Pierre Hadot (1922-2010) – La filosofia vissuta è un modo di vita che abbraccia tutta l’attività umana.
«[…] tutte le scuole dell’antichità rifiutavano di considerare l’attività filosofica come puramente intellettuale, ma la consideravano come una scelta, che impegnava tutta la vita e tutta l’anima. L’esercizio della filosofia non era, quindi, solo intellettuale, ma poteva anche essere spirituale. Il filosofo non forma solo allora a un saper parlare, a un saper discutere, ma a un saper vivere nel senso più forte e nobile del termine. Invita i suoi discepoli a un’arte di vivere, a un modo di vita».
«La filosofia vissuta non si limita alla pratica dei doveri morali, ma comporta un controllo dell’attività di pensiero e una coscienza cosmica. La filosofia vissuta è quindi una pratica, un modo di vita che abbraccia tutta l’attività umana e non solo un’etica nel senso più ristretto del termine».
«[…] il sentimento del sublime può essere ispirato sia dallo spettacolo della natura, sia da quello dell’anima del saggio. Questo tema è particolarmente caro a Seneca, ad esempio nella Lettera 89: “Se solo, come il volto dell’universo che si presenta al nostro sguardo nella sua interezza, la filosofia potesse, anch’essa nella sua interezza, presentarsi ai nostri occhi, replica dello spettacolo dell’universo, essa susciterebbe ammirazione in tutti i mortali”. E soprattutto, nella Lettera 64: “Non sono meno estasiato dalla contemplazione della saggezza di quanto io non lo sia, in altri momenti, dalla contemplazione del mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta.
Il sublime è quindi percepito al tempo stesso nel mondo esterno e all’interno della coscienza. Possiamo immaginare che queste due fonti stoiche del sublime costituiscano il modello antico della celebre frase di Kant, che apre la conclusione della Critica della ragion pratica: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori dal mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza”.
Torniamo alla frase della Lettera 64: il “mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta”. Si tratta di un’osservazione straordinaria, estremamente rivelatrice e che troviamo raramente nell’antichità. Seneca afferma di trovarsi di fronte al mondo come uno spectator novus, che dirige cioè sul mondo uno sguardo nuovo.
Questo sguardo nuovo non è un’intuizione gratuita e inattesa, ma il risultato di uno sforzo interiore, di un esercizio spirituale destinato a vincere l’abitudine che rende banale e meccanico il nostro modo di vedere il mondo, destinato anche a distaccarci dall’ineresse, dall’egoismo, dalle preoccupazioni che ci impediscono di vedere il mondo in quanto mondo, perché ci costringono ad applicare la nostra attenzione sugli oggetti particolari che ci procurano piacere o che ci sono utili. Al contrario, è grazie a uno sforzo di concentrazione sull’istante presente, vivendo ogni momento come se fosse allo stesso tempo il primo e l’ultimo, senza pensare al futuro o al passato, percependo il suo carattere unico e insostituibile, che è possibile percepire, in questo istante, la meravigliosa presenza del mondo. Bisogna anche aggiungere che in Cicerone (De natura deorum, III, 38, 96), Seneca (Naturales quaestiones, VII, l), Lucrezio (De rerum natura, Il, 1023 e ss.) e Agostino (De utilitate credendi, XVI, 34) ritroviamo l’idea per cui è solo l’abitudine, la routine della vita quotidiana che ci impedisce di percepire il mondo come un miracolo. E, per l’appunto, questa percezione del mondo è sublime perché, come la figura del saggio, è un “paradosso”, qualcosa che trascende l’abituale esperienza umana».
Pierre Hadot, Studi di filosofia antica, a cura e con una prefazione di Arnold I. Davidson, trad. di Laura Cremonesi, ETS, Pisa 2015,.