Aristotele (384-322 a.C.) – Conoscere se stessi è la cosa più difficile e non è possibile conoscersi senza un altro che ci sia amico. Dunque l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso.

Aristotele 017

«[…] conoscere se stessi, come hanno detto alcuni tra i sapienti, è la cosa più difficile, ma anche la più piacevole […]; come, dunque, quando vogliamo vedere la nostra faccia la vediamo guardandoci allo specchio, allo stesso modo quando vogliamo conoscere noi stessi potremmo conoscerci guardandoci nell’amico; infatti l’amicoi è, come abbiamo detto, un alter ego. Se, quindi, è piacevole conoscere se stessi, e non è possibile conoscersi senza un altro che ci sia amico, l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso».

Aristotele, Grande Etica, II, 1213 a 13-25, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 1187-1189.


Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.
Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.
Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.
Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.
Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – Se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».
Aristotele (384-322 a.C.) – Le radici della ‘paideia’ sono amare, ma i frutti sono dolci. Il modello più razionale di ‘paideia’ abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio.
Aristotele (384-322 a.C.) – La virtù è uno stato abituale che orienta la scelta, individua il giusto mezzo e lo sceglie. Il male ha la caratteristica dell’illimitato, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato.
Aristotele (384-322 a.C.) – Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. L’intelletto è quanto di più elevato si possa pensare, è il «toccare» il vero, rappresenta la realtà più divina ed eccellente che c’è in noi.
Aristotele, La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. La mano ha fatto l’uomo, è l’uomo stesso, è lo strumento degli strumenti. In verità il pensiero si impone come artigianale così come la mano.
Aristotele (384-322 a.C.) – La poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia. La poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare
Aristotele (384-322 a.C.) – In qualunque campo si raggiungerebbe la migliore visione della realtà, se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo e fin dalla prima origine.
Aristotele (384-322 a.C.) – Il fatto di vivere è comune anche alle piante. Ciò di cui andiamo in cerca per l’uomo è qualcosa di specifico. Il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù in una vita umana compiuta, in atto nel senso più proprio. un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno.
Aristotele (384-322 a.C.) – Non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso che offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo.
Aristotele (384-322 a.C.) – Moralmente bello significa fare il bene senza mirare al contraccambio. L’uomo moralmente retto ricerca per sé il bello morale e antepone il bello a tutto il resto.
Aristotele (384-322 a.C.) – Tra tutti i beni quelli scelti in vista di se stessi sono fini. Tra questi, poi, sono belli tutti quelli che sono degni di lode. Infatti questi sono quelli da cui derivano azioni che sono degne di lode ed essi stessi sono degni di lode.
Aristotele (384-322 a.C.) – La moneta è nata per convenzione. Essa ha il nome di moneta (nomisma), perché non esiste per natura ma per legge (nomos), e dipende da noi cambiarne il valore e porla fuori corso.
Aristotele (384-322 a.C.) – «Protreptico. Esortazione alla filosofia». La felicità della vita non consiste nel possesso di grandi sostanze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima. La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi.
Aristotele (384-322 a.C.) – La natura dell’equità è proprio quella di correggere la legge laddove essa, a causa della sua formulazione universale, è difettosa. Ciò che è giusto e ciò che è equo sono la stessa cosa e, pur costituendo entrambe realtà eccellenti, l’equità è superiore.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Anne Michaels – Non c’è vera assenza se resta almeno il ricordo dell’assenza. Una voce ci riscuote. Andiamo più vicini, tentiamo di distinguere bene le parole. È questo che fa cominciare o finire l’amore: cominciamo a capire le parole.

Anne Michaels 01

«Non c’è vera assenza se resta almeno il ricordo dell’assenza. […]

Se uno nin ha più la terra ma ha il ricordo della terra
allora uno può sempre disegnare una mappa».

Anne Michaels, In fuga, Giunti, 1998


Una voce ci riscuote
che non riconosciamo.
Andiamo più vicini, tentiamo
di distinguere bene le parole.
È questo che fa cominciare
o finire l’amore: cominciamo
a capire le parole.
Per salvarci doniamo e perdoniamo.

Anne Michaels, Anna, da The Weight of Oranges (1986)


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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György Lukács (1885-1971) – Il metodo e il contenuto della filosofia di Heidegger esprimono il sentimento della vita proprio dell’intellettuale filisteo in un’epoca di grave crisi: stornare il pericolo che minaccia la propria ‘esistenza’ in maniera che non ne risulti alcun obbligo di modificare le proprie condizioni esteriori di vita o anche solo di collaborare al cambiamento dell’obiettiva realtà sociale.

György Lukács - La distruzione della ragione

«Ciò che Heidegger chiama fenomenologia e ontologia non è in realtà che un’astratta e mistica descrizione antropologica dell’esistenza umana, descrizione che nel suo concreto attuarsi fenomenologico insensibilmente si converte in una disamina – spesso interessantissima –dell’esistenza del filisteismo intellettuale durante la crisi del periodo imperialistico » (p. 506).

«Il metodo e il contenuto della filosofia di Heidegger esprimono qui, in una terminologia estremamente complicata (ma soprattutto affettata), il sentimento della vita proprio dell’intellettuale filisteo in un’epoca di grave crisi: stornare il pericolo che minaccia la propria ‘esistenza’ in maniera che non ne risulti alcun obbligo di modificare le proprie condizioni esteriori di vita o anche solo di collaborare al cambiamento dell’obiettiva realtà sociale. Per quanto Heidegger sia difficile da capire, queste conseguenze sono state tratte giustamente dalla sua filosofia» (pp. 515-516).

«Il fascismo deve non poco alla filosofia di Heidegger e di Jaspers se poté educare gran parte dell’intellettualità tedesca a una neutralità più che benevola. A questo riguardo rimane cosa piuttosto indifferente la posizione personale che essi hanno assunto nei confronti dell’hitlerismo, poiché nessuno dei due ha mancato fede ai presupposti e alle conseguenze della propria filosofia fino al punto da schierarsi realmente contro Hitler. Il fatto poi che Heidegger abbia aderito apertamente al fascismo, mentre Jaspers, per ragioni di carattere privato, non sia potuto giungere a tanto, e dopo la caduta di Hitler, quando il vento sembrava soffiare da sinistra, abbia utilizzato l’otium cum dignitate mantenuto sotto il nazismo per atteggiarsi ad antifascista, non cambia nulla a questo fondamentale stato di cose. Resta il fatto che con il contenuto obiettivo della loro filosofia hanno entrambi spianato la via all’irrazionalismo fascista» (531-532).

György Lukács, Die Zerstõrung der Vernunft (1954); trad. it. La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959.


György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.
György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
György Lukács (1885-1971) – Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce.
György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.
György Lukács (1885-1971) – Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire.
György Lukács (1885-1971) – Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto ad essa.
György Lukács (1885-1971) – Nei giovani la dedizione entusiastica ad una causa può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio ad un diverso campo, oppure ancora nella perdita di capacità di dedizione in genere. Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo ad innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che a dar luogo ad una passione durevole.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Livio Rossetti – Anche i bambini pensano: tre modalità primarie di favorire lo sviluppo della filosofia germinale. Il libro di Dorella Cianci e Massimo Iiritano, «Pensare da bambini».

Livio Rossetti, Iiritano Massimo, Cianci Dorella

«[…] Ci sono tre modalità primarie di favorire lo sviluppo della filosofia germinale: la conversazione frequente e prolungata tra due o più persone, le esperienze prolungate che ti portano letteralmente in un altro mondo (il racconto impegnativo, la recitazione, la musica, le arti figurative, l’immersione in altro contesto linguistico, il gruppo alternativo …), e infine le sessioni di filosofia con i bambini o i ragazzi. La prima risorsa – la conversazione frequente e prolungata – dipende essenzialmente dai genitori e dai nonni, dalla loro maggiore o minore propensione a ricercare un rapporto dialogico con noi fin da quando siamo piccini. […] La seconda risorsa – il teatro, la musica e ogni altro genere di esperienza che produce una discontinuità dal vissuto quotidiano — ha l’impagabile pregio di portarci letteralmente in un altro mondo e di trattenerci a lungo in quel mondo, dandoci l’agio, specialmente se siamo bambini o ragazzi, di sviluppare abilità e sensibilità impensate. Al nostro ritorno, il mondo ordinario (la famiglia, la classe…) puntualmente ci apparirà sotto una nuova luce, e il confronto non mancherà di suscitare riflessioni […]. La terza risorsa è la filosofia con i bambini e i ragazzi. L’intento fondamentale non è certo di iniziarli alla filosofia, né di disseminare un po’ di cultura filosofica, né di cominciare a far conoscere loro almeno il nome di qualche personalità del passato, da Socrate in su e in giù. Parlare di Socrate o di chiunque altro non ci aiuterebbe a valorizzare il potenziale filosofico di chi lo sente nominare per la prima volta. Le parole “filosofia”, “Socrate” e qualunque altra possono aspettare il loro turno. Prioritario non è certo impartire nozioni di alcun tipo, bensì dare spazio alla filosofia germinale […].
Ho provato così a suggerire qualche idea sull’arte di creare occasioni in cui dare voce a idee, convinzioni, pregiudizi, modi diversi di vedere le cose, opportunità di “guardarsi allo specchio” e di parlarne. Questa è filosofia, anche se si evita di tenere una lezione da esperti sulla psicologia dei teenager e se si fa a meno della parola “filosofia”; e di questa filosofia i ragazzi non sono spettatori, ma protagonisti. In linea di massima, una, due, tre immagini che diano da pensare possono essere sufficienti per consentire al docente di invitare i ragazzi a trovare a loro volta un input significativo su cui si possa poi ragionare in gruppo, sempre che a suggerire spunti di riflessione meritevoli di avere qualche sviluppo non siano le circostanze o il fatto del giorno.
Se poi parliamo di ragazzi più grandi, della scuola secondaria superiore, sarà il caso di delineare strategie differenziate per quelle scuole nelle quali “si fa filosofia” e quelle nelle quali non si fa. Nel primo caso, poiché la (storia della) filosofia è oggetto di studio, con prestazioni valutate, è assai opportuno individuare occasioni di fare filosofia che non siano legate all’insegnamento, anche se l’insegnamento non manca di offrire temi e spunti anche fecondi.
Non dovremmo mai dimenticare che il filosofare è un’attività di tutti e che solo a certe condizioni diventa un sapere: prima c’è il pensare, il provare a ragionare con la propria testa, mentre il sapere di ciò che è stato pensato da altri può venire solo in un secondo momento.
Negli istituti tecnici e professionali, invece, la domanda di filosofia nel senso che sono andato specificando si fa addirittura drammatica, perché il prevalere di un apprendimento orientato allo svolgimento di un mestiere o di una professione rischia di generare in questi contesti più che altrove atrofia della mente, quasi che fuori dalla scuola i maschi non sapessero far altro che parlare di sport e le femmine di bellezza, eleganza, moda. Ovviamente non è così che stanno le cose, ma il semplice fatto di poter concepire questo stereotipo è sintomo acuto di inaridimento, dunque di atrofia, di impoverimento della gamma delle risorse mentali. E qui la responsabilità è del dirigente di istituto e degli insegnanti, che talvolta nemmeno si accorgono degli acuti bisogni formativi “di contorno” dei propri studenti.
Occorrerà perciò a maggior ragione partire da forme “morbide” dell’invito a costruire qualche riflessione: le forme appunto illustrate finora — più un’altra. In queste scuole più che in altre (ma, in linea di principio, ovunque) è facile che il docente avverta l’esigenza di “nutrire” la classe con qualche idea in più, in modo da introdurre nel mondo mentale degli studenti un certo numero di idee che, in molti casi, rischierebbero di rimanerne fuori per sempre.
Proverò a fare qualche esempio, pur sapendo che ognuno ha la sua casistica personale. Menzionerei in primo luogo la figura di Tersite. Mi riferisco al secondo canto dell’Iliade (vv. 155-277), che il docente può agevolmente riassumere, per poi magari leggerlo in traduzione alla fine, dopo averne discusso. In questi versi Odisseo esorta la “truppa” a credere nei capi e nella spedizione e non esita a percuotere i più riottosi, ma un soldato qualunque, Tersite, prende la parola e si permette non solo di criticare il capo della spedizione, ma addirittura di incitare i commilitoni: “Torniamocene a casa, così vedremo se il capo si rende conto, finalmente, dell’importanza di ciò che facciamo noi semplici soldati”. Odisseo lo rimbrotta severamente e si preoccupa dell’effetto che le sue parole potrebbero sortire, perché si rende conto che Tersite è agoretés, “uomo capace di parlare in pubblico e di risultare coinvolgente”, caratteristica rara tra i soldati semplici. Non è forse questo un embrione di coscienza di classe e di lotta di classe? Ci colpisce che già in Omero ci sia una netta, inequivocabile identificazione degli interessi di classe, ma quando si è cominciato a parlare di lotta di classe? Per iniziativa di chi? Qualcuno lo sa? Collegare questo spunto a Marx significa fare un salto interessante e impensato, che lascia il segno.

Un altro testo topico, che si presta molto bene a diventare oggetto di attenzione nei contesti indicati, è la storia di Nessuno, il falso nome che si è attribuito Odisseo quando ha dovuto confrontarsi con il ciclope Polifemo. Si tratta di una storia arcinota, che occupa gran parte del libro IX dell’Odissea. Gli elementi da segnalare sono il ricorso al nome Nessuno (v. 366) e le parole che Polifemo ad accecamento avvenuto scambia con gli altri ciclopi, chiedendo il loro aiuto. «Che ti è successo?», gli chiedono. «Nessuno mi ha accecato», risponde Polifemo. «Ma se nessuno ti fa violenza e sei solo, allora sei tu ad aver perso la ragione!» (vv. 408-412). L’equivoco causato dall’ambivalenza del nome produce subito un effetto che in quei tempi lontani era raro o addirittura ignoto: la contraddizione. Polifemo dà l’impressione di contraddirsi, e la contraddizione è insostenibile, perché scredita impietosamente colui che si contraddice. Da qui l’importanza dei tentativi di dimostrare che l’altro si contraddice o, al contrario, di dimostrare che una certa contraddizione è solo apparente. Perché è facile che in questi casi si presenti un’alternativa secca: o si vince o si perde. I ragazzi potrebbero essere invitati, quantomeno, a portare esempi […]».

 

Livio Rossetti, Anche i bambini pensano, Introduzione a: Dorella Cianci e Massimo Iiritano, Pensare da bambini. La sfida di Amica Sofia, Erickson editore, Trento 2020, pp. 20-22.


Dorella Cianci

 
Grecista e filologa di formazione, ha un dottorato in Storia dell’Educazione. Attualmente è assegnista di ricerca in Storia della Filosofia Medievale presso l’Università LUMSA di Roma, dove insegna anche al laboratorio di Filosofia dell’Educazione. È direttrice della rivista scientifica «Amica Sofia», edita da Rubbettino.  Collabora con alcuni quotidiani, fra cui L’Unità, La Repubblica, «la Lettura» de Il Corriere della Sera, Il Mattino, in particolare come traduttrice. Scrive per le pagine culturali del Il Sole 24 Ore. Tra le sue pubblicazioni, Corpi di parole (2014) e Il teatro di Dioniso (2018).

Massimo Iiritano
 
Dottore di ricerca in Filosofia della religione all’Università di Siena-Arezzo, ha svolto attività didattica e di ricerca presso diverse università, italiane e straniere. Attualmente è docente di ruolo nella scuola pubblica, è membro del comitato scientifico dell’Osservatorio per la Comunicazione dell’Università Federico II di Napoli, presidente dell’associazione nazionale «Amica Sofia»  (Università di Perugia) e collabora alla cattedra di Filosofia politica dell’Unical. È stato allievo e collaboratore, tra gli altri, di Sergio Quinzio, Bruno Forte, Sergio Givone e Massimo Cacciari.


Livio Rossetti (1938) è stato professore di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni. Nel 1989 ha fondato la Intern. Plato Society a Perugia, nel 2006 ha dato il via agli incontri di Eleatica che si tengono tuttora a un passo dagli scavi di Elea (in pieno Cilento) e nel 2018 ha fondato la Intern. Society for Socratic Studies a Buenos Aires.
Tra i suoi studi su Parmenide e Zenone ricordiamo: Un altro Parmenide (2 voll., Bologna 2017) e Una tartaruga irraggiungibile (fumetto, Bologna 2013): nel 2019 questo volumetto è stato pubblicato in spagnolo, a Buenos Aires. Nel 2020 è in pubblicazione La filosofia virtuale di Parmenide Zenone e Melisso.


 

Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Livio Rossetti …


Livio Rossetti – Parmenide e Zenone “sophoi” a Elea
Livio Rossetti – Rodolfo Mondolfo storico della filosofia antica
Livio Rossetti – Due falsI originali d autori di «qualità»: Enrico Berti (Arisotele) e Mario Vegetti (Platone).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Disprezzo la ricchezza non perché è superflua, ma perché è cosa di poco conto.

Lucio Anneo Seneca 011
«Contempsi divitias, non quia supervacuae sed quia pusillae sunt».
«Disprezzo la ricchezza non perché è superflua, ma perché è cosa di poco conto».

Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 110, 15, in Id., a cura di C. Barone, con un saggio di L. Canfora, Garzanti, Milano 1989, pp. 852-853.


Seneca – De brevitate vitae. Non è breve la vita, ma tale la rendiamo
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) – Da quando il denaro ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito. Gli uomini consacrano il denaro come espressione massima delle cose umane.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Quale è la natura specifica dell’uomo? La ragione, che quando è retta e perfetta dà all’uomo la pienezza della felicità. Una tale ragione perfetta prende il nome di virtù, e altro non è che la coerenza morale.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – La filosofia non è un’arte di cui si possa fare ostentazione: essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni. La filosofia forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare, sta al timone e dirige il corso delle navi.
A. Seneca (4 a.C. – 65) – La filosofia si divide in sapere e disposizione d’animo. chi ha imparato e compreso che cosa si deve fare e che cosa si deve evitare non è ancora saggio, se il suo animo non si è trasformato in base a quanto ha appreso
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Insistere su certi scrittori e nutrirsi di loro, per ricavarne un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) – Le letture sono necessarie anzitutto perché io non sia pago di me stesso. Poi perché, quando avrò conosciuto ciò che altri hanno trovato, allora possa riflettere su ciò che essi hanno scoperto e rifletta su ciò che ancora devo imparare.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Il medico si è preoccupato non per la sua reputazione di medico ma per me, è accorso nei momenti critici, nessun servizio gli è stato di peso o lo ha infastidito
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – La vita non sarà incompiuta, se è virtuosa: dovunque tu la concluda, se la conduci bene, è completa.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Negli scontenti di sé si insinua l’agitazione sterile di un animo che non trova sbocco insieme all’esitazione di una vita che non riesce a svilupparsi e alla frustrazione di un animo intorpidito tra le delusioni. Le passioni, chiuse in un angusto spazio senza uscita, si strangolano da sé. Bisogna perseverare e rinvigorire il nostro spirito con una assidua applicazione, finchè la tendenza al bene diventi saggezza.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Walter Benjamin (1892-1940) – Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci, senza tregua e senza pietà.

Walter Benjami 008

«Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci [“senza tregua e senza pietà”]. Non esistono “giorni feriali”, non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore».

Walter Benjamin, Il capitalismo come religione, Il melangolo, Genova 1985, p. 43.


Walter Benjamin (1892-1940) – Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera
Walter Benjamin (1892-1940) – La malinconia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.
Walter Benjamin (1892-1940) – Che cos’erano per me i miei primi libri? Io non leggevo un libro, vi entravo, vivevo tra le sue righe; e quando lo riaprivo dopo un’interruzione, ritrovavo me stesso nel punto in cui ero rimasto.
Walter Benjamin (1892-1940) – L’esperienza è in ribasso. Un’indigenza di nuova specie si è abbattuta sugli uomini, la nostra povertà di esperienza. È povertà non solo di esperienze private, ma di esperienze umane in genere, è una nuova barbarie.
Walter Benjamin (1892-1940) – Il capitalismo è pura religione cultuale, senza tregua e senza pietà, che non purifica ma colpevolizza, non è riforma dell’essere, ma la sua riduzione in frantumi. Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.
Walter Benjamin (1892-1940) – I bambini si ritrovano nel mondo esterno in modo del tutto graduale, e solo nella misura in cui esso diventa loro familiare come un’interiorità a loro adeguata. L’interiorità di questa visione risiede nel colore.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Henri Lefebvre (1901-1991) – Passeggiamo per la campagna senza saper decifrare il paesaggio umano che contempliamo, confondiamo fatti della natura e fatti umani, non vediamo i prodotti dell’azione umana – quel volto che cento secoli di lavoro hanno dato alla nostra terra

Lefebvre Henri 001

«Quante volte ciascuno di noi ha “passeggiato” per la campagna senza saper decifrare il paesaggio umano che contemplava! Guardavamo e il nostro occhio era quello di un esteta goffo che confonde i fatti della natura e i fatti umani, che osserva i prodotti dell’azione umana – quel volto che cento secoli di lavoro hanno dato alla nostra terra – come si osserva il mare o il cielo, nei quali ogni traccia umana scompare».

Henri Lefebvre, “Introduzione”, in Id., Critica della vita quotidiana [1947], trad . il. di Vincenzo Bonazza, Dedalo Libri, Bari 1977, voI. l, p. 151.

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Fëdor Dostoevskij (1821-1881) – La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Voglio essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo.

Fëdor Dostoevskij 001

«Fratello! Non mi sono scoraggiato né perso d’animo.

La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Intorno a me ci saranno altri uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo. Me ne sono reso conto. Quest’idea si è fatta di carne e sangue. È la verità! Quella testa che creava, si nutriva della vita superiore dell’arte, che ha compreso e si è abituata alle nobili esigenze dello spirito, quella testa ormai si è staccata dalle mie spalle. Ne è rimasto il ricordo e le immagini create, ma rimaste ancora senza forma. Lasceranno cicatrici, è vero! Però in me è rimasto il cuore, e quella carne e quel sangue che ancora possono amare, soffrire, desiderare e ricordare, e in fondo anche questa è vita! On voi! le soleil!».

Lettera di Fëdor Dostoevskij  al fratello M.M. Dostoevskij, 22 dicembre 1849, San Pietroburgo, fortezza di Pietro e Paolo, in  Fëdor Dostoevskij, Lettere, a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia De Florio, Alice Farina e Elena Freda Piredda, il Saggiatore, Roma 2020.


Quarta di copertina

Fëdor Dostoevskij è uno dei più grandi scrittori di ogni tempo. Le sue opere sono annoverate tra i capolavori della letteratura di ogni epoca e luogo e, ancora oggi, nutrono lettori di tutto il mondo. Sono romanzi totali, monumenti letterari che contengono un sapere universale e manifestano la complessità della nostra esistenza travalicando confini e generazioni. Così le Lettere che Dostoevskij ha affidato alle mani dei suoi familiari, dei suoi amori, dei suoi sodali costituiscono, come scrive Alice Farina nell’introduzione, «il romanzo di una vita», «un’opera letteraria parallela all’opera, ma anche sorgente viva per l’opera stessa». E difatti sembrano traboccare di materiale romanzesco: l’arresto per aver frequentato un circolo di socialisti utopici, la condanna a morte, la grazia ottenuta pochi minuti prima di salire al patibolo; il confino in Siberia e la persecuzione della malattia; la continua e strenua battaglia per migliorare la propria condizione economica senza sacrificare nulla della propria arte. Ma questo materiale è qui innestato all’interno di una vita, la quale non può che diventare a sua volta sorgente creativa, in un continuo gioco di vasi comunicanti.Per buona parte inedite in Italia, queste pagine testimoniano poi gli scatti e le evoluzioni del pensiero di Dostoevskij, permettendoci di osservarne da vicino i movimenti interiori, come quando nel 1839, a soli diciotto anni, dichiara con orgoglio al fratello di voler dedicare la propria vita a svelare il mistero dell’essere umano. Le Lettere qui raccolte – ora interamente ritradotte, a comporre l’epistolario di Dostoevskij più completo mai pubblicato in Italia – raccontano questa missione; tracciano le linee di un’autobiografia intima e coinvolgente e rivelano una personalità infuocata, dedita alla letteratura fino allo stremo delle forze; offrono un nuovo sguardo sul suo percorso intellettuale e sulla genesi di opere che hanno cambiato per sempre la letteratura, sollevando interrogativi che ancora reclamano risposte. Sono la lente d’ingrandimento sulla vita di uno scrittore che ha esplorato gli abissi della condizione umana e ne è uscito più vivo che mai.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Carmine Fiorillo – Virgilio negli Stati Uniti. L’antica “vocazione imperiale” degli USA! E Joseph Biden a cosa si sente “vocato”? Muterà forse il fine del dollaro “umanizzando” il suo corso e rendendolo meno “imperiale”?

Virgilio in America - Dollaro imperiale

Da quando il denaro […] ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi [siamo] diventati ora mercanti ora merce in vendita.

Seneca


 

«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol

Great Seal of the United States, Diritto dello stemma

Great Seal of the United States, Diritto dello stemma.

 

Great Seal of the United States, rovescio dello stemma

Great Seal of the United States, Rovescio dello stemma.

 

Sul Great Seal (Grande Sigillo) degli Stati Uniti e sul dollaro furono scritte dai “Padri Fondatori” degli Stati Uniti tre frasi in Latino invece che in Inglese. Due di esse furono tratte liberamente da Virgilio. Si sentivano gli eredi di Augusto, e comunque si autocebravano con questa ascendenza che li legittimava alla loro “missione storica”.

Annuit coepitis è la versione affermativa (“Dio è favorevole all’impresa”) della preghiera troiana a Giove “Audacibus annue coepitis” (Eneide, IX, 625); e “Novus ordo s[a]ec[u]lorum” viene dalla Egloga IV di Virgilio, significativamente quella in cui si troverebbe una anticipazione del cristianesimo. E guarda un po’: l’Eneide esprime un programma  ideologico che corrisponde al programma politico di Ottaviano detto Augusto, l’iniziatore dell’Impero romano.

Quando si parla della “vocazione imperiale” degli USA!

E Joseph Robinette Biden Jr., al di là delle evidenti macroscopiche difformità con lo «stupido e infantile Trump» (come lo definisce Michael Wolff), a cosa si sente “vocato”?
Muterà forse il fine del dollaro “umanizzando” il suo corso e rendendolo meno “imperiale”?

Carmine Fiorillo

 

 

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Dipinto di Andy Warhol.
«Fare soldi è un’arte, lavorare è un’arte.
Un buon affare è il massimo di tutte le arti».
Andy Warhol
La firma di Andy Warhol sul dollaro USA.

«Da quando il denaro, che tanti magistrati e tanti giudici tiene avvinti, che addirittura crea magistrati e giudici, ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi, diventati ora mercanti ora merce in vendita, non esaminiamo più la qualità, ma il prezzo.
Per interesse siamo onesti, per interesse siamo disonesti, e inseguiamo la virtù fin tanto che c’è la speranza di guadagnarci, pronti a cambiare rotta se il vizio promette di più.
I nostri genitori ci hanno inculcato l’ammirazione per l’oro e l’argento, e la cupidigia, instillata in noi fin da piccoli, ha messo radici profonde ed è cresciuta con noi. Cosi il popolo intero, in tutte le altre cose discorde, su questo soltanto conviene: questo ammirano, questo si augurano per i loro cari, questo consacrano agli dèi, come espressione massima delle cose umane […]. I costumi si sono ridotti a un livello tale che la povertà è considerata maledetta e infamante, disprezzata dai ricchi, invisa ai poveri».

Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 115, 10-11; trad. di C. Nonni.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Dobbiamo percepire l’effettiva esistenza di ciò con cui veniamo a contatto, di modo che inizi un’attività culturale. L’illusionismo per sua natura rinnega la dignità umana. Chiudersi nel soggettivo significa tagliare il legame con l’umanità, e disgregare l’unità della coscienza universale e, di conseguenza, anche l’unità della personalità cosciente di sé.

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«Fin dalla remota antichità due capacità conoscitive sono state considerate come le più nobili: l’ascoltare e il vedere. I diversi popoli talvolta hanno messo l’accento sull’una, talvolta sull’altra; l’antica Grecia esaltava la superiorità del vedere, l’Oriente attribuiva maggior valore all’udire. Ma, comunque si rispondesse alla domanda su quali delle due fosse superiore, mai si è dubitato del ruolo centrale di queste due capacità negli atti conoscitivi e, di conseguenza, mai si è dubitato del valore straordinario dell’arte figurativa e dell’arte della parola: esse sono attività che si radicano nei più preziosi sforzi della conoscenza.

L’osservazione fin qui condotta sulle due massime attività ci consente di trarre un bilancio quanto all’attività conoscitiva in generale. Essa costruisce simboli: simboli del nostro rapporto con la realtà. Il presupposto della nostra attività, sia per l’arte pittorica che per l’arte della parola, è la realtà. Dobbiamo percepire l’effettiva esistenza di ciò con cui veniamo a contatto, di modo che inizi un’attività culturale, riconoscibile nella sua globalità come necessaria e preziosa. Senza il presupposto di questo realismo la nostra attività si rivela o esteriormente utile, al servizio del raggiungimento di qualche profitto molto prossimo, ovvero esteriormente dispersiva, un’occupazione artificiale del tempo. Se non comprendiamo che ogni atto di cultura è verità, non saremo in grado di riconoscergli dignità interiore e vera umanità. L’illusionismo, in quanto attività che non conta sulla realtà, rinnega per sua natura la dignità umana. Il singolo uomo si chiude nel soggettivo e taglia in questo modo il legame con l’umanità, e di conseguenza verso la comprensione umana. Se non si percepisce la realtà del mondo, allora si disgrega l’unità della coscienza universale e, di conseguenza, anche l’unità della personalità cosciente di sé».

Pavel A. Florenskij, Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2003, p. 93.


Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.
Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Cultura è lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte. Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano.
Pavel A. Florenskij (1882-1937) – La parola è un condensatore della volontà, un condensatore dell’attenzione, un condensatore dell’intera vita dell’anima.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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