«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Ogni giorno siamo immersi in un flusso di parole. Le nostre e le altrui in uno scambio continuo. Ce ne serviamo spesso distrattamente o in modo frettoloso. Dobbiamo dire qualcosa o ottenere una risposta. E non ci soffermiamo troppo a riflettere sul suono che esse hanno, sulla materia di cui si sostanziano, sulla storia cui sono connesse o sui valori più riposti cui le loro radici possono rinviare. Talora, non indugiamo troppo nemmeno sulla scelta, limitandoci a un vocabolario ristretto e ai giri di frase più correnti: parliamo come fanno tutti senza alcuno scarto rispetto a ciò che siamo soliti ascoltare dagli altri e ripetere a nostra volta. In altre occasioni, all’opposto, diveniamo più astuti e accorti. Abituati a decenni di civiltà mediatica e di pubblicità, sappiamo fin troppo bene che un messaggio ben costruito può essere un mezzo per convincere e orientare, per indurre comportamenti, consensi o acquisti in un mondo costruito per consumatori di ogni specie. Tanto in un caso quanto nell’altro – nella banalità della routine o nelle strategie sofisticate della comunicazione – la parola è qualcosa che “si usa” per soddisfare bisogni o finalità pratiche: un mero e meccanico strumento, nel perimetro, sempre più angusto, di un’esistenza uni dimensionale e stereotipata. Persino quando le parole paiono veicolare un’emozione soggettiva, si tratta, frequentemente, di semplici dinamiche reattive che fanno eco, in modo pressoché irriflesso e superficiale, a una contingenza o a uno stato.
Vi sono, però, nella vita, anche istanti di grazia: momenti – casuali o ricercati deliberatamente – nei quali questo modo di vivere il linguaggio e, insieme a esso, il mondo che ci circonda, si interrompe. Momenti di un silenzio assoluto – dentro e fuori di noi – in cui qualcosa d’altro e di inaspettato affiora nella trama della cosiddetta realtà oggettiva. Si rimane spiazzati, storditi e pieni di meraviglia dinanzi a quell’inaspettato, a quel mai visto o mai percepito che ci viene incontro, svelando il volto celato dell’essere.
Abitudini percettive, schemi mentali, grumi emotivi, cristallizzazioni del linguaggio creano una cortina spessa, una barriera che impedisce di vedere e di sentire. Basta, tuttavia, sospendere lo “sguardo semplificatore dell’abitudine” – come racconta Lord Chandos nella celebre Lettera di Hofmannsthal – ed ecco che tutto può mutare, schiudendo, all’improvviso, un orizzonte di “pienezza”, di “smisurata partecipazione” e di “infinita rispondenza” con tutto ciò che esiste. Si è come rapiti in un “vortice”, presi dal “fiotto straripante di una vita più alta”, affatto diversa dall’ottundimento del quotidiano: ogni cosa dell’universo diviene “vibrazione” di energia che risuona e s’intreccia nella “grande unità” del tutto. […]
Lord Chandos compone la propria lettera per confessare quest’impossibilità a dire, rinunciando per sempre a scrivere. Ma il carattere estremo di tale decisione non fa che indicare la radicalità di un’istanza che eccede il caso specifico. È proprio dal sentire acutamente l’impotenza del proprio linguaggio – dall’insoddisfazione e dal limite di un’espressione vuota e inane – che scaturisce, ogni volta, la ricerca inesausta di una parola “altra”, di una maniera differente di abitare il linguaggio e il mistero della realtà. La poesia, il mito e il simbolo non sono null’altro che questo: tentativi di accedere e insieme di manifestare la rete delle forze invisibili che tramano l’intera realtà: “realizzazioni” di quell’intelligenza del “cuore” che non è affatto sentimentalità o emozione – come spesso purtroppo s’intende –, bensì intuizione viva e sovrarazionale dell’ anima pulsante del mondo. […]
La parola poetica è chiave di un rinnovato rapporto con l’uno e il tutto, di uno sguardo rigenerato che diviene forma superiore di coscienza. È espressione di quel vincolo che stringe fra loro le cose, legame che supera e bandisce ogni separatezza ed estraneità. Ma, proprio per questo, parole e miti non solo iscrivono gli umani nell’orizzonte dell’universo, ma provvedono anche ad avvincerli gli uni agli altri in una dimensione di comunità e di reciproca relazione. La poesia è luogo dell’essere così come è il disegno di una possibile casa comune.
Di tutto ciò offrono testimonianza le tradizioni antiche che hanno pronunciato, per la prima volta, l’origine e il fondamento della parola, dando luogo a una catena che, in modo ora più evidente ora più carsico, non si è mai, di fatto, interrotta. Per questo occorre, ancora e sempre, sprofondare il nostro sguardo nel pozzo del passato e udirne le voci. Per rigenerare il nostro stesso linguaggio e la nostra consapevolezza.
La relazione con l’antico è e deve essere, ogni volta, l’accadere di un “dislocamento”, l’occasione per interrompere quel flusso che ci stordisce senza che nemmeno più se ne abbia consapevolezza. È e deve essere vera esperienza che nutre la vita, offrendole possibilità “nuove” proprio perché, paradossalmente, “antiche”.
Per l’Europa e l’Occidente – per la natura e l’identità di chi a essi appartiene nonostante la globalizzazione postmoderna – la sapienza greca resta l’imprescindibile scaturigine di tale esperienza. Da qui il percorso che ci attende, a cominciare dalle pendici di quel monte ove le Muse hanno iniziato a far udire le loro voci, per poi proseguire in un periplo attraverso le forme, i poteri e le occasioni della poesia. […] Nella turbolenza contraddittoria del postmoderno che ci irretisce, nella pressione di istanze economiche che ci alienano, non sono le esplosioni verbali della rabbia e del disagio – ancorché umanamente comprensibili – a poter produrre cambiamento. Non sono le dinamiche sempre più violente del discorso pubblico né le contrapposizioni faziose di una politica grottesca a veicolare speranze di rigenerazione. Nulla, d’altro canto, è più menzognero e fuorviante di quelle espressioni e di quei linguaggi che sembrano far appello a evidenze condivisibili, quando, al contrario, non fanno che alimentare la consistenza disperante degli equivoci. Quei modi della parola – che ogni media ingigantisce nell’orrore di un’eco perpetua – non affrancano i soggetti, ma li fanno sempre più prigionieri di un antro buio. Occorre che si produca un radicale salto di coscienza che, come un benefico contagio, si estenda dai singoli soggetti ai piccoli gruppi per formare un’onda sempre più ampia. Ma, per far questo, bisogna liberare un’energia che solo la consapevolezza vissuta e interiorizzata della tradizione può fornire, che solo un rapporto vitale con una diversa parola può far scaturire. Ed è lì. che le Muse iniziano a far udire il loro canto, a dispensare il loro miele, ronzando come api dell’invisibile.
Davide Susanetti, Luce delle Muse. La sapienza greca e la magia della parola, Giunti-Bompiani, Firenze-Milano 2019, pp. 7-12.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Alcuni pensieri dei Presocratici che si impongono come eterne verità
I pensieri dei Presocratici che mi hanno sempre colpito, e in particolare nella preparazione di questa edizione, dopo oltre mezzo secolo di studi, sono numerosi; ma mi vorrei soffermare solo su pochissimi, che sono fra più forti.
In primo luogo, faccio richiamo allo straordinario poema di Parmenide, che dal punto di vista teoretico costituisce un vero vertice. Platone (e non pochi con lui) considerava Parmenide il maggiore dei Presocratici. Gli dedicò il dialogo omonimo, e nel Teeteto lo presenta così: «Parmenide mi sembra che sia, per dirla con Omero, «venerando e insieme terribile» (28 A 5).
Le mie preferenze, tuttavia, sono piuttosto per Eraclito. Del resto, anche grandi pensatori moderni hanno espresso una notevole ammirazione per Eraclito. Hegel, per esempio, sosteneva di aver utilizzato nella sua Logica quasi tutti i frammenti eraclitei.
Nietzsche, poi, nel suo scritto Sul pathos della verità (che fa parte delle Cinque prefazioni per cinque libri non scritti) dice che i frammenti di Eraclito, scritti con lo stile dei discorsi profetici della Sibilla, profetessa del dio Apollo, contengono verità eterne, e scrive (facendo riferimento a 22 B 92): «Sebbene il dio fornisca i suoi responsi “senza sorrisi, senza ornamenti, né profumi di unguenti”, ma piuttosto “con la schiuma alla bocca”, tutto ciò dovrà penetrare nei millenni dell’avvenire. In effetti il mondo ha eternamente bisogno della verità e quindi eternamente bisogno di Eraclito, sebbene Eraclito non abbia bisogno del mondo».
Ricordo soprattutto il grande frammento 45, che ho scelto addirittura come motto epigrafico (e del quale ho già parlato sopra al § 4), in cui l’uomo riconosce per la prima volta l’infinita profondità della propria anima e della propria ragione (del proprio logos).
Non meno forte è il frammento 85: «Difficile è la lotta contro il desiderio, perché ciò che esso vuole lo compera a prezzo dell’anima», nel quale Eraclito per certi aspetti anticipa addirittura la tesi di fondo che Goethe svilupperà nel suo Faust, e che ha moltissimo da dire anche e soprattutto all’uomo di oggi.
E ai giovani di oggi, molti dei quali sono piuttosto scettici e privi di speranze, ancora Eraclito manda un messaggio straordinario: «Se uno non spera, non potrà mai trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio» (B 18). Il che significa che proprio sperando – e solo sperando – si trova l’insperabile.
E per concludere faccio richiamo a un pensiero di Anassagora (B 21a), che il grande Democrito faceva suo e lodava (A 111): «Le cose che si vedono sono l’aspetto visibile di quelle che non si vedono».
I fenomeni non si risolvono in ciò che immediatamente vediamo, ma rimandano tutti a qualcosa di ulteriore che non si vede, ma dal quale derivano e del quale provano l’esistenza.
E questo esprime molto bene ciò che significa fare filosofia nel senso più forte, ossia cercare appunto ciò che sta oltre il fenomeno per spiegare i fenomeni stessi, e questo vale per ogni filosofare, alle origini così come ora, e così varrà anche per tutti i tempi.
Giovanni Reale, Saggio introduttivo. Il pensiero dei Presocratici alle radici del pensiero europeo, in: I Presocratici. Prima traduzione integrale e con testi originali a fronte delle testimonioanze e dei frammenti nella raccolta di Hermaann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2006, pp. LVII-LVIII.
La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Il nichilismo di cui è impregnato l’orizzonte storico nel quale siamo immersi viene qui criticato al suo alto livello di espressione, quello tematizzato dal dispositivo teorico di U. Galimberti. C’è un nichilistico filo teoretico che unisce M. Heidegger, U. Galimberti ed E. Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Come Heidegger, Galimberti presenta uno sviluppo della tecnica planetaria mosso esclusivamente da una sua intrinseca spinta all’autopotenziamento ininterrotto. Come Severino, egli si raffigura un capitalismo che, avendo nella tecnica la condizione indispensabile per raggiungere il proprio fine, tende a subordinarlo al potenziamento della tecnica, e tende quindi a perdere, con esso, la propria specifica natura. Severino, infatti, parla dell’attuale sistema mondiale come di un modo di produzione scientifico-tecnologico, più che capitalistico. Per Galimberti non c’è dunque varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente, ed offre solo una filosofia (teoreticamente povera) dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico (ecco il suo nichilismo). Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia. Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica, e mettersi in cammino verso la realtà nel criticare il nichilismo, al duplice scopo di suscitare la consapevolezza della sua valenza distruttiva delle basi stesse della convivenza umana, e di illuminare la possibilità di percorsi di vita sottratti al suo peso disumanizzante. Un compito che ha perciò risvolti e riferimenti sociologici ed esistenziali, economici e psicologici, ma la sua prospettiva è di natura teoretica. Si tratta appunto, infatti, di un discorso filosofico, e la cui base sta nel presupposto che non si possa capire il nichilismo se non sul piano trascendentale, e quindi filosofico. Ciò in quanto il nichilismo è individuabile come tale soltanto come negazione della realtà umana dell’uomo, e dunque occorre, per individuarlo, un concetto filosofico di realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento. Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Massimo Bontempelli (1946-2011), si è occupato prevalentemente di storia antica e di dialettica platonica e neoplatonica. Ha pubblicato, tra gli altri: Il senso dell’essere nelle culture occidentali (con F. Bentivoglio), 3 voll., 1992; Storia e coscienza storica, 3 voll., 1993; Antiche strutture sociali mediterranee, 2 voll., 1994; Percorsi di verità della dialettica antica (con F. Bentivoglio), 1996; Nichilismo, Verità, Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo (con C. Preve),1997; Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero, 1997-2017; La conoscenza del bene e del male, 1998; La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, 1998; Tempo e memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro, 1999; L’agonia della scuola italiana; Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945), Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo.
Sommario
Il nichilismo contemporaneo va criticato nel suo più alto livello di espressione
Il discorso filosofico di Galimberti è prigioniero del suo presente storico avendolo pensato come assoluto
Il dispositivo teorico di Galimberti è derivato dalla filosofia heideggeriana
Nel dispositivo teorico heideggeriano non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente
L’heideggerismo è una filosofia dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico
Il dispositivo teorico hedeggeriano è devastante delle poche risorse culturali non ancora avvelenate dal nichilismo
L’errore capitale di Hedigger appare come verità alle intelligenze di oggi
Il filo teoretico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino
La tecnica non è il fondamento dell’attuale orizzonte storico
Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia
Non è vero che non si dia essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico
Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica
Il principio hegeliano secondo il quale il reale è razionale rappresenta una posizione culturale niente affatto prefigurante la razionalità tecnica, ma una posizione del tutto alternativa
La povertà filosofica di Umberto Galimberti in ordine a: conoscenza, verità, anima, cultura e valori spirituali
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Appendice
In cammino verso la realtà
La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Sul racconto Di argini e strade di Fernanda Mazzoli
Ben prima di qualsiasi commento estetico o contenutistico, di un’opera di narrativa è condicio sine qua non il coinvolgimento emotivo di chi legge. E questo si tratti di un romanzo di Salgari o di Dumas in un’età, ahimè, trascorsa, o, ben più tardi, di una raffinata divagazione proustiana sulla facciata di un duomo medievale o sulle acque di Venezia. Questo effetto di partecipazione Fernanda Mazzoli lo ottiene con naturalezza. Personalmente, indotto dalla triste condizione del mondo attuale a cercare da decenni risposte nella filosofia, la lettura del racconto di Fernanda mi fa riscoprire una dimensione simbolica che credevo dimenticata, ma evidentemente latente e che mi accorgo essere assolutamente complementare a quella, necessariamente più fredda e cerebrale, che pertiene al grande pensiero filosofico. Infatti, come si può realmente desiderare la salvezza del mondo se non se ne sente un fascino irriducibile a ogni lucido ragionamento? E tuttavia riaffiorano reminiscenze di storia del pensiero. Nel racconto il narratore è un condannato a morte e questa condizione tende all’estremo le sue corde interiori, così come pretesero gli intellettuali tedeschi durante la Grande Guerra, preconizzando un muto contatto con la morte, e di ciò è da salvare il concetto, tralasciando le contingenti ragioni ideologiche di contrapposizione a una immaginaria “superficialità francese”. Fernanda racconta, racconta, sempre attenta a un impressionismo di immagini fuso con continue annotazioni psicologiche, indicative di una vita interiore ormai rara, e solo chi la possiede può realmente provare rivolta per la piega presa dal mondo sociale attuale. E infatti, per es., c’è uno stridente contrasto fra questa ricchezza e quanto, dopo una giornata di lavoro alienato, ci si illude di trovare accendendo la televisione e venendone “ripagati” con spot e miserevole ideologia consumistica in monotona salsa, un debordiano simulacro compensatorio di una vita negata. Per l’atmosfera sognante del racconto non trovo veri paragoni con autori famosi. Trovo forse una eco semplicemente nell’equilibrio fra i particolari realistici e la vicenda arcana, densa di un fascino misterioso, che genera spaesamento, nel Moby Dick di Melville. Ecco, forse, il mistero che circonda la muta ragazza del racconto, che simboleggia forse la vita, forse la morte, forse entrambe, può essere lo stesso dell’adolescente che incarna una pienezza irraggiungibile e confonde ogni certezza nel maturo musicista di La morte a Venezia nella sontuosa trasposizione cinematografica di Luchino Visconti del romanzo di Thomas Mann, e gli fa un arcano cenno al momento della morte, un istante supremo in cui tutto si fa chiaro.
Altro aspetto che emerge, o almeno questo è quanto viene evocato nello scrivente, è l’attenzione per un mondo rurale-artigianale che, per quanto scomparso solo da pochi decenni, ormai appare lontanissimo. Chi scrive rammenta da parte dei suoi genitori così tanti ricordi del paese originario del Polesine dai quali si sarebbe potuta ricavare una nuova sterminata “ricerca del tempo perduto” – e questo vale per ogni angolo della vecchia Italia rurale – e rimpiange amaramente di avere ascoltato distrattamente quei racconti, con la sufficienza di chi già si sentiva scioccamente appartenente a un mondo più moderno e superiore. Un tempo quasi ogni persona aveva un soprannome che ne segnava una precisa personalità sociale e psicologica e in ogni caso era individuato per qualcosa di unico e irripetibile. Oggi tutto questo, nell’era della omologazione totale, nell’epoca del “sì” heideggeriano, sembra quasi non essere mai esistito. Ma è un grande pregio della narrazione di Fernanda averci ricordato “come eravamo”, o, meglio, che “qualcosa eravamo”, anziché essere strumenti passivi, sussunti a un rapporto sociale anonimo e impersonale, come in realtà rischiamo pericolosamente e inesorabilmente di avviarci a ridurci ora. Doveroso anche un altro tipo di annotazione, apparentemente non in linea con l’atmosfera senza tempo che aleggia nel racconto. Certo, si potrebbe sempre fare un parallelo fra la tirannide del XX secolo e quella del XV, nonché, ahimè, di tutti secoli, ma sarebbe una operazione troppo facile e innocua. Purtroppo si vive ormai in una situazione storica nella quale, dopo alcuni decenni di un antifascismo di maniera dettato esclusivamente da opportunità politiche e che non aveva mai fatto veramente i conti con un passato criminale, si è osato parlare affettuosamente di “ragazzi di Salò”, equiparando i militi delle brigate nere con i combattenti della Resistenza. E per di più era solo una camera di compensazione per giungere, come ormai traspare da molti inquietanti segnali, a un triste rovesciamento di ruoli, funzionale al crollo della razionalità conseguente all’adeguamento del Capitale al suo concetto e indipendente perfino dai miseri scopi contingenti dei protagonisti empirici di tanta bassezza. Ebbene, attraverso la figura del narratore, un giovane partigiano condannato a morte assieme a tanti compagni, Fernanda Mazzoli a sua volta “osa” ristabilire un giusto criterio di giudizio. Forse, di fronte alla montante marea avversa, questa isola di verità non avrà una approvazione immediata, forse sarà semplicemente un gesto di testimonianza, ma la testimonianza comunque attesta che quanto portò tanti giovani a sacrificare la loro vita, finché esisterà un “Uomo” adeguato al suo concetto, non potrà estinguersi, nonostante oblio e menzogne. Con le parole di Massimo Bontempelli, «[…] un testo […] ha già un significato metaindividuale per il suo scrivente già nel momento in cui lo scrive, prima ancora che abbia raggiunto anche un solo destinatario esterno».
Antonio Fiocco
6 ottobre 2020
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Chi vuol fare una ricerca conveniente sulla Costituzione migliore,
deve precisare dapprima quale è il modo di vita più desiderabile.
Se questo rimane sconosciuto,
di necessità rimane sconosciuta anche la Costituzione migliore».
Aristotele, Politica, VII, 1,1323 a, 1-4.
«[...] quello che fin dall’inizio distingue
il peggiore architetto dalla migliore delle api,
è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa
prima di averla costruita nella cera [...].
Egli non opera soltanto un mutamento di forma dell’elemento naturale;
egli contemporaneamente realizza in questo il proprio fine, di cui ha coscienza».
K. Marx, Il Capitale
***
Finché vivremo in un mondo caratterizzato dalle gravi sofferenze evitabili di centinaia di milioni di persone, sofferenze dovute principalmente alla struttura privatistica e mercificata dell’attuale modo di produzione sociale, sarà una necessità pensare ad un modo di produzione sociale ideale (costruendo la “celletta” nella nostra testa – come dice Marx) conforme alla natura umana che, richiamando una nobile ed antica tradizione, riteniamo ancora appropriato definire “comunista”. Senza una buona proposta teorica, non può esistere alcuna buona attività pratica. E le proposte teoriche attualmente in campo definite “comuniste” non sono affatto buone (il plurale è d’obbligo, dato il permanere di vari “marxismi” pietrificati, cui vengono tuttora ancorati programmi politici privi di fondamento filosofico). In un’epoca in cui il modo di produzione capitalistico sta dando prova della sua pervasiva distruttività sociale e naturale, teorizzare la necessità di un modo di produzione alternativo in grado di strutturare rapporti armonici fra gli uomini e con la natura, forse può destare interesse e vicinanza. Ma un vero comunismo può essere costruito solo sull’umanesimo filosofico. Delineare il “fondamento umanistico” del progetto teorico del comunismo (ossia di un modo di produzione sociale complessivo idealmente conformato, per struttura e finalità, sulle principali esigenze della natura umana), è una “necessità”. Un progetto politico che abbia come finalità la realizzazione delle più naturali modalità sociali, necessita di un fondamento filosofico, e questo fondamento non può che essere costituito dall’Uomo. L’Uomo (scritto con la maiuscola per indicare, con questo termine, ciò che vi è di universale nel genere umano, ossia l’umanità trascendentalmente intesa) è in effetti il riferimento costitutivo della totalità sociale, ed è anche il solo ente in grado di pensare l’intero, di darvi un senso e di averne cura. L’Uomo è il fondamento della verità dell’essere, ossia di tutto ciò che è, e questa posizione filosofica costituisce la base della progettualità politica. Dato che l’essere assume la propria compiuta verità quando consente all’Uomo una vita vera, ossia conforme alla sua natura razionale e morale, l’Uomo si pone come fondamento della verità dell’essere quando ne pensa in questo modo il senso ed il valore (fermi restando il rispetto e la cura che si devono al cosmo naturale). Il progetto comunitario cui si fa riferimento non consiste infatti in altro se non in un modo di produzione ideale conforme alla natura umana, in grado cioè di realizzare quella armonica convivenza comunitaria di cui gli uomini, per natura, hanno bisogno appunto per la loro stessa realizzazione. Conoscendo le tendenze filosofiche contemporanee, questa prospettiva rischierà, in alcuni epigoni di Nietzsche e Heidegger, di essere interpretata come troppo “antropocentrica”, ossia troppo incentrata sull’uomo come “dominatore” della natura. Ma tale interpretazione è da un lato errata – in quanto l’umanesimo è cosa ben diversa dall’antropocentrismo –, e dall’altro lato pretestuosa – in quanto, in un sistema in cui tutto è strumentalizzato al profitto, chi considera “l’uomo” come dominatore cerca davvero, consapevolmente o meno, solo un pretesto per non criticare il sistema capitalistico stesso. La cultura dell’umanesimo progettuale non è affatto un pericolo per la natura. Tale pericolo è invece costituito da tutti quei modi di produzione, quale principalmente è quello capitalistico, che si pongono come fine la massimizzazione della ricchezza e della potenza degli agenti economico-sociali più forti, anziché la buona vita comunitaria degli uomini tutti. La cultura umanistica è progettuale in quanto invita ad una possibile pedagogia narrativa, che favorisca la paziente ricostruzione dei processi storici delle soggettività e la reale comunicazione di esperienze significative. Invita altresì alla ricerca continua di nuovi orizzonti oltre la “gabbia d’acciaio” capitalistica, alla promozione di valori quali, per esempio, la partecipazione reale dei cittadini, la solidarietà per una nuova cittadinanza, in una comunità che voglia e sappia davvero educacare se stessa superando l’alienazione desertificante cui costringe il mondo delle merci, una cultura “ubiquitaria” nell’humus di questa cittadinanza attiva, senza deleghe: una “comunità educante”. Una cultura capace di rafforzare nei giovani la memoria storica come principale risorsa per la costruzione della propria identità, facendo proprio il pensiero genealogico, per educare ed educarsi all’ascolto delle “altre memorie”, per sperimentare la produzione di materiali narrativi “altri”, sia in forma individuale, sia in forma collettiva, con gesti, comportamenti, azioni simboliche, esercizi di cittadinanza attiva, mettendo in opera prove di concreta e buona utopia sul palcoscenico di una quotidianità condivisa.
Petite Plaisance
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
parlando di pace, chiede agli oppressi, ai poveracci del mondo, di rassegnarsi.
Parlo della resistenza, dell’indignazione, della “giusta collera”
di chi viene tradito e di chi viene ingannato.
Parlo del loro diritto e del loro dovere di ribellarsi
contro le trasgressioni etiche di cui vittime ogni volta di più tormentate».
Paulo Freire, Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2014
Insegnare esige comprendere che educare è una forma di intervento sul mondo; l’educazione non è mai stata, non è, né può essere neutrale, “indifferente”.
Tutta l’opera di Paulo Freire è attraversata dalla riflessione sulla necessaria eticità che connota la pratica educativa in quanto pratica formativa: «l’etica universale dell’essere umano». In Pedagogia dell’autonomia, pubblicato per la prima volta nel 1996, si ribadisce, in particolare, che «uno dei saperi indispensabili è che chi viene formato, fin dall’inizio della sua esperienza, si consideri egli stesso un soggetto che produce sapere, e si convinca una volta per tutte che insegnare non è trasferire conoscenza, ma creare le possibilità per produrla o costruirla». Formare, in altri termini, è molto più che addestrare una persona, grande o piccola, giovane o adulta, nell’uso di alcune abilità. Su ciò si appunta questo volume le cui domande di fondo sono: esiste un’etica della pratica educativa? E di quale bagaglio di conoscenze necessita un buon educatore? Per Edizioni Gruppo Abele, dello stesso autore, sono usciti anche Pedagogia degli oppressi e Pedagogia della speranza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«[…] noi tutti siamo legati all’arte classica come alberi alla terra, e senza le proprie radici è difficile essere stabili, Il classico va oltre il tempo, è un codice universale che consente di avere un dialogo con se stessi, con l’umanità […]. I modelli classici possiedono una carica millenaria che unisce in un’unica forma storie, morale ed emozioni. […] L’antica mitologia è ancora idonea a interpretare la realtà attuale. Questa lingua senza tempo si presta paradossalmente anche ad esprimere i miti contemporanei della nostra società dei consumi. […] il materiale è importante per me quanto il simbolo che rappresenta. Il materiale rafforza il messaggio. La semplice consapevolezza di essere in contatto con materiali nobili dà soddisfazione estetica, e lo scolpire il marmo non può essere paragonato allalavorazione di una scultura in resina. C’è una sorta di battaglia con la natura, nel processo creativo, soprattutto quando la lavorazioine è fatta in pietra o in bronzo e l’energia di questo processo è emotivamente palpabile […]».
Michal Jackowski, Intervista sul classico, «Alias domenica», il manifesto, 15 settembre 2020, p. 6.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«La società degli individui». Quadrimestrale di Filosofia e teoria sociale. Fascicolo 23, 2005, Franco Angeli.
«Non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia ma, per quanto è possibile, immortalarsi e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi».
Aristotele, Etica Nicomachea X, 7, 1177 b 31-34.
Arianna Fermani
Il concetto di limite nella filosofia antica
Il ‘limite’ in ambito gnoseologico
II. Il ‘limite’ in ambito etico
III. Il ‘limite’ in ambito politico
Concludendo
La filosofia nasce contrassegnata del limite. […] Il riconoscimento del ‘limite’ in ambito gnoseologico, che costituisce lo sfondo di tutto il pensiero filosofico antico, si snoda lungo un percorso di cui, in questa sede, è possibile individuare solo alcune delle tappe principali. […] L’estremizzazione che la nozione di limite riceve nell’elaborazione sofistica, e l’esito relativistico a cui tale elaborazione conduce, viene poderosamente arginata da Socrate e dal suo solido ancoraggio della verità all’anima, cioè all’essenza dell’uomo. […]
lI non-sapere socratico, dal canto suo, si configura doppiamente contrassegnato dalla negazione e dal distanziamento: dalla (vana) sapienza umana, da un lato, e dalla (autentica) sapienza divina, dall’altro. E se, nel primo caso, l’affermazione socratica assume una funzione ironica, nell’intento di smascherare le false credenze e la presunzione di sapere proprie degli uomini, nel secondo caso la reale assunzione delle limitazioni antropologiche rispetto all’onniscienza di Dio conduce all’individuazione di un ‘sapere minore’, ovvero di un sapere umano consapevolmente calibrato proprio sul senso del limite. Per queste ragioni Socrate, che riconosce che solo Dio è sapiente e che la sua sapienza, rispetto a quella divina, «ha poco o alcun valore», può essere indicato dall’oracolo di Delfi come «il più sapiente» degli uomini.
Su questa medesima linea si collocherà Platone […]. All’impossibilità di attingere pienamente l’oggetto del conoscere corrisponde l’indicazione platonica della costitutiva infinità del processo epistemologico descritto nelle pagine del Fedone e svolto all’interno del Parmenide. […] Sull’individuazione di questo duplice livello di indagine, in sé e per noi, che costituisce uno degli snodi fondamentali anche della ripresa della nozione di ‘limite’ a livello etico, come si cercherà di tratteggiare se pur a grandi linee, si innesta il costante riconoscimento aristotelico dei limiti conoscitivi propri dell’essere umano. […]
Quanto alla ricaduta della nozione di limite sul piano etico, essa costituisce innanzi tutto l’impalcatura di una lettura ‘polivoca’ dell’essere umano e di una simmetrica sfaccettatura dell’ orizzonte della prassi. Fondamentale risulta in questo senso la distinzione, insieme platonica e aristotelica, tra l’ ‘essere umano’ e la propria ‘anima’: da un lato c’è l’uomo, inteso come sinolo, come insieme di anima e di corpo, dall’altro c’è l’uomo inteso come anima o, più precisamente, come intelletto (nous). […] L’uomo non è dio […] ma la sua vita può essere divina […]. Divina è ogni vita buona […], ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana, infatti, […] si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre. La vita è questa e «le piccole cose quotidiane… non sono il contrassegno di un’esistenza minore ma diventano, al contrario, il banco di prova di un filosofare con sane radici nella vita».1
[…] Il riattraversamento della questione del ‘limite’ nella riflessione politica greca implica, innanzi tutto, un’indagine sulla valenza utopica dello stato ideale delineato da Platone. […] Non bisogna cercare solo la costituzione migliore in assoluto, ma anche quella ‘possibile’ e quella che risulta realisticamente attuabile, cioè quella «migliore entro certe condizioni date». […]
Arianna Fermani, Il concetto di limite nella filosofia antica, in «La società degli individui», Quadrimestrale di Filosofia e teoria sociale, Fascicolo 23, 2005, Franco Angeli, pp. 5-17. Per leggere l’articolo integralmente portarsi sul sito della Franco Angeli, cliccando qui.
1 F. Totaro, Misura, potenza, vita in Nietzsche, in AA.VV. Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, F. Totaro, a cura di, Carocci, Roma 2002, p. 59.
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).
Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero.
Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.
L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).
«La felicità è la vita stessa quando viene vissuta al meglio: si è felici perché si vive bene, perché la vita ha acquisito un peso, una direzione, un orientamento, perché la vita si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice e anonima sussistenza, trasformandosi in una vita dotata di senso, in una individuale e particolarissima consistenza. […] felicità intesa come pienezza, come attingimento pieno del telos. Se il telos è interno all’energeia che lo produce, se il fine è contenuto nell’azione ed è indistinguibile da essa, allora è impossibile pensare ad una felicità che risieda escludivamente nel bersagio e non anche lungo i passi che conducono al suo raggiungimento […] lungo tutto il tragitto della vita». Arianna Fermani, Vita felice umana, 2006.
«[…] il problema della vita nel suo complesso a qualcuno di noi può sembrare meno impellente di quanto non sembrasse a Socrate. Epure la sua domanda ci incalza ancora oggi e reclama l’impegno a riflettere sulla nostra vita nel suo complesso, e cioè nella totalità dei suoi aspetti e in tutta la sua profondità». Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, 1985.
Nel concetto della filosofia come domanda totale, problematicità pura, e perciò metafisica, risiede la classicità del pensiero antico. […] Se la filosofia rinuncia al suo carattere di domanda totale rinuncia al […] senso antico della filosofia, intesa come acquisizione perenne dello spirito, come vero κτῆμα εἰς ἀεί [possesso pe sempre]». Enrico Berti, Quale senso ha oggi studiare la filosofia antica, 1965.
«ὡς ἡδὺ καὶ μακάριον τὸ κτῆμα» [quanto soave e felice è il possesso della filosofia]. Platone, Repubblica, 496 c.
«[…] il movimento nel quale è contenuto anche il fine è anche azione. […] Uno che vive bene, ad esempio, ad un tempo ha anche ben vissuto, ed uno che è felice, ad un tempo è stato anche felice». Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048 b.
Note sul testo Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del biosteleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come euprattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Note sull’autore
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: L’etica di Aristotele. Il mondo della vita umana, Brescia, Morcelliana, 2012; By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, a cura di E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2016; Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Brescia, Morcelliana, 2019. Ha tradotto integralmente le Etiche di Aristotele (Aristotele, Le tre Etiche, Milano, Bompiani, 2008; Giunti, 2018) e ha collaborato all’edizione dell’Organon (a cura di M. Migliori, Milano, Bompiani, 2016).
Indice Prefazione di Salvatore Natoli
Introduzione
Parte prima. Semantica della felicità
Capitolo primo. La felicità come domanda originaria 1.1. Domanda “di” felicità
1.2. Domande “sulla” felicità 1.2.1. Felicità: una questione terminologica 1.2.2. Felicità e forme di vita
Capitolo secondo. Felicità e dolore 2.1. L’esperienza del dolore 2.1.1. Il dolore come accadimento 2.1.2. Le forme del dolore 2.2. Cicatrizzazione del dolore e cura di sé 2.2.1. Approcci al dolore 2.2.2. Cura del dolore e cura di sé 2.2.3. L’assunzione del dolore 2.3. Concludendo
Capitolo terzo. Felicità e piacere 3.1. L’esperienza del piacere 3.2. Fenomenologia del piacere 3.2.1. Il piacere nell’orizzonte della corporeità 3.2.2. Dinamiche piacevoli e dolorose
3.2.3. Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena
3.2.4. Anima e corpo di fronte al piacere 3.2.5. Piaceri e criteri di scelta 3.3. Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto. Felicità e realizzazione di sé 4.1. Profili della virtù: tentativi di un recupero 4.1.1. Virtù come eccellenza 4.1.2. Virtù come forza 4.1.3. Virtù come disposizione 4.1.4. Virtù come giusto mezzo 4.2. La virtù come architettonica della felicità 4.2.1. Vita felice e accordata: la virtù come musica 4.2.2. Vita felice e ordinata: la virtù come misura 4.2.3. La virtù come arte del vivere bene
Capitolo quinto. Felicità e beni esteriori 5.1. Primi approcci al problema 5.2. Felicità e fortuna 5.2.1. Lampi di felicità, colpi di fortuna 5.2.2. Fortuna e virtù 5.2.3. Felicità e fortuna: osservazioni conclusive 5.3. Felicità e amministrazione dei beni 5.3.1. Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Parte seconda. Prassi di felicità
Capitolo primo. Felicità e valorizzazione delle proprie risorse 1.1. Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti 1.1.1. Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis 1.1.2. Felicità al singolare, felicità al plurale 1.2. Eudaimonia come ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon 1.2.1. Felicità come consapevolezza 1.2.2. Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità 1.3. Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo. Felicità come conquista di pienezza 2.1. Felicità tra esperienze di pienezza e pienezza di vita 2.1.1. Tentativi di articolazione della nozione di pienezza
2.2. Per una pienezza nell’orizzonte dell’energeia 2.3. La difficoltà di far spuntare le ali: la felicità come conquista 2.3.1. Felicità pienamente consapevole e pienamente umana 2.4. Riflessioni conclusive
Conclusioni 1. Per concludere 2. Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia 1. Dizionari e lessici 2. Testi antichi 3. Testi moderni e contemporanei 4. Letteratura critica e studi generali
«Le ferite non scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è, contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere», A. Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele.
Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani
Sem título-1
Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote
«Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma, al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).
Questo contributo mira a mettere a fuoco il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio
Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia, oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.
Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Editore: eum, 2006 [prima edizione]
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
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Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012
Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano. La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti Premessa I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni II “Essere” e “dirsi in molti modi” Introduzione I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele II. Autenticità delle tre Etiche III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù Capitolo primo: Giustizia e giustizie Capitolo secondo: La fierezza Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca” Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni Bibliografia Indice dei nomi
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Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.
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Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
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Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
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J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
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ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.
Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano
Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo. Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituita la derealizzazione dell'essere umano. Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e perché pone in discussione i postulati dello specialismo. La filosofia ricerca la totalità e insegna a vivere la totalità. Lo specialismo necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza. Il potere non tollera la verità. Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica. Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano. La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”. Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica. Cultura è lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte.
Totalità titanismo e totalitarismo Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo. Mediante la matematica e l’applicazione di calcoli matematici e algoritmici ci si difende dalla realtà, per dominarla attraverso previsioni e ricostruzioni astratte. Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituito l’astratto e la derealizzazione. Il titanismo è l’effetto della rinuncia alla ricerca della verità: lo scambio dell’astratto con il concreto produce “mostri”. La pratica del titanismo è quotidiana, il suo epifenomeno è plurale, si materializza col narcisismo atomistico ed il saccheggio perenne delle risorse naturali ed umane. La rinuncia alla verità è il fondamento del titanismo globale. Dalla verità ci si difende con il rifugiarsi nel delirio collettivo di grandezza. Il linguaggio è pervasivamente infettato da tale atteggiamento, dalla pubblicità al linguaggio ordinario e culturale. Ovunque, si insinuano parole come: “alla grande”, “successo”, “godimento senza fine”. Più l’io diventa minimo tanto più il titanismo occupa i sogni distopici dell’ultimo uomo, secondo la definizione di Nietzsche nella Gaia scienza (aforisma 125).
“Il cretinismo della specializzazione” fa in modo che nelle accademie si rinunci alla verità. Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e specialmente pone in discussione i postulati dello specialismo.
La verità è un iter conoscitivo: orienta i nostri comportamenti senza esaurirne la sua profondità. La verità è il fondamento che conserva le brecce per il suo autoripensamento. Lo specialismo coglie frammenti di verità, ma senza la sua integrazione nella complessità esso non è che una forma aggressiva di totalitarismo che vorrebbe imporre una visuale unica, un’unica prospettiva respingendo la categoria della totalità per affermare il totalitarismo del pensiero unidirezionale. Il totalitarismo è agorofobico, vuole solo spazi chiusi, senza tempo. La totalità è la verità con i suoi piani sincretici che necessitano – per il suo disvelamento – di una pluralità di metodi e di modalità conoscitive. La Filosofia è la disciplina che non solo integra i piani, ma ricerca la totalità, essa insegna a vivere la totalità. Lo sguardo filosofico intenziona le parti integrandole, trascendendo la notte degli specialismi per coglierne la sostanza che vivifica la totalità e le dà organicità e senso. Il totalitarismo, invece, è il riduzionismo per eccellenza, poiché una sola prospettiva diventa l’elemento preponderante che annichilisce la complessità. Lo specialismo si irrigidisce in sistema conchiuso in se stesso. Non vi sono aperture verso altri percorsi, ma solo la gravità unidirezionale che neutralizza il concetto per normalizzare il silenzio dove regnava il logos nella sua pluralità dialogante. Si ha l’adiaforizzazione, ovvero si necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.
La Verità in Pavel Florenskij Pavel Florenskij ha indagato «il mondo come un intero»: questa, e solo questa, «è stata la sua colpa». [1] Il potere non tollera la verità. Per eternizzarsi forma i sudditi allo specialismo con il quale ogni orizzonte veritativo è cancellato dalla finalità formativa e di ricerca. I piani di verità si integrano verso la trascendenza, la quale non ha confini definitivi, ma le è consustanziale il movimento dialettico. Ogni sistema totalitario non ammette che l’imperio di un solo volto del reale, che in tal modo diviene irrazionale, incomprensibile. L’ambizione di ogni totalitarismo è l’ipostatizzazione del presente. Si ha, di conseguenza, il caos della derealizzazione, la scollatura tra il reale ed il concetto. Ciò non può che comportare la solitudine e la violenza:
«”Che cosa ho fatto per tutta la mia vita?”, si chiese. Ho indagato il mondo come un intero, come un singolo quadro e una singola realtà. Ma feci questa indagine in ogni dato momento, o più precisamente in ogni periodo della mia vita, da un particolare angolo o prospettiva. Indagavo le relazioni del mondo sezionandolo in una direzione particolare, su di un piano particolare, e mi sforzavo di comprendere la realtà del mondo da questo piano che mi interessava. I piani erano differenti, ma uno non negava l’altro, bensì lo arricchiva. Ciò produceva una perpetua dialettica di pensiero, “lo scambio dei piani di osservazione”, mentre allo stesso tempo vedevo il mondo come un tutto unico».[2]
Totalitarismo esiziale Il totalitarismo nega la ricerca della verità per omologare i popoli in masse, in plebi che devono obbedire restando inchiodati nella caverna, con lo sguardo ed il corpo vissuto teso verso gli imperativi di regime. Il totalitarismo trasforma un aspetto del reale in feticcio da adorare, in liturgia prosaica ripetitiva e priva di ogni fine ontologico: è il ritrovarsi in un guscio vuoto che incapsula e necrotizza la creatività di ciascuna persona. La cultura e la creatività non sono espressioni immediate, semplici automatismi, ma esigono impegno, disciplina, capacità di donarsi. L’inganno del totalitarismo – nella forma del capitalismo assoluto – è rappresentare la cultura e la creatività in modo gaudente e caotico. In tal modo neutralizza la temuta (per il capitalismo) pericolosità del pensiero critico, declassando la creatività a prodotto di facile produzione e consumo. La contemporaneità, malgrado le grandi conquiste tecnologiche, è nel segno della negazione della cultura:
«La cultura è la lotta consapevole contro l’appiattimento generale; la cultura consiste nel distacco, quale resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è la contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte».[3]
L’ipertrofia della soggettività La prospettiva rinascimentale nella ricostruzione genetica di Pavel Florenskij è il trionfo della soggettività e del relativismo, essa prepara la matematizzazione del reale. Se la soggettività resta avviluppata su se stessa, se riduce il reale a semplice costruzione euclidea, si ritira dal reale per vivere l’esperienza dell’astratto, al punto che la soggettività non vive il reale in cui è immersa, ma mediante calcoli matematici produce rappresentazioni senza la necessità di ascoltare la vita. Si tratta di un’immensa rete geometrica e matematica che ingabbia il reale, lo tumula sotto il peso dei calcoli, scambiando la rappresentazione matematico-geometrica per realtà. È un processo di allontanamento dalla vita che implica il disancorarsi dalla verità per trasformare l’io calcolante in una divinità che tutto deve sussumere a se stessa. La prospettiva nell’arte, quindi, con il suo tecnicismo, prepara la rivoluzione copernicana e lo scientismo totalitario:
«In secondo luogo: a dispetto della logica e di Euclide, ma ormai nello spirito della concezione del mondo kantiana, con il suo soggetto trascendentale che regna sul mondo illusorio della soggettività (e, ciò che è peggio, lo fa in maniera coercitiva), il nostro artista, fra tutti i punti dello spazio infinito (che in Euclide sono rigorosamente uguali), ne sceglie uno solo, esclusivo, unico, che si distingue da tutti gli altri per il suo valore, un punto monarchico, se così si può dire, ma la cui unica prerogativa è di essere il luogo in cui si trova l’artista stesso o, per essere più esatti, in cui si trova il suo occhio destro, il centro ottico del suo occhio destro. Tutti i luoghi dello spazio, alla luce di un simile modo di pensare, sono luoghi privi di qualità e ugualmente incolori, eccezion fatta per quest’unico luogo che domina su tutti gli altri, in quanto ha ricevuto il privilegio di essere sede del centro ottico dell’occhio destro dell’artista. Questo luogo viene proclamato centro del mondo e pretende di proiettare spazialmente il carattere gnoseologico, assoluto, kantiano dell’artista. In verità egli guarda la vita “da un punto di vista”, ma senza alcuna precisazione ulteriore, perché questo punto, innalzato a vero e proprio assoluto, non si distingue in nulla da tutti gli altri punti dello spazio, e la proclamazione della sua superiorità rispetto agli altri non solo non è motivata ma, se si considera la sostanza dell’intera concezione del mondo qui esposta, è anche immotivabile».[4]
Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica, estromettere la coscienza dalla relazione con il mondo e viceversa. Il risultato è solo impoverimento dell’esperienza. La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”, e di problematizzare, in primis, la soggettività ed il suo ruolo nell’occultare la verità.
Paura del reale e della verità Nella pratica dell’esemplificazione totalitaria si cela il bisogno di difendersi dalla verità, la quale sgretola le false certezze in cui ci si rifugia. La realtà è come una linea retta, secondo il filosofo e mistico russo. Si può decidere di osservare un punto della retta, o di capire che la retta è fatta di punti indissociabili. Cultura è sguardo che non arretra innanzi all’insieme ed alle sue connessioni. Rappresentarsi un mondo storico e naturale incapsulato in sistemi e formule favorisce il sogno d’onnipotenza che sempre è riposto tra le pieghe della conoscenza che abiura la filosofia teoretica. I regimi totalitari – riconosciuti o meno in quanto tali – fanno “buon uso” delle paure ataviche degli esseri umani, come del delirio d’onnipotenza. La cultura è lotta, in quanto è confronto con tali paure e delirii. Essa permette di attraversare i deserti interiori e collettivi per tracciare nuovi inizi senza rimozioni e nostalgie. Se non ci si confronta con tali dinamiche non vi è cultura, ma solo pratica per imbalsamare il reale:
«In quinto luogo: tutto il mondo viene pensato come completamente immobile e assolutamente immutabile. In un mondo soggetto a rappresentazione prospettica non può e non deve esserci spazio né per la storia, né per la crescita, né per i cambiamenti, né per i movimenti, né per la biografia, né per lo sviluppo di un’azione drammatica, né per il gioco delle emozioni. In caso contrario, ancora una volta l’unità prospettica del quadro si sfalderebbe. È un mondo morto o avvinto in un sonno eterno: è sempre, immutabilmente, lo stesso identico quadro, pietrificato nella sua gelida immobilità».[5]
La cultura è a un bivio. Pavel Florenskij nel gulag ha vissuto la violenza del riduzionismo prospettico. Sta a noi cogliere “la verità della sua testimonianza”, dinanzi all’avanzare di un mondo unidirezionale, incapace di guardare gli effetti e la violenza dell’economicismo che – con il saccheggio delle risorse – sta inchiodando l’umanità ed il pianeta nell’immobilità della coazione a ripetere. Vi è cultura dove l’essere umano “abbandona il proprio trono” per avventurarsi nella dialettica, per instaurare l’intersoggettività che lo accompagna verso la verità. Perché ciò avvenga bisogna congedarsi dai miti e disporsi nella concretezza dell’ascolto e della parola:
«In quarto luogo: il suddetto legislatore viene concepito come incatenato per sempre e indissolubilmente al proprio trono: se lascia questo luogo assolutizzato o se vi fa anche soltanto il più piccolo movimento, immediatamente tutta l’unità delle costruzioni realizzate seguendo le leggi della prospettiva viene meno, e tutta la prospettiva che le regge crolla. In altre parole, in una simile concezione, l’occhio che guarda non è l’organo di un essere vivente che vive nel mondo e vi lavora, ma la lente di vetro di una camera oscura».[6]
Dove regna l’intercosalità (Massimo Bontempelli), non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano. L’intercosalità sostituisce il logos, l’agire politico con lo scambio di merci, di informazioni e di seduzioni. Il fine dell’intercosalità è la morte dell’essere umano. Il bivio di fronte a cui si trova la cultura è la scelta tra l’umano ed il dis-umano. Tutti noi siamo implicati in tale scelta. Publio Terenzio Afro ci aiuta a definire ciò che è, per l’uomo, vera cultura:
Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica. La cultura è libertà dell’agire e dell’incontro per elevarsi nell’universale concreto nel quale si coniugano metafisica ed assiologia.
Salvatore Bravo
***
[1] Pavel Florenskij condannato nel 1933 a dieci anni di servitù in un campo di concentramento; fu inviato in seguito nell’isola di Solovki; morì il 15 Dicembre nel 1943. [2] Pavel Florenskij, Lettera dal campo di concentramento di Solovki, 21 Febbraio 1937; in Un filosofo nel gulag. Arte e letteratura in Pavel A. Florenskij, dall’Accademia teologica di Mosca ai campi di concentramento sovietici, Jouvence, Milano 2020. [3] Tratto dal libro di Pavel Florenskij, Bellezza e liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, SE, Milano 2020. [4] Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata, a cura di Adriano Dell’Asta, Adelphi, Milano 2020, pag. 74. [5]Ibidem, pag. 75. [6]Ibidem. [7]«Sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo», in Publio Terenzio Afro, Heautontimorùmenos, Atto I.
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