«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Un viaggio sarà incompiuto se tu ti fermerai a metà strada, o prima d’aver raggiunto il luogo stabilito; la vita, invece, non sarà incompiuta, se è virtuosa: dovunque tu la concluda, se la conduci bene, è completa».
Il medico si è dato pensiero più di quanto sia necessario a un medico: si è preoccupato non per la sua reputazione di medico ma per me; non gli è bastato di indicarmi i rimedi ma me li ha anche applicati; è stato tra quelli che si sono mostrati solleciti con me, è accorso nei momenti critici; nessun servizio gli è stato di peso o lo ha infastidito; non senza timore ha sentito i miei lamenti […]: verso costui io sono in debito non come con un medico, ma come con un amico.
Lucio Anneo Seneca, De benejiciis: Moral Essays, voI. 3, a cura di J.W. Basore, Heinemann, London-NewYork 1935.
«Dicono certi medici e filosofi che non sarebbe in grado di conoscere la medicina chi non sapesse ‘che cosa è l’uomo’, e che questo appunto deve apprendere chi desidera curare correttamente gli uomini. Ma il loro discorso ricade nella filosofia, come appunto quello di Empedocle e di altri, che hano scritto ‘sulla natura’, descrivendo ‘dal principio’ ciò che è l’uomo e come in origine è apparso e di quali elementi è formato» (trad. di Mario Vegetti, in Id., Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, p. 36).
Ippocrate, De vetere medicina [Περὶ Ἀρχαίας Ἰατρικῆς], 20: HIPPOCRATES, vol. I, a cura di W.H.S. Jones, Harvard University Press, Cambridge, MA-London 1957, p. 52.
Nella primavera del 1926 ero molto agitato. Lasciai Berlino prima che il Potëmkin uscisse sugli schermi in Germania, il primo tra i paesi esteri in cui sarebbe stato proiettato. Alla vigilia della mia partenza avevo avuto una discussione con gli inesperti distributori del film circa la tesi fondamentale della pubblicità che avrebbe accompagnato l’uscita del film. Avevo insistito perché comparisse ovunque la dicitura «Un film senza stelle». I distributori, però, temevano che essa avrebbe avuto un effetto disastroso sugli incassi. In un secondo momento, avrebbero addirittura indicato nei titoli la partecipazione di … attori dello MChAT di Mosca. Ebbi ragione io: il giorno successivo all’uscita sugli schermi, fiumi di recensioni positive scorrevano proprio nel segno di un «film senza stelle». Ricordo ora questo episodio perché l’assenza di stelle fu uno dei motivi per cui in questo film l’attenzione si rivolse naturalmente agli innumerevoli problemi cinematografici che di solito, nelle altre produzioni, rimanevano inevitabilmente in ombra, offuscati dal fulgore stellare dei protagonisti. Il film gettò uno sguardo «al di là delle stelle», oltre i confini della volta celeste del cinema dentro cui ruotavano, in sostanza, tutti i problemi dell’estetica cinematografica. Mi sentivo un monaco, un seguace di Nicola Cusano così come è raffigurato in un’incisione del XVI secolo: sporgendo la testa curiosa oltre i limiti della volta celeste, egli si affaccia su altri mondi. Negli articoli che seguono ho raccolto alcuni dei problemi cinematografici che si trovano «al di là delle stelle». E come frontespizio per questi materiali ho scelto l’immagine del monaco curioso: ci sta troppo bene!
Sergej M. Ėjzenštejn, Il metodo, I, a cura di A. Cervini e M. Meringolo, Marsilio, Venezia 2020, pp. 3-4.
Alessia Cervini
Con gli occhi di Ėjzenštejn
[…] la ricerca vygotskijana sul discorso interiore […] sembra indicare a Ėjzenštejn la chiave attraverso cui tentare almeno di dare una risposta ai problemi fondamentali dell’arte e del suo funzionamento. A differenza di «altri ambiti ad essa vicini, simili, analoghi e somiglianti, nei quali pure si verificano fenomeni propri delle forme primordiali del pensiero», infatti, «la dialettica dell’opera d’arte si fonda su una curiosissima “bi-unità”. L’efficacia dell’opera d’arte si costruisce sul fatto che in essa avviene contemporaneamente un duplice processo: un’impetuosa ascensione progressiva verso i gradini più alti delle idee e della coscienza, e contemporaneamente la penetrazione, attraverso la struttura della forma, negli strati del pensiero sensibile più profondo». Solo tramite la straordinaria tensione fra queste due tendenze opposte si può dunque ottenere l’unità della forma e del contenuto che ogni vera opera d’arte deve realizzare.
[…] Naturalmente, però, Ėjzenštejn comprende benissimo il carattere problematico delle sue posizioni e forse per questo riconosce in una certa dedinazione leniniana della dialettica, intesa come «studio dell’unità degli opposti», il presupposto teorico a fondamento del «metodo» che intende costruire. Ma è soprattutto grazie al richiamo insistito a Engels, e in particolare alla sua Dialettica della natura, che il metodo di cui stiamo parlando diviene lo strumento per scrivere, a partire dalla comprensione del funzionamento della singola opera d’arte, non solo una più generale storia delle arti, ma anche una storia naturale delle forme viventi. Si tratta infatti dell’opera in cui Engels mette alla prova la possibilità di considerare la dialettica come la struttura che informa materialisticamente non solo l’andamento della storia e dell ‘economia, ma anche quello della natura. Per Ėjzenštejn, essa diviene il punto di partenza per la costruzione di una vera e propria Weltanschauung, di cui Il metodo porta senz’altro la traccia più significativa.
[…] Il metodo (dialettico) è dunque il titanico sforzo teorico a cui Ėjzenštejn affida il progetto di ricomposizione di ciascuna delle polarità con cui gli capita di scontrarsi, nel corso di una riflessione che accompagna costantemente la pratica artistica, da quella teatrale a quella cinematografica […]. Il metodo regala al suo lettore il ritratto prezioso di un mondo: quello personale, artistico e teorico di Ėjzenštejn (ripercorso, scandagliato, ossessivamente messo in discussione); e insieme quello di un’intera epoca, passata, eppure sorprendente mente vicina. Con gli occhi di Ėjzenštejn leggiamo il presente e non smettiamo di stupirci del fatto che, sebbene qualcosa sia scomparso, qualcos’altro pervicacemente resista […].
Alessia Cervini, Con gli occhi di Ėjzenštejn, in: Sergej M. Ėjzenštejn, Il metodo, I, a cura di A. Cervini e M. Meringolo, Marsilio, Venezia 2020, pp. IX-XXX.
Risvolto di copertina Il metodo è l’ultima opera teorica di Sergej M. Ejzenštejn, lasciata incompiuta alla sua morte (1948). In queste pagine il regista riattraversa molti dei temi della sua riflessione, allo scopo di sciogliere i nodi teorici di una ricerca che accompagna costantemente la pratica artistica, da quella teatrale a quella cinematografica, senza dimenticare il disegno. Il risultato è un lavoro concepito per chiarire in via definitiva «il problema fondamentale» dell’arte: quello che, nella fattispecie, contiene il segreto del suo funzionamento o, per essere più precisi, della sua «efficacia». La messa a punto di un vero e proprio «metodo» consente a Ejzenštejn di svelare i meccanismi che regolano la vita di un’opera d’arte, dal momento in cui viene ideata fino a quello in cui entra in relazione con il suo spettatore. La tesi che si delinea è tanto chiara, quanto radicale: la forma di pensiero attivata dall’arte e dai suoi prodotti corrisponde, per struttura e funzionamento, a quella del pensiero primitivo. Il «metodo» di cui stiamo parlando diviene così uno strumento prezioso per scrivere, a partire dalla comprensione di una singola opera, non solo una più generale storia delle arti, ma anche una storia naturale delle forme viventi.
ZENONE E PLATONE: DUE DIALETTICHE A CONFRONTO Da una realtà aporetica a una realtà unimolteplice
«L’uno è molti e infiniti e i molti sono uno». Filebo 15E3-4
In questo contributo si intende delineare un quadro comparativo della dialettica così come intesa da Zenone di Elea e poi inverata e, allo stesso tempo, superata da Platone. A questo fine ci muoveremo su tre fronti:
la delineazione dei tratti essenziali della dialettica di Zenone;
il giudizio platonico sulla dialettica di Zenone, ricavabile dall’incipit del Parmenide;
la presentazione della dialettica di Platone come superamento e inveramento di quella zenoniana.
Una premessa terminogica
Prima di entrare nel vivo del confronto tra Zenone e Platone è necessaria però una breve premessa, perché il termine dialettica ha assunto, nel corso della storia della filosofia, una pluralità di sensi e di accezioni che è bene distinguere. Essenzialmente incontriamo tre figure di dialettica:
intesa come filosofia, cioè come uno strumento che svela la natura di una realtà che è essa stessa dialettica, nella quale positivo e negativo convivono;
come dialogica, cioè come tecnica della discussione;
come tecnica di confutazione.
[…]
La concezione zenoniana della dialettica risulta conservata e innovata dalla dialettica platonica: risulta conservato infatti il processo di innalzamento, per cui dalla contraddizione delle conseguenze si traggono risultati che concernono le premesse (nel caso del paradosso della freccia abbiamo visto come la conclusione contraddittoria permette di invalidare la premessa), ma in un senso nuovo. L’analisi dialettica, svelando la complessità dei nessi che costituiscono il reale, ci costringe a cercare la chiave per capire la non contraddittorietà della struttura apparentemente aporetica e ci indica il cammino per superare la contraddizione tramite un trascendimento ontologico. Il fatto di risalire a una dimensione filosoficamente più alta, però, non dissolve l’aporia ma, lasciandola essere tale al suo livello, consente di inquadrarla in una visione coerente e vera del reale: un qualsiasi essere umano, in sé considerato, è realmente e irriducibilmente uno e molti.
Questo richiede una visione estremamente articolata del reale, una visione multifocale, e un metodo che sia, per sua natura, adeguato alla comprensione di una realtà uni-molteplice, ma implica anche la consapevolezza che è impossibile trovarsi di fronte a un modello unico di descrizione del reale: infatti nella dialettica platonica c’è la movenza dell’unificazione, della risalita ai principi (quindi della sintesi), ma c’è anche il senso dell’irriducibilità del reale: l’infinito è irriducibile e resta in perenne conflitto con il limite, come ci ricorda il Filebo:
«SOCRATE: Dunque, poiché le cose sono così ordinate, bisogna che cerchiamo di porre in ciascuna situazione sempre un ‘unica Idea per ogni cosa: infatti, noi ve la troveremo insita; se dunque l’abbiamo individuata, dobbiamo esaminare se dopo una ve ne siano due, se no tre o qualche altro numero, e, di nuovo, allo stesso modo per ciascuna di quelle, fino a che non si vede dell’uno posto all’inizio non solo che è uno, molti e infiniti, ma anche quanti è; l’Idea dell’ illimitato non bisogna attribuirla alla molteplicità, prima di averne individuato il numero totale, mediano tra l’infinito e l’uno, e solo allora lasciare che ciascuna unità di tutte le cose vada nell’illimitato» (16C7-E2).
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Sommario
Una premessa terminologica La dialettica din Zenone I molti simili e dissimili e il paradosso della freccia Il confronto tra Zenone e Platone: il Parmenide La dialettica platonica come superamento e invermento di quella di Zenone Il nesso tutto-parte I nessi tra le Idee: il Sofista Considerazioni conclusive
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Lucia Palpacelli…
L’Eutidemo di Platone. Una commedia straordinariamente seria, Vita e Pensiero, 2009
L’analisi di Lucia Palpacelli affronta in modo nuovo il testo, rifiutando la tradizionale lettura ‘panironica’, che consente di aggirare le tante ‘stranezze’ del dialogo interpretandole come giochi ironici, in ultima istanza poco comprensibili. Al contrario, l’autrice mostra come il dialogo rifletta il pensiero platonico e si riveli un’opera molto significativa all’interno del corpus. L’Eutidemo diventa così un prototipo della ‘scrittura filosofica’ di Platone, che lancia una continua sfida al lettore, chiamato a intendere i problemi proposti e a sviluppare autonomamente le linee di soluzione offerte in forma allusiva.
Aristotele interprete di Platone. Anima e cosmo, Morcelliana, 2013
Il volume mette a confronto analiticamente le opere fisiche di Aristotele con i dialoghi platonici sulle stesse tematiche (in particolare con il Timeo), per ricostruire la complessa articolazione del concetto di physis, dal cosmo alla considerazione degli esseri viventi. La via critica seguita, e indicata dai testi stessi, permette di ricostruire un percorso che si configura sempre come bifronte: le innegabili e, in alcuni casi, fondamentali divergenze tra Aristotele e Platone si innestano su comuni tematiche e domande, per cui, lì dove si segna una distanza, si deve anche riconoscere un punto di accordo. Il rapporto tra Aristotele e Platone va delineandosi in queste pagine nella cifra distintiva di un movimento di vicinanza/lontananza, che rende possibile cogliere il senso e l’effettivo valore della critica aristotelica.
Aristotele, La generazione e la corruzione Testo greco a fronte, a cura di M. Migliori e L. Palpacelli, Bompiani, 2013
Il “De generatione et corruptione”, opera poco conosciuta e sottovalutata, svolge un ruolo importante nelle riflessioni fisiche di Aristotele. Lo Stagirita affronta e risolve le questioni concernenti i quattro tipi di mutamento, distinti secondo la categoria di riferimento: la generazione e corruzione secondo la sostanza, l’aumento-diminuzione secondo la quantità, l’alterazione secondo la qualità, la traslazione secondo il luogo. L’articolazione di tali temi si sviluppa in un ricco confronto con i filosofi del tempo, con la ripresa della centrale tematica delle cause fisiche e con espliciti riferimenti al Motore immobile trattato nella Metafisica. L’ampia introduzione di Maurizio Migliori, che affronta le questioni di fondo proposte in questo testo, è completata da un saggio bibliografico di Lucia Palpacelli che espone criticamente tutti gli studi apparsi nell’ultimo trentennio. La traduzione e il commentario di Migliori sono stati rivisti e arricchiti sulla base di un analogo aggiornamento bibliografico. Il lettore ha così a disposizione un testo completo, presentato in un’ottica unitaria e sorretto da una lettura critica aggiornata.
La natura intermedia di Eros. Pausania e Aristofane a confronto con Socrate, in: «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 3 – 2016, Vita e Pensiero, 2016
In this paper, speeches of Socrates, Pausanias and Aristophanes are analysed combining them together. This analysis is performed starting from the concept of intermediate (metaxuv) which allows us to construe Pausians’ speech as preparatory with respect to Socrates’ speech, and Aristophanes’ speech as its denial. Indeed, the concept of intermediate is applied to Eros 1) in embryo in Pausianas’ speech (which finally distinguishes two kinds of Eros) and 2) openly in Socrates’ speech. In this regard, the two speeches are connected and they show a progression 1) from a strictly practical and ethical-behavioural level (Pausanias’ speech) 2) to a theorical-metaphysical level based on Eros’ nature (Socrates’ speech). Aristophanes, on the other hand, defines Eros as a desire of total fusion, his view is corrected and downscaled by Socrates enforcing the concept of intermediate.
Claudia Baracchi, Enrico Berti, Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Lucia Palpacelli, Luigi Ruggiu, Mario Vegetti, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta
Il presente volume è il terzo di una serie di collettanei aristotelici, cominciata nel 2016 con Sistema e sistematicità in Aristotele, e proseguita nel 2017 con Immanenza e trascendenza in Aristotele, tutti editi a mia cura presso questa casa editrice. A questi volumi hanno partecipato alcuni fra i maggiori studiosi italiani dello Stagirita, che desidero nuovamente ringraziare per la loro disponibilità e gentilezza, ma soprattutto per l’ennesimo dono che hanno voluto fare agli studi aristotelici. Il volume di quest’anno, Teoria e prassi in Aristotele, nasce con l’intento di esaminare alcune distanze, spesso rilevate dagli studiosi, fra la teoria e la prassi nel pensiero aristotelico. Il tema è stato analizzato, come di consueto, secondo una pluralità di punti di vista ed approcci. L’apertura del volume, come da tradizione, è stata anche stavolta un dialogo generale tra lo scrivente e Carmelo Vigna. A questo dialogo, sempre come da tradizione, ha fatto seguito un commento di Enrico Berti, caratterizzato da notazioni profonde ed essenziali. Di seguito, vi sono stati interventi assai puntuali inerenti soprattutto il piano etico (Marcello Zanatta), politico (Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Alberto Jori), teoretico (Claudia Baracchi, Mario Vegetti), economico (Silvia Gullino, Luigi Ruggiu), sociale (Giulio Lucchetta) e scientifico (Lucia Palpacelli). Il volume è già sufficientemente ampio, per cui mi posso limitare, in questa occasione, ad un ricordo speciale, quello dell’amico Mario Vegetti, che ci teneva molto ad essere presente con un saggio. Rammento con affetto la sua ironia sui «dialogoni metafisici» fra me e Vigna che aprono questi volumi. Per il 2019, l’intenzione è di iniziare una trilogia sul pensiero platonico, cominciando con un collettaneo sulle Leggi, un dialogo relativamente poco indagato, rispetto almeno alla Repubblica. Tutto questo, come sempre, si potrà attuare – oltre che mediante la collaborazione di ottimi studiosi, negli anni divenuti amici – grazie alla passione culturale di Carmine Fiorillo, fondatore e “reggitore” di Petite Plaisance, al quale anche stavolta esprimo la mia vicinanza e gratitudine.
Luca Grecchi
Lucia Palpacelli
La pluralità metodologica nel pensiero aristotelico:tra teoria e prassi
Le diverse prospettive possibili per conoscere la realtà Ogni scienza considera lo stesso oggetto da punti di vista diversi Ogni scienza ha i suoi principi La relazione tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto: in sé e per noi La coscienza del limite umano nella conoscenza Il rapporto tra lo statuto ontologico dell’oggetto e il livello epistemologico L’estrema varietà della prassi metodologica L’approccio dialettico Un problema terminologico Alcuni esempi della movenza dialettica La diversa articolazione della movenza “dal generale al particolare” Da ciò che è più chiaro per noi a ciò che è più chiaro per natura Il valore dell’esperienza e dei fatti L’acqua più fredda che umida: la necessità teorica vince sul dato empirico La scienza non sbaglia, ma lo scienziato sì Considerazioni conclusive
La moltiplicazione dei bisogni indotti comporta l’inibizione dell’autentico desiderio che così diviene immediatezza, sensazione da soddisfare in tempi brevi, alienazione da se stessi e dalla comunità, luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà.
L’animalizzazione dell’essere umano Il Regno animale dello spirito si manifesta nella moltiplicazione dei bisogni. L’animale non umano nella sua fissità naturale sviluppa bisogni che gli consentono di sopravvivere in un determinato ambiente (Umwelt), ne diviene parte integrante ed indistinguibile. In assenza di intelletto l’animale non ha i mezzi per creare nuovi bisogni, ma deve inevitabilmente rispondere con i suoi istinti all’ambiente a cui è adattato. La natura umana, invece, è dotata di intelletto e dunque moltiplica i suoi bisogni per soddisfare aspirazioni materiali. La moltiplicazione dei bisogni in modo illimitato finisce per disorientare ed annichilire l’essere umano. Essi hanno l’effetto di animalizzarlo in modo particolare: la vita finalizzata all’utile ed ai bisogni senza limiti nega la natura dell’essere umano, la quale si realizza nella storia mediante la relazione comunitaria. L’essere umano, come definito da Marx, è ente generico (Gattungswesen), si definisce nella storia, le sue potenzialità prendono forma nel tempo storico creando mondi (Welt), poiché la temporalità progettante permette di trascendere lo stretto orizzonte dell’ambiente. Il mondo è il luogo degli esseri umani, nel quale operano mediante il lavoro ed i concetti e significano i loro gesti per trascendere la contingenza.
Il bene, ovvero l’universale concreto, procede mediante la conoscenza di sé e del mondo storico: non vi può essere universale concreto che nella feconda tensione tra particolare ed universale. Nella storia l’essere umano mette in atto le sue potenzialità, si conosce e si definisce. Se ciò non avvenisse non vi sarebbe che violenza, poiché l’universale senza particolare è solo annichilimento del concreto. L’universale d’altronde necessità di un lungo processo educativo; perché si giunga ad esso necessita della conoscenza di sé mediante il riconoscimento dell’altro e l’autoriconoscimento. Sono momenti sincretici senza i quali l’essere umano resta in bilico tra l’essere ed il nulla. Lo stare in bilico tra condizioni non definite consente al potere il dominio.
Bisogni inautentici e potere Nella produzione dei bisogni non vi è solo la necessità imperiale del mercato-plusvalore, ma in essi è iscritta la violenza e la razionalità del potere. La moltiplicazione infinita dei bisogni, particolarizza, individualizza nelle intenzioni del mercato che in tal modo si autorappresenta e si legittima nella funzione di soddisfare i bisogni individuali. Già in tale scopo vi è la negazione dell’universale, il soggetto deve atomizzarsi, deve separarsi dal concreto legame con la comunità, per viversi nella sovranità individuale. Hegel evidenzia che in tale individualizzazione dei bisogni, nell’io ipertrofico, in realtà, il soggetto si perde nella moltiplicazione dei bisogni indotti e nell’agire secondo il solo utile personale. In tale attività l’essere umano disperso tra desideri inautentici è solo un vuoto vaso in cui il caos regna. Si è così preda del mondo, cadono le difese del pensiero per essere parte del sistema che si trasforma in ambiente-mercato senza mondo. Si è gettati in un ambiente che chiede l’adattamento senza concetto ed immaginazione. La memoria, non più coniugata con la razionalità, perde la sua funzione di ricordare per concettualizzare ed orientare: essa si riduce al calcolo mediato, a semplice operatività applicativa di schemi predeterminati. Hegel rileva che il soggetto, ormai oggetto dell’economicismo nella corsa alla soddisfazione degli stimoli, non sente fortemente più nulla, diviene un essere anonimo disperso in desideri immediati. Il desiderio, sostituito dalle vogliuzze una per il giorno e una per la notte, come dirà Nietzsche, perde la capacità di favorire la conoscenza di sé, le proprie passioni, per regredire in dipendenza compulsiva. Il soggetto umano, mentre insegue l’iperstimolazione, diviene oggetto del sistema, che lo astrae dalla vita. Hegel constata e profetizza “l’ultimo uomo”, il quale non è un’improvvisa apparizione della storia, ma è l’effetto della “bestia del mercato”:
«L’animale è un che di particolare, ha il suo istinto e i limitati, non oltrepassabili mezzi dell’appagamento. Ci sono insetti che sono legati ad una pianta determinata, altri animali, che hanno una cerchia più ampia, possono vivere in differenti climi; ma interviene sempre un che di limitato di fronte alla cerchia che è per l’uomo. Il bisogno dell’abitazione ed abbigliamento, la necessità di non lasciar più il cibo crudo, ma di renderlo adeguato a sé e di distruggerne l’immediatezza naturale, fa sì che l’uomo non abbia la vita comoda come l’animale e che, inteso come spirito, neanche possa averla. L’intelletto, che concepisce le distinzioni, porta moltiplicazione in questi bisogni e, dal momento che gusto e utilità divengono criteri della valutazione, anche i bisogni stessi ne sono affetti. È da ultimo non più il bisogno, bensì l’opinione che deve venir appagata, e appartiene appunto alla cultura di scomporre il concreto nei suoi elementi particolari. Nella moltiplicazione dei bisogni risiede per l’appunto una inibizione del desiderio, poiché, quando gli uomini abbisognano di molte cose, la spinta verso una, di cui avrebbero bisogno, non è così forte, e ciò è un segno che la necessità in genere non è così potente».[1]
L’inibizione del desiderio diviene alienazione da se stessi e dalla comunità; al suo posto non resta che un mediocre succedaneo: il desiderio diviene immediatezza, sensazione da soddisfare e godere in tempi brevi. Di sensazione in sensazione si realizza la dispersione di sé, l’esistenza è così curvata “dalle passioni tristi” che rafforzano il potere, poiché il soggetto divenuto mezzo del sistema capitale non resiste allo svuotamento dell’io, il quale paradossalmente, diviene un io pieno ed ingombro di stimolazioni ingovernabili.
Dialettica e comunità Al nichilismo individualistico e predatorio Hegel contrappone l’economia fondata sui bisogni della persona e della comunità. Tale fondazione necessita della dialettica, quale modalità per trascendere la minaccia del nichilismo. Il soggetto che si radica nella famiglia e nello stato fonda la sua vita sull’etica, ovvero nel riconoscimento della presenza dell’altro, ciò comporta l’autolimitazione dei bisogni inautentici, e dunque la libertà. Quest’ultima è possibile solo se il soggetto si sottrae all’iperstimolazione perpetua: la libertà è sospensione delle sollecitazione per pensarle e razionalizzarle astraendone la verità storica. Il soggetto impara ad ascoltare se stesso, mentre razionalizza il mondo. Tali disposizioni e desideri autentici si materializzano nella comunità, la quale dà forma storica e vita all’individualità. Lo stato, in tale contesto, è il luogo in cui il soggetto si radica nella storia patria per aprirsi al mondo, per disporsi al riconoscimento ed all’ascolto dell’alterità nella quale ritrova se stesso:
«Con ciò, che l’uomo debba esser qualcosa, intendiamo che egli appartenga ad uno ‘stato’ determinato; poiché questo qualcosa vuol dire che allora egli è qualcosa di sostanziale. Un uomo senza ‘stato’ è una mera persona privata e non sta in una reale universalità. Dall’altro lato, il singolo può ritener sé nella sua particolarità per l’universale, e presumere che si abbandonerebbe ad un che di inferiore, se entrasse in uno ‘stato’. È questa la falsa rappresentazione per cui, se qualcosa guadagna un esserci che gli è necessario, con ciò si limiti e rinunci a sé».[2]
Utilitarismo e vita astratta L’atomizzazione, la privatizzazione dei desideri rendono il soggetto astratto. L’utilitarismo è una forma di vita astratta, in quanto il soggetto è avulso dal contesto, e si autopercepisce come creatore di se stesso, niente lo precede, per cui il mondo è a sua disposizione, sempre pronto all’uso. Il cosmopolitismo attuale è di ordine nichilistico ed utilitarista, poiché il soggetto senza legame patrio, linguistico e culturale non ha responsabilità alcuna verso qualsiasi comunità: è solo un atomo consumante che divora il mondo. L’atomizzazione non è un destino, l’essere umano è molto più di ciò che il sistema capitale rappresenta. Il pensiero crea concetti, porge ascolto al disagio, cerca parole per capire. La speranza non è solo potenzialità astratta, ma è racchiusa in ogni vita, in quanto il pensiero creante può essere condizionato, ma mai determinato. La sfida è fendere la caverna capitale con i suoi miti per ritrovarsi comunità. Razionalità e socialità non sono scindibili, la natura umana esige la socialità e l’umanità, senza le quali non resta che il cosmopolitismo nichilistico attuale, il quale è il regno della violenza dell’astratto contrapposto all’internazionalismo, il quale è invece, l’incontro delle patrie, il riconoscersi nella differenza. L’esodo dall’utilitarismo e dal cosmopolitismo nichilistico non può che avvenire mediante il radicamento comunitario, il quale non tribalizza, ma permette alle differenze di ritrovarsi per conoscere e conoscersi in processi storici inesauribili:
«La comunità è allora il luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà. Una libertà senza solidarietà è una illusione narcisistica destinata a sparire quando l’umana fragilità materiale costringe anche l’individuo più riluttante a relazionarsi con i suoi simili. Una solidarietà senza libertà è una coazione umanitaria estrinseca e di fatto ricade nella precedentemente ricordata tipologia dell’organizzazione politica dell’atomismo. Solidarietà e libertà sono entrambe necessarie. Questa è la logica conclusione di ogni elogio al comunitarismo».[3]
L’animalizzazione dell’essere umano si configura mediante la dispersione utilitaristica che aliena dalla profondità del logos calcolante e senziente a cui si unisce la sottrazione della memoria. Senza storia, senza riflessione sulla storia individuale e collettiva il soggetto è disintegrato in attimi senza futuro e senza passato. La resistenza civile e politica non può che fondarsi sul riappropriarsi del tempo predato dall’utile e dal consumo immediato acefalo.
Salvatore Bravo
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[1] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1999, p. 344.
«La cosa importante è di non smettere mai di interrogarsi. La curiosità esiste per ragioni proprie. Non si può fare a meno di provare riverenza quando si osservano i misteri dell’eternità, della vita, la meravigliosa struttura della realtà. Basta cercare ogni giorno di capire un po’ il mistero. Non perdere mai una sacra curiosità».
Albert Einstein, Pensieri di un uomo curioso, a cura di A. Calaprice, Mondadori, Milano 1999.
Friedrich Hölderlin, A Neuffer, marzo 1794, in Id., Tutte le liriche, (trad. di Luigi Reitani), Mondadori, Milano 2001.
Se cerchi di rendere ciò che è nobile senza l’ordinario, esso se ne starà come il più innaturale di tutti, come il più insulso.
Il nobile, nella misura in cui giunge a espressione, porta i segni del destino sotto cui è sorto.
Il bello, per come si espone nella realtà effettiva, assume di necessità una certa forma in base alle circostanze entro cui sorge.
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Riflettere sulla cultura e sull’impulso formativo, sul suo fondamento mi ha suggerito il progetto di un giornale umanistico, che approfondisca storicamente e filosoficamente il punto di vista dell’umanità
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L’errore degli uomini è che il loro impulso formativo si perda, che prenda una direzione indegna.
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Nessun uomo nella sua vita esteriore può essere ogni cosa nello stesso tempo. Per avere un’esistenza e una coscienza nel mondo è necessario determinarsi per qualche cosa
«Il vivente nella poesia è adesso ciò che occupa maggiormente i miei pensieri e i miei sensi. Avverto con così tanta profondità quanto io sia ancora lontano dal coglierlo e tuttavia la mia anima intera vi si sforza affannosamente, e io ne sono spesso così commosso da dover piangere come un bambino quando sento come alle mie rappresentazioni, in questo e in quel punto, manchi il vivente. Ma non riesco a tirarmi fuori dagli errori poetici tra i quali vago […]. Mi manca meno la forza della leggerezza, meno le idee delle sfumature, meno un tono principale di una molteplicità ordinata di toni, meno la luce dell’ombra, e tutto ciò dipende da una sola ragione. Io rifuggo troppo dall’ordinario e dal comune della vita reale […].
Temo di raffreddare la calda vita che è in me al cospetto della storia gelata del giorno e questa paura deriva dal fatto che tutte le vicende distruttive in cui mi sono imbattuto sin da ragazzo, io le ho accolte in maniera più sensibile di altri, e tale sensibilità mi sembra che abbia in ciò il suo fondamento: che io, in rapporto alle esperienze che ho dovuto fare, non ero organizzato in maniera abbastanza solida e salda. Ora me ne rendo conto. […] Poiché sono più vulnerabile di altri, devo tanto più cercare di ricavare vantaggio dalle cose che agiscono in modo distruttivo su di me, non devo prenderle per come sono in se stesse, ma solo in quanto sono utili alla mia vita più autentica. Là dove le trovo, io devo già in anticipo assumerle come materia indispensabile, senza cui la parte più intima di me non potrà rappresentarsi mai completamente. Devo accoglierle in me stesso per disporle all’occasione (come artista se un giorno vorrò e dovrò essere artista) come ombre alla mia luce, per restituirle in quanto toni subordinati da cui emerge tanto più vivo il tono della mia anima. Il puro può rappresentarsi solo nell’impuro e se cerchi di rendere ciò che è nobile senza l’ordinario, esso se ne starà come il più innaturale di tutti, come il più insulso, e questo appunto perché il nobile, nella misura in cui giunge a espressione, porta i segni del destino sotto cui è sorto; perché il bello, per come si espone nella realtà effettiva, assume di necessità una certa forma in base alle circostanze entro cui sorge, e questa forma non gli è naturale: diventa naturale solo per il fatto di considerare, accanto al bello, appunto anche quelle circostanze che gli diedero necessariamente una tale forma. […] Dunque senza l’ordinario non si può rappresentare alcun nobile: e io voglio ripetermelo sempre, quando mi imbatto nell’ordinario nel mondo: ti è tanto necessario quanto ai vasai la colla, perciò accettalo sempre, non allontanarlo da te, non averne paura».
F. Hölderlin a Neuffer, 12 novembre 1798, in Friedrich Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe [Tutte le opere e le lettere], a cura di M. Knaupp, vol. II, München-Wien 1992-1993, pp. 710-712; Friedrich Hölderlin, Tutte le opere. Prose, teatro e lettere. Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, 2 voll., LXVII-3887 pp., Mondadori, Milano 2020.
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Riflettere sulla cultura e sull’impulso formativo, sul suo fondamento mi ha suggerito il progetto di un giornale umanistico, che approfondisca storicamente e filosoficamente il punto di vista dell’umanità
«La mia riflessione e i miei studi si sono quasi esclusivamente limitati a ciò che anzitutto mi premeva, la poesia, in quanto essa è arte vivente e scaturisce a un tempo da genio, esperienza e riflessione ed è ideale, sistematica e individuale. Ciò mi ha condotto a riflettere sulla cultura e sull’impulso formativo, sul suo fondamento e la sua Bestimmung, nella misura in cui esso è ideale e attivamente formante. Ancora: [ho riflettuto] su come l’impulso formativo, consapevole del suo fondamento e della sua propria essenza a partire dall’ideale, ma istintivamente secondo la sua materia, agisce come arte e come impulso alla formazione ecc. Ho creduto, alla fine delle mie ricerche, di essere riuscito a porre in maniera più vasta e comprensiva di quanto non mi fosse noto precedentemente il punto di vista della cosiddetta umanità (almeno nella misura in cui si intende con esso l’elemento unificante e comune nella natura umana e nelle sue direzioni, piuttosto che l’elemento differenziante, di cui comunque è necessario che si tenga conto). Aver raccolto questi materiali mi ha suggerito il progetto di un giornale umanistico, che sia poetico anzitutto perché vi si pratica la poesia, ma che anche istruisca sulla poesia, sia dal punto di vista storico che da quello filosofico, e, in generale, approfondisca storicamente e filosoficamente il punto di vista dell’umanità».
F. Hölderlin, Lettera a Schelling, scritta tra l’1 e il 6 luglio 1798, in Friedrich Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe [Tutte le opere e le lettere], op. cit., II, pp. 792-794.
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L’errore degli uomini è che il loro impulso formativo si perda, che prenda una direzione indegna
«L’errore degli uomini è che il loro impulso formativo si perda, che prenda una direzione indegna, generalmente falsa, oppure non trovi la sua dimensione specifica o, se pure l’ha trovata, si fermi a metà strada, ai mezzi che dovrebbero condurlo al suo scopo […]. E la ragione generale del tramonto di tutti i popoli è sempre stata, infatti, che la loro originalità, la loro propria natura vivente (ihre eigene lebendige Natur) ha soggiaciuto alle forme positive e al lusso che i loro padri avevano prodotto».
Friedrich Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe [Tutte le opere e le lettere], op. cit., II,, pp. 62-63.
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Nessun uomo nella sua vita esteriore può essere ogni cosa nello stesso tempo. Per avere un’esistenza e una coscienza nel mondo è necessario determinarsi per qualche cosa
«Nessun uomo nella sua vita esteriore può essere ogni cosa nello stesso tempo, […] per avere un’esistenza e una coscienza nel mondo è necessario determinarsi per qualche cosa, e […] sono poi la singolarità e le circostanze ciò che in definitiva determinano l’uno verso una certa singolarità e l’altro verso un’altra. Questa singolarità, a dire il vero, è quella che più appare evidente, ma non è detto per questo che altri pregi, di cui avvertiamo la mancanza, manchino del
tutto in un carattere tipico, piuttosto rimangono in ombra».
Friedrich Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe [Tutte le opere e le lettere], op. cit., II, p. 67
«L’attesa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza, angosciato nell’attesa. L’attesa contiene in sé un fattore di arresto brutale che toglie il respiro. Si direbbe che tutto il divenire, concentrato fuori dell’individuo, si avventi su di lui come una massa possente e ostile cercando di annientarlo, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà facilmente a schiantarsi subito dopo. […] L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere, lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa – stavo quasi per dire – che tra un attimo lo inghiottirà. L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia, è sempre un’attesa ansiosa. Ciò peraltro non può sorprendere poiché essa è una sospensione di quell’attività che è la vita stessa. Talvolta, apparentemente senza ragione, sorge in noi l’immagine della morte, della morte sospesa, in tutta la sua potenza distruttiva, sopra di noi, che si avvicina a grandi passi, 1’angoscia, il terrore ci stringono; impotenti, attendiamo il fatale e prossimo annientamento al quale siamo votati senza scampo. Di fronte a un pericolo imminente, noi l’attendiamo, inchiodati sul posto, paralizzati dal terrore».
Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, 2004.
«Chi siamo? Da dove veniamo? Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta? Molti si sentono soltanto confusi. Il terreno vacilla, e non sanno perché e per che cosa. Una condizione d’angoscia, la loro, che diviene paura se assume più precisi contorni. […] L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario, perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. […] L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli. Non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di quest’affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando a cui essi stessi appartengono».
Ernst Bloch, Il principio speranza. Immagini di un mondo migliore, 3 vol., Garzanti, 1994, vol. I.
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