«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«La scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia; sarebbe perciò assurdo che l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente giudicare da una sola delle sue ideazioni […]».
Edmund Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaft und die transzendentale Phanomenologie (1934-1937, pubblicata nel 1954); tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1972, § 31, p. 147.
«La scienza naturale è una forma culturale che rientra soltanto nel mondo culturale di quell’umanità che l’ha elaborata e solo nel suo ambito esiste la possibilità di comprenderla. Rendersene conto apre la via alla possibilità di tematizzare l’unità universale di un’umanità […] che può essere tematizzata solo nell’unità della sua vita temporale, nell’unità di quella temporalità che costituisce la forma stessa di questa vita, e non per esempio nell’unità della temporalità della natura scientificamente esatta che, in virtù del suo stesso senso, costituisce il tempo identico di una natura assolutamente identica, al di là di tutte le nature di tutte le particolari umanità, e non il tempo relativo che inerisce per essenza a tutte le singole umanità che vivono e sono nella comunità, con tutti i loro passati e nel loro aperto futuro, che è sempre il futuro dell’uomo attuale, e che ha appunto un senso in quanto futuro delia sua umanità»
Edmund Husserl,La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Seconda dissertazione: “L’atteggiamento delle scienze naturali e l’atteggiamento delle scienze dello spirito. Naturalismo, dualismo e psicologia psicofisica”, il Saggiatore, Milano 1972, p. 325.
«L’economia, nonostante il suo aspetto mondano e voluttuario, è una scienza realmente morale, la più morale, delle scienze, perché ha come suo dogma la rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all’osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi ecc., tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto ciò che l’economia ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza; e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro. Esso può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con l’arte, con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto quanto; può tutto comprare: esso è il vero e proprio potere. Ma pur essendo tutto questo, non è in grado di produrre null’altro che se stesso, né di comprar nulla fuor che se stesso, perché tutto il resto è ormai suo schiavo. E se io ho il padrone ho anche il suo servo, e non ho bisogno del suo servo. Così tutte le passioni e tutte le attività devono ridursi all’avidità di denaro. Chi lavora può aver soltanto quanto basta per voler vivere; e può voler vivere soltanto per avere […]. Tutti i sensi fisici e spirituali sono stati sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti: dal senso dell’avere».
Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844; in Marx-Engels Opere Complete, Editori Riuniti, Roma 1980, vol. III, 1976, pp. 336-337.
«La vita ha bisogno della parola; se fosse sufficiente vivere, non si penserebbe, se si pensa è perché la vita ha bisogno della parola, della parola che sia il suo specchio, della parola che la rischiari, della parola che la potenzi, che la innalzi».
María Zambrano, A modo de autobiografia [1987], tr. it. Quasi un’autobiografia, in «aut aut», n° 279, maggio/giugno 1997, p. 125.
Il «bene morale» (das Gute), per Kant è l’unico vero bene.
Il «bene morale», non deve essere inteso come benessere (das Wohl).
«[…] il godimento che noi cerchiamo – in quest’ultimo caso non è un bene, bensì un benessere: non un concetto della ragione, bensì un concetto empirico d’un oggetto della sensazione. Solo l’uso del mezzo per questo scopo, cioè l’azione (dato che, per questo, occorre una riflessione della ragione) si dice tuttavia “buono”: ma non in senso assoluto, bensì soltanto relativamente alla nostra sensibilità, rispetto al suo sentimento di piacere o di dispiacere. Ma la volontà, la cui massima è sollecitata in quel modo, non è una volontà pura, indirizzata unicamente a ciò per cui la pura ragione può essere pratica per se stessa» (pp. 143-145).
«Il buono o il cattivo in sé si riferiscono, quindi, propriamente solo ad azioni, non allo stato della sensibilità individuale; e se qualcosa ha da essere – o da essere giudicato – buono o cattivo assolutamente (sotto tutti i rispetti, e senza ulteriori condizioni), solo il modo di agire, solo la massima della volontà, e, pertanto, la persona agente medesima, come uomo buono o cattivo, potrà venir chiamato così, ma non una cosa (pp. 139-141).
Immanuel Kant, Critica della ragion pratica [1788], traduzione di Vittorio Mathieu, Bompiani, Milano 2004.
Per approfondire
F. Gonnelli, Guida alla lettura della Critica della Ragion Pratica di Kant, Laterza, Bari 2004. L. Goldmann, Introduzione a Kant, Mondadori, Milano 1975. A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Bari 2002. I. Kant, Critica della Ragion Pura, Laterza, Bari 1966. I. Kant, Fondazione della Metafisica dei Costumi, Laterza, Bari 2003. I. Kant, La Metafisica dei Costumi, Laterza, Bari 1970.
«Le qualità o virtù alle quali alludiamo – nel senso anche della virtus latina, efficaci con forza e potere – sono l’esponente del più alto grado di civilizzazione, quelle che misurano il vero livello a cui la condizione umana è giunta.
Tale è la delicatezza.
La delicatezza è una virtù eminentemente sociale benché abbia un’estensione molto ampia e in essa vengano compresi diversi piani.
Ma quel che si scopre comune in ogni gamma della delicatezza come virtù è la sua capacità di saper trattare con altro, sia esso persona, esseri viventi o cose. E, come qualità, è un’estrema finezza che possiedono certi fiori o creature naturali e certi tessuti; quel che ci restituisce alla delicatezza come azione o come virtù sono la porcellana, i cristalli, certi oggetti fabbricati dalla mano dell’uomo.
[…] La delicatezza balza fuori là dove […] non la si aspetta e, talvolta, in luoghi che sembrano non poterla ospitare.
Ci viene incontro come un profumo leggero e penetrante nel mezzo di un vicolo sporco.
Perché la delicatezza si presenta senza quasi essere notata, come quei profumi che si avvertono poco e che in seguito restano a lungo a impregnare l’ambiente, e il cui ricordo è più vivo della loro presenza.
In effetti, la delicatezza, sia come qualità che come virtù, appartienea quella famiglia di esseri e cose la cui assenza è più intensa, più viva della presenza, sia perché se ne sente la mancanza, sia perché si ricorda.
A volte ci domandiamo in cosa consista il fenomeno, suscitato da un certo tipo di bellezza e di valore morale, il quale fa sì che, quando questi sono ormai passati, ci lascino, anche come sensazione, un’impressione più viva e più forte di quando la loro presenza era immediata.
Certi profumi, certe sfumature di colore in una rosa, certe tinte di un tramonto, certi sorrisi, certi profili, certe mani appena viste, certe silhouettes appena intraviste, certe parole dette con lievità, una musica appena differente dal brusio della brezza.
E, nell’ordine, morale certe insinuazioni che, lontano dall’essere finite nell’oblio, sono rimaste senza essere colte dalla nostra coscienza a causa della loro lievità o della loro morbidezza.
Questo non indica forse che la delicatezza è un frutto ultimo dello spirito umano e, proprio per questo, un frutto indelebile?
La delicatezza, veramente, là dove appare, è imperitura. Si manifesta già all’alba della cultura: vasi, diademi, bracciali, fermagli d’oro o d’altri metalli dell’Età dei metalli escono un giorno alla luce, risplendendo prima ancora che per la lucentezza dell’oro per pienezza della delicatezza con cui furono lavorati. E alcuni monumenti del Neolitico ci impauriscono, ci intimidiscono, perché uniscono il ritmo sottile e delicato alla maestà della prima architettura.
Non si può ottenere la delicatezza in azioni, in parole, in opere se non attraverso la coniugazione dell’udito, della vista e del tatto. Vengono alla mente di per sé metafore tali come quella di “una persona che ha tatto”, “d’udito fine”, «da vista acuta» e altre ancora.
L’udito è senza dubbio il senso primario, protagonista della delicatezza. Perché l’udito ci porta non solo brusii e suoni ma anche il senso dell’orientamento e dell’equilibrio.
E la delicatezza è un ultimo, sottilissimo equilibrio; a volte la delicatezza consiste nell’arrestarsi in tempo.
La vista dà la misura in senso proprio; il tatto, questa conoscenza immediata e diretta delle cose, apporta il fondamento materiale della delicatezza, così come la vista e l’udito la sua forma.
Ma con tutto quel che potremmo continuare a dire circa la delicatezza, il suo mistero resterà sempre affiorante.
Infine, si è sempre detto che la delicatezza è un segreto; un segreto come quello di alcuni giardini chiusi dai quali sale in alto solo il profumo».
María Zambrano (Dicembre 1965)
María Zambrano, Per l’amore e per la libertà. Scritti sullafilosofia e sull’educazione, Marietti, Bologna 2008
«.[…] Il cinema pensa. […] Tuttavia, se non disponiamo di una chiave di lettura […] per cogliere la densità sotterranea del film, quest’ultimo scorrerà via come un fluido su una superficie impermeabile […]. Avremo così perduto, nientemeno, l’occasione di incontrare una verità, spesso molto semplice quanto profonda, mostrata per via sensibile invece che concettuale. […] Si tratta di coglierne, precisamente come dice Hitchcock, la vicinanza con la vita, il suo non essere mero divertissement (anche quando ci diverte molto),la sua autenticità di riflessione visiva, di pensiero per immagini. Le forme del pensare sono custodite e tramandate, nella nostra tradizione, soprattutto (anche se, certamente, non solo) dalla filosofia. Quest’ultima, quando è autentica, non è (e non è mai stata) un esercizio privato di pochi “tecnici del pensiero”, un gergo impenetrabile e artificioso, una sequenza di idee autoreferenziali il cui unico scopo è parlare di filosofi ad altri filosofi o aspiranti tali. La filosofia è pensiero vivo che prova a darsi una forma e a mettersi in gioco, che s’immerge nella vita per esaminarla dall’interno, scovandone le contraddizioni e ammirandone la potenza assai più che giudicandola. Ora, che cosa più del cinema offre al pensiero l’esperienza condensata, aumentata e intensificata della vita, già mediata da un pensiero – quello degli autori – che però si affida a un complesso di immagini, suoni, parole, storie e sogni? […] Se si impara a leggere un film con gli “utensili” (concetti, ragionamenti, idee e persino teorie) della filosofia, si accede a un’esperienza più piena, più consapevole ed elevata […]. Acquisire questa capacità di lettura non è un esercizio esoterico, non è imparare una tecnica, ma può ben consistere nell’adottare un modo di fruire un film, una postura e uno sguardo filosofico che è accessibile a chiunque si dia un’occasione per farlo. È in tal senso che questo libro offre un metodo. Anzi, ne offre quattro. Quattro metodi filosofici per leggere i film […]. Lo spettatore di un film è investito da un flusso di sensazioni che colpiscono tutti i suoi sensi, a eccezione (finora) dell’olfatto […]. La vista, in primo luogo, […]. La filosofia, come suggerisce Andrea Tagliapietra nel saggio dedicato a questo metodo, nasce in un certo senso proprio come teoria dell’immagine (si pensi alla dottrina platonica delle idee), ante litteram rispetto al cinema stesso ma già pronta per esserne l’interprete fin dalle sue origini. […] Tuttavia, la vista ha, nella densità dell’immagine cinematografica, uno spessore quasi tattile. […]. Così, il tatto è in qualche modo, sia pure indiretto, coinvolto nell’esperienza cinematografica. Questo senso indaga, tasta, verifica, mette alla prova ciò che vediamo: […] il tatto pensa e argomenta, saggia le impressioni con i ragionamenti, non potendo realmente esercitarsi su quegli oggetti evanescenti. Questo atteggiamento, che mira a raccogliere le ragioni che sostengono l’immagine, corrisponde al secondo dei metodi qui esposti, quello che ho chiamato filosofia filmica. Un film può essere considerato come un testo argomentativo, cioè come un testo filosofico. […] Un altro senso fortemente coinvolto nell’esperienza cinematografica è l’udito, almeno dall’avvento del sonoro (ma non dimentichiamo che anche i film muti erano per lo più accompagnati da esecuzioni di musica dal vivo). A questo senso arrivano suoni e rumori, ma soprattutto parole. Il linguaggio verbale, che ovviamente non esaurisce affatto il linguaggio cinematografico, è per noi umani il veicolo più fondamentale della comunicazione. Le storie e i dialoghi, le battute fulminanti e i monologhi insistiti sono spesso ciò che ci rimane più a lungo dopo la visione di un film. Tuttavia, parole e dialoghi sono frequentemente l’occasione per mettere a tema qualcosa che parte dal film ma non si esaurisce in esso. In questi casi, si fa quella che abbiamo chiamato filosofia con il cinema. […] Infine, vi è un modo di leggere i film che in un certo senso chiama in causa il gusto. Le sensazioni più persistenti sono quelle più elaborate e il gusto è un luogo primario di questa elaborazione: una percezione di guSto richiede tempo, raffinatezza ed è spesso l’eco di una memoria (la madeleine di Proust) o di una tradizione […]. Questo libro si presenta come un manuale, cioè intende fornire gli elementi essenziali di una “disciplina”: […] una disciplina richiede esercizio, non solo teoria […]. Questo esercizio è fondamentale per acquisire la capacità di leggere filosoficamente un film».
Roberto Mordacci (a cura di), Come fare filosofia con i film, Carocci editore, Roma 2017, pp. 11-17.
Contributi di
Andrea Tagliapietra, Roberto Mordacci, Claudia Bianchi, Luca Pes, Maria Russo, Raffaele Ariano, Francesco Valagussa, Antonio Moretti.
«[… che sia] necessario che colui che meriterà effettivamente [ciò che precedentemente abbiamo chiamato “bellezza e perfezione morale”] questa denominazione debba possedere le virtù particolari è evidente. […] L’essere virtuoso, e l’essere bello e moralmente perfetto differiscono non solo nel nome, ma anche nella sostanza. Tra tutti i beni, infatti, quelli scelti in vista di se stessi sono fini. Tra questi, poi, sono belli tutti quelli che sono degni di lode. Infatti questi sono quelli da cui derivano azioni che sono degne di lode ed essi stessi sono degni di lode».
Aristotele, Etica Eudemia, Libro VIII, 1248 b 10-20, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 386-387.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
«Moralmente bello […] significa fare il bene senza mirare al contraccambio, mentre utile è ricevere del bene».
Aristotele, Etica Nicomachea,1162 a 36 – 1163 a 1.
«L’uomo moralmente retto, inoltre, è vero che egli compie molte cose per gli amici e la patria, anche se dovesse morire per loro: sacrificherà ricchezze, onori, e in generale i beni che sono oggetto di contesa, riservando per sé il bello morale. Infatti preferirà provare un piacesere sublime per poco tempo, piuttosto che un piacesere debole per molto tempo, e vivere bene un solo anno, piuttosto che tanti anni così come capita, e compiere una sola azione bella e grande, piuttosto che molte e piccole. Questo capita, certamente, a coloro che sacrificano la propria vita per un ideale e quindi scelgono per sé un agire grande e bello. E potrebbero dar via la loro ricchezza, qualora da ciò derivi un guadagno anche maggiore per gli amici. In questo modo, infatti, l’amico verrebbe ad acquisire ricchezza, ma lui otterrebbe il bello morale; e così si attribuirebbe il bene più grande. Lo stesso vale per gli onori e per le cariche. […] Giustamente, quindi, costui viene giudicato un individuo moralmente retto, in quanto antepone il bello a tutto il resto».
Aristotele, Etica Nicomachea,1169 a 18-32.
Aristotele, Etica Nicomachea, Libro II, 1106 a – 1107 a 9, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 832-833, pp. 868-869.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
«La parola abita le aule di scuola. Ecco la scelta di mettere al centro le parole. Perché possono essere forti senza essere violente, possono trasformare il mondo, possono ricostituire la fiducia e la giustizia, e mettono in gioco la volontà e l’intelligenza delle donne e degli uomini».
Mariapia Veladiano
«La competizione fa malissimo alla salute della scuola, se è quella che comunemente pensiamo, e cioè l’arte coltivata di voler arrivare primi. Uno su mille ce la fa. Vinca il migliore. Sembra cosa giusta ma non lo è. Competere viene dal latino cum (con, insieme) e pètere (andare verso), ovvero andare insieme verso uno stesso punto. Il contrario della corsa solitaria immaginata dall’ enfatizzazione del voto, del premio, dell’eccellenza intesa come una posizione che lascia il mondo ai lati o meglio ancora alle spalle. L‘apprendimento è sempre cooperativo e solo una scuola che non riflette su sé stessa può davvero enfatizzare la competizione e poi nello stesso tempo organizzare corsi di apprendimento cooperativo e peer to peer. Potrebbe essere “solo” una questione etica ma è anche una verità esistenziale, pedagogica e didattica. Andare insieme vuoI dire non lasciare indietro, andare più lontano» (p. 39).
«Il più potente mito di legittimazione delle diseguaglianze è la meritocrazia. Un mito pericolosissimo perché rende acquiescenti i poveri, persuasi che ognuno abbia quel che si merita […]. Meritocrazia non è una parola di scuola» (p. 44).
«La costruzione dell’equità è irrinunciabile. La scuola deve denunciare ogni attentato alla sua missione di essere luogo delle opportunità per tutti» (p. 79).
«Ancora una volta torna la metafora del coltivare, come per il giardino di parole. Con un tocco di realismo in più per l’orto. Perché richiama la necessità del tempo lungo: non si coltiva niente da un giorno all’altro, servono le stagioni. E la necessità della cura individuale» (p. 108).
Mariapia Veladiano, Parole di scuola, Guanda, Guanda, Milano 2019.
Risvolto di copertina
Mariapia Veladiano, dopo più di vent’anni nella scuola, prima come insegnante e poi come preside, la conosce bene, la scuola. Conosce i ragazzi, l’energia che corre tra i banchi, le adolescenze fatte di paura e desiderio, il futuro che promette, e insieme minaccia. E conosce bene i professori, il loro lavorare in condizioni sempre più difficili, il fare i conti con una professione che ha perso prestigio e riconoscimento, il sopperire all’impietosità dei tagli ministeriali con le risorse (non solo di spirito) personali. Conosce le parole della scuola – paura, entusiasmo, vergogna, condivisione, integrazione, esclusione, empatia, identità, equità – e il suono che fanno tra i banchi, dove la vita è più urgente che altrove, dove la vita stessa sta più che altrove. Perché in aula si imparano le parole giuste per capire se stessi, gli altri, il mondo. E la vita.
Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune.
Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
Dobbiamo esser grati alla casa editrice petit plaisance per aver riportato alla luce Lo stolto, specialissimo libro del grecista Diego Lanza, da tempo assente dalle nostre librerie, che ora rivive in una nuova veste, infiocchettato in testa e in coda da due testi esemplari di Massimo Stella e Gherardo Ugolini. Scomparso nel 2018, in questo saggio del 1997 Lanza mostra tutto il rigore del grande classicista, che con fare ardito e mosso da inesausta curiosità conoscitiva varca ogni orto disciplinare per inoltrarsi nell’inestricabile selva dei mille “stolti”, veri o fantastici, che nel corso dei secoli hanno messo a soqquadro il senso comune. Ecco così comparire Bertoldo, Arlecchino, Pinocchio e il brutto anatroccolo, ma anche, e direi soprattutto, Socrate. Proprio lui: il padre del pensiero filosofico occidentale. Non è però è il Socrate addomesticato di certe «riletture liberali» che lo presentano quale «prototipo di civile confronto». Al contrario, qui si rivela «sempre aggressivamente incalzante, non lascia spazio al dissenso: gli interlocutori o sono costretti a contraddire le loro stesse affermazioni oppure finiscono isolati nella loro ridicola presupponenza». Il «sapere di non sapere» di quest’uomo brutto e trascurato, che ama bere e ha i tratti del satiro, incarna la mina vagante di ogni ratio pacificata. La compenetrazione profonda di clownerie e pensiero abissale è per lui una costante, e il demoniaco che lo anima dimostra come il principium sapientiae abbia assoluto bisogno del principium stultitiae.
Ce lo rammenta con chiarezza l’ultima pagina del saggio: «La risata, che si accompagnava alla stultitia, la risata dello stolto e sullo stolto, poté apparire per molto tempo segno di pluralità pericolose per l’identità della ragione». E tuttavia «il conflitto di ragione e sragione era il segno della loro reciproca complementarietà, del perenne rigenerarsi della ragione da quel che essa avvertiva altro da sé». Il problema, semmai, subentrerà dopo, nel nostro più puerile presente: «Sotto la luccicante policromia del pluralismo postmodemo, sotto il futile moltiplicarsi delle sue ragionevoli irragionevolezze, pare invece consumarsi una più potente omologazione, segnata dall’irrevocabile scomparsa di ogni efficace stultitia». E lo stolto eversivo e drop-out lascerà spazio allo stupido di massa, «che sembra guidare il riso dei suoi simili», mentre ne è soltanto lo specchio fedele.
Franco Marcoaldi, Da Arlecchino a Bertoldo ode agli stolti, «Robinson Libri», la Repubblica, 11-07-2020, p. 12
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Franco Marcoaldi…
A mosca cieca, Einaudi 1992
Voci rubate, Einaudi, 1993
Celibi al limbo, Einaudi, 1995
Un poemetto che, in tono malinconico, ironico, apparentemente svagato e minimalista, intende toccare invece i grandi temi dell’uomo contemporaneo. Fra intimismo e riflessione filosofica.
Il vergine, Bompiani, 1998
L’isola celeste, Einaudi 2000
La raccolta poetica prosegue, da un lato, la congiunzione tra ordinario e straordinario, tra alto e basso, tra quotidianità e letteratura, già percorsa dall’autore; dall’altro, la visione poetica si fa sempre più ampia e profonda. Anche il linguaggio si pone come una ripresa e al contempo come un superamento di quello già sperimentato: rimangono la leggerezza melodica, la felicità narrativa, il folgorante lavoro su rime e ritmi, la convivenza tra lingua parlata e lingua poetica, ma qui il poeta ha compiuto un ulteriore lavoro in direzione della cantabilità, di un perfetto amalgama tra ironia ed emozioni.
Patanella dreams, con Giosetta Fioroni, Lubrina-Leb 2001
Teatro di pietra. Carlo Leidi e i calvaires bretoni, Lubrina-Leb 2002
Benjaminowo: padre e figlio, Bompiani, 2004
Ritrovandone i diari, un uomo inizia un dialogo con il passato del padre. Rileggendo il racconto della resa dell’8 settembre, della deportazione in un campo di concentramento, il figlio risponde, dal presente, alla memoria del padre, riscoprendone i ricordi e, con essi, la propria infanzia. Mentre i diari rievocano la paura e le privazioni del campo, fino alla liberazione da parte delle forze alleate e al ritorno a casa, il figlio ricostruisce i tasselli dell’identità del padre e, di conseguenza, della propria, in un percorso di formazione alla fine del quale potrà pronunciare, insieme al diario, “dalle rovine si nasce”, un verso corale che esprime la forza del rinnovato legame con il padre.
Gaetano Cipolla. Carte a proposito di Seneca, Lubrina-Leb, 2005
Animali in versi, Einaudi 2006
Franco Marcoaldi evoca la tradizione esopiana e dei bestiari medievali, che sapevano cogliere negli animali i segni di verità spirituali e insegnamenti morali, e le prove novecentesche di Apollinaire e Marianne Moore. Costruisce un bestiario in versi in cui compaiono cani e gatti, ma anche fringuelli, lucertole, cicale e tanti altri esseri viventi che, a differenza degli uomini, vivono un’esistenza piena e sapiente.
Il tempo ormai breve, Einaudi 2008
Al centro della nuova raccolta di Franco Marcoaldi non ci sono piú gli animali e il loro modo istintivo di capire l’universo. C’è il tempo, in tutte le sue sfaccettature: quello da vivere, sempre piú corto man mano che gli anni passano; quello delle discussioni dei filosofi, a partire da Agostino; quello frenetico dei commerci quotidiani, che non consente né pause di riflessione né quei vuoti, quelle assenze che permettono di cogliere il respiro pieno di ciò che sta intorno a noi e di cui facciamo parte.
Grazianio Gregori. Ecce Homo. Bassorilievi e sculture, con Daniele Abbado, Lubrina-Leb 2009
Sconcerto, Bompiani, 2010
La recita sociale, il consumismo compulsivo, le morti sul lavoro, la sete di potere della classe dirigente, gli oscuri meccanismi della finanza, l’immigrazione, una lingua sempre più astratta e irrelata… Com’è possibile orientarsi in un mondo così confuso? Dov’è il senso? Da queste domande è travolto un direttore d’orchestra, che quasi dimentica di dirigere i suoi strumentisti. Fra pause, dubbi, incertezze, interrogativi enormi e piccole verità, il musicista riscopre come proprio la musica possa essere il mezzo per passare dal caos al cosmo, per ritornare al cuore semplice della vita. Dall’incontro eccezionale di tre artisti, un libro che è anche uno spettacolo teatrale diretto e interpretato da Toni Servillo con l’Orchestra del Teatro San Carlo, musica di Giorgio Battistelli, testo di Marcoaldi.
Baldo. I cani ci guardano, Einaudi, 2011
Baldo è un cane tra gli altri, che attende il suo padrone. Ed ecco che in una frizzante mattina di settembre arrivano Uomo e Donna. E lo scelgono. E una scelta affidata al caso, frettolosa e superficiale, eppure in ballo c’è un’intera vita da trascorrere insieme. Così Baldo inizia a fare esperienza del mondo umano, pieno di ossessioni e di meccanismi astrusi e lambiccati. Poco alla volta comprende che gli uomini sono prigionieri di catene invisibili che li riportano sempre al punto di partenza. La dimensione da cui ci osserva, con occhio ironico e compassionevole, è quella di un presente assoluto, dei piccoli gesti che si ripetono, delle meravigliose scoperte legate alla semplicità dei sensi. Ma nella naturale accettazione del mondo per come è si nascondono considerazioni venate di profonda e involontaria saggezza che Baldo suggerisce al padrone, Uomo, invitandolo a disfarsi degli inutili fantasmi che accompagnano le sue giornate. Col passare degli anni, la speciale sintonia che li unisce produce un desiderio di sconfinamento l’uno nell’altro, un rapporto privilegiato, fatto di silenzi e dialoghi che si affidano all’ambiguo “gioco degli occhi”, e che si realizza in uno spazio nuovo, a mezza via: quello della “felice confusione tra specie diverse”.
La trappola, Einaudi, 2012
“Compattezza tematica, potenza e duttilità della metafora, ritmo e sonorità a scatti, con accelerazioni e rallentamenti, ribattute e controtempi. Le caratteristiche tipiche della poesia di Marcoaldi risultano potenziate al massimo in questa sua nuova raccolta in cui la tradizione poetica europea si sposa con l’influenza della sapienza orientale e delle sue forme. Le trappole della vita sono ovunque, nelle leggi della natura, nella politica e anche nell’economia, che oggi più che mai domina il mondo. Ma sono soprattutto dentro la mente degli uomini. Hanno la forma di regole, meccanismi, abitudini, falsi obiettivi che provocano angoscia e allontanano dalle gioie più autentiche. Quasi componendo una piccola guida dei perplessi, i versi di questo libro smontano l’insieme degli artifici sociali con interrogazioni continue, epigrammi sospesi nel silenzio a catturare frammenti di energia da cui ripartire.”
Il mondo sia lodato, Einaudi, 2015
Soltanto un poeta poteva compiere oggi l’azzardo di una lode del mondo, basata sull’immaginazione e sulla sensibilità. Tornando alla forma già sperimentata del poemetto, Franco Marcoaldi sviluppa un flusso verbale dal ritmo incalzante che orchestra i temi della vita quotidiana e dello spirito in un rimando continuo dall’universo naturale al mondo storico, dall’autobiografia alla letteratura in una libera e viva scorribanda nei territori del pensiero analogico. All’apparenza “II mondo sia lodato” è una preghiera laica di intonazione francescana sulla bellezza e la meraviglia del creato. In realtà Marcoaldi loda il mondo nonostante gli infiniti turbamenti in cui incorre chi lo abita, e proprio quel nonostante è l’anima nascosta del libro. Nel suo procedere, il poemetto attraversa l’amarezza delle cose umane nella loro vicissitudine di violenza, malattia, depressione, morte, ma incontra anche il demone erotico, e con esso il sogno, la fantasia, e i libri e le figure del passato che illuminano il presente. Se l’invocazione di lode resiste come un mantra è per lo sforzo generoso di una pietas consapevole e di un’attenzione costante alle pieghe infinite e alle corrispondenze sotterranee dell’esistenza. Così il poemetto che loda il mondo si fa mondo, e convoca in coro altre voci, altri poeti, altri pensatori, in una ridda di rimandi e citazioni che immancabilmente si accordano nell’antifona ricorrente: “Mondo, ti devo lodare”. Espressione di umiltà e gratitudine nei confronti della vita.
Vincitore Premio Internazionale Capalbio 2016 – Sezione Poesia
Di bestie e animali, con Ferdinandio Scianna, Contrasto, 2017
Tutto qui, Einaudi, 2017
Dopo l’importante punto di arrivo raggiunto col poemetto Il mondo sia lodato, la nuova raccolta di Franco Marcoaldi prosegue nel percorso interiore dell’autore tra ricerca sapienziale e piccoli gesti salvifici, mentre il mondo esterno sembra sempre piú dominato dalla brutalità. Il libro si apre con una scena di “perdita di tempo”: l’imbucarsi in un cinema semivuoto per vedere un vecchio film, «due ore | rubate al lavoro, una sposa tradita». Il tema del perdere tempo, ripreso in altre poesie («Perdo il mio tempo guardando | il gatto che fissa l’infinito | come nessuno di noi saprebbe fare?»), è uno dei fili conduttori della raccolta: perdere tempo per trovare se stessi, lasciar cadere le maschere, far tacere i tamburi del narcisismo quotidiano, conquistare uno spazio di silenzio. Questo tipo di esercizi zen richiede prima di tutto professione di umiltà. Ai potenti, agli arroganti, ai troppo sicuri è preclusa qualsiasi via che porti a un momento di autenticità. Umiltà e arroganza però possono presentarsi fuse insieme, e dunque: «Come tenere a bada quella metà | avariata di me stesso che reclama | di continuo voce e combina | di continuo danni?» Quest’ultimo di Marcoaldi è un libro di “esercizi spirituali” per laici, un prezioso breviario per attraversare i dissidi interiori alla ricerca di una piú umana armonia con la natura.
Una certa idea di letteratura. Dieci scrittori per amici, Donzelli, 2018
Nella pericolosa confusione dei nostri giorni, non sarà proprio la letteratura a offrirci la lingua per una nuova, possibile amicizia tra gli uomini? Se oggi la vita interiore di ogni singola creatura è minacciata come mai prima nella sua potenzialità espressiva, la letteratura ne rivendica la costitutiva irriducibilità davanti a ogni imposizione, ogni norma preconfezionata. Il poeta Franco Marcoaldi elegge a numi tutelari di un letterario viaggio dell’anima dieci grandi figure del Novecento: Svevo, Zanzotto, Musil, Szymborska, Canetti, Caproni, Brodskij, Hrabal, Unamuno, Meneghello. Con ciascuno di loro intrattiene un dialogo stretto, serrato; a volte reale, concreto, diretto; altre volte fantastico, maturato soltanto attraverso la pagina scritta. In quegli amici e maestri ritrova le medesime questioni che angustiano la sua esistenza e ricerca: lo scarto incomponibile tra sentimento e ragione; l’inafferrabilità angosciosa del tempo; il mistero invadente della sessualità; il rovesciamento ironico come strategia di difesa; la dialettica potere-libertà; l’enigma del mondo animale; l’inesausta ricerca di un senso anche là dove non si riesca a rintracciarlo. I dieci autori prescelti sono quanto mai diversi tra loro, e tuttavia Marcoaldi riesce a raccoglierli idealmente nell’ascolto delle stesse, imprescindibili domande. Bene lo si intuisce nelle pagine finali del libro, dedicate a Luigi Meneghello. Se sbirciamo nella sua specialissima «bottega», lo troveremo intento a lavorare da solo al tornio delle parole, per compiere il suo piccolo «capolavoro». E lì che lo scrittore, ogni scrittore, incontra una fatica che a volte si converte in sconforto. Eppure non può smettere, perché ubbidisce all’urgenza di cogliere la vitrea sostanza che sta dietro alle cose del mondo. E per perseguire tale risultato ha bisogno tanto della propria caparbia convinzione, quanto di un costante e nutriente scambio con l’esterno. Nasce così quella «certa idea di letteratura» come amicizia, come condivisione di esperienze, che l’autore ci propone in queste pagine preziose.
Il padre, la madre, con Marilù Eustachio, Le farfalle, 2019
«In modo mirabile questo specialissimo libro rinverdisce l’antico detto “ut pictura, poesis” – che sta all’inizio dell'”affair” tra pittura e poesia. La nostra tradizione crede nella relazione tra le arti sorelle e seguendo tale fede nei secoli i pittori si sono ispirati a motivi letterari per le loro composizioni; mentre i poeti hanno cercato di evocare immagini a cui soltanto le arti plastiche potevano rendere giustizia. L'”affair” si ripete tra i versi di Franco Marcoaldi e i segni di Marilù Eustachio». (Dal risvolto di copertina di Nadia Fusini).
Amore con Amore. Cento poesie, La nave di Teseo, 2019
In cento poesie, per buona parte inedite, Franco Marcoaldi indaga questa fantasmatica e concretissima passione universale affidandosi a una tastiera dai toni e timbri i più diversi: tenerezza incantata e accensioni sanguigne, impeto romantico e un’ironia beffarda che a volte sconfina nel sarcasmo. Una divinità capricciosa e imprevedibile governa le nostre esistenze. Si chiama Amore ed è capace di farci perdere la testa per un’altra creatura in un crescendo di febbrile erotismo e impagabili dolcezze. Ma quella stessa divinità, grazie alla sua multiforme e inafferrabile natura, può prendere anche direzioni diverse. Spingendoci a stravedere per un animale, a dialogare con i morti, a esprimere piena gratitudine verso il regno del vivente. Quando invece prevale il lato d’ombra dell’Amore, quell’incontenibile slancio si converte all’improvviso in chiusura, noia, insofferenza, feroce sete distruttiva. Franco Marcoaldi riprende qui il filo di un suo fortunato canzoniere di vent’anni fa. E in cento poesie, per buona parte inedite, indaga questa fantasmatica e concretissima passione universale affidandosi a una tastiera dai toni e timbri i più diversi: tenerezza incantata e accensioni sanguigne, impeto romantico e un’ironia beffarda che a volte sconfina nel sarcasmo. Perché Amore convive sempre con il suo contrario.
Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune.
Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
ISBN 978-88-7588-255-6, 2020, pp. 448, , Euro 35 – Collana “Il giogo” [118].
Socrate, Till Eulenspiegel, Pinocchio, ma anche Solone, Bruto, i profeti di Israele, Bertoldo, Giufà, i «santi folli» di Bisanzio … Sono innumerevoli i personaggi che trasgrediscono il senso comune; figure spesso ridicole, ma portatrici tutte di verità inquietanti di cui la ragione dominante diffida, delle quali tuttavia non può fare a meno. Ciò che si mantiene nella fiaba, nel romanzo, nella letteratura filosofica e religiosa non è tanto la fisionomia dell’insensatezza quanto il suo rapporto conflittuale di esclusione/complementarietà con la ragione, con il sistema dei valori etici e affettivi accettati come fondamentale norma di convivenza. Lo stolto e la stoltezza non costituiscono un elemento chiaramente definibile e persistente della tradizione culturale europea, un topos, ma piuttosto un’incognita alla quale ogni volta si attribuisce ciò che disturba il senso comune. È il senso comune, cioè la razionalità riconosciuta da ciascun assetto sociale come sua propria, che stabilisce quel che deve apparire ripugnante, ridicolo, riprovevole. La figura dello stolto e l’immagine della stoltezza mutano perciò a misura dei cambiamenti del senso comune e della razionalità che le definiscono, serbando tuttavia, di mutamento in mutamento, importanti tratti del passato. Il viaggio intrapreso alla riscoperta delle molte e molto differenti raffigurazioni dello stolto conduce a interrogarci sul difficile ma tenace equilibrio che governa il gioco tra verità e riso, scherzo e ragione.
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