«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Che siamo, che cos’è il nostro carattere se non la sintesi della storia che abbiamo vissuto fin dalla nascita? […] Certamente noi pensiamo solo con una piccola parte del nostro passato, ma è con tutto il nostro passato […] che noi desideriamo, vogliamo ed agiamo».
Henri Bergson, L’Evoluzione creatrice, Raffaello Cortina, Milano 2002.
«”We work in order to be at leisure.” […] Doesn’t this statement appear almost immoral to the man or woman of the world of “total work”? Is it not an attack on the basic principles of human society? Now I have not merely constructed a sentence to prove a point. The statement was actually made — by Aristotle [Nichomachean Ethics X, 7 (1177b4–6)]. Yes, Aristotle: the sober, industrious realist, and the fact that he said it, gives the statement special significance. What he says in a more literal translation would be: “We are not-at-leisure in order to be-at-leisure.” For the Greeks, “not-leisure” was the word for the world of everyday work; and not only to indicate its “hustle and bustle,” but the work itself. The Greek language had only this negative term for it (ά-σχολία), as did Latin (neg-otium). The context not only of this sentence but also of another one from Aristotle’s Politics (stating that the “pivot” around which everything turns is leisure [Politics VII, 3 (1337b33)]) shows that these notions were not considered extraordinary, but only self-evident. […] Could this also imply that people in our day no longer have direct access to the original meaning of leisure?
Josef Pieper, Leisure, the Basis of Culture (1948), Translation by Gerald Malsbary of two linked studies, Musse und Kult and Was heisst Philosophieren? (both 1948). South Bend, Indiana: St. Augustine’s Press, 1998, pp. 4-5.
«[…] il passato in quanto tale, appare e al tempo stesso si integra, emergono da esso nuove possibilità, poiché il passato feconda al tempo stesso in cui è fecondato, crea un piano temporale nuovo è più complesso. Più complesso e più prossimo all’unità. Poiché la vita è come una colonna a spirale che ascende creando nuovi piani. È vera e propria creazione. […] La coscienza lo raccoglie e lo fissa; trattiene il passato. Il pensiero fa il vuoto temporale, sospende la vita e crea il passato in quanto tale, lo fa apparire».
María Zambrano, I sogni e il tempo, Pendragon, Bologna 2004, p. 129.
Solidarietà ed individualità In un’epoca dominata dalla massificazione rileggere i classici della filosofia è un atto che diventa parola e che consente di osservare criticamente il presente. Per comprendere l’attuale dispositivo censorio – che agisce senza apparire –, bisogna prendere in esame autori messi al bando dalle accademie culturali e dalla industria mediatica. Nulla è neutro, ad ogni scelta è sottesa una determinata visione del mondo (Weltanschauung), in particolare quella finalizzata a sostenere la conservazione. Gli autori presenti nelle “vetrine” mediatiche correnti sono, in media, utilizzati per confermare l’individualismo astratto e mercantile. Il nulla avanza sulla punta di baionetta dell’industria culturale, il cui scopo è sostenere il potere ed i suoi dispositivi di controllo. Per la struttura economica del capitalismo il soggetto è un atomo che deve produrre e consumare in una sostanziale solitudine. Alla concretezza, al vincolo solidale, alla crescita delle potenzialità umane si sostituisce la miseria dell’atomismo del Regno animale dello Spirito (G.W.F. Hegel), in cui l’individualità si dissipa nella competizione fino ad evaporare, ed a configurarsi nell’io minimo (C. Lasch) addomesticabile ed innocuo per gli equilibri economici e politici consolidati. Ma se siamo capaci di attivare un riorientamento gestaltico è possibile verificare l’esistenza di altri modelli di individualità qualitativamente differenti. Michail Bakunin (1814-1876), ostracizzato dall’industria culturale, nei suoi scritti mostra che l’individualità è per sua natura concreta e solidale; anzi, non vi può essere individualità senza solidarietà e partecipazione alla vita comunitaria nella poliedricità dei suoi aspetti. Ogni essere umano, per metter in atto le sue potenzialità, necessita di comunità solidali ed accoglienti che, pur condizionando determinati comportamenti nella ricerca del bene comune, tengano fermo il principio del rispetto della specificità irripetibile di ciascuno. Senza solidarietà non vi è individualità, ma solo regressione umana:
«L’individuo umano, prodotto della solidarietà, cioè della società, pur se sottomesso alle sue leggi naturali può benissimo, influenzato da sentimenti provenienti dall’esterno, in special modo da una società straniera, reagire contro la sua fino a un certo grado, e tuttavia non sarebbe capace di uscirne senza entrare subito in un altro ambiente solidale sottoponendosi così a nuove influenze. Perché per l’uomo la vita al di fuori di ogni società e di ogni influenza umana, l’assoluto isolamento, è la morte intellettuale, morale e anche materiale. La solidarietà non è solo un prodotto ma la madre dell’individualità, e la personalità umana può nascere e svilupparsi soltanto nella società umana. La somma delle influenze sociali dominanti, espressa dalla coscienza solidale o generale di un gruppo umano più o meno vasto, si chiama opinione pubblica. E chi non conosce l’azione onnipotente esercitata dall’opinione pubblica su tutti gli individui? L’azione restrittiva delle leggi più draconiane non è niente al suo confronto. È dunque questa l’educatrice per eccellenza degli uomini. Da qui risulta che al fine di moralizzare gli individui occorre prima di tutto moralizzare la società stessa, umanizzarne l’opinione o coscienza pubblica».[1]
L’astratto L’astrazione avanza legittimata dalla scienza. Michail Bakunin evidenzia che la scienza, per sua costituzione epistemica è astratta. Essa si occupa di leggi generali, e non delle contingenze particolari, questo non è un male in sé, poiché risponde ad un metodo di studio e conoscenza. Il pericolo è trasformare tale metodologia d’indagine in totalitarismo culturale, per cui l’astratto è istituzionalizzato dall’aurea sociale della scienza. La religione del progresso non è meno pericolosa della religione dell’economia. L’astratto scientifico può trasformarsi in tecnocrazia elitaria alleata con l’economia che manipola i popoli riducendoli in masse che obbediscano ai nuovi dogmi. Per sviluppare personalità solidali, dunque, bisogna formare ad un senso critico capace – dinanzi ad ogni disciplina, istituzione o sapere – di metter in moto la catena dei perché, la quale, se è interrotta, pone le premesse per nuovi dogmatismi non riconosciuti:
«Le astrazioni non hanno gambe per camminare e camminano solo quando sono portate dagli uomini reali. Ma per questi esseri reali fatti non solo di idee, ma concretamente di idee, di carne e di sangue, la scienza non ha cuore. Essa, tutt’al più, li considera come carne intellettualmente e socialmente sviluppata. Che le importano le condizioni particolari di Pietro e di Giacomo? Essa si renderebbe ridicola, abdicherebbe alla sua autorità, si annienterebbe se volesse valersene altrimenti che come esemplificazioni in appoggio delle sue teorie eterne. E sarebbe grottesco serbarle rancore per ciò, giacché la sua missione non è questa. Essa non può afferrare il reale; essa può muoversi soltanto nelle astrazioni. La sua missione è di occuparsi delle situazioni e delle condizioni generali dell’esistenza e dello sviluppo, sia della specie umana nel suo insieme, sia di questa o quella razza, di questo o quel popolo, di questa o quella classe e categoria di individui. È di occuparsi altresì delle cause generali della loro prosperità o della loro decadenza, e dei mezzi generali per farli avanzare in ogni sorta di progresso. Se essa compie estesamente e razionalmente questo lavoro, ha fatto tutto il suo dovere e sarebbe veramente ridicolo e ingiusto chiederle di più».[2]
“Dittatura del proletariato” e potere Michail Bakunin fu espulso dal V Congresso dell’Internazionale dell’Aja (2-7 settembre 1872), poiché era entrato in collisione con Marx ed i marxisti, malgrado i numerosi punti di convergenza. Li dividevano le problematiche annesse alla “dittatura del proletariato”. È importante evidenziare le ragioni critiche dell’ostilità di Bakunin. Libertario ed anarchico, temeva che la “dittatura del proletariato”, malgrado le ragioni teoriche che supportavano tale passaggio verso il comunismo, potesse assumere una nuova forma di perenne potere di una minoranza su una maggioranza. La storia ha dato ragione a Bakunin, ma ancora una volta emerge il carattere critico della testimonianza di Bakunin, il timore consapevole che lo spettro del potere e dell’oppressione si potesse ripresentare in forme nuove. La sua lezione consiste nella consapevolezza che la libertà è prassi quotidiana, la democrazia dal basso non deve delegare, ma controllare in modo critico e partecipato il potere ed i modelli culturali:
«Io credo che il signor Marx sia un rivoluzionario serio, anche se non sempre molto coerente, e che veramente desideri la rivolta delle masse. E mi meraviglia come non riesca a vedere che l’attuazione di una dittatura universale, collettiva o individuale – una dittatura che agirebbe come una sorta di ingegnere capo della rivoluzione mondiale, regolando e dirigendo, più o meno come si conduce una macchina, il movimento insurrezionale delle masse di tutti i paesi – sarebbe in sé sufficiente a uccidere la rivoluzione, a paralizzare ogni movimento popolare. Dov’è l’uomo, dov’è il gruppo di individui, per quanto geniali siano, che oserebbe vantarsi di essere in grado di comprendere e interpretare la moltitudine infinita dei variegati interessi, tendenze e attività in ogni singolo paese, provincia, regione, località, professione e mestiere, che nel loro immenso aggregato sono uniti, ma non irregimentati, da alcuni principi fondamentali e da una grande aspirazione comune, la stessa aspirazione – uguaglianza economica senza perdita di autonomia – che, radicata in profondità com’è nella coscienza delle masse, costituirà il futuro della Rivoluzione sociale?».[3]
Riduzionismo economicistico L’economicismo è un pericolo insito non solo nella cultura liberale, ma anche nei movimenti e partiti di “sinistra”. Il riduzionismo economicistico non favorisce lo sviluppo di personalità complete, né di sistemi sociali e politici rispettosi delle individualità, perché ignora le contingenze materiali, in cui ogni individuo si forma e le strutture culturali che eredita; pertanto non si possono applicare le stesse soluzioni a culture e popoli diversi. L’economicismo, come ogni forma di riduzionismo, è astratto e dunque violento. L’economicismo nel comunismo prepara “il capitalismo di Stato”; Bakunin intravede in ciò la negazione del comunismo e specialmente, malgrado le intenzioni di Marx, il profilarsi di nuove forme di totalitarismo:
«A risultati diametralmente opposti giunge il signor Marx. Prendendo in considerazione la sola questione economica, egli afferma che i paesi più progrediti, e di conseguenza più idonei a compiere la rivoluzione sociale, sono quelli in cui la produzione capitalistica moderna ha raggiunto il più alto grado di sviluppo. Solo questi paesi sono civili, ed essi soltanto sono chiamati a iniziare e guidare la rivoluzione. La rivoluzione consisterà nell’espropriazione, sia graduale sia violenta, degli attuali proprietari e capitalisti e nell’appropriazione di tutte le terre e di tutto il capitale da parte dello Stato, che, per poter assolvere la sua grande missione economica e politica, dovrà essere necessariamente molto potente e centralizzato. Lo Stato amministrerà e dirigerà la coltivazione delle terre tramite tecnici stipendiati a capo di armate di lavoratori agricoli organizzati e disciplinati per questo tipo di lavoro. Analogamente, esso costituirà sulla rovina di tutte le banche esistenti una banca unica che accentrerà l’intero lavoro e l’intero commercio internazionali»[4]
Rileggere Bakunin è un’esperienza culturale importante, poiché ci offre categorie interpretative e contenuti validi non solo per leggere il presente e per non subirlo passivamente; nei suoi scritti si può cogliere la passione pedagogica per la libertà che lo porta ad assumere una postura critica ed attiva verso ogni forma di cristallizzazione del potere. Ci insegna che la libertà è un processo mai concluso, essa è conquista collettiva quotidiana di cui tutti si è contemporaneamente docenti ed alunni:
«Nella libertà si possono distinguere tre momenti di sviluppo, tre elementi, il primo dei quali è di carattere decisamente positivo e sociale: esso consiste nel pieno sviluppo e nel completo godimento da parte di ognuno di tutte le facoltà e potenzialità umane realizzate attraverso l’educazione, l’istruzione scientifica e la prosperità materiale, tutte cose che l’uomo può acquisire solo con il lavoro collettivo, fisico e intellettuale, muscolare e nervoso, di tutta la società. Il secondo elemento o momento della libertà è negativo. È il momento della rivolta dell’individuo contro ogni autorità divina e umana, collettiva e individuale».[5]
Salvatore Bravo
***
[1] Michail Bakunin, La libertà degli uguali, a cura di G.N. Berti, Elèuthera, Milano 2017, p. 127. [2]Ibidem p. 142. [3]Ibidem p. 155. [4]Ibidem pp. 159-160. [5]Ibidem, p. 81.
«Si può considerare la cultura come il perfezionamento degli individui ottenuto mediante lo spirito oggettivato nel lavoro storico della specie. L’essenza soggettiva appare “colta” in quanto la sua unità e la sua totalità giungono a compimento per mezzo dell’ appropriazione di quei valori oggettivi: valori dell’arte e della conoscenza, dell’arte e della religione, delle configurazioni sociali e delle forme di espressione dell’interiorità. La cultura è dunque una sintesi peculiare di spirito soggettivo e spirito oggettivo, il cui senso ultimo può naturalmente risiedere soltanto nel perfezionamento degli individui. Poiché tuttavia a tale processo di perfezionamento i contenuti dello spirito oggettivo devono presentarsi dapprima come indipendenti e separati tanto da chi li crea quanto da chi li riceve, per poi venir compresi in esso come mezzi o stazioni, tali contenuti, ossia tutto ciò che ha trovato espressione e forma, ciò che possiede un’esistenza ideale e un’efficacia reale, il cui insieme costituisce il patrimonio ideale di un’epoca, può essere definito la “cultura oggettiva” di essa. Dalla sua determinazione va distinto il problema della misura, dell’ampiezza e dell’intensità con cui gli individui partecipano dei suoi contenuti: è il problema della “cultura soggettiva”».
Georg Simmel, Filosofia dell’amore, a cura di M. Vozza, trad. di P. Capriolo, Donzelli Editore, Roma 2001, p. 123.
«L’unico fra i grandi filosofi che si sia posto il problema del senso psicologico, fatale e metafisico dell’erotismo e che vi abbia dato risposta muovendo dalle sue radici più profonde è Platone. Infatti Schopenhauer, il solo che potrebbe essere citato accanto a lui, non si è interrogato in realtà sull’essenza dell’amore, ma su quella della sessualità. Platone invece comprese che l’amore è una potenza assoluta della vita, e che perciò dev’esserci un cammino conoscitivo che conduca da esso alle ultime potenze ideali e metafisiche».
Georg Simmel, Filosofia dell’amore, a cura di M. Vozza, trad. di P. Capriolo, Donzelli Editore, Roma 2001, p. 183.
«Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo».
Michail Alexandrovič Bakunin, Considerazioni filosofiche sul fantasma divino, il mondo reale e l’uomo, traduzione di Edy Zarro, La Baronata, Lugano 2000.
La figura del finto artista (il fake) e la copertura ideologica necessaria alla sua ascesa sociale
In un tempo in cui tutto sembra dover rispondere alle logiche del mercato, ci troviamo a fare i conti con un fenomeno sempre più diffuso: l’affermarsi di finti artisti che, sfruttando la generale mancanza di capacità critica da parte del pubblico, producono finte opere d’arte, ottenendo la consacrazione sociale necessaria al conseguente successo commerciale. Per comprende meglio le origini di questo meccanismo sono utili le parole del filosofo britannico Roger Scruton, che così riassume quelle che sembrano ormai essere le modalità per veicolare le nuove tendenze artistiche: «Prendi un’idea, mettila su un piedistallo, chiamala arte e sbattila in faccia al mondo». Il Novecento ha introdotto nuovi parametri per definire il concetto d’opera d’arte: Marcel Duchamp dipinge i baffi alla Gioconda e, così facendo, dimostra che tecnica, studio e dedizione non saranno più elementi necessari all’artista del mondo nuovo, ormai certo che un’intuizione valga più di molte ore di duro lavoro. La potenza dell’idea, che immediatamente si è espressa nella forma della provocazione, e il suo posizionarsi centralmente nel processo creativo della produzione artistica del primo Novecento, sembra aver segnato l’inizio di un percorso che sta avendo proprio in questi ultimi anni i suoi più grotteschi sviluppi.
Non essendo mia intenzione non riconoscere il valore di molte esperienze di rottura e d’avanguardia, come appunto quelle che segnarono l’inizio del secolo scorso, mi limito a far notare come lo scollamento del valore di un’opera d’arte dalla sua dimensione estetica e immanente (in cui si misurano la tecnica, l’intuizione compositiva, la sostenutezza formale, ecc.), ha portato ben presto allo sviluppo di uno spazio fluido, in cui il valore dell’opera è determinato dal valore dell’idea che essa esprime. Se a un generale relativismo nella valutazione, essendo la dimensione delle idee meno oggettivamente valutabile di quella dell’estetica, uniamo il fatto che il mercato, con i suoi schemi e le sue richieste ideologiche, ha ormai totalmente inquinato la ricerca artistica, non stupisce come la ricevibilità dell’idea da parte di esso diventi una condizione fondamentale per stabilire il valore di mercato di un’opera. Ecco che si possono dunque ben capire i presupposti della sempre più diffusa figura del finto artista, il fake come lo definì Scruton, colui cioè che crede a tal punto nei suoi falsi ideali da immedesimarsi totalmente con essi fino ad annichilire ogni forma di sincerità e originalità. Un falsificatore di ideali, una figura che ha scelto di rifiutare il sacrificio e il duro lavoro necessari per essere originali (e di duro lavoro si parla anche quando si devono avere idee intelligenti), per cavalcare l’onda della facile commerciabilità. La figura del fake trova poi la necessaria legittimazione nella societas sceleris che unisce l’artista al critico, a colui cioè che è il solo in grado di garantire a quello la fondamentale copertura ideologica necessaria alla sua ascesa sociale. Le due figure, poi, si legano in un pericoloso circolo vizioso, in cui anche la sopravvivenza della stessa figura del critico dipende sempre più da quella dell’artista, con gli evidenti problemi che ne conseguono.
Tempo fa (ottobre 2018) un noto esponente della street art contemporanea, Banksy, si rese protagonista di una trovata ritenuta da molti addirittura geniale. In numerosi articoli di giornale si leggeva a proposito dell’autodistruzione improvvisa di una versione di un suo noto disegno, Ballon Girl, avvenuta durante una sessione d’asta nel preciso momento in cui stavano aggiudicando l’opera a un cliente. Un trita-documenti nascosto nella spessa cornice si era infatti azionato tagliando a strisce il foglio con il disegno. Qualche giorno dopo l’avvenimento apparve, sul profilo Instagram dell’artista, un filmato che riproduceva il momento in cui si era azionato il marchingegno, trasformando l’opera fra lo sbigottimento generale del pubblico e dello staff di Sotheby (la casa d’aste che lo aveva in carico). La didascalia sotto al video riportava una famosa frase di Michail Bakunin (che verrà poi ripresa da Pablo Picasso) secondo cui «the urge to destroy is also a creative urge». Osservando l’opera autodistrutta possiamo però notare come niente sia lasciato al caso: la metà inferiore del disegno pende dalla cornice, tagliata in tante piccole strisce simmetriche e ordinate. Non si ha certo l’impressione di qualcosa di distrutto; nell’insieme il tutto risulta molto preciso e ordinato, e si ha ancora piena contezza di essere davanti a un quadro. Ripensando alla frase di Bakunin, a cui lo stesso Banksy faceva riferimento, verrebbe dunque da chiedersi dove sia la distruzione e dove la creatività. Tra l’altro, poco tempo dopo l’avvenimento, circolava la prevedibile notizia riguardo all’aggiudicazione dell’opera per quasi 200.000 sterline in più rispetto alla cifra d’acquisto precedente all’autodistruzione.
Qual è stato dunque l’obbiettivo di Banksy? Voleva forse comunicare al mondo che la sua arte non è fatta per rispettare le logiche del mercato? Il suo gesto era forse un attacco alle grandi case d’asta, o è semplicemente l’ennesima forma di finto anticonformismo perfettamente tollerato e anzi incentivato da quello che sempre più sembra assumere i contorni di un vero e proprio sistema dell’arte contemporanea? Nel mare dei punti interrogativi una cosa è certa: tutto si poteva dire di quell’opera tranne che si era autodistrutta, e il suo aumento di valore era prevedibile e scontato. Il “ribelle” e “anticonformista” Banksy ha di fatto creato un’opera d’arte di finta protesta che, mentre sembrava scagliarsi contro le leggi del mercato si inginocchiava a queste nel modo più abietto. Nonostante l’evidenza dei fatti, gran parte della critica ha sentito il bisogno di osannare l’artista, calcando la portata “rivoluzionaria” e “provocatoria” della sua azione. Significativo anche come, a poca distanza dall’asta, è apparso un video in cui Banksy stesso (excusatio non petita…) ci mostrava come nelle sue intenzioni ci fosse quella di recare molti più danni al quadro, cosa che non era stata possibile ottenere a causa di un imprevisto, quanto provvidenziale (almeno per l’economia della casa d’asta), malfunzionamento dello strumento che avrebbe dovuto danneggiare la tela. Resta difficile credere a quest’ultima parte della storia che appare come un goffo tentativo di autodifesa da parte di Banksy, e sembra suggerire che forse, nell’oceano delle critiche positive mosse nei suoi confronti, qualcuno abbia avuto la lucidità di storcere il naso. Pensando con una certa nostalgia, ad esempio, alle geniali manifestazioni dadaiste del secolo scorso, veri e propri assalti al buon costume, dove casualità e provocazione giocavano un ruolo fondamentale, viene da pensare che probabilmente nello sviluppo artistico degl’ultimi anni qualcosa sia andato storto. Sembra in effetti che sia sempre più difficile creare arte di protesta e sempre più facile fare un’arte da salotto assolutamente tollerata e tollerabile. Curioso poi come, poco tempo dopo l’episodio di Sotheby, una mostra tenuta al Mudec di Milano titolava The Art of Banksy. A visual protest. Se, almeno in quest’ultimo caso, non possiamo affermare con certezza che Banksy non abbia fatto dell’arte, sicuramente possiamo dire che non ha fatto protesta, nonostante gli venga attribuito proprio questo merito. In un certo senso si potrebbe considerare la trovata dello street artist come un’opera d’arte solo nella misura in cui non sia tale ma abbia fatto credere al mondo di esserlo. Vorrei dire che se questa versione di Ballon with Girl merita la promozione al livello d’opera d’arte, lo fa solo nel modo in cui si rende rappresentante dello Zeitgeist contemporaneo. Come quando, per fare uno dei numerosi esempi che possono essere citati, la Pop Art di Andy Wharol mostrava al mondo i simboli di un immaginario nuovo che stava pervadendo la nostra vita (incidenti d’auto, sedie elettriche, scatole di prodotti preconfezionati, ecc.), così Banksy, certamente in modo involontario, e quindi dimostrando ancora una volta la componente profetica dell’arte, sembra svelarci i meccanismi alla base della nostra società: ipocrisia, truffa e autoinganno collettivo.
Forse è stata proprio l’onestà la grande assente di questa vicenda, quella onestà che ci dobbiamo aspettare dalle opere di ogni grande artista. Piuttosto che rifilarci la patetica storiella del guasto tecnico, Banksy, o chi per lui, avrebbe senz’altro fatto meglio a cogliere l’occasione per spiegarci come nel XXI secolo si possa dare vita ad un’opera nuova durante una sessione d’asta, tra lo stupore e il divertimento degli astanti; e forse ci avrebbe fatto un’utile e divertente lezione di marketing, dimostrando come un danneggiamento programmatico e ben pubblicizzato possa far lievitare il prezzo di un’opera. Ma l’arte autentica e l’autentica protesta sono altro.
Le parole di Etty Hillesum invocano la responsabilità di ciascuno. Nessuna crisi può essere trascesa senza la testimonianza libera e responsabile di ogni essere umano. Occorre disseppellire dal cuore degli uomini la sostanza comune che rende tutti fratelli.
Disseppellire Dio Esther Hillesum, detta Etty ha testimoniato la necessità dell’universale. Non si supera la crisi di un’epoca, l’esperienza di Auschwitz nel suo caso, senza un nuovo umanesimo. Bisogna «disseppellire Dio»! Le parole di Etty invocano la responsabilità di ciascuno dinanzi alla disumanità che avanza. Nessuna crisi può essere trascesa senza la testimonianza libera e responsabile di ogni essere umano. Si può dimenticare Dio, dimenticare cioè il bisogno di riconoscere la sostanza comune che rende tutti fratelli, ma nella dimenticanza, nella rimozione dell’universale non vi è che la disumanità che distrugge ogni tessuto sociale e umano. Solo il «disseppellire Dio» – nelle parole di Etty – può riumanizzare la vita di ciascuno, abbattere le barriere di fango che dividono e che causano solitudine materiale ed emotiva. Senza universale ci si ripiega su se stessi, l’altro è solo il “nemico”: nell’ordito sociologico del darwinismo sociale della «lotta per la sopravvivenza» (struggle for life and death) c’è solo la sconfitta è per tutti, non vi sono vincitori, ma solo diverse forme di solitudini:
«Poiché le persone scompaiono, non mi resta altro che il desiderio di parlare con Te. Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di Te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di Te. E cerco di disseppellirTi dal loro cuore, mio Dio. Ma ora avrò bisogno di molta pazienza e riflessione e sarà molto difficile».[1
La ricerca dell’universale può riemergere nelle circostanze più diverse e dimostra che è nella natura umana la necessità di ritrovarsi nella comune famiglia umana. Le modalità e le soluzioni possono essere plurali, ma in tutte vi è la dialettica che muove il soggetto verso l’universale. I percorsi possono essere molteplici, ma giungono alla comunità umana, mediante un processo graduale che muove dalla concretezza della contingenza, in cui si è situati, per ridisporsi verso l’umanesimo trascendentale. Nella storia la violenza è sempre stata presente, ma la salvezza non consiste nel semplice passaggio da un sistema di potere ad un altro, la salvezza è nel non lasciare che il male proliferi infettando e consumando anche coloro che propugnano la libera individualità sociale. Il “male” alligna anche nelle vittime – la violenza è il virus che prolifera –, se ad esso non si oppongono adeguate energie spirituali e concettuali. Il “male” si propaga, in modo meccanico, se non è avvertito, pensato e giudicato come tale. La speranza è quella di salvare, in primis, la propria vita interiore nelle determinate temperie della storia. Un nuovo inizio è possibile, se ci si congeda dalle violenze vissute, se si riconosce la “violenza” in noi stessi la violenza:
«Una volta è un Hitler; un’altra è Ivan il Terribile, per quanto mi riguarda; in un secolo è l’Inquisizione e in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».[2]
Ricettacoli di cose Viviamo in un mondo di cose. Ai disastri della storia “si reagisce” mettendo in salvo le cose: in questo modo si perde se stessi, si diviene irrilevanti come le cose. Il “male” ci travolge, ci sorprende fino ad assimilarci, se di fronte ad esso ci si adopera solo per salvare un mondo fatto di cose. La salvezza diviene, così, l’inizio di un nuovo “male”, perché la sofferenza non è stata compresa, perché la rabbia non è stata pensata, perché il carnefice non è stato guardato nella sua miseria, la quale ci appartiene. Nessun essere umano è esente dal pericolo di essere veicolo di violenza. Pertanto l’attenzione diretta verso le cose rende le vittime tragicamente limitrofe ai carnefici:
«Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare Te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo».[3]
Se l’attenzione si sposta, anche, sui fondamenti della vita umana. Se si vive in pienezza l’universale, non si è più fragili, ma più lucidi davanti all’avanzare del “male”, perché si ha la chiarezza che l’invisibile, il fondamento ultimo, non può essere sottratto a nessuno. La lotta diviene dialettica, la distanza tra il carnefice e la vittima abissale, la differenza etica vissuta è l’inizio della speranza:
«Una cosa è certa: dobbiamo accettare tutto dentro di noi, dobbiamo essere pronti a tutto e sapere che le “cose ultime” non possono esserci sottratte; allora, con quella pace interiore, sapremo ben compiere i passi necessari».[4]
Appartenenza e comunità L’universale non è astratto, ma è fatto di sangue e carne come il Dio che Etty ha «disseppellito». Il fondamento ultimo è partecipazione alla vita della propria comunità, fino all’ultimo, come nel caso di Etty. La comunità ci ha preceduti e ci accoglie, ne condividiamo la lingua come la storia, l’universale si svela e rivela nello scoprirsi come parte di un tutto. Il bene consiste nell’essere parte attiva di una totalità a cui non ci si nega, che non può essere dimenticata per inseguire un destino astrattamente individuale:
«Non è che io voglia partire a ogni costo, per una sorta di masochismo, o che desideri essere strappata via dal fondamento stesso della mia esistenza – ma dubito che mi sentirei bene se mi fosse risparmiato ciò che tanti devono invece subire. Mi si dice: una persona come te ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora tanto da dare».[5]
L’appartenenza fa trascendere i limiti cronologici delle vite, ci si oppone al male testimoniando il bene e per donare alle future generazioni un lascito etico che possa servire per indicare il cammino verso cui ci si deve orientare per congedarsi dalla violenza della storia:
«Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi. In qualche modo mi sento leggera, senz’alcuna amarezza e con tanta forza e amore. Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi nuovi: verranno di certo, non sento forse che stanno crescendo in me, ogni giorno?».[6]
Il marciume che debilita Per uscire dalla logica dell’inazione e dal pessimismo paralizzante, bisogna imparare a discernere: anche nell’ora più buia, in cui tutto appare senza uscita, continuano ad esserci spazi di speranza dai quali riprendere il cammino. Il pessimismo, ogni querulo comportamento, rafforza il “male”, favorisce il suo consolidarsi, per cui ai perpetuo lamentii è necessario opporre la capacità di giudicare il contesto storico che stiamo vivendo senza comodi semplicismi:
«Spesso mi viene da dire: c’è un gran marciume in quel posto. Ma oggi, d’un tratto, ho pensato: se dico sempre quella parola, marciume, esso finisce per propagarsi nell’atmosfera e non la rende certo migliore».[7]
Nella Storia, e nella nostra storia, possiamo renderci persone. Dobbiamo però abbandonare gli stereotipi di idealistica astratta uguaglianza, per imparare a diventare persone concrete. La concretezza esige, per dirla con Aristotele, il sinolo di particolare ed universale, la sostanza individuale, cioè l’oggetto concreto composto di materia e di forma. Solo in tal maniera la speranza ha il volto di una nuova storia, di un nuovo umanesimo che abbia il suo fondamento nell’anima umana. Ogni emancipazione non può che rivelare a ciascuno la propria condizione umana:
«Forse la vera, la sostanziale emancipazione femminile deve ancora cominciare. Non siamo ancora diventate vere persone, siamo donnicciole. Siamo legate e costrette da tradizioni secolari. Dobbiamo ancora nascere come persone, la donna ha questo grande compito davanti a sé».[8]
L’esperienza di Etty continua a parlarci, ha attraversato il «secolo breve» ed è giunta a noi. Diventare persone significa, anche, ascoltare le testimonianze della storia, continuare a dialogare con il presente come con il passato.
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