«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Le persone non sono preassemblate, ma tenute insieme dalla vita. E ogni volta che uno di noi viene costruito, si produce un diverso risultato. Una delle ragioni è che noi tutti veniamo al mondo con differenti apparati genici; un’altra è che abbiamo differenti esperienze. Ciò che è interessante di questa affermazione non è che natura e cultura contribuiscono a ciò che siamo, ma che in realtà parlano lo stesso linguaggio. Sostanzialmente entrambe raggiungono i loro effetti mentali e comportamentali incidendo sull’organizzazione sinaptica del cervello. I particolari pattern di connessioni sinaptiche nel cervello di un individuo, e l’informazione codificata da queste connessioni, sono le chiavi di ciò che quella persona è» (pp. 5-6).
«I geni determinano solo le linee generali del funzionamento mentale, spiegando al massimo il 50% di un dato tratto e, in alcune circostanze, di gran lunga di meno. L’ereditarietà ci può condizionare per certi versi, ma molti altri fattori definiscono in che modo i geni di una persona siano espressi» (p. 8).
«Molti sistemi cerebrali sono plastici, vale a dire modificabili attraverso l’esperienza, il che significa che le sinapsi implicate sono alterate dall’esperienza… La plasticità, in tutti i sistemi cerebrali, è innata. Questo può suonare come una contraddizione natura/cultura, ma non lo è. Una innata capacità delle sinapsi di registrare e conservare l’informazione è ciò che consente ai sistemi di codificare le esperienze… Ogni apprendimento dipende, in altre parole, dall’operare di capacità di apprendimento geneticamente programmate. L’apprendimento implica l’opera di Madre natura» (p. 13).
«I nostri geni possono condizionare la maniera in cui ci comportiamo, ma i sistemi di gran lunga responsabili di ciò che facciamo e di come lo facciamo sono plasmati dall’apprendimento» (p. 14).
«Quello che una persona è, ciò che pensa, sente e fa non è per nulla influenzato dalla sola coscienza. Molti dei nostri pensieri, sentimenti e azioni hanno luogo in maniera automatica, e solamente dopo che sono accaduti, forse, diventano accessibili alla coscienza. Scoprire il meccanismo della coscienza sarebbe indubbiamente una conquista scientifica importantissima, ma non spiegherebbe il funzionamento del cervello, o come i nostri cervelli fanno di noi ciò che siamo. La comprensione del mistero della personalità dipende in maniera cruciale dalla comprensione delle funzioni inconsce del cervello», vale a dire «le molte cose che il cervello fa, che non sono accessibili alla coscienza» (p.16); «Nella teoria contemporanea della personalità, come in filosofia, la nozione di Sé si riferisce tipicamente al Sé conscio, nel senso che esso possiede autoconoscenza, autorappresentazione e autostima; è consapevole di Sé, autocritico; avverte l’importanza della persona; s’impegna nella realizzazione delle proprie potenzialità… Nonostante questa lunga tradizione di enfasi sul Sé in quanto entità conscia, il Sé di cui siamo consapevoli, o di cui possiamo essere consapevoli, non rappresenta la totalità di ciò cui si riferisce il termine Sé… Le cose che consciamente sappiamo su chi o cosa siamo costituiscono gli aspetti espliciti del Sé. Questi costituiscono il tipo di realtà cui ci riferiamo con il termine autoconsapevole e quanto definiamo autorappresentazione; sono quelli di cui si interessano gli psicologi del Sé. Gli aspetti impliciti del Sé, di contro, sono tutti gli altri aspetti di ciò che siamo e che non sono immediatamente disponibili alla coscienza, o perché sono per loro natura inaccessibili, oppure perché sono accessibili ma non disponibili in un particolare momento» (pp. 38-39).
«Nella misura in cui le esperienze della vita contribuiscono a renderci quello che siamo, il processo di immagazzinamento implicito e quello esplicito della memoria rappresentano i meccanismi principali per mezzo dei quali il Sé è modellato e preservato. Quegli aspetti del Sé che sono appresi e memorizzati nel sistema esplicito rappresentano gli aspetti espliciti del Sé… Al contrario, quegli aspetti che sono appresi e memorizzati nel sistema implicito costituiscono gli elementi impliciti del Sé; utilizziamo quest’informazione su noi stessi continuamente, anche se possiamo non esserne pienamente consapevoli: i modi in cui tipicamente camminiamo e parliamo, e persino i modi in cui pensiamo e sentiamo riflettono tutti l’attività di sistemi che funzionano sulla base dell’esperienza pregressa, ma la loro azione si realizza fuori della consapevolezza» (pp. 40-41).
«Apprendimento e sviluppo sono due facce della stessa medaglia. Non possiamo apprendere prima di possedere delle sinapsi.E non appena le sinapsi cominciano a formarsi sulla base di istruzioni intrinseche, sono suscettibili di essere influenzate dalle nostre esperienze del mondo esterno. I geni, l’ambiente, la selezione, l’istruzione, l’apprendimento – tutto contribuisce alla strutturazione del cervello e alla formazione del Sé emergente attraverso la connessione delle sinapsi. Sebbene alla fine l’estesa plasticità presente in età precoce si arresti, le nostre sinapsi non cessano di modificarsi, ma restano impercettibilmente suscettibili di cambiamento per mezzo dell’esperienza» (p. 134).
Joseph LeDoux, Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2020.
La questione centrale del pensiero di Martin Heidegger è la questione dell’essere, ma fin dall’inizio del suo cammino, nei sentieri percorsi, il suo pensare è aperto al problema di Dio e a ciò ad esso inerente. Per il filosofo tedesco la metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, nasce e si sviluppa come oblio dell’essere, cosicché nulla ne è dell’essere stesso e della sua verità. Ne consegue che nella sua stessa essenza la metafisica è nichilismo. Il Dio metafisico è il Dio causa sui, il Dio fondamento, ragione e supremo valore, le cui immagini e maschere costruite dall’onto-teologia lungo la storia hanno contraffatto il Dio divino, il Dio che può aver luogo secondo il suo tratto proprio solo in base, a partire ed entro l’orizzonte della verità dell’essere. Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere e dalle conseguenze della morte del Dio non divino. Il favore della svolta nell’essere ancora non concesso, che la dimenticanza dell’essere si rivolti, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante, che dall’essere conduce al Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà della notte del mondo, caratterizzato dall’assenza, dalla mancanza di Dio: «Quando si fa buio non vedo niente, e tuttavia (ci) vedo» (M. Heidegger).
In questo Parmenide e Zenone sophoi a Elea Livio Rossetti ci propone una marcia di avvicinamento a due pensatori antichi di primissimo ordine. Il suo proposito è stato di lavorare su due ‘pezzi da museo’ che ci sono stati trasmessi pieni di polvere e di incrostazioni esegetiche, riportarli alla luce e tornare a osservarli da vicino. Pretesa eccessiva? Non proprio, perché di Parmenide si sta riscoprendo solo ora lo stupefacente sapere naturalistico che pure formava parte integrante del suo poema, e di conseguenza il suo insegnamento richiede di essere visto da una prospettiva profondamente rinnovata. Quanto poi ai paradossi di Zenone, essi sono stati per lo più trattati come problemi da risolvere o calcoli da eseguire, senza considerare che Zenone avrà avuto interesse a idearli, non certo a risolverli e dissolverli. Quindi, anche qui, netto cambio di prospettiva. L’autore ci invita dunque a guardare a questi due personaggi estremamente creativi senza pensare alle tradizioni interpretative, con la mente sgombra, con rinnovata curiosità. Lo fa con competenza, ma usando un linguaggio piano, cordiale, arioso, partendo dai luoghi e dal contesto. Avvicinarsi a quel mondo sarà una scoperta.
Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero. Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.
L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).
Regno dell’uomo, matematismo e meccanicismo (Galilei, Bacone e Cartesio): Il disegno umanistico del «regnum hominis»/La caratteristica della concezione moderna del «regnum hominis»/Il matematismo del Galilei/Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero di F. Bacone/L’atteggiamento di Bacone verso la matematica/ R. Descartes come fondatore della filosofia moderna/Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero cartesiano/La funzione del matematismo nel sistema cartesiano/La matematica e il dubbio universale/I due centri di certezza nel sistema cartesiano/Matematismo e meccanicismo/Le aporie del cartesianesimo. Le difficoltà del matematismo. Il problema della «res extensa». Cartesio e Spinoza: Le condizioni per un cartesianesimo integrale/Sua incompatibilità con il concetto di anima-forma/Risoluzione del cartesianesimo nello spinozismo/Spinoza e Cartesio/Le caratteristiche del razionalismo spinoziano/Il matematismo nel pensiero spinoziano/Matematismo e meccanicismo/Occasionalismo e pascalismo. Esteriorità e interiorità nella conoscenza (Locke e Leibniz): Gli elementi della «modernità» nel pensiero del Locke: «regnum hominis» e meccanicismo/Come nel pensiero del Locke vi sia presente anche il matematismo/Il rapporto del Locke con la distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie/Conseguente critica del concetto di sostanza da parte del Locke/Inadeguatezza del nominalismo tradizionale alla critica del Locke/Il matematismo come limite dommatico della ricerca lockiana/Il dualismo d’interiorità ed esteriorità/Leibniz e la sua ripresa al matematismo antico/Matematismo antico e matematismo moderno/La polemica vichiana e la prevalenza del matematismo nella cultura illuministica. Il superamento kantiano del matematismo e i suoi limiti: La filosofia kantiana come ricerca assoluta/Condizioni della ricerca e funzione esercitata in essa dalla matematica e dalla meccanica/Rapporto della dottrina dell’Io trascendentale con la funzione esercitata nella ricerca dalla matematica e dalla meccanica/Dall’estetica e dall’analitica alla dialettica/Il matematismo e le aporie della dialettica/Il matematismo come limite della ricerca kantiana.
«Migliori e Grecchi sono due metafisici che si ispirano alla tradizione greca e la custodiscono con cura, anche se Migliori guarda soprattutto a Platone e Grecchi soprattutto ad Aristotele. Entrambi amano la verità e il bene» (Carmelo Vigna). Questi i temi del dialogo: La genesi della filosofia / L’amore per Platone / “La filosofia si fa, non si impara” / Il Multifocal Approach / Possibili critiche al Multifocal Approach / Uomo: una natura razionale e morale? / Sul timore della definizione / Su ciò che non è stato ritrovato / Presocratici: una lettura multifocale? / Chi fu il “primo filosofo”? / Sulla definizione della filosofia e la differenza con le scienze / Socrate sofista? / Sulla filosofia ellenistica e post-ellenistica / I Greci cercavano per trovare risposte utili / Sul bene / Sulla verità: questione logico-fenomenologica o (anche) onto-assiologica? / Utopia e progettualità / Sul trascendente / La dolcezza come virtù filosofica / L’anticrematistica: filo conduttore delpensiero antico? / Stato dell’arte della filosofia antica in Italia / Oltre alla filosofia… / Su Platone Primo Ministro… / Sulla educazione dei giovani / Sulla morte.
In queste pagine si afferma il principio che le concezioni della natura svolte dai presocratici sono il risultato della proiezione dei problemi del mondo umano sull’universo fisico: è da respingere l’opinione per cui il pensiero filosofico all’inizio si sarebbe occupato esclusivamente dei problemi più lontani, relativi all’origine, alla formazione e alla costituzione del cosmo e solo in tempi più recenti avrebbe rivolto la propria attenzione a quelli più vicini, cioè ai problemi relativi all’uomo. Pur non essendo una delle opere fondamentali del Mondolfo, questo libro è però una delle sue opere più significative: vi si possono trovare i principali motivi che ne caratterizzano il pensiero. Ha messo in evidenza le tendenze poliedriche dello spirito ellenico e la varietà e il contrasto delle sue manifestazioni nel pensiero dei filosofi greci, dimostrando come negli scritti di alcuni di essi si possa trovare il riconoscimento esplicito dell’importanza del soggetto umano nella gnoseologia, nell’etica e nella teoria delle creazioni culturali. In questo libro vengono inoltre indicati altri precedenti della filosofia della cultura: in Platone, in Aristotele, in Tommaso d’Aquino, nei filosofi del Rinascimento, in quelli dell’età moderna fra i quali Vico, Hegel e gli idealisti. La concezione della filosofia come «problematicità» non porta mai Mondolfo alla conclusione sconsolata del problematicismo e neppure alla conclusione degli scettici che proclamano la sterilità e la vanità dell’indagine filosofica. Al contrario conduce ad una conclusione fiduciosa: il lavoro filosofico contribuisce a rendere la coscienza dei problemi sempre più chiara e profonda.
Massimo Bontempelli, professore di liceo, è stato filosofo olistico: l’originalità della sua teoretica è nel tenere assieme filosofia, storia e pedagogia, al fine di orientare la paideia sul fondamento veritativo che coniuga l’asse ontologico-assiologico all’azione educativa. Ha avvertito l’incombere plumbeo del nichilismo sul destino dell’Occidente, guardando con gli occhi della mente il dramma in cui è impigliata la cultura occidentale ormai planetaria. Trascendere il nichilismo ha significato per lui interpretarlo, inseguirlo nei meandri della sua genealogia, per sfidarlo, e quindi, ricostruire il percorso verso la verità. La sofferenza teoretica per lo stato presente, si è sublimata in pensiero e pratica educativa. Filosofo dalla passione intellettuale per il presente, con l’impegno rivolto fortemente al futuro, ha teorizzato l’alternativa al nichilismo consumistico dei nostri giorni. Ha rielaborato il pensiero teoretico e politico di Hegel mediandolo col pensiero di Marx. Con Hegel ha condiviso l’urgenza della metafisica, senza la quale il soggetto è lasciato alla sua accidentalità e dissolto nel pulviscolo del conflitto economico. Il suo stile filosofico ed educativo ha un significato simbolico e sostanziale: l’essenziale è la parola, veicolo della qualità contro la quantità. Ci ha lasciati eredi non solo della sua attività teoretica, ma della sua esperienza umana vissuta fuori dalla caverna della società dell’immagine e della pornografia mediatica spacciata per trasparenza.
I testi qui raccolti ripercorrono due seminari residenziali in cui confluivano studi di filosofia antica e un’insolita composizione di temi: il rapporto tra greco e non greco, e le peripezie del pensiero tra il Mediterraneo degli Elleni, il Levante, l’Egitto, in onde migratorie che saranno costitutive dell’Europa; il rapporto tra filosofia e vita, soprattutto la vita sofferente, quale è variamente ma senza eccezioni la vita mortale, esposta e vulnerabile a ogni rovescio; il rapporto tra l’esercizio della ragione e ciò che la eccede, si chiami natura, dio, intelletto o in altro modo; al limite, il rapporto tra theoria e praxis. Volgersi al passato in una modalità interrogativa significa soprattutto ricalibrare la nostra domanda su noi stessi, chiederci come siamo diventati quello che siamo, attraverso quali vicende, ma anche e soprattutto attraverso quali dimenticanze, quali sparizioni, quali discontinuità e ricadute nella latenza. Vale a dire: come siamo giunti qui dove ci troviamo, per quali percorsi consapevoli, ma anche inconsci e bui – giacché il passato (tanto individuale quanto collettivo) è saturo di ciò che, di esso, non è stato ancora mai visto e deve ancora accadere.
Socrate, Till Eulenspiegel, Pinocchio, ma anche Solone, Bruto, i profeti di Israele, Bertoldo, Giufà, i «santi folli» di Bisanzio … Sono innumerevoli i personaggi che trasgrediscono il senso comune; figure spesso ridicole, ma portatrici tutte di verità inquietanti di cui la ragione dominante diffida, delle quali tuttavia non può fare a meno. Ciò che si mantiene nella fiaba, nel romanzo, nella letteratura filosofica e religiosa non è tanto la fisionomia dell’insensatezza quanto il suo rapporto conflittuale di esclusione/complementarietà con la ragione, con il sistema dei valori etici e affettivi accettati come fondamentale norma di convivenza. Lo stolto e la stoltezza non costituiscono un elemento chiaramente definibile e persistente della tradizione culturale europea, un topos, ma piuttosto un’incognita alla quale ogni volta si attribuisce ciò che disturba il senso comune. È il senso comune, cioè la razionalità riconosciuta da ciascun assetto sociale come sua propria, che stabilisce quel che deve apparire ripugnante, ridicolo, riprovevole. La figura dello stolto e l’immagine della stoltezza mutano perciò a misura dei cambiamenti del senso comune e della razionalità che le definiscono, serbando tuttavia, di mutamento in mutamento, importanti tratti del passato. Il viaggio intrapreso alla riscoperta delle molte e molto differenti raffigurazioni dello stolto conduce a interrogarci sul difficile ma tenace equilibrio che governa il gioco tra verità e riso, scherzo e ragione.
I libri non hanno solo un proprio destino:talvolta possono essere destino (Jean Améry).
Come vive un intellettuale la propria condizione di uomo dello spirito nel luogo dell’anti-spirito per eccellenza che fu il Lager? Con uno stile a metà tra il saggio e la narrazione, Daniele Orlandi ripercorre la vicenda umana e culturale di Jean Améry, filosofo e scrittore, fra i più alti testimoni dello sterminio nazista, morto suicida nel 1978.
La formazione dell’ideale filosofico costituisce un momento di grande importanza nella storia dell’etica greca e forma il vincolo più intimo ed essenziale di continuità sia tra la riflessione morale più antica e l’indagine naturalistica che caratterizza fin da principio la filosofia presocratica, sia, più tardi, fra questo naturalismo e l’umanesimo di Socrate. Secondo l’idea tradizionale derivata da Cicerone, la filosofia, che fino allora avrebbe rivolto al cielo la sua contemplazione, con Socrate soprattutto, l’abbasserebbe verso la terra e l’uomo. In realtà, anche l’interesse conoscitivo verso la natura che appare al principio della filosofia greca ubbidiva a motivi essenzialmente umani, costituiti soprattutto da un’esigenza profondamente etica e religiosa, che sorgeva da un nuovo concetto dell’uomo e del suo fine. Per la tradizione anteriore l’uomo, mortale e limitato, doveva pensare unicamente cose umane, cioè limitate e mortali, rinunciando alle divine, che si dichiaravano privilegio degli dèi, difeso dalla loro gelosia. Nell’attribuire all’uomo la capacità di pensare alle cose divine, e nel farlo in tal modo partecipe del divino, convertiva in un’obbligazione sacra per lui quello che la saggezza anteriore gli vietava come insolenza (hybris) ed empietà. La filosofia pertanto diviene per i moralisti greci la forma più eccellente ed efficace di purificazione spirituale (catharsis); e l’attività del filosofo rappresenta – come ci mostra nella Repubblica platonica l’allegoria della caverna – una missione di illuminazione e liberazione. Socrate personificò questa missione, nella sua vita e nella sua morte.
Un saggio su Michelstaedter è un’impresa destinata inesorabilmente all’incompiutezza: scrivere di colui che con le parole volle fare guerra alle parole, alla ricerca di una pienezza di vita inattaccabile, da trovare, come fondamento stabile, socraticamente solo in se stessi – dando tutto e non chiedendo nulla per sé. Non si potrà mai dire compiutamente l’altezza vertiginosa raggiunta dal suo pensiero, che resta come una cifra inaudita dell’assolutezza dell’Essere e della giustizia da lui cercata. Eppure, col suo pensiero, questo giovane (ma saggio) solitario, che si richiama alla sapienza di Eraclito e di Parmenide e che troverà un’eco, e una parentela postuma, anche in Heidegger, vorrebbe unire il mondo in un unico afflato di fratellanza e d’amore, sull’esempio di Cristo e di Buddha: da lui presi come modello di vita persuasa, sul finire della sua breve esperienza terrena. In Michelstaedter è risuonata la voce di qualcosa di sovrumano, così lontana dalla sua, e ancor più dalla nostra, epoca del compiuto nichilismo: del sapere scientifico ormai vittorioso e della tecnica dimentica dell’anima.
Questo volume, curato da Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato, raccoglie gli Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», promosso dall’Università degli studi di Milano Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, e dalla Associazione «Philo. Pratiche filosofiche», il 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi. Si evidenziano i relatori e i temi trattati: Daniele Guastini, «Inattualità e attualità della paideia poetica» – Angelo Tonelli, «La Sapienza greca tra Oriente e Occidente. Dioniso, Eleusis, Parmenide, le Upanishad e il “Mongolo di Taranto”» – Alberto Jori, «Ippocrate ‘filosofo’: dal sapere ontologico alla scienza funzionale» – Arianna Fermani, «”In ogni caso si deve filosofare”. Aristotele e l’attualità della filosofia» – Maurizio Migliori, «Platone. Amico di Socrate, l’uomo più giusto del suo tempo» – Giulio A. Lucchetta, «Quale rischio corre Dione a Boristene? Un bilancio della cultura greca in età ellenistico-imperiale».
Questa Piccola storia dell’Irlanda nasce in parallelo alla stesura di un saggio che raccontava l’epopea della resistenza irlandese e il sacrificio di Bobby Sands e dei suoi compagni determinati fino alla morte in difesa dei loro diritti, ne costituiva il naturale “antefatto”, e, finalmente, dopo più di vent’anni, vede la luce. Se dal punto di vista storico, i problemi da risolvere non erano molti – non era infatti difficile chiarire l’estraneità degli irlandesi (gaelici e cattolici) dai britannici invasori dell’Irlanda e, all’atto della colonizzazione, ormai definitivamente protestanti –, non si poteva dire la stessa cosa per quanto riguardava il presente, da intendere comunque in senso lato, dal momento che in questo presente andava incluso un periodo di circa ottant’anni, quanti cioè ne erano trascorsi dalla divisione dell’Irlanda in due da parte della Gran Bretagna. Un excursus storico di più di 700 anni, dall’invasione dell’Irlanda da parte degli anglo-normanni alla proclamazione della repubblica indipendente d’Irlanda del 1916 e alla successiva spartizione, con le relative conseguenze discriminatorie, politiche e sociali, per la minoranza cattolica, nell’ultra-artificiale Irlanda del Nord. Il libro contiene anche il saggio originario, con una descrizione degli eventi più significativi, a partire dai disordini (i troubles) del 1969, per arrivare ai giorni nostri e un’analisi dell’Accordo del Venerdì santo, come evoluzione del processo di pace, avviato nel 1993.
Nel nostro scenario sociale, dove circola ormai stabilmente un multiforme disagio esistenziale, quali sono le condizioni di possibilità della felicità? Intendendo con ciò non gli occasionali momenti di “positività”, ma la vita felice. Ossia l’esistenza che conosce quel senso di pienezza prolungato, seppur ad intensità variabile, che scaturisce dall’avvertire che i semi in cui è racchiusa la propria unicità hanno iniziato a germogliare e a dare frutti. Il libro affronta la questione impiegando uno strumentario teorico-concettuale non solo filosofico, ma attinto anche dal più ampio campo delle scienze umane. Si pone in ascolto della domanda di felicità che proviene dal presente e prova a rispondervi soffermandosi su tre nuclei essenziali dell’esperienza umana: la sofferenza, il desiderio ed il tempo. Inoltre riserva attenzione alle inquietudini dei soggetti adolescenti, ai quali è dedicata una proposta educativa concernente l’intelligenza pratica. I numerosi fili del discorso vengono intessuti con uno stile che coniuga il rigore delle argomentazioni con un linguaggio che parla anche ai non specialisti.
Da un lato Aristotele mantiene il concetto di dio che gli proviene dalla religione greca, cioè quello di vivente eterno e ottimo, ma dall'altro si serve di questo concetto per definire la natura del motore immobile, cioè del principio da cui dipende il movimento, e col movimento la vita e l'esistenza, di tutto ciò che è compreso nell'universo, vale a dire del principio supremo, trascendente e onnipotente, anche se non creatore. Pertanto può essere legittimo anche parlare di un Dio di Aristotele con l'iniziale maiuscola, purché si faccia riferimento alla nozione greca di dio e si tenga presente l'intera filosofia di Aristotele, la quale dimostra la necessità di un principio supremo e trascendente, dotato di caratteri personali, cioè di intelligenza e volontà, e dunque suscettibile di essere classificato nella specie degli dèi, ma al tempo stesso degno di meritare l'iniziale maiuscola, per il fatto di essere il principio supremo, il bene e il bello per eccellenza.
Il titolo di questo contributo mi è stato proposto da Maurizio Migliori e la mia prima reazione è stata di respingerlo, perché per Aristotele «dio» (theos) è un nome comune, cioè è il nome di una specie di esseri viventi, come «uomo» o «cavallo», perciò nella traduzione si dovrebbe scrivere con l’iniziale minuscola. Inoltre in Aristotele non c’è una nozione di Dio paragonabile a quella che sta alla base delle grandi religioni monoteistiche, e delle filosofie che da esse sono state ispirate, cioè quella nozione per cui c’è un solo Dio, creatore e signore del cielo e della terra. In questa concezione il nome «Dio» diventa quasi un nome proprio e, come tale, va scritto con l’iniziale maiuscola, indipendentemente dal fatto che colui che scrive sia o non sia credente. Alla fine però, dopo avere pensato a tutto quello che avrei potuto scrivere, ho deciso di conservare il titolo propostomi da Migliori, perché c’è un senso, come vedremo, in cui esso può risultare appropriato anche ad Aristotele. Prima di tutto desidero sgomberare il terreno da un’altra improprietà di linguaggio, che in parte dipende da un’interpretazione a mio avviso inaccettabile, cioè quella per cui si parla di una «teologia» di Aristotele, espressione che io stesso ho usato in varie circostanze e di cui ora, in un certo senso, mi pento. L’idea che ci sia una teologia di Aristotele è antica e deriva probabilmente dai commentatori antichi, probabilmente da Alessandro di Afrodisia, se non addirittura da Teofrasto. Essa ha dominato tutta l’antichità, il medioevo (sia arabo, sia bizantino, sia latino) e gran parte dell’esegesi moderna.
[…] Sostenendo che il motore immobile è causa efficiente naturalmente non intendo escludere che esso, e quindi «il dio», possa essere anche causa finale, ma ritengo che esso lo sia per l’uomo, non per il cielo. Ciò mi sembra risultare da un altro passo della stessa Etica Eudemea, dove Aristotele afferma, a proposito della parte cognitiva dell’anima, che
«il dio non la governa dando degli ordini, ma come ciò in vista di cui la saggezza (phronesis) ordina […], poiché quegli non ha bisogno di nulla. Perciò quella scelta e quell’acquisto dei beni naturali che produrrà più di tutto la conoscenza del divino (ten tou theou theorian), […] questa è la migliore e questo criterio è il più bello, mentre quella che per difetto o per eccesso impedisce di servire e di conoscere il dio (fon theon therapeuein kai theorein), questa è cattiva» (Ethica Eudemia, VIII, 3, 1249 b 13-21).
Il fine in vista del quale la saggezza ordina, in questo passo, è chiaramente indicato nella conoscenza del dio, e probabilmente anche nel culto pubblico di esso (therapeuein), come suggerisce Bodétis (R. Bodéus, Aristote et la théologie des vivants immortels, cit., pp. 269-270). Dunque in questo senso il dio è per l’uomo un fine. Ma ciò non conferisce all’etica di Aristotele un carattere teologico, come pretendeva Jaeger, perché il vero fine dell’uomo, in cui consiste la felicità, è in generale la conoscenza delle cause prime, tra le quali è compreso anche il motore immobile, e quindi il dio. Ciò è confermato dal passo dell’Etica Nicomachea parallelo a quello dell’Etica Eudemea appena citato:
«Ma neppure della sapienza (sophia) la saggezza è signora né della parte migliore dell’anima, come neppure della salute è signora la medicina, poiché questa non si serve di quella, ma guarda a come procurarla. La saggezza dunque ordina in vista di quella, ma non a quella. Inoltre sarebbe la stessa cosa se uno dicesse che la saggezza politica comanda sugli dèi, per il fatto che ordina intorno a tutte le cose che sono nella città» (Aristotele, Ethica Nicomachea, VI, 13, 1145 a 6-11).
La saggezza, dunque, ordina in vista della sapienza, la quale è il vero fine dell’uomo. Ma la sapienza è la conoscenza dei princìpi, cioè delle cause prime, fra le quali vi è anche il dio. Di conseguenza la saggezza dirige tutte le azioni dell’anima verso la conoscenza del dio, così come nella città la saggezza politica organizza tutte le cose, compreso il culto pubblico degli dèi. In questa concezione non vi è nulla di teologico: il vero fine dell’uomo, per Aristotele, resta la conoscenza in tutta la sua portata. Anche quando lo Stagirita afferma che l’uomo deve imitare gli dèi, la ragione di questa imitazione è soltanto il valore della conoscenza. Egli dice infatti:
«tutti suppongono che gli dèi vivano e siano in attività, poiché non possiamo supporre che essi dormano come Endimione. Ora, al vivente privo dell’azione morale e ancor più della produzione, che rimane se non la conoscenza (theoria)? Pertanto l’attività del dio, che si distingue per beatitudine, sarà di tipo conoscitivo (theoretike). E di conseguenza fra tutte le attività umane la più simile a questa sarà la più felice […]. Infatti per gli dèi la vita intera è beata, mentre per gli uomini lo è nella misura in cui sussiste una somiglianza con siffatta attività» (Ethica Nicomachea, X, 8, 1178 b 18-27).
Qui abbiamo ancora a che fare con la nozione di divinità accettata da tutti, ma essa è collocata nel quadro di un’etica tipicamente aristotelica, cioè finalizzata alla conoscenza dei princìpi e delle cause prime.
In conclusione, da un lato Aristotele mantiene il concetto di dio che gli proviene dalla religione greca, cioè quello di vivente eterno e ottimo, ma dall’altro si serve di questo concetto per definire la natura del motore immobile, cioè del principio da cui dipende il movimento, e col movimento la vita e l’esistenza, di tutto ciò che è compreso nell’universo,[1] vale a dire del principio supremo, trascendente e onnipotente, anche se non creatore. Pertanto può essere legittimo anche parlare di un Dio di Aristotele con l’iniziale maiuscola, purché si faccia riferimento alla nozione greca di dio e si tenga presente l’intera filosofia di Aristotele, la quale dimostra la necessità di un principio supremo e trascendente, dotato di caratteri personali, cioè di intelligenza e volontà, e dunque suscettibile di essere classificato nella specie degli dèi, ma al tempo stesso degno di meritare l’iniziale maiuscola, per il fatto di essere il principio supremo, il bene e il bello per eccellenza.
Enrico Berti, Il dio di Aristotele, in: Id., Nuovi studi aristotelici. V. Dialettica, fisica, antropologia, metafisica, Morcelliana, Brescia, 2020, pp. 250, 266-267.
***
[1] Cfr. De caelo, I, 9, 279 a 28-30: «di là dipendono anche per le altre cose, per alcune in modo più preciso e per altre in modo più indiretto, l’essere e il vivere».
Enrico Berti, Professore emerito dell’Università di Padova, dove ha insegnato Storia della filosofia. È socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, membro della Pontificia Accademia delle scienze, presidente onorario dell’Institut International de Philosophie. Tra le sue numerose pubblicazioni: Introduzione alla metafisica (2017), la traduzione italiana della Metafisica di Aristotele (2017), Aristotelismo. Tradizioni di pensiero (2017), Tradurre la «Metafisica» di Aristotele (2017), Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni (2016), La ricerca della verità in filosofia (2014), In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica (20018), A partire dai filosofi antichi (con Luca Grecchi, 2009), Aristotele nel Novecento (2008), Incontri con la filosofia contemporanea (2006).
«Gli italiani che ascoltano musica classica dal vivo rappresentano meno del 10% della popolazione. […] Il fatto nuovo è che oggi si ha voglia di capire, di approfondire, di penetrare nel cuore dell’esperienza musicale in modo non solo sensoriale. […] Non sono uno storico della musica né un musicologo. Sono un compositore […]. Oggi … siamo tornati a pensare che l’etica di un musicista consista nella propria missione estetica, nel pensare, scrivere, eseguire musica bella, forte, intensa, capace di scuotere chi l’ascolta non perché il programma di sala spiega che è stata composta in omaggio alle vittime di questa o quella strage, ma perché l’artista che la sta offrendo ha usato il proprio talento, la propria maestria, per trasformare un’idea, un sentimento, in un momento di musica. […] A scuola ci insegnano come osservare un quadro […] ma non come ascoltare una sinfonia o un’opera, quali corde possiamo mettere in vibrazione, dove è utili indirizzare la nostra attenzione; ed ecco il senso dei miei libri. Anche perché cittadini sensibili sono cittadini migliori. E vivremmo tutti meglio».
Nicola Campogrande, 100 brani di musica classica da ascoltare una volta nella vita, Rizzoli, 2018.
Descrizione
Quello della musica classica è un universo vasto e pieno di bellezza, che con la giusta guida può essere scoperto in tutta la sua meraviglia: in questo libro il grande compositore e divulgatore Nicola Campogrande indica al lettore quali sono i 100 brani che vanno ascoltati almeno una volta nella vita, spaziando dalle origini sino alla musica classica contemporanea. Ciascun brano è presentato brevemente, con un linguaggio chiaro e accattivante, con aneddoti sulla vita dell’autore e riferimenti alla nascita dell’opera. Un’introduzione semplice e appassionante alla musica classica.
Non c’è mai stato
nella storia dell’uomo
un momento
così
delicato. Così adatto
per tornare
a essere parte della
musica del Creato.
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Le macerie
in cui
non
viviamo sono truccate
come puttane.
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L’impero della mente
parla,
straparla,
non sente. L’impero della mente
non sa di noi
e di noi non gli importa
niente.
Aldo Nove, Poemetti della sera, Einaudi, Torino 2020.
Aldo Nove, pseudonimo di Antonio Centanin ( 1967), è uno scrittore e poeta italiano. Lo pseudonimo trae origine da una frase, ALDO DICE 26 X 1, presente nel telegramma diffuso dal Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia (CLNAI) nell’aprile del 1945 per comunicare il giorno (26) e l’ora (1 di notte) in cui dare inizio all’insurrezione dei partigiani a Torino nella guerra di liberazione dall’occupazione nazista. Aldo è appunto il nome presente nel messaggio mentre Nove è dato dalla somma delle tre cifre 2, 6 e 1.
Sul viso di Giulio Reggeni si è riversato tutto il male del mondo. La giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi, è possibile solo se si lotta per un’economia della pace, per un’economia al servizio della persona.
La Repubblica della pace La Repubblica e la Costituzione italiana hanno come fondamento il rifiuto della guerra quale modalità per risolvere le contese internazionali e sociali: è il risultato del processo di riflessione sui disvalori del nazifascismo e sui suoi effetti. La guerra e la violenza sono stati i paradigmi e la sostanza del fascismo. Il travaglio e la tempesta di fuoco scatenata dalla violenza fascista sono stati oggetto di processi di concettualizzazione collettiva al fine di fondare il nuovo Stato italiano dopo la seconda guerra mondiale. La Costituzione è espressione del progetto di fondazione di una nuova comunità nel segno della pace, dei diritti individuali e sociali. La violenza e la coartazione della volontà personale sono state sostituite dal rispetto della dignità della persona e dunque dalla sua autonomia decisionale. La Repubblica dovrebbe educare al logos, sostenere i processi di sviluppo della personalità (art. 3), rendere obbligatoria l’istruzione (art. 34), perché vi è pace dove vi è formazione e partecipazione. La pace è il valore della Costituzione e della Repubblica, non una pace zuccherosa, ma pace dialettica e dialogica, che fa dello scontro-incontro dialogico il fondamento della nuova Repubblica. Di grande rilievo è l’articolo 11 ed il dibattito che l’ha preceduto. La relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini nel 1947 dichiarò, contro ogni nazionalismo, che l’Italia rinnega la guerra in nome del rispetto della pace all’interno dei rapporti internazionali, pace a cui giungere mediante rapporti di reciprocità e limitazioni eventuali della sovranità nazionale:
«Rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Stato indipendente e libero, l’Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli. Contro ogni minaccia di rinascente nazionalismo, la nostra costituzione si riallaccia a ciò che rappresenta non soltanto le più pure tradizioni ma anche lo storico e concreto interesse dell’Italia: il rispetto dei valori internazionali».
Articolo 11 L’articolo 11 è il risultato condiviso del dibattito, e dei confronti, e ribadisce in modo inoppugnabile che la Repubblica ripudia la guerra offensiva e promuove accordi che possano evitare conflitti, e a tal fine sostiene gli organismi internazionali, entro cui risolvere le tensioni internazionali:
«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
La pace non è un valore che vive nell’iperuranio, dev’essere realizzata con una economia che soddisfa i bisogni autentici delle comunità. L’adesione alla NATO (4 aprile 1949) sin da subito ha inficiato l’articolo 11. Pace e giustizia sono un binomio inscindibile, l’una sorregge l’altra. Proclamare la pace e commerciare in armi non è solo una contraddizione, ma una scissione che struttura un modello culturale fondato sulla doppia morale, sull’ipocrisia. Si occulta la verità negando di fatto la pace proclamata nella Costituzione: non vi è pace che nella verità. La Repubblica – che, come da Costituzione, è res publica, cosa pubblica, patrimonio comune – non può perseguire le esclusioni, le conventicole lobbistiche e le verità di regime e del politicamente corretto, le quali sono la negazione della pace. La nostra Repubblica è distante dalla pace e dalla Costituzione che proclama, ora, è solo oligarchia, e dunque non vi è democrazia, ma solo un teatrino ideologico senza spessore: il male è superficiale affermava la Arendt.
L’omicidio Reggeni L’omicidio di Giulio Reggeni commesso in Egitto tra il gennaio ed il febbraio del 2016, non è un semplice caso giudiziario, ma svela la tragedia e le contraddizioni della Repubblica. Le torture della polizia egiziana tormentarono a tal punto Reggeni che la madre dichiarò di averlo riconosciuto dalla punta del naso: le sembrava che tutto il male del mondo si fosse riversato sul figlio. Nelle parole della madre si palesa la verità: il male è del mondo e nel mondo, quest’ultimo è un intreccio di relazioni spesso inconfessabili. L’Egitto, nello scacchiere mediorientale, ha una posizione strategica, può contribuire a determinare i destini della Libia destabilizzata dall’occidente (2011), per cui è oggetto degli interessi di inglesi, francesi e turchi. La Libia galleggia su gas e petrolio. Pertanto il caso Reggeni è interno a tali logiche di depistaggio con tentativi di inquinare i rapporti internazionali al fine di saccheggiare la Libia condizionando la politica egiziana. Si ipotizza che il suo assassinio possa coinvolgere i servizi segreti egiziani e non, al fine di incrinare i rapporti tra Italia ed Egitto con lo scopo di indebolire una concorrente (l’Italia) nell’area mediorientale. È solo un’ipotesi. Il caso Reggeni è un intrigo internazionale che svela la realtà del Capitalismo assoluto, e specialmente svela quanto l’economicismo abbia attaccato frontalmente la Costituzione al punto da renderla solo un documento da utilizzare per la propaganda di circostanza. L’articolo 11 afferma il dialogo internazionale come valore ed abiura la guerra. Samo abituati al linguaggio orwelliano, grazie al quale le missioni di guerra divengono missioni di pace: manipolazione della lingua, tradimento del dettato costituzionale e del popolo, si pratica la guerra, ma si proclama il valore della pace.
Dichiarare la pace, ma vendere armi Il caso Reggeni è emblematico della messa in scena dell’oligarchia italiana. Si rassicura la famiglia ed il popolo con i proclami, per poi scoprire che l’Italia ha venduto all’Egitto due fregate Fremm (classe Bergamini di nuova generazione) per 1,2 miliardi di euro, ma è solo un anticipo, perché l’Egitto e il principale partner commerciale dell’Italia in campo militare. Si calcola che le commesse ammontino a 9-11 miliardi di euro. L’articolo 11 dichiara che l’Italia rifiuta la guerra quale mezzo per risolvere le tensioni internazionali, ma l’Italia vende armi che potrebbero essere utilizzate per le guerre internazionali. Cosa resta dell’articolo 11? Nulla, solo un proposito senza contenuto. L’Italia alimenta la guerra con la vendita delle armi e la violenza che denuncia la coinvolge direttamente. Reggeni è stato ucciso da uno Stato che l’Italia arma. Vi sono colpe giuridiche e morali, l’Italia si trova nella posizione probabilmente di averne entrambe: la violenza che alimenta è un boomerang, come qualsiasi violenza, pronto a riversarsi su coloro che la alimentano. Quando si legge l’articolo 11 si devono ricordare le parole della madre di Giulio nella dichiarazione del 29 marzo del 2016: «Sul viso di Giulio si è riversato tutto il male del mondo». Quel male ci appartiene e giustizia vorrebbe non solo che gli assassini fossero processati, ma anche che si comprendessero le responsabilità italiane. Vendere armi significa fomentare la violenza, per cui ogniqualvolta che leggiamo l’articolo 11 dovremmo rammentare e riflettere sulla vendita delle armi, ed essere presi dall’euristica della paura come l’ha definita H. Jonas. Ovvero, ogni arma venduta espone qualsiasi essere umano al pericolo della violenza che non resta radicata in un luogo, ma si diffonde e potrebbe tornare indietro con effetti non calcolabili. Difendere la pace, volere la giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi, è possibile solo se si lotta per un’economia della pace, per un’economia al servizio della persona. La fase attuale capitalismo è di tipo imperiale, un numero limitato di oligarchi alimenta la violenza internazionale e consolida il proprio potere all’interno di logiche di aggressione e di diffusione di una potenza di fuoco senza comparazione nella storia dell’umanità. La guerra è la struttura del capitalismo nella sua fase imperiale:
«Quasi tutti riconoscono che la guerra attuale è imperialista, ma i più deformano questo concetto o lo applicano unilateralmente o cercano di far credere alla possibilità che questa guerra abbia un significato borghese-progressivo di liberazione nazionale. L’imperialismo è il più alto grado di sviluppo del capitalismo, ed è stato raggiunto soltanto nel XX secolo. Per il capitalismo, sono divenuti angusti i vecchi Stati nazionali, senza la cui formazione esso non avrebbe potuto abbattere il feudalesimo. Il capitalismo ha sviluppato a tal punto la concentrazione, che interi rami dell’industria sono nelle mani di sindacati, di trust, di associazioni di capitalisti miliardari, e quasi tutto il globo è diviso tra questi “signori del capitale”, o in forma di colonie o mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri. Il libero commercio e la concorrenza sono stati sostituiti dalla tendenza al monopolio, dall’usurpazione di terre per impiegarvi dei capitali, per esportare materie prime, ecc. Da liberatore delle nazioni quale era nella lotta contro il feudalesimo, il capitalismo, nella fase imperialista, è divenuto il maggiore oppressore delle nazioni. Da progressivo, il capitalismo è divenuto reazionario; ha sviluppato a tal punto le forze produttive, che l’umanità deve o passare al socialismo o sopportare per anni, e magari per decenni, la lotta armata tra le “grandi” potenze per la conservazione artificiosa del capitalismo mediante le colonie, i monopoli, i privilegi e le oppressioni nazionali di ogni specie».[1]
Perché vi sia giustizia bisogna riportare ogni morte violenta alla sua concretezza storica, altrimenti non potrà che esservi solo il teatrino del politicamente corretto. Abbattere statue, come in questi giorni, non produce cambiamenti di alcun genere. Le statue sono parte degli strati archeologici della storia, sono monumenti che devono indurre a riflettere sui valori delle nostre comunità. Abbattere, in assenza di progetti politici, è solo un atto disperato e nichilistico da parte di coloro che hanno rinunciato a creare nuovi concetti, a lottare contro i fondamenti su cui si basa il sistema. Vi è un malessere non concettualizzato che non preoccupa il potere, in quanto si limita ad azioni disorganiche e senza futuro, e, che anzi, confermano il presente. Se si vuole dare giustizia e pace alle vittime della violenza è necessario pensare la volenza di sistema per poterla neutralizzare.
Salvatore Bravo
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[1] V.I. Lenin, Il socialismo e la guerra, trascritta per Internet dalla redazione “Che fare”, Aprile 2000.
«Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave».
Il destino dei buoni libri sembra essere quello di rinascere continuamente diversi nel tempo. Ogni epoca, ogni svolta di cultura, li riavvicina e penetra come cosa del tutto nuova e li riscopre. Così, la storia delle diverse letture di un libro può costituire la storia della sua ricchezza. Ogni nuova lettura ne mette in luce qualche inatteso aspetto, ne riconquista qualche elemento insospettato ancora, e lo fa vivere accanto a ciò per cui già il libro viveva; quando, addirittura, non mette in ombra le sue stesse precedenti ragioni di vita.
Dino Formaggio, “Giudizio storico e teoria dell’arte (a proposito di una ristampa italiana dello Schlosser)”, in Id., L’idea di artisticità. Dalla «morte dell’arte» al «ricominciamento» dell’estetica filosofica, Casa Editrice Ceschina, Milano, 1962, p. 351
«La questione filosofica essenziale è dunque la totalità, che deve essere osservata da tutti i punti di vista. Così l’intuizione di Nietzsche è solo l’inizio di una ricognizione approfondita … il filosofo deve essere sorretto da un grande amore per l’ essere umano, la vita e la conoscenza: con un atteggiamento critico, non erudito, pluralistico o “panteistico” potrà cogliere l’individualità più profonda e la totalità, che è superiore alle singole parti, e potrà superare la frammentazione, le parti separate e la discontinuità del mondo».
Pierpaolo De Giorgi, Pizzica e armonia. Dallo sguardo di Dioniso al tarantismo. Una nuova filosofia e via terapeutica, Editori Congedo, Lecce 2018, p. 168.
Sergio Quinzio e la critica alla società del benessere, lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità. L’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione. Chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla.
Avere tutto, potere tutto, essere tutto. Soddisfare ogni possibile desiderio prima ancora che nasca, e inventarne di nuovi per il gusto di soddisfarli. Non conoscere limiti; vivere nel benessere e nella libertà edenici. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù, prima di cadere nella morte, pronuncia le sue ultime parole: consummatum est. Consumare come finire, dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo.
La vera minaccia sta nel fatto che il processo tende all’insoddisfazione assoluta, all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose, in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà.
Ma che rapporto c’è fra il benessere e la felicità? Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosi è la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore.
La parola felicità, che nel suo significato etimologico indica l’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione.
La società del benessere è un’idea che nasce dalla tecnica produttivistica.
La morte di dio coincide con la morte della verità, per cui chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla, all’olocausto della verità.
Oggi è necessario unire le forze critiche, ascoltare la multifocalità delle prospettive altre, per formare la comune consapevolezza del male che avanza. Il male è l’infantilismo di massa indotto con cui sussumere fasce sempre più vaste di popolazione cristallizata in un’eterna adolescenza senza identità e progetto.
Consumare-finire Sergio Quinzio, filosofo e teologo di difficile collocazione, pur in una prospettiva altra rispetto alle sinistre marxiane e marxiste, analizza lo stato presente nella sua apocalittica e misera problematicità. La chiesa ha spesso cavalcato lo spirito del mondo: l’altare, associato al trono, è stato parte del processo di sussunzione e dominio. Quinzio analizza le metamorfosi delle forme di sussunzione. Nei suoi testi la religione ed i valori cristiani sono paradigmi con cui denunciare il capitalismo assoluto: la disumanità come sistema. La responsabilità umana ed il male sono parte integrante della visione cristiana di Quinzio. La responsabilità umana è l’altro volto della kenosi[1], dello svuotamento dell’onnipotenza di Dio, che permette la libertà degli esseri umani e con essa la possibilità del male. Il giudizio sul capitalismo assoluto non conosce appello: esso è il ribaltamento del bene, imita e perverte la pienezza del bene con il feticismo delle merci. Il consumo onnivoro divora anche il vero eden-bene, lo cancella, lo assimila col fremito immaginifico dell’abbondanza delle merci. Consumare non è un atto neutro: consumare significa annichilire l’essere, fagocitarlo. Consumare significa derealizzare il mondo e la realtà fino alla realizzazione minacciosa ed integrale del nulla. L’onnipotenza del consumo divora la categoria della possibilità, della vita, al suo posto vi è l’unidirezionalità meccanica del gesto esiziale che preannuncia la sua fine:
«Avere tutto, potere tutto, essere tutto. Soddisfare ogni possibile desiderio prima ancora che nasca, e inventarne di nuovi per il gusto di soddisfarli. Non conoscere limiti; vivere nel benessere e nella libertà edenici. È ancora l’idea del regno dei cieli, in un adattamento e in una trasposizione dove ogni aspetto trova il suo corrispondente. Anche il consumare. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù, prima di cadere nella morte, pronuncia le sue ultime parole: consummatum est. Dagli altri vangeli queste parole non sono state tramandate: le riporta solo l’ultimo degli evangelisti, quello al quale è attribuita la rivelazione della fine dei tempi e del giorno del Signore contenuta nell’Apocalisse. Consumare come finire, dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo».[2]
Disincanto Colui che è nella trappola del consumo, dipende dalle cose, è trainato con violenza da agenti esterni, è il triste complice dell’apocalisse di un intero pianeta. L’accumulo non garantisce la felicità, anzi il consumo è inversamente proporzionale alla felicità: il consumo smodato delude sempre. Il consumatore assoluto, figura antropologica del turbocapitalismo, vive in un clima di perenne conflitto, l’atmosfera relazionale è appestata dalla sfiducia e dalla violenza dei concorrenti. Il consumatore assoluto è sul mercato della violenza, ne è parte, ma non la percepisce, consuma, ma è consumato dal disincanto che il feticismo delle merci gli comunica:
«L’americano Vance Packard proclama allarmato che la continua dilatazione dei consumi, favorita allo scopo di far crescere di pari passo la produzione, non può durare all’infinito, perché si giungerà prima o poi al limite di saturazione, e cioè a una condizione finale di blocco. Questa morte per affogamento nel proprio grasso è la previsione avanzata da insigni cultori della scienza economica e appassionatamente negata, in nome della stessa scienza, da altri esperti non meno illustri, come Walter Heller. Sia come sia, l’apocalisse è molto meno scientifica e molto più radicale. È probabile che esistano infiniti universi di beni da inventare e da produrre – dal momento che la loro utilità non è affatto in gioco – e che abbia quindi ragione la scienza ottimista e torto quella pessimista (sempre che l’ottimismo non sia destinato a ricevere qualche grosso contraccolpo dall’esterno del sistema). Ma la vera minaccia sta nel fatto che la soddisfazione, o magari la felicità, ricavata dalla fruizione dei singoli beni economici diminuisce con l’aumentare globale dei consumi, e che quindi il processo tende all’insoddisfazione assoluta, all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose, in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà».[3]
La merce come sostanza prima La società del consumo ha la sua sostanza prima e perversa: la merce. Ogni ente è posto sulla linea della merce da consumare. La merce è il mitico modello di fondazione a cui tutto eguagliare: gli esseri umani non sono che merce tra le merci, il pianeta è merce da consumare, il globo terrestre è solo un ampio mercato senza significato, tutto procede fatalmente; avendo il sistema fatalmente disperso ogni teleologia e logos, si autoriproduce secondo un perverso movimento:
«Come conseguenza dell’identificazione degli oggetti fra loro – privati di significato e ridotti tutti al minimo denominatore comune dell’essere oggetti – c’è il sussistere di istituti, concetti, prassi, tradizioni, formule che hanno esaurito da molto tempo il loro senso e il loro valore: in quanto liberati dalla necessità di adempiere ad altra funzione che non sia tutta nell’essere oggetti, continuano a vivere, o piuttosto a restare, dal momento che gli oggetti non vivono. Questa insperata salvezza nella comune dannazione è sopraggiunta, per esempio, sulla chiesa cattolica, e i luoghi di culto cristiani – proprio quando il culto è solo per gli oggetti – sono tornati a riempirsi. Perché dove la realtà è consumata non esiste più una possibilità di offrire oggetti senza che vengano automaticamente consumati. Tra queste sopravvivenze, o piuttosto permanenze, di cose svuotate di valore ci sono i princìpi sui quali si regge la società civile, gli ordinamenti e le leggi: poiché la diffusione del benessere e l’avvento della società opulenta discendono in modo quasi esclusivo dall’incremento della produttività determinato dallo sviluppo delle scienze e delle tecniche, e cioè dalla messianica possibilità di far tendere la produzione all’infinito e contemporaneamente i costi a zero, princìpi, ordinamenti e leggi sono in realtà impotenti a dirigerne o a mutarne o a modificarne il corso, scongiurandone la minaccia finale». [4]
Assimilazione regressiva La felicità promessa vive nell’illusione di un tempo a venire, nella ripetizione di un ciclo cosmico e pagano, in cui l’attimo presente è pregno della frustrazione di domani, della speranza irriflessa nella magia della merce. Il consumismo integrale con la sua circolarità temporale è una forma di paganesimo, la vita degli esseri umani diviene organica al tempo circolare, diviene parte dei cicli naturali. Il progetto esistenziale e collettivo è sostituito dall’assimilazione regressiva ai cicli temporali. Il consumo produce solo altro consumo, in un circuito di dipendenza senza scampo: i dannati degli ipermercati sono infecondi, perché la felicità è osmosi con il mondo, è relazione biunivoca, mentre la felicità delle merci è sterile, è ripetizione di un atto servile, è impotenza generalizzata venata di violenza acquisitiva:
«È strano che, in una società dinamica come la nostra, l’ideale inseguito sia statico: il benessere, lo star bene, la sazietà soddisfatta e conclusa. Mentre le antiche civiltà statiche proponevano l’ideale aperto della felicità, parola che con femina, fenus, fecundus, fetus deriva da felare (poppare, succhiare), con significato di fecondo, fertile. Ma che rapporto c’è fra il benessere e la felicità? Sembra che gli uomini del benessere subiscano l’imposizione di una identificazione obbligatoria: in qualche oscuro modo la felicità la vogliono, e tutto quello che viene offerto è invece il benessere, che non è una macchina più o meno adatta a produrre la felicità, ma una macchina che sta al posto della felicità, in sua vece. Un uomo che credesse ancora davvero nella possibilità di essere felice non riuscirebbe a concepire neanche l’idea del benessere, la parola stessa non avrebbe per lui nessun senso. Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosi è la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore». [5]
Le parole e l’ordine del discorso sono un perenne luogo di battaglia. Per avanzare il capitale assoluto deve ridistribuire le parole, modificarne il significato, sottrarre significati per impedire che le parole possano essere veicolo di alternative. La storia e la filosofia sono anch’esse ridimensionate e disposte nell’ottica del trionfo del liberalismo e della fine della storia: oltre il presente non vi è nulla, la gabbia d’acciaio è totalità sostanziale. La religione è tollerata solo come servizio di assistenza. La parola felicità (dal latino “femina”), che nel suo significato etimologico indica l’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione, con la tracotanza dell’avere che costruisce barriere, atomizza, isola e rende il capitalismo assoluto fonte di verità e di affermazione indiscussa. Il postulato del consumare non è mai messo in discussione, è il dogma a cui ci si inchina a prescindere dalla posizione che si occupa nel modo di produzione. Si è così avvinti da forze che non lasciano scampo e che esigono il continuo olocausto di sé (holòkaustos, “bruciato interamente”), del mondo, in un bruciare che non è sono metaforico:
«La società del benessere non ha niente in comune con una società che si proponga di migliorare le condizioni materiali di vita degli uomini, è tutt’altra cosa. Nasce dal postulato che non esista altra realtà al di fuori della produzione e del consumo, che non esista altro significato al di fuori del disporre di moltissimi oggetti. Importanti sono gli oggetti in sé e per sé, in quanto feticci: gli stessi bisogni cadono quindi nell’ombra e non si sa neppure più cosa siano. Al benessere non si può sovrapporre la moralità, perché le idee non sono comunque sovrapponibili e reciprocamente penetrabili. La società del benessere è un’idea che nasce dalla tecnica produttivistica, e che ubbidisce quindi alla sua logica interna deducendone automaticamente una sua morale, l’unica che non la contraddica: la morale dell’efficienza e del suo successo messa in luce da Max Weber. Non si può fondere il bisogno di felicità naturale dei secoli pagani, la morale cristiana, il moderno stato di diritto, le tecniche produttivistiche contemporanee, e risolvere così un problema di scelta scegliendo tutto insieme. Di veramente caratteristico, nell’attuale società, c’è infatti il rifiuto delle scelte, che è stato battezzato civiltà pluralistica o del dialogo o, precisamente, del benessere. Questo tipo di società sceglie, di fatto, il benessere; ma è una strana scelta, perché il benessere implica l’accettazione indifferenziata di tutte le cose e di tutte le idee. Il presupposto implicito è che, non valendo nessun criterio di preferenza, il risultato auspicabile e necessario può aversi solo mediante l’incremento quantitativo». [6]
Produttivismo indifferenziato La critica di Sergio Quinzio si fa rilevante, coglie nelle alternative apparse nella storia del Novecento lo stesso male: la produzione senza misura. La storia non è stata maestra di vita, ha riprodotto lo stesso schema in contesti diversi: il produttivismo, il saccheggio, la sussunzione dei dominatori che in gioco di cambi di maschere ideologiche sono la riproposizione dello stesso tragico problema, ovvero il tentativo programmatico di negare il limite, la misura per l’onnipotenza della produzione. L’economicismo è dunque la cifra della modernità, l’alternativa non può che iniziare dal mettere il discussione la sacralità dell’economia. Marx, con il Capitale, ha teorizzato l’uscita dal paradigma dell’economia; il Vangelo ha parole lapalissiane verso la proprietà privata e la cattiva distribuzione dei beni, al punto che la Chiesa è stata l’istituzione che ne ha impedito la lettura rivoluzionaria:
«Ma il tragico è che non si vede che cosa si debba o si possa scegliere al di fuori del benessere che occupa tutto l’orizzonte, che sembra assorbire tutta la realtà. Il benessere, per esempio, ha deglutito tutto il movimento operaio, declassandolo da fatto capovolgente a fatto correttivo. Il guasto più profondo sta nell’incapacità di concepire scelte veramente alternative. Dal vangelo alla rivoluzione francese, dal socialismo alla società opulenta, dai testi eruditi ai fumetti c’è ormai un unico schieramento che incarna per definizione la civiltà e il progresso, la cui compattezza, essendo fondata sul benessere, è garantita dalla rinuncia a qualsiasi verità e insidiata soltanto dai conflitti di interessi istituzionalizzati. Di quanto si è allargata spazialmente la libertà formale, di tanto è diventata pesante e paralizzante l’illibertà sostanziale, coincidente con la preclusione di qualunque alternativa e speranza. L’accettazione del sistema è obbligata, e diventa perciò inutile qualunque riserva, qualunque protesta, qualunque accusa». [7]
La poietica (dal gr. poiētikós, der. di póiēsis “produzione”) è il nuovo fascismo della quantità: l’io desiderante è solo l’epifenomeno del mercato, che attraverso il condizionamento dei mezzi mediatici sostituisce l’io con una finzione dello stesso, con l’io minimo organico al mercato. Individualismo astratto che idolatra i consumi personali per astrarsi ed estraniarsi dalla cura del mondo.
Verità e tolleranza Consumare significa finire: il fine è sostituire la verità con l’indifferenza e rappresentare quest’ultima per tolleranza ed inclusione. Senza verità, il soggetto non ha più bisogni profondi, non parla con se stesso, è straniero a se stesso, il nulla avanza e rende l’io disabitato:
«Un altro infine, che funzionava spaventosamente bene ancora ieri, è già quasi del tutto seccato: convogliava l’intransigenza e l’intolleranza, il poco e il corrotto, cioè, che era rimasto della fede nella verità assoluta. L’indifferenza per la verità ha prodotto la tolleranza. Resta ancora qualche sedimento d’intolleranza, defluito dal piano delle fedi e poi delle idee a quello degli interessi personali contingenti, ma stiamo per diventare tutti opulenti e presto non avremo più né bisogni né interessi. Allora, nel nulla, non ci saranno attriti». [8]
Conclusione L’analisi di Sergio Quinzio è un appello all’agire e alla responsabilità umana che devono emanciparsi dal male, dall’eccedenza della sofferenza. L’essere umano non si salva da solo, ma è vocato alla responsabilità storica nel suo tendere verso la fine dei tempi. Il cristianesimo di Quinzio è una forma di umanesimo, poiché la fede non deresponsabilizza, e dinanzi allo svuotamento di Dio, al male che irrompe nella storia con l’inquietante consumo dell’essere e dell’esserci, l’umanità deve testimoniare che un altro modo di vivere è possibile.
La morte di dio coincide con la morte della verità, per cui chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla, all’olocausto della verità. La comune critica da posizioni diverse contribuisce a chiarire la condizione storica presente. La fatica del concetto vive nella relazione tra identità, differenze. La critica è il lievito della prassi, la prepara, ne affina la consapevolezza. La complessità della globalizzazione necessita di più voci per essere compresa e per rispondere alle contraddizioni che la attraversano fatalmente. Il capitalismo contemporaneo si struttura e consolida nell’esproprio non solo dei beni comuni, ma, specialmente, nel rendere – mediante la pratica del consumo – gli esseri umani infantili, persone che non pongono il problema del senso e del limite. Pertanto oggi è necessario unire le forze critiche, ascoltare la multifocalità delle prospettive altre, per formare la comune consapevolezza del male che avanza. Il male è l’infantilismo di massa indotto con cui sussumere fasce sempre più vaste di popolazione cristallizata in un’eterna adolescenza senza identità e progetto, per poterle dominare:
«Più semplicemente: il capitale oggi non mira tanto ad alienare/estraniare cercando di imporre uno specifico modo, una determinata forma di vita, ma impedendo ogni cristallizzazione di un modo, ogni strutturazione di una forma di vita. Mira a lasciarci infanti, a non farci mai crescere, non vuole narrare una storia o impedirne la narrazione ma gettarci in un’apocalisse permanente. Non serve più distruggere un mondo, una storia, una cultura, una tradizione, se riesci a far sì che non possa mai costruirsene una, che il tempo non riesca mai a solidificarsi, che la tendenza non riesca mai a istituirsi, mettendo le mani sulla capacità di costruire, sulla facoltà di solidificare, sulla potenzialità di istituire. A che serve intaccare una qualche realizzazione e configurazione di “famiglia”, “stato”, “nazione”, “comunità”, “personalità”, “felicità”, se riesci a impedire che possa mai emergere un qualsiasi coagulo? A che serve radere al suolo tutto ciò che è stato edificato se riesci a impedire che possa più edificarsi qualcosa andando a distruggere giorno per giorno il cantiere aperto per riaprirne uno subito dopo? A che serve cucirti addosso una nicchia o una gabbia (fosse anche dorata), quando basta renderti un migrante senza fissa dimora? A che serve impedirti di fare questo o costringerti a fare quest’altro quando basta bombardarti di stimoli, di possibilità e di informazioni impedendoti così di strutturare qualsiasi atto, di articolare qualsiasi risposta, di tradurli in una qualche azione? Per tenerti fermo è più facile sollecitarti in infiniti modi che non impedirti un qualche movimento o richiedertene qualche altro». [9]
Dinanzi alla tragedia del presente è necessario l’ascolto di tutte le voci dissenzienti per rimettere in cammino le comunità.
Salvatore Bravo
***
[1] Kenosi parola greca da κένωσις, kénōsis, in italiano “kenosi” o “chenosi”, che deriva dall’aggettivo κενός, kenós, che significa “vuoto”. [2] Sergio Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, Adelphi eBook, 2014. [3]Ibidem, p. 12. [4]Ibidem, p. 13. [5]Ibidem, p. 14. [6]Ibidem, pp. 15-16. [7]Ibidem, p. 16. [8]Ibidem, p. 24. [9] Giacomo Pezzano, Tractatus Philosophico-Anthropologicus. Natura umana e capitale, Petite Plaisance, Pistoia 2012, p. 87.
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