uomini conoscono, è sostanzialmente perché “hanno visto”, motivo per cui rendere la celebre asserzione in questi termini, non farebbe altro che scavare sul suo vero e proprio senso. Nella stessa direzione, gli uomini non tendono semplicemente al conoscere, ma desiderano questa conoscenza e, se lo fanno, è perché essa è un qualcosa che è quasi connaturato alla loro natura. Si è attratti dalla realizzazione di sé in quanto esseri umani ancor prima di qualsiasi decisione si possa prendere a tal proposito. Se si desidera aver visto, è perché si esperisce questa necessità dall’interno.[17] Sviluppando le osservazioni fin qui condotte, l’Autrice ha poi potuto affermare l’anacronistico anticartesianesimo di Aristotele: nel momento in cui Aristotele affronta il dubbio iperbolico, si arriva a capire come «il pensiero e le sue strutture logiche non sono separabili dall’esperienza, dalla dimensionalità dell’ambito fisico e, nel senso più ampio, dal coinvolgimento nell’azione».[18] I non-detti del nostro pensiero, «che comportano la massima conseguenza in relazione a cosa e come pensiamo»,[19] non solo sono indeducibili, ma ci caratterizzano fino in fondo e Aristotele stesso l’ha affermato con chiarezza. Proprio per questo motivo, bisogna accettare al di là di ogni dubbio la verità dell’esistenza – soprattutto di fronte alle incongruenze che il pensiero, di per sé, provoca e in cui continua a incagliarsi. Ad ogni modo, se quello appena emerso è uno dei pilastri fondamentali dell’opera, ci sembra però che essa conti su un altro fondamentale passaggio, che, se non compiuto, avrebbe portato all’invalidazione di tutto il percorso. Anche a fronte della rimodulazione di questa nozione, in cui, a torto o a ragione, si è intravista una forte impronta heideggeriana, la maggiore difficoltà di porre l’etica come filosofia prima non la si ha tanto con il confrontarsi con la filosofia prima propriamente detta, ma con la messa in campo della politica: non solo Aristotele chiama la politica, e non già l’etica, la scienza architettonica,[20] che ordina tutte le altre scienze all’interno della città, ma in vari passi lo Stagirita afferma che l’etica è addirittura una parte della politica, senza che però venga meglio precisata la qualità della subordinazione.[21] In questo senso, la vera e propria scienza è esclusivamente quella politica, che è chiamata a decidere delle altre scienze utili, o meno, alla comunità in cui si trova. Non ci può essere un’etica che prescinda da quest’ultima, o che addirittura la scavalchi. Per far fronte a questa situazione,[22] che contiene un’eccessiva forzatura nel finire con il sostenere l’architettonicità della stessa etica,[23] si cerca di leggere la politica come etica, o meglio, l’etica come politica, mantenendo però un decisivo scarto tra le due che, se ne sancisce lo stretto collegamento, ne precisa anche la rispettiva autonomia. Con un esempio che isoliamo dal testo,[24] che ha l’indubbio pregio di non nascondere le stesse criticità che, agli occhi di noi moderni, si presentano nella lettura dei classici, la filosofia pratica di Aristotele si presenta in questo modo: se si afferma che tutti gli uomini – e, quindi, il cittadino, lo schiavo e la donna – sono, nei precetti aristotelici, “animali politici”, è pur vero che la realizzazione di sé in quanto uomo è appannaggio del solo cittadino, che è quello che interpreta la politica e il politico nel senso stretto del termine. Da una parte, infatti, c’è un’accezione ampia di politicità che abbraccia tutti gli uomini come “animali politici” senza distinzioni di alcun tipo – motivo per cui anche lo schiavo e la donna possono esserlo –, ma, dall’altra, vi è la politicità escludente del tempo, che fa sì che solo dei determinati uomini siano liberi e che, quindi, possano realizzarsi in quanto tali. Sviluppando il quadro, ci sembra che prenda sempre più piede questa convinzione: la politica, nella sua storicità, risulta la stessa cristallizzazione di un ordinamento ben determinato, che può produrre delle divisioni che l’originario stare insieme degli uomini, che è uno stare insieme fondamentalmente etico, non dovrebbe avere. Questo è il caso che lo schiavo e la donna testimoniano, essendo che, al di là del loro essere “animali politici”, essi mai e poi mai potranno vivere pienamente alla maniera del cittadino, cosa che invece dovrebbero aver modo di fare e che il loro essere uomini permette. Stando così le cose, è per questo motivo che l’etica, e non già la politica, può essere definita filosofia prima: la politica risulta essere troppo istituzionalizza ed escludente per essere la vera e propria filosofia prima, titolo che invece l’etica, per il suo carattere aperto, può arrogarsi. La politica rischia di produrre delle contorsioni che il terreno dell’etica non ha, con la conseguenza che, se si ponesse la sua primarietà, che pure è uno sconfinamento che l’etica come politica prevede, le differenze e le gerarchie che porta con sé sarebbero giustificate a un livello superiore, che, però, non deve esserci proprio per mantenere l’apertura dello spazio etico originario, di contro alla chiusura e all’istituzionalizzazione di un certo tipo di politico. L’etica è più aperta ed è da ciò che deriva la sua superiorità. Ad ogni modo, quello di cui abbiamo parlato finora è solo un aspetto de L’architettura dell’umano, che si è accentuato a scapito di moltissimi altri, come, ad esempio, quello del legame tra giustizia e amicizia, oggetto del capitolo finale del libro, che, se riassume tutto il percorso compiuto in quelli precedenti, ne affronta contestualmente i suoi possibili sviluppi. Anche se gran parte della Rehabilitierung der praktischen Philosophie[25]ha sottovalutato questa questione (oltre a Gadamer e Arendt, ma anche a Heidegger stesso, si sta pensando a J. Ritter, M. Riedel, G. Bien, ecc.),[26] si è fatto qui doppiamente bene a sottolineare l’importanza della giustizia nell’ordine del discorso aristotelico: non solo nella giustizia si riassume ogni virtù, ma non c’è una virtù più perfetta e completa. Infatti, se tutte le virtù dei singoli si possono analizzare nella loro autonomia, le stesse hanno bisogno della giustizia per avere la loro vera e propria giustificazione e, quindi, per porsi nella loro diretta derivazione dalla città, che altrimenti non si spiegherebbe. Infatti, la giustizia finisce per riassumere ogni virtù, che è specifica, nell’ottica dell’utile della comunità, motivo per cui essere virtuosi in un singolo aspetto significa far del bene alla città e, quindi, essere giusti. La giustizia non è una semplice virtù, ma è quella virtù che permette la ricomprensione di tutte le altre.[27] In una frase ormai celebre, Aristotele dice:
«Si ritiene che la giustizia sia la virtù più eccellente, e non sono ammirate tanto quanto lei la stella della sera o la stella del mattino (καὶ διὰ τοῦτο πολλάκις κρατίστη τῶν ρετῶν εἶναι δοκεῖ ἡ δικαιοσύνη καὶ οὔθ› ἕσπερος οὔθ› ἑῷος οὕτω θαυμαστός), citando il proverbio, noi diciamo che “Nella giustizia si riassume ogni virtù” (ἐν δὲ δικαιοσύνῃ συλλήβδην πᾶσ› αρετὴ ἔνι)».[28]
Tuttavia, questo è solo un aspetto della giustizia, dato che nella sua accezione più ampia essa finisce per essere il vero legame tra le Etiche e la Politica: la giustizia non è un qualcosa di esterno che si impone sulla comunità soffocandola, ma serve a quest’ultima per esserci e per mantenersi stabile senza soccombere su se stessa per tutti i dissidi interni che, inevitabilmente, si vengono a creare. Essa riguarda l’ordinamento e, soprattutto, il buon governo della comunità, che, per funzionare, ha bisogno che tra i suoi membri ci sia giustizia nelle varie attività svolte, così come nel sovrintendere alle stesse.[29] In questo senso, con un’impostazione che, nel gioco delle parti, ci sembra apertamente antischmittiana, non è assolutamente un caso che, sulla scorta di Etica Nicomachea VIII, si sottolinei la sua identità e la sua differenza con l’amicizia, con un sottotesto per cui, quando si è amici, non c’è nemmeno bisogno della prima:[30] se la giustizia e l’amicizia sono fondamentali per il legame sociale, «l’amicizia eccede di gran lunga la giustizia intesa nel suo senso più ristretto, come legalità».[31] L’amicizia, infatti, è una sorta di rispecchiarsi diretto dell’eticità originaria – senza quelle prescrizioni che la giustizia prevede. In questo senso, «in qualità di sistema giuridico-normativo che garantisce stabilità e protegge la polis dal dissenso o dalla discordia, la giustizia è la condizione necessaria per l’istituzione, la sussistenza e la continuazione della polis».[32] La giustizia, in tutte le sue innumerevoli sfaccettature, è uno dei cardini su cui la città si regge. Tuttavia, l’amicizia è forse più etica perché, nella sua essenza, non prevede quelle imposizioni che la giustizia inevitabilmente porta con sé. Nel rapporto appena istauratosi, che riproduce su un diverso piano la coincidenza, nello scarto, che c’è tra l’apertura dell’etica e la chiusura della politica, si ha la potenzialità nascosta dell’amicizia: essa è «il più alto conseguimento concepibile della politica, o perfino […] il superamento di sé da parte della politica».[33] Proprio perché attua immediatamente ciò su cui ogni città deve pronunciarsi, «l’amicizia segnerebbe il superamento della politica come mero programma gestionale, volto a istituire norme che mantengano la coesistenza entro parametri di tollerabilità».[34] Infatti, con l’amicizia si armonizzerebbe lo stare insieme degli uomini, con il superamento delle imperfezioni che qualsiasi legge, anche solo per il fatto di essere tale, ha al suo interno. Ora, tutt’altro che un’analisi a sé stante, è proprio qui che si inserisce un’ulteriore tesi del libro, che non solo non è ricavabile dal pensiero aristotelico, ma per la sua ispirazione «genuinamente moderna»[35] non vuole nemmeno esserlo. Mettendo in gioco I. Kant, che, paradossalmente, riavvicina quest’opera proprio a quegli autori da cui finora si è distaccata,[36] ci si rivolge al legame tra trascendenza e immanenza, ma anche tra il singolo e la comunità – fino al profilarsi della stessa possibilità del cosmopolitismo. Si è sempre dei singoli uomini che devono vivere in un preciso raggruppamento, ma, alla fine, si sente anche l’esigenza di scavalcare questo confine per poterlo ripensare – ed è qui che viene introdotto il tema del cosmopolitismo. Esso è ciò che, di fatto, potrebbe risolvere tutti i particolarismi su cui ogni comunità ristretta si fonda, permettendo poi a ogni singolo uomo di realizzarsi in quanto tale. Si tratta di pensare a quest’orizzonte come a un’universalizzazione della stessa umanità, che è permesso anche dal carattere trascendente che appartiene all’essere umano, che non è mai definito nella sua datità. È proprio rispetto allo slancio di questa conclusione, di cui si è riassunto solo un aspetto, che si riconferma sotto un’altra luce quel dubbio ermeneutico espresso in precedenza: al di là di qualsiasi classico venga analizzato, l’etica come filosofia prima si delinea come un impegno che si prende per tenere aperto, ora, lo stesso presente, con tutte le variazioni e le costanti che lo stare insieme degli uomini prevede nell’accavallarsi delle epoche. Non c’è solo il tentativo di assumere la primarietà dell’etica come chiave di volta di un determinato autore, ma di attivarla e poterla sempre riattivare per i tempi che incombono. Lo stare insieme degli uomini si muove sulle stesse costanti cangianti – in un nesso ineludibile tra ciò che si è e ciò che, tendendovi, si può diventare, senza che questa tensione venga mai meno.
Giulia Angelini
Note
[1] Si segnala fin da ora che una riproposizione di questa tesi, che ha un carattere sicuramente più divulgativo di quello che qui è stato adottato, si può trovare in C. Baracchi, Di nuovo su Aristotele e l’etica come filosofia prima, in L. Grecchi (ed.), Teoria e prassi in Aristotele, Petite Plaisance, Pistoia 2017, pp. 191-219.
[2] C. Baracchi, L’architettura dell’umano: Aristotele e l’etica come filosofia prima, Vita e Pensiero, Milano 2014, p. 7.
[4] Per quanto riguarda la composizione dell’opera, essa è così formata: dopo l’introduzione, in cui si fissano il problema principale e i termini in cui verrà discusso, si ha un primo capitolo – intitolato Preludio. Prima dell’etica: Metafisica A e Analitici posteriori B.19 –, e un secondo sui primi sette libri dell’Etica Nicomachea. Quasi a metà si trova un interludio su Metafisica IV, la cui prima sezione è chiamata Aporiai della scienza “dell’essere in quanto essere”. Come conclusione, l’ultima sezione è dedicata ai tre restanti libri dell’Etica Nicomachea, che completano l’analisi condotta sui precedenti.
[5] Per quanto riguarda il rischio intravisto nelle posizioni di H. G. Gadamer e di H. Arendt, si rimanda al classico F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in L. Iseppi-C. Natali-C. Pacchiani-F. Volpi, Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C. Pacchiani, Aldo Francisci Editore, Abano Terme (Padova) 1980, pp. 11-97.
[6] Come viene subito affermato dall’Autrice, «il punto non è rispondere al tradizionale privilegio della sapienza teoretica dando invece preminenza alla pratica o “riabilitando” il pensiero pratico. Piuttosto, lo scopo qui è comprendere questi registri dell’attività umana nella loro irriducibilità, certo, eppure allo stesso tempo nella loro inseparabilità. Più precisamente, l’indagine dovrebbe far luce sul modo in cui le considerazioni pratiche segnano in modo decisivo l’inizio o la condizione della contemplazione come pure di ogni investigazione discorsiva» (C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., p. 7).
[7] Per quanto riguarda una delle più note formulazioni aristoteliche, che si sviluppa nel contrasto con la fisica, cfr. Aristotele, Metaph., VI 1, 1026a 27-32 (trad. it. Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2010): «Orbene, se non esistesse un’altra sostanza oltre quelle che costituiscono la natura, la fisica sarebbe la scienza prima (ἡ φυσικὴ ἂν εἴη πρώτη ἐπιστήμη); se, invece, esiste una sostanza immobile, la scienza di questa sarà anteriore (alle altre scienze) e sarà filosofia prima, e in questo modo, ossia in quanto è prima, essa sarà universale (εἰ δ’ ἔστι τις οὐσία κίνητος, αὕτη προτέρα καὶ φιλοσοφία πρώτη, καὶ καθόλου οὕτως ὅτι πρώτη), e ad essa spetterà il compito di studiare l’essere in quanto essere, cioè che cosa l’essere sia e quali attributi, in quanto essere, gli appartengono».
[8] Per quanto riguarda le occorrenze di ἦθος in Omero, Esiodo ed Erodoto, così come il rispettivo commento delle stesse, cfr. C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., pp. 61-63.
[9] Anche se nella maggior parte dei casi ἦθος è utilizzato da Platone nel suo significato classico, vi è però un’importante occorrenza, preziosa proprio per la sua rarità, dove sembra ritornare il senso antico, essendo che qui ἦθος va a indicare il giardino e il luogo che, per Platone stesso, è predisposto alla crescita e alla fioritura delle piante e anche degli stessi discorsi umani: cfr. Plat., Phaedr., 276e-277a.
[10] Con un’osservazione molto generale, nel testo, o meglio, nelle note ai vari capitoli sono numerosi i riferimenti alla filosofia araba e, in particolare, alla sintesi che ne fa al-Farabi, sia perché «l’indagine (invero la scienza) dell’etica ricerca i principi intellettuali inerenti all’essere umano, e quegli atti e stati del carattere con cui l’essere umano si adopera al perfezionamento di sé» (C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., p. 18, n. 1), ma anche per il motivo che nella sua teorizzazione si capisce l’importanza della vita in comune e dell’associazione politica «per realizzare quella perfezione per quanto possibile» (ivi, p. 234, n. 21).
[11] Al di là delle diverse finalità, si può leggere che: «Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ἦθος, il termine “etica” vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria. Ma questo pensiero non è nemmeno etica per il fatto che prima è ontologia. L’ontologia, infatti, pensa sempre e solo l’ente (ὄν) nel suo essere. Ma finché non è pensata la verità dell’essere, ogni ontologia resta senza il suo fondamento» (M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, p. 93).
[12] Per quanto riguarda la prima pubblicazione di questa conferenza, che poi è uscita anche come volume a parte, cfr. E. Lévinas, Éthique comme philosophie première, in Id., Justifications de l’éthique, Editions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1984.
[13] Oltre a E. Husserl, non è assolutamente un caso che uno dei riferimenti di E. Lévinas sia di nuovo Heidegger.
[14] Nel saggio successivo a cui si è già fatto riferimento, l’Autrice ha scritto: «Già traspare dalle considerazioni esposte finora che non ritengo insostenibile l’ipotesi interpretativa che segue da Lévinas. Che, anzi, credo colga un aspetto cruciale del pensiero aristotelico e, più ampiamente, greco […]. Ma vale sottolineare che non si tratta tanto, né semplicemente, di ipotizzare un cripto-aristotelismo in Lévinas, né di proiettare il discorso levinasiano su Aristotele. Si tratterebbe piuttosto di rigenerare il senso stesso di queste diciture (“aristotelico”, “levinasiano”), di ridare energia a contenuti e confronti che faticano a emergere e a precisarsi perché eccentrici rispetto a paradigmi abituali, istituzionali, specialistici» (C. Baracchi, Di nuovo su Aristotele e l’etica come filosofia prima, cit., p. 198).
[15] All’osservazione precedente, si aggiunge subito che: «La posta in gioco è, come sempre, l’interpretazione. Ed è salutare che l’interpretazione rimanga materia contestata, che i testi vengano ascoltati nella loro inesauribilità, per quello che può essere ancora impensato in essi, e dunque per quello che resta a venire» (ibidem).
[16] C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., p. 83.
[17] Per questa particolare questione, cfr. ivi, pp. 24-25: «Sia il desiderio di “aver visto” che l’inclinazione a “prendere in sé” puntano alla passione e alla passività che variamente segnano la condizione umana. Gli esseri umani avranno, in quanto tali, sempre già subìto l’impulso, la spinta desiderante a perseguire la visione, e con essa la consapevolezza. A sua volta, l’impulso a perseguire la visione sarà stato suscitato in virtù di un ulteriore patimento dell’anima, ancora più elementare: il patire che ha luogo come apprensione percettiva, in essa e tramite di essa. Visto alla luce della fondamentale traccia di passività, l’essere umano emerge già nella sua apertura e ricettività di fronte a ciò che non è umano. Nella sua ospitalità nei confronti di ciò che esso non è, nel suo essere abitato (se non invaso) da ciò che lo eccede, l’essere umano si manifesta dal principio come una strana struttura ontologica che si definisce attraverso l’alterità, una struttura la cui definizione comporta l’alterità da sé, e, quindi, una certa infinità, una certa mancanza di determinazione e delimitazione».
[21] Per le occorrenze più significative, cfr. Aristot., EN, I 2, 1094b 11-12; Rhet. I 2, 1356a 29-32 e MM, I 1, 1181a 23-26.
[22] Per questa questione, cfr. C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., pp. 66-68.
[23] Anche se non c’è nessun riscontro in Aristotele, spesso e volentieri l’etica viene chiamata scienza architettonica e questo viene fatto sulla base del legame istaurato tra l’etica stessa e la politica. Tuttavia, proprio perché, nell’opera che stiamo analizzando, se ne sancisce anche lo scarto, non si capisce come l’etica possa comunque avvalersi di tale attributo. Tra l’altro, è proprio quello che non fa essere la politica la filosofia prima, che rende la politica la scienza architettonica – e viceversa. Per questo motivo, non si spiega perché questo titolo venga ancora riferito all’etica. Sempre seguendo il filo del libro, se non lo fosse, l’etica non perderebbe certo il suo primato come filosofia tra le filosofie, anche perché quest’ultimo non è assolutamente legato alla questione dell’architettonicità, che è un problema diverso.
[24] Cfr. C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., pp. 137-139.
[25] Per questa questione, che costituisce lo sfondo della maggior parte degli interpreti qui utilizzati, si rimanda ancora a F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, cit. pp. 11-97.
[26] Di questo, ad esempio, ha avuto modo di lamentarsi G. Zanetti, che, dovendo trattare della categoria della giustizia nella filosofia aristotelica, ha constatato come la Rehabilitierung non l’avesse, purtroppo, mai tematizzata. Come fa sempre notare Zanetti, questo non è tanto un problema di per sé, ma risulta strano che questo nodo non venga affrontato in un fenomeno come quello della Rehabilitierung che ha avuto proprio al centro delle sue speculazioni e nei suoi interessi il tentativo di riattualizzare il versante pratico della filosofia aristotelica, che ha proprio nella giustizia uno dei suoi perni e leganti. Per la seguente osservazione, cfr. G. Zanetti, La nozione di giustizia in Aristotele: Un percorso interpretativo, il Mulino, Bologna 1993, pp. 9-11.
[27] A tal proposito, nell’opera si è costantemente fatto leva sulla specificazione del πρὸς ἕτερον, che è una delle qualifiche più importanti della giustizia.
[28] Aristot., EN, V 3, 1129b 27-30 (trad. it. Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 2001).
[29] Come scrive l’Autrice, rimarcando il carattere che la giustizia svolge nella comunità nelle varie forme che Aristotele stesso ci presenta: «Sebbene regoli la vita in comune al di là delle inclinazioni particolari, delle predilezioni e dei legami di affetto (venendo così a trovarsi in una certa tensione rispetto all’amicizia), la giustizia non si manifesta solo come indifferente imposizione normativa. Essa presuppone piuttosto un certo tenore dei rapporti umani, e in effetti risulta essa stessa da un certo clima socio-relazionale, per così dire. La giustizia come legalità, che si dice ordini la polis, mantenendola coesa e garantendone la continuità unitaria, richiede per la propria operazione che alcune caratteristiche numerico-strutturali siano date, che la polis sia una. La giustizia come esercizio della normatività presuppone una giustizia intesa in senso più primordiale: la giustizia che costitutivamente rende solidi e solidali i legami in seno alla comunità, e in questo modo tutela l’integrità dell’organismo politico» (C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., p. 155).
[30] Per l’importanza, riportiamo in maniera estesa il passo aristotelico: «A quanto pare l’amicizia tiene unite le città (ἔοικε δὲ καὶ τὰς πόλεις συνέχειν ἡ φιλία), e i legislatori si preoccupano di essa più che della giustizia, infatti si ritiene che la concordia sia qualcosa di simile all’amicizia e i legislatori perseguono soprattutto questa, mentre tengono fuori dalla città soprattutto l’inimicizia, come una nemica (ἡ γὰρ ὁμόνοια ὅμοιόν τι τῇ φιλίᾳ ἔοικεν εἶναι, ταύτης δὲ μάλιστ’ ἐφίενται καὶ τὴν στάσιν ἔχθραν οὖσαν μάλιστα ἐξελαύνουσιν). Tra gli amici non c’è nessun bisogno di giustizia, mentre i giusti hanno ancora bisogno dell’amicizia, e il culmine della giustizia è considerato un sentimento vicino all’amicizia (καὶ φίλων μὲν ὄντων οὐδὲν δεῖ δικαιοσύνης, δίκαιοι δ’ὄντες προσδέονται φιλίας, καὶ τῶν δικαίων τὸ μάλιστα φιλικὸν εἶναι δοκεῖ)» (Aristot., EN, VIII 1, 1155a 22-29).
[31] C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., p. 295.
[36] Anche se per motivi totalmente differenti da quelli di quest’opera, gran parte dei membri della Rehabilitierung è partita da Kant per impostare le coordinate della sua indagine, con la conseguenza che molti testi aristotelici sono stati letti con questo retroterra. La Rehabilitierung non ha mai utilizzato Aristotele in maniera neutrale, ma, appunto, è sempre stata interessata alla delineazione di una nuova razionalità e al superamento delle dicotomie della contemporaneità, vedendo in Kant stesso un riferimento imprescindibile per la sua comprensione.
Il saggio di Giulia Angelini è già stato pubblicato in «Syzetesis», Rivista di filosofia, VI/1 – Nuova serie – (2019), pp. 215-228.
Il veleno del nuovo campo semantico concentrazionario
Il potere conosce perfettamente (e ne tiene conto costantemente) la psicologia della massa che non pensa e va mantenuta incapace di pensare.
La lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere più effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico.
V. Klemperer
Potere e linguaggio Il potere possiede, dei popoli, prima le parole e quindi la vita. Per attuarsi il biopotere necessità di una precondizione: possedere le parole, operare sul linguaggio, introdurre nuovi significati, ridurre le prospettive di senso e di significato mediante il progressivo restringimento, l’esemplificazione, del linguaggio e ridurlo ad organo attivo della trasmissione del potere. I totalitarismi della contemporaneità si infiltrano nel pensiero, orientano la direzione dello sguardo ed il sentire con il tamburellare ossessivo delle parole. Le parole del capitale orientano verso la dimensione della quantità, neutralizzano ogni valutazione etica per favorire la sola componente legata al plusvalore. Il capitalismo fonda una nuova lingua per ri-orientare la natura dell’essere umano. Nel linguaggio quotidiano e mediatico le parole hanno un nucleo catalizzante: il plusvalore, dal quale a raggera si strutturano le altre parole e ne diventano la logica conseguenza. Le parole entrano nel corpo vivo, e ridispongono pensieri e sentimenti secondo l’ordine linguistico totalitario. Le parole straniere-anglofone – che i media esaltano come una forma di meticciato linguistico – sono tipiche di ogni totalitarismo. Attraverso di esse si indicano provvedimenti che normalmente non sarebbero popolari, ma la fascinazione magica della parola straniera consente il passaggio e l’accoglimento di provvedimenti che altrimenti potrebbero essere messi in discussione e, forse, razionalmente rifiutati. I popoli sono ridotti a plebi prima ancora che dalla sussunzione digitale, dalla sussunzione linguistica che riduce gli spazi temporali e progettanti per inchiodarli ad un presente senza futuro. Victor Klemperer, attraverso l’analisi filologica da lui compiuta sul linguaggio nazista (con i suoi acronimi, con la sua perversione dei significati, con il suo semplicismo aggressivo), ci è di ausilio per comprendere il presente, per cogliere nelle modificazioni introdotte oggi nella lingua che usiamo quotidianamente la diffusione del potere, e dunque, per capire che il potere non alberga in un “fuori”, ma vive nel soggetto parlante. Il soggetto è parlato dal potere, è de-soggettivizzato:
«Si farebbe però torto al Fürher se si attribuisse la sua preferenza per le parole straniere solo alla vanità e alla coscienza delle proprie deficienze. Hitler conosce perfettamente (e ne tiene conto costantemente) la psicologia della massa che non pensa e va mantenuta incapace di pensare. La parola straniera fa impressione, tanto più quanto meno viene compresa; proprio perché non viene compresa fuorvia, stordisce, soverchia il pensiero».[1]
La lingua del potere come arsenico La lingua del potere pensa per noi, le parole pensate dal potere determinano visuali ed azioni. La perenne attività del potere è un’operazione che si delinea mediante la selezione delle parole che devono circolare. Il veleno del condizionamento è nell’etere, nello scambio linguistico che diviene consolidamento del potere. L’automatismo linguistico è anti-dialettico. Le parole si comunicano senza mediazione concettuale, senza autocoscienza. La ripetizione del gesto come della parola diviene la nuova disciplina che orienta la vita. La nuova lingua deve formare l’homo œconomicus. Pertanto ogni “sospiro” deve essere sostenuto da parole di ordine economico, spesso anglofone, che marcano la vita dei soggetti sussunti. Le parole possono essere logos che emancipa o dosi di arsenico quotidiano, di cui ci si nutre e che riducono la vita dei popoli nella strettoia della gabbia d’acciaio di cui non si vedono le sbarre, perché sono le parole ad essere le sbarre d’acciaio invisibili entro cui si è confinati. Il campo di concentramento è stato allocato nella mente di ognuno:
«Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere più effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».[2]
Nuovi eroismi Kemplerer analizza le parole. Un esempio di manipolazione è la trasformazione che il regime nazista ha fatto della parola eroe. L’eroismo per suo significato originario è il coraggio di mettere in pericolo la propria via per l’umanità. Il nazismo trasforma il significato della parola, la svuota del suo intrinseco umanesimo, per fare dell’eroe un assassino in nome del sangue e del suolo:
«Eroismo non è soltanto il coraggio e il mettere a repentaglio la propria vita, perché di questo è capace anche qualsiasi attaccabrighe o qualsiasi criminale. Originariamente è eroe chi compie delle azioni che promuovono l’umanità. Una guerra di conquista, tanto più una caratterizzata da tante atrocità come quella hitleriana, non ha nulla a che vedere l’eroismo». [3]
L’esaltazione dell’imprenditore come eroe dei nostri giorni, come datore generoso di vita, perché assume e permette la sopravvivenza di impiegati ed operai è un esempio della nuova manipolazione in atto. Il grande imprenditore è rappresentato dal circo orante asservito come il nuovo corpo divino che vivifica la nazione, come la mente da cui dipende il futuro dei popoli incapaci e “naturalmente inferiori”. Si cela del nuovo eroe la concretezza della sua ricchezza, che va dall’evasione fiscale, all’occupazione di ogni spazio mediatico, alla incultura dell’illimitato che attraverso di lui penetra nelle menti e diventa la religione laica del consumo e dell’individualismo violento. Il nuovo eroe è trattato come il santo della nuova religione che pratica la distruzione delle menti e dell’ambiente, ma specialmente è il feticcio con cui si insegna ai popoli a dipendere, ad essere comparse nel turbinio della storia.
Nichilismo e lingua in Tucidide Nel clima conflittuale vissuto quotidianamente, nel nichilismo violento quale nuova pratica del potere, le parole perdono il loro autentico significato. Le parole, per loro cornice naturale, sono collanti sociali e solidali, ma se la diffidenza si impossessa di un popolo, si instaura un clima di sfiducia, in cui le parole non sono altro che emissione fonatoria di nessun valore. Tucidide (in Storie, III, 83) ben descrive l’effetto della guerra e della violenza sul linguaggio vivo: le parole perdono significato, si svuotano del loro senso, non resta che il regno della forza a determinare vincitori e perdenti. Senza il logos non resta che la violenza a determinare la vittoria; gli esseri umani agiscono come creature in una giungla:
«Dunque, al seguito delle sommosse civili, l’immoralità imperava nel mondo greco, rivestendo le forme più disparate. La semplicità limpida della vita che è il terreno più fertile per uno spirito nobile, schernita, s’estinse. Dilagò e s’impose nei personali rapporti, in profondo, un’abitudine circospetta al tradimento. Non valeva il sincero impegno verbale a distendere i cuori, né il terrore di violare un giuramento. Ognuno, quando aveva dalla sua la forza, vagliando volta per volta il proprio stato, certo che nessuna garanzia di sicurezza era degna di fiducia, con fredda meticolosità si disponeva piuttosto a munirsi in tempo d’adeguata difesa che concepire, sereno, d’aprir l’animo suo agli altri. Ed erano gli intelletti più rudi a conquistare, di norma, il successo. Attanagliati dalla paura che il loro breve ingegno soccombesse all’acume dei propri antagonisti, alla loro destrezza di parola, nell’ansia d’esser trafitti prima d’avvedersene, dalla loro insidiosa mobilità inventiva, si slanciavano all’azione, con disperato fervore. I loro avversari invece, colmi di sdegnoso sprezzo, certi di prevenire ogni mossa nemica con una percezione istintiva, ritenevano superflua ogni concreta tutela fondata sulla forza fisica, e così scoperti perivano, fitti di numero».
Il potere vuole ridurre la formazione a semplice formazione professionale negando la formazione integrale degli esseri umani. In questo modo la lingua è ulteriormente ristretta nei suoi significati: il nuovo campo semantico concentrazionario diviene lo spazio-prigione entro cui, soltanto, ci si può muovere. Complementare alla sola formazione professionale è l’esaltazione dell’irrobustimento fisico, della bellezza fisica. Si predilige una dis-educazione che oscilla solo tra “lavoro” e “fisicità aggressiva”. L’educazione umanistica, la paideia, è secondaria, anzi pericolosa, e dunque tacitamente evitata. Si favorisce il movimento di uniformità linguistica globale, cosicché ovunque le parole abbiano a significare il mondo nella stessa spiritualmente povera maniera. La crisi dell’Occidente globalizzato è crisi linguistica, la cui causa profonda è il possesso delle parole e dei concetti da parte di taluni poteri che schiacciano i popoli solo sull’empirico della merce visibile e sulla quantificazione. Un nuovo umanesimo è possibile, poiché l’Occidente ha nella sua storia le lingue e le parole della liberazione, a partire dalla tradizione classica. Il potere è oggetto di frequenti crisi. Proprio perché globale, la sua forza imperiale è anche la sua debolezza. Sulle sue crisi bisogna agire anche con il logos della cultura classica. Il valore di una formazione comunitaria integrale è oggi più vero che mai. La barbarie della violenza che avanza anche nella neo-lingua imperiale non è un destino ineluttabile.
Salvatore Bravo
[1] Victor Klemperer, LTI. La lingua del terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, Firenze 2011, p. 302. [2]Ibidem, pp. 111-112. [3]Ibidem, p. 20.
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