«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Se io allora dico qualcosa, che non è un’immediata indicazione pratica, ma solo contemplazione e fondazione filosofica, non perdo comunque di vista la prassi: perché anche questo deve aiutare a raggiungere quella disposizione pedagogica, che dà alla pratica del singolo compito il suo giusto tono e la giusta intenzione, ma che non si può raggiungere con uno studio rigidamente limitato a questo singolo compito, bensì solo penetrando nelle stratificazioni più estese e costitutive» (Georg Simmel, L’educazione in quanto vita, a cura di A. Erbetta, Il Segnalibro, Torino i1995, p. 6).
«È decisamente meglio che un cattivo metodo e un cattivo sistema didattico siano esercitati da un pedagogo valido, piuttosto che un cattivo pedagogo si serva di eccellenti princìpi oggettivi e contenuti didattici. […] Nella pedagogia, «ogni sapere è un mezzo che mira alla formazione dell’uomo, e ha bisogno quindi di un ordine del tutto diverso da quello in cui è fine a se stesso. All’interno di questa finalità della pedagogia che sono i soggetti umani si aprono indirizzi di carattere soggettivo e oggettivo, il cui chiarimento è indispensabile per un’analisi più profonda dei compiti del pedagogo (ivi, pp. 6-7).
«La lezione non è un semplice trapianto di contenuti conoscitivi, ma una funzione che porta in sé il contenuto. Questo contenuto non può consistere in una forma rigida e chiusa in sé, bensì deve dissolversi nell’attività dell’insegnante. Ogni singola ora deve essere organizzata in modo da promuovere con l’argomento trattato le preziose qualità dell’alunno: capacità di concentrazione, interesse oggettivo, coscienziosità, giudizio, capacità di discernimento dei valori, presenza di spirito, facoltà combinatoria, sincerità» (Ivi, 41).
«La scuola stessa deve incitare e permettere che la cerchia di interessi e le attività degli alunni si spingano al di là della scuola stessa» (ivi, p. 43)
«Non si dovrebbe mai pronunciare la parola stupidità di fronte a uno scolaro; perché la stupidità dello scolaro non è un oggetto di rimprovero per chi ne è affetto. Stupidità è un insulto che non può mai comparire, perché bisogna che lo scolaro impari che non bisogna mai insultare» (ivi, p. 145).
«Nessuna materia deve essere insegnata ai fini del puro sapere, o perché qualcosa che già si trova in un libro venga inciso in una coscienza nella stessa forma irrigidita» (Georg Simmel, Il conflitto della civiltà moderna, trad. It. di G. Rensi. Edizioni Immanenza, Napoli 2014, p. 29)
«Partire dalla vita è una condizione fondamentale. L’insegnante non perda occasione per indagare le esperienze dello scolaro, per dare loro un senso, un nesso, una valorizzazione interiore ed esteriore. Deve verificare lo spirito filosofico per il quale da ogni punto dell’essere superficiale parte una linea retta collegata alle profondità fondamentali» (ivi, p. 31).
Dal 13 luglio 2020 due piazze fiorentine si sono improvvisamente animate, invase da un minaccioso branco di lupi. Wolves Comingè il nome della complessa installazione realizzata dall’artista cinese Liu Ruowang, che sarà esposta a Firenze fino al 2 novembre 2020. L’opera è composta da un centinaio di lupi fusi in ghisa, del peso di circa 280 kili l’uno, disposti tra piazza Pitti e piazza Santissima Annunziata dove, in quest’ultimo caso, sono posizionati nell’atto di accerchiare minacciosamente la statua di un uomo posta al centro del branco. Figura quest’ultima che, come vedremo, può variare di volta in volta: in due precedenti versioni della stessa installazione al centro del branco, al posto della statua dell’uomo, erano infatti presenti una replica della Pietà vaticana o una grande catasta di libri. I vari elementi, fusioni in ghisa realizzate a stampo, presentano numerose imperfezioni e difetti di fusione, lasciati volutamente visibili sotto alla patina color ruggine. L’installazione, che era già apparsa in Italia (a Venezia, Torino e Napoli prima che a Firenze), è oggettivamente accattivante e ancora in grado, dopo molte uscite, di suscitare l’interesse e la simpatia del pubblico. Pubblico che spesso interagisce con essa dimostrando una certa disinvoltura, insolita nell’usuale dimensione del rapporto con le cose dell’arte. Non è infatti raro vedere persone salire a cavalcioni sui lupi, magari facendosi fotografare, e questo tipo di comportamento non deve né stupire né tantomeno scandalizzare, essendo stato perfettamente previsto e addirittura incentivato dall’artista stesso che, in più occasioni, ha affermato di aver scelto di lavorare su questa scala proprio per stimolare un certo tipo di relazione con il pubblico. L’evento è stato organizzato dalla galleria Lorenzelli arte di Milano e durante il giorno dell’inaugurazione fiorentina erano presenti numerose personalità di rilievo, tra cui il direttore degli Uffizi Eike Schimdt, il console generale della Repubblica cinese Weng Wengang, e il sindaco di Firenze Dario Nardella. Al di là delle valutazioni di carattere estetico o tecnico che possono essere fatte è utile (e forse anche doveroso) chiedersi quale sia la lettura dell’installazione, quale sia il suo senso. In merito a ciò è intervenuto anche lo stesso Liu Ruowang, che in un’intervista ha affermato:
«Volevo simboleggiare la preoccupazione dell’animo umano dopo la crisi del 2007, ma l’opera ha anche un altro significato. Il lupo è un animale che lavora in branco, ed è proprio dall’unione delle forze che l’uomo può superare le sue difficoltà».
Andando oltre le spiegazioni che un artista può dare della propria opera che, come spesso accade nella storia dell’arte, hanno poca o addirittura nessuna importanza, è interessante vedere come lo stesso Liu Ruowang ci indichi sommessamente che Wolves Coming possa avere molteplici interpretazioni. In Italia la critica d’arte, o più genericamente la stampa, ha voluto tuttavia privilegiare una lettura dell’opera in senso esclusivamente ecologista. La lettura per cui i lupi rappresenterebbero una reazione della natura, che si ribella contro le ingiustizie perpetrate dall’uomo nei suoi confronti, simbolizzato dalla figura al centro del branco. Questa interpretazione però non sembra molto pertinente, e non resiste a una più attenta analisi.
Prima di cercare di comprendere perché quest’interpretazione non sembra la più convincente, vale la pena riportare una serie di affermazioni, apparse sulla scia della lettura ecologista. Leggiamo per esempio le parole del sindaco di Napoli De Magistris:
«[…] giunsero da noi in autunno e li accogliemmo nella grande piazza Municipio, pronti a sollecitare il dovere morale di tutelare l’ambiente e custodirlo in buona saluta per le generazioni che verranno […] [i lupi; n.d.a.] ci hanno poi osservato per tutta questa amara primavera, incalzandoci a cercare un rapporto più equilibrato con la natura». Sulla rete, poi, non è difficile imbattersi in veri e propri voli pindarici come questo che segue: «Il minaccioso branco di lupi che sembra attaccare un imponente guerriero è un’allegoria della risposta della natura alle devastazioni e al comportamento predatorio dell’uomo nei confronti dell’ambiente, ed è al contempo una riflessione sui valori della civilizzazione, sulla grande incertezza in cui viviamo oggi, resa ancora più evidente dai drammatici effetti del Covid 19 e sugli effettivi rischi di un annientamento irreversibile del mondo attuale […] i lupi sono un appello disperato alla salvaguardia ambientale di tutto il pianeta». C’è anche chi, con fare amletico, si interroga circa le intenzioni del branco: «I lupi ci attaccano o siamo piuttosto noi ad attaccarli ? Può esserci invece un equilibrio durevole fra noi e loro e in generale tra uomo e natura?».
Come si vede, il tema è sempre e solo quello: l’ambiente e la sua salvaguardia. Ma è davvero questa la lettura più calzante? Cerchiamo di ragionare in modo non ideologico e analizziamo la struttura iconografica dell’opera: i lupi sono minacciosi, il loro aspetto è sinistro e violento; la figura dell’uomo accerchiato dal branco mantiene invece un aspetto nobile e disciplinato, tutto in essa sembra trasmettere un senso di compostezza, di forza interiore, anche un’antica attitudine al sacrificio e all’abnegazione. A essere onesti è davvero difficile identificare questo personaggio con il prototipo del moderno inquinatore, dell’uomo distratto, viziato e vizioso, incurante dell’ambiente che lo circonda.
Se dovessimo trovare una matrice di riferimento per la figura di questo guerriero forse dovremmo guardare alle immagini delle antiche divinità-guerriere della tradizione confuciana, o, in tempi più recenti, a certa statuaria propagandistica di epoca maoista. In quest’ultima accezione, anzi, è curioso come il tema dell’accerchiamento presente nell’opera sembri riproporre, nella sua drammatica teatralità, il noto episodio narrato dall’ambasciatore indiano Menon e riportato anche da Eugenio Corti nel suo bellissimo Processo e Morte di Stalin, in cui il dittatore sovietico traccia con mano distratta il disegno di un uomo, un contadino cosacco accerchiato dai lupi: potente metafora della di lui situazione, minacciato da quelli che considerava essere i nemici del socialismo.
Occorre anche ricordare che, in due delle precedenti volte in cui l’installazione è apparsa in Italia, l’opera presentava delle fondamentali variazioni. Nel caso dell’allestimento alla Biennale di Venezia, nel 2015, al posto della figura del guerriero era presente una replica della Pietà vaticana; nella versione in mostra a Torino, sempre nello stesso anno, era invece presente una grande catasta di libri. Ci dovremmo chiedere come sia possibile che l’artista abbia deciso di sostituire due ideali alti e nobili, come la Pietà di Michelangelo, simbolo della bellezza delle arti e della nobiltà dei sentimenti dell’uomo, e la grande pila di libri, evidente metafora di cultura e progresso, con una figura così disdicevole, che rappresenterebbe gli aspetti più meschini, brutali e nefasti dell’essere umano, sovvertendo completamente la dinamica dell’installazione e invertendo le parti, scambiando il bene con il male potremmo dire. Francamente non sembra credibile. In definitiva credo che per comprendere quest’opera, più che alle sia pur lodevoli istanze ecologiste si debba far riferimento alla politica e ai miti a essa legati. Sappiamo bene che non esistono letture definitive di un’opera d’arte, e che questa muta i suoi valori di riferimento nel tempo e nello spazio, esattamente come sempre differenti sono gli occhi di chi la contempla. Esiste però la possibilità di ricostruire parzialmente i passaggi che hanno portato un autore alla creazione di una determinata opera. Per questo tipo di operazione è però necessario tenersi a debita distanza da facili conclusioni preconfezionate, molto utili magari ai fini commerciali ma fuorvianti rispetto a quelli di un’indagine onesta e rigorosa.
Per risalire alla genesi di Wolves Coming credo si debbano ricordare alcuni fatti esterni, legati alla pubblicazione di un celebre libro, Wolf Totem, dello scrittore cinese Lu Jiamin. Da questo best seller nel 2015 il regista francese Jean-Jacques Annaud trasse un film (presentato anche nelle sale italiane con il titolo di L’ultimo lupo), una pellicola formalmente ineccepibile e caratterizzata da una forte componente ecologista. Sebbene il successo ottenuto dal film abbia sicuramente contribuito alla diffusione del romanzo in Occidente, non si può non riconoscere che Annaud abbia in parte tradito il profondo messaggio sociopolitico racchiuso nelle pagine di Jiamin. Wolf Totem, già dalla sua prima pubblicazione in Cina nel 2004, ha rappresentato un vero e proprio caso letterario: romanzo in gran parte autobiografico, narra le vicende di una giovane ex-guardia rossa che, nei duri anni della rivoluzione culturale, sceglie la via dell’autoesilio presso le popolazioni della Mongolia Interna, dopo essere stato bollato in patria come controrivoluzionario. In un’intervista rilasciata molti anni più tardi Jiamin ammetterà che la scelta dell’autoesilio fu dettata principalmente della consapevolezza che l’isolamento, in una terra selvaggia e inospitale come la Mongolia, gli avrebbe concesso più tempo e tranquillità per dedicarsi alla lettura di testi diventati proibiti, gli stessi libri che solo pochi anni prima, come membro del partito, aveva contribuito a distruggere. Fu in questo lungo decennio di esistenza nomade a contatto con le popolazioni locali che il protagonista del romanzo (alter ego dello scrittore) imparerà ad apprezzare il carattere indomito e fiero del popolo mongolo, così diverso da quello dei cinesi di etnia Han, cui lui apparteneva. I discendenti di Gengis Khan erano gente dura, abituata a combattere per sopravvivere: lo spirito del lupo, l’animale totemico delle popolazioni mongole delle origini, sembrava pervadere ogni aspetto di questa cultura antica e misteriosa. Leggiamo a questo proposito un estratto del romanzo davvero molto significativo:
«I cinesi adorano il drago perché ritenevano che regolasse i ritmi della natura distribuendo equamente fortuna e avversità, la verità è che noi ci siamo isolati dal resto del mondo, ci siamo chiusi nello splendore del nostro recinto. Si, la storia cinese sarebbe stata diversa se avessimo avuto più familiarità con i lupi. Gengis Khan aveva rovesciato le più potenti e splendide dinastie e ridotto in polvere lo sterminato impero cinese, patria di Sun Zu, il grande stratega. Uomini incolti e barbari avevano terrorizzato mezzo mondo perché avevano i lupi, maestri eccezionali di strategia bellica. Se i cinesi vogliono uscire dal proprio nido e conquistare il mondo, devono fare come i nomadi ed essere più determinati e convinti».
Questo genere di affermazioni, a carattere fortemente politico e simbolico, hanno suscitato un interesse enorme in Cina nei confronti dell’autore del libro, comprese reazioni di violenta protesta. Non c’è però stata l’attesa censura da parte del governo, e Jamin stesso acutamente ipotizza che qualcuno, a livello governativo, possa aver apprezzato il significato del libro, e dice:
«[…] da una parte i cinesi sono rimasti affascinati dal lupo: per secoli nella nostra cultura è stato un simbolo del male, una forza oscura, invece nella mia storia mongola è un Dio, oltre che il simbolo della nostalgia per la natura incontaminata».
Particolare attenzione meritano queste ultime parole, in cui vediamo emergere la componente ecologista legata al tema del branco di lupi, quella componente che sarà sviluppata e privilegiata da Annaud nel suo film, e che la stampa italiana ha visto come unica chiave di lettura nell’installazione di Liu Ruowang. Continuando nella lettura del romanzo si incontrano anche parole straordinariamente dure, che colpiscono per la loro candida brutalità:
«Noi cinesi Han non capimmo la forza dei valori mongoli, siamo stati condizionati dal buddismo, una religione fatta per i deboli e i perdenti, i veri eredi del nomadismo mongolo sono storicamente gli imperi navali e mercantili dell’Occidente, Spagna Inghilterra e America. Oggi i cinesi si accorgono che i valori del lupo sono più adatti per combattere nell’economia di mercato. Inoltre il carattere del lupo, come lo descrive la mitologia mongola, si adatta perfettamente all’economia di mercato: è aggressivo, libero e intraprendente, ha un forte senso della competizione ma sa anche disciplinare i suoi istinti dentro a un gioco di squadra».
Inoltre, come sottolinea un articolo apparso su La Repubblica nel 2006, dietro alla popolarità di questo romanzo affiora una Cina che prende le distanze dal pensiero confuciano, che, da sempre avverso all’individualismo, si caratterizza per un profondo senso dell’ubbidienza e della subordinazione. Leggiamo in questo stesso articolo anche alcune interessanti notizie, che forse possono essere utili per comprendere il senso che la figura del lupo assume all’interno del romanzo e come questa sia direttamente collegata ad alcuni importanti mutamenti sociali in atto in Cina:
«Il Totem del lupo è esaltato come una nuova bibbia del capitalismo cinese, amatissimo dal manager e giovani professionisti in carriera, nelle business school che formano la classe dirigente molti docenti usano il romanzo per formare giovani ai valori darwiniani della nuova Cina, iper-selettiva, competitiva, meritocratica, spietata nell’accettazione delle crescenti disuguaglianze sociali. Gli allenatori olimpici lo prescrivono come lettura obbligatoria ai giovani atleti e addirittura molti generali dell’esercito di liberazione popolare hanno introdotto questo testo nelle accademie militari».
In conclusione non sembra improbabile che dietro alla gestazione artistica di Wolves Coming nel 2010, anno in cui l’opera fu concepita, si celi una rielaborazione critica di un fenomeno sociale che stava emergendo in tutta la sua drammatica virulenza, previsto se non addirittura teorizzato già molti anni prima dal libro di Jiamin. In questa prospettiva occorre domandarsi come sia possibile credere alla favola bella per cui i lupi sarebbero presenze tutto sommato positive, incarnanti lo spirito della natura, come ci viene sistematicamente proposto dalla stampa, oppure se non sarebbe più corretto pensare che nelle intenzioni recondite dell’artista essi rappresentino piuttosto la mostruosa deriva che sta prendendo la società cinese attuale; dove lo stravagante ircocervo liberal-socialista, di cui già parlava Benedetto Croce, sta mutando in una pericolosa chimera, incapace di trovare un qualsivoglia equilibrio tra le nature così diverse che la compongono.
È troppo azzardato spingersi a sostenere che Wolves Coming sia coraggiosa arte di protesta sociale travestita da denuncia ecologista per fini puramente commerciali? Chi sono veramente i lupi e Liu Ruowang, se così possiamo dire, di chi è al servizio? Credo che l’installazione potrebbe essere intesa come il manifesto ideologico di una corrente politica conservatrice, avversa alla rivoluzione social-capitalista in atto in Cina. Non dimentichiamo a questo proposito che dietro l’apparente solidità del sistema governativo cinese si agita un mare in tempesta, e lo stesso Xi Jinping può essere visto come il rappresentante di un’élite politica che, nel decennio precedente alla sua elezione, sembrava messa in minoranza, quasi che le vecchie idee del socialismo cinese dovessero essere rapidamente e definitivamente cestinate a favore di un incontrollato sviluppo economico di tipo ultra liberista. Non è dunque improprio pensare che Liu Ruowang, come molti cinesi del XXI Secolo, veda nell’avanzata di questa forma arrembante di capitalismo una minaccia agli antichi valori della cultura, della tradizione e, in una certa misura, anche dell’eguaglianza sociale. E non è altrettanto improprio pensare che i lupi, tutt’altro che creature pacifiche e ben auguranti, non siano altro che l’immagine spettrale di un angosciante futuro, che si avvicina rapidamente e contro il quale la lotta appare ormai impari.
In un saggio d’esame per la licenza liceale, scritto nel 1835, Karl Marx svolgeva il tema: “Riflessioni di un giovane sulla scelta della carriera“. La carriera prescelta da un giovane, dichiara il giovane Marx nel 1835, doveva essere:
«[…] quella che ci assicura la maggior dignità possibile, che è fondata su idee della cui verità siamo appieno persuasi, che ci offre il campo più ampio per agire a favore dell’umanità e per accostarci a quella mèta generale verso la quale qualunque posizione non è che un mezzo: la perfezione … Se egli crea soltanto per sé, potrà bensl diventare un dotto celebre, un gran sapiente, un eccellente poeta, giammai però un uomo compiuto e veramente grande».
«Quelle posizioni che non combaciano con la vita reale, ma si bloccano con verità astratte, sono le più pericolose per un giovane dai fondamenti non ancora solidi, dalle convinzioni non ancora ferme e incrollabili, anche se appaiono sublimi e profondamente radicate nel petto, anche se per le idee che in esse regnano ci sentiamo in grado di sacrificare la vita e tutti i nostri sforzi ». «[…] La storia chiama grandi uomini quelli che, mentre operavano per la comunità, nobilitarono se stessi; l’esperienza esalta come il più felice quegli che rese felice il maggior numero di uomini; la religione stessa ci insegna che l’Ideale al quale tutti aspirano si è sacrificato per l’umanità; e chi oserebbe disconoscere il valore di queste massime? Quando abbiamo scelto la condizione nella quale possiamo più efficacemente operare per l’umanità, allora gli oneri non possono più schiacciarci, perché essi sono soltanto un sacrificio pel bene di tutti, allora non gustiamo piu una gioia povera, angusta ed egoistica, ché anzi la nostra felicità appartiene a milioni, le nostre imprese vivono pacifiche, ma eternamente operanti, e le nostre ceneri saranno bagnate dalle lacrime ardenti di uomini nobili».
Karl Marx, MEGA, I, 1 (2), 164; MEW EB I, 593-94 (trad. it., Scritti politici giovanili, a cura di Luigi Firpo, Torino, Einaudi, 1974, pp. 483-84).
«La filosofia avrà coscienza del domani, prenderà partito per il futuro, solo se saprà della speranza, in caso diverso non saprà più nulla».
Ernst Bloch, Il principio speranza [1938-1947], vol. I, , Garzanti, Milano 1994, p. 10.
Bloch sostiene che la paura è il rovescio della speranza e indica nell’angoscia una paura senza oggetto, criticando in particolare le posizioni marcatamente conservatrici di M. Heidegger, che sull’angoscia e sull’essere-per-Ia-morte ha scritto pagine importanti nelle sue opere maggiori [cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, Parte II, Capitolo I: La possibilità di essere-un-tutto da parte dell’Esserci e l’essere-per-la-morte, pp. 359-399; Was ist Methaphysik? (1929), tr. it. Che cos’è la metafìsica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 59-77].
Scrive Bloch,
« […] vuoI conglobare nel proprio fiasco ogni interesse diverso, contrapposto, e per indebolire la nuova vita, fa sembrare fondamentale, ontologica, la propria agonia. L’assenza di prospettiva dell’esistenza borghese viene dilatata ad assenza di prospettive della situazione umana in generale».
Ernst Bloch, Il principio speranza [1938-1947], vol. I, , Garzanti, Milano 1994, p. 7.
«Dobbiamo piuttosto utilizzare la fantasia come correttivo, giacché la verità delle nostre condizioni mostruose non è senz’altro percepibile, perlomeno non a occhio nudo. Il fantasticare che è oggi richiesto non consiste più in ciò che intendevamo finora con questo termine: non più nel trascendere “esageratamente” il reale, non più nel raffigurarci l’irreale o nell’immaginare esseri fiabeschi – chi continua a utilizzare tuttora un simile concetto di fantasia alla Böcklin si rende ridicolo. Al contrario, fantasticare deve significare attualmente confrontarci con la realtà davvero fantastica di oggi, interpretarla in modo adeguato. In sintesi: la fantasia, dal momento che il suo oggetto, la realtà fantastica, è esso stesso fantastico, deve funzionare come un metodo dell’empiria, come organo di percezione dell’effettivamente enorme, come uno strumento che non sia legato, al pari dell’occhio, a un organo corporeo, e “pertanto” alla sua difettività, cioè alla sua miopia. Al pari del telescopio, che non rende superflua la vista e, al contrario, solo nel momento in cui viene utilizzato consente all’osservazione e alla capacità di distinguere di esplicarsi davvero, così la fantasia non rende superflua la percezione, piuttosto è condizione della sua efficacia. Quantomeno dovremmo essere capaci di immaginare quella smisuratezza che noi stessi riusciamo a produrre e provocare. […] Non sono invece disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi stessi, vale a dire noi esseri umani, siamo in grado di provocare, che abbiamo effettivamente provocato: cioè alla visione della smisuratezza dei nostri crimini».
Günter Anders, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 32.
La vera essenza del denaro è il fatto che la proprietà di una cosa materiale esterna all’uomo, diventa proprietà del denaro.
La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio un materiale per l’esistenza del denaro.
Finché l’uomo non si riconosce come uomo, finché non ha organizzato umanamente il mondo, questa comunità appare sotto la forma dell’estraniazione.
La vera essenza del denaro non è il fatto che in esso viene estraniata la proprietà, ma il fatto che viene alienato il movimento o l’attività mediatrice, l’atto umano, sociale, in cui i prodotti dell’uomo si integrano scambievolmente, il fatto che la proprietà di una cosa materiale esterna all’uomo, diventa proprietà del denaro. Poiché l’uomo aliena questa attività mediatrice stessa, egli è qui solo come attività umana smarrita, disumanata; […] Attraverso questo intermediario esterno, l’uomo guarda alla sua volontà, alla sua attività, al suo rapporto con gli altri, come a una potenza indipendente da lui e dagli altri. Gli oggetti, una volta separati da questo intermediario, hanno perduto il loro valore. E dunque, soltanto in quanto la rappresentano, essi hanno valore, sebbene in origine sembrava il contrario: che esso avesse valore soltanto in quanto li rappresentava.
[…] Il credito è il giudizio dell’economia sulla moralità dell’uomo. Nel credito, al posto del metallo o della carta, l’uomo stesso è diventato l’intermediario dello scambio, non però in quanto uomo, ma in quanto esistenza di un capitale e del suo interesse. […] La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio, un materiale per l’esistenza del denaro. Non più moneta e carta, ma la mia propria personale esistenza, la mia carne e sangue, le mie virtù socievoli, il mio valore, sono la materia, il corpo dello spirito del denaro.
[…] Poiché l’essenza umana è la vera comunità degli uomini, manifestando la loro essenza gli uomini creano, producono la comunità umana, l’essenza sociale, che non è una potenza universale-astratta, contrapposta al singolo individuo, la sua propria attività, la sua propria vita, il suo proprio spirito, la sua propria ricchezza. Non dalla riflessione ha origine cioè quella vera comunità; anzi, essa appare prodotta dal bisogno e dall’egoismo degli individui, dalla immediata manifestazione della loro stessa esistenza. Non dipende dagli uomini che questa comunità sia o non sia; ma finché l’uomo non si riconosce come uomo, finché non ha organizzato umanamente il mondo, questa comunità appare sotto la forma dell’estraniazione. Perché il suo soggetto, l’uomo, è un essere estraniato a se stesso. E gli uomini sono questo essere estraniato non astrattamente, ma come individui reali, viventi, particolari».
Karl Marx, Texte zu Methode und Praxis, trad it.: Karl Marx, Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti, Roma 1963, pp. 6-7, pp. 11-12, pp. 13-14.
«Etica del finito significa comprendersi a partire dalla propria finitudine. Anche il cristianesimo postula un’etica del finito, ma, a differenza del paganesimo, per il cristianesimo l’uomo è finito perché è creato, mentre per il paganesimo l’uomo è finito perché è mortale. […] Per il paganesimo tutto ciò che nasce è destinato a perire, ma il fatto che tutto perisca non vuol dire che non sia degno di vivere. […] Ora, nella fine della cristianità, il paganesimo riaffiora come un possibile modello: una vita lunga, non una vita eterna. In una parola, una vita buona. Un’etica del finito nell’età della tecnica. […]
L’uomo contemporaneo non può ipotizzare per sé soluzioni utili che non siano tecnologiche e nel contempo la tecnologia non solo manca gli obiettivi, ma dà luogo a controfinalità e ad effetti perversi. In tal caso proprio ciò che offre sicurezza genera rischio e quel che dovrebbe rasserenare inquieta. In questo quadro, il progresso tecnico non è più configurabile secondo uno schema di crescita illimitata e continua, ma si presenta carico di ambiguità e di pericoli. Mai l’uomo in tutta la sua storia si era trovato di fronte a una possibilità così ampia di scelte, e nel contempo così piena di rischi».
Salvatore Natoli, Diagnosi e confutazione del nichilismo [1989], in I nuovi pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, il Saggiatore, Milano 1995, pp. 8-16 e p. 95.
Questo sappiamo. Che tutte le cose sono legate come il sangue che unisce una famiglia. Tutto ciò che accade alla Terra accade ai figli e alle figlie della Terra. L’uomo non tesse la trama della vita; in essa egli è soltanto un filo. Qualsiasi cosa fa alla trama, l’uomo lo fa a se stesso.
Fritjof Capra, The web of life [1996], trad. it. La rete della vita, Rizzoli, Milano 1997, p. 6.
«Il possesso di molte scienze, quando non è accompagnato dalla scienza di ciò che è meglio sempre in ogni caso, poche volte è utile e il più delle volte danneggia. [ …] E chi per altro possiede la cosiddetta erudizione enciclopedica (πολυμαθία) e politecnica (πολυτεχνία), ma sia privo di questa scienza e sia menato di volta in volta da ciascuna di queste altre conoscenze, non si troverà giustamente e senza metafora in gran tempesta come chi sia fra i flutti del mare senza pilota, col rischio di perire in ogni istante».
Il titolo di questo volumetto potrà sembrare irriverente, tuttavia porsi la domanda sul senso del fare storia della filosofia oggi è auspicabile per varie ragioni, non da ultimo per il diffuso disinteresse nei riguardi degli studia humanitatis. Le pagine di questo lavoro non intendono fornire risposte onnicomprensive o soluzioni assolutamente valide circa una questione davvero enorme ma vogliono offrire un contributo al dibattito, oggi più che mai vivo (specialmente in Italia), sull’utilità delle discipline umanistiche. L’esito delle (modeste) riflessioni che il lettore troverà qui è una seria e convinta difesa della storia e del suo metodo investigativo, fondato innanzitutto sul rigore e sul rispetto dell’oggetto di indagine. Il metodo storico, se applicato in termini rigorosi, è sempre rivolto, almeno in prima istanza, verso il suo oggetto, dunque verso quanto è altro rispetto alla capacità interpretativa dello storico. La stima per l’oggetto di indagine dovrebbe tradursi, più in generale, in rispetto verso chi e verso ciò che è altro da noi: in tal modo il metodo storico potrà essere vantaggioso al fine del miglioramento della comunità in cui si vive.
[…] filosofia e condotta pratica di vita, specialmente riguardo alla direzione dello Stato, di regola non si troveranno unite in una persona. La filosofia non può essere definita una guida. Tuttavia, il filosofo interpreterà al meglio il suo ruolo di guida se rimane fedele alla teoria e cerca di promuoverla facendo tutto il possibile. Egli può confidare sul fatto che una progressiva comprensione mostrerà i suoi frutti nella vita pratica. E. Stein
F. Verde, Epicuro
Epicuro è uno dei più significativi filosofi antichi di età ellenistica, il cui pensiero ha influenzato in modo rilevante la storia della filosofia occidentale successiva. Questo volume intende essere un’introduzione alla filosofia di Epicuro che si struttura in un sistema coerente e ordinato, costituito da tre parti distinte ma connesse fra loro: la parte epistemologica del sistema, la scienza della natura e, infine, l’etica, che rappresenta l’autentico coronamento e il fine unico e privilegiato a cui la filosofia mira.
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