Pierre Hadot (1922–2010) – La riflessione filosofica è motivata e diretta dalla scelta di un modo di vita. “Teoretico” non si oppone a “pratico”. Il “teoretico” esige una filosofia praticata, vissuta, attiva, apportatrice di felicità.

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Che cos'è la filosofia antica?

Che cos’è la filosofia antica?

Che cos’è la Filosofia?

di Salvatore A. Bravo

L’addomesticamento funzionale della Filosofia

Il capitalismo è il regno dell’astratto, trasforma ogni attività vitale in mezzo e non in fine, con l’effetto schizoide di dividere, parcellizzare, strumentalizzare. La Filosofia è anch’essa minacciata, si insegna Filosofia, la si usa, per carriere accademiche. Spesso nel circolo mediatico è solo passerella per gratificare narcisismi primari. La parola bella e ad effetto, la imperante citatologia, la riduce ad ente morto, ad orpello da salotto. Il rischio è che le giovani generazioni la intendano unicamente nella forma astratta, utile per rafforzare le capacità logiche, o come preistoria della scienza.
La società dell’astratto, è il regno dell’omogeneità: ogni ente, come ogni campo di ricerca deve rispondere a funzioni, essere organica al capitale. L’omogeneità omologante è l’epifenomeno della corrente fredda del plusvalore. La passione triste dell’utile astrae e sottrae fino a ridurre ogni manifestazione dello spirito a forma cava senza determinazione e concetto. La Filosofia come forma trasmissiva, senza alcun intento o fine educativo, è la neutralizzazione della stessa, l’anestesia del pensiero.
La Filosofia è prassi, ovvero trasformazione attiva e consapevole di se stessi e della comunità, cura di sé e della comunità. Il fondamento di essa riposa in una scelta, nella passione durevole alla resistenza propositiva. Il pensiero filosofico affonda le sue determinazioni nella carne, in un riorientamento gestaltico grazie al quale il filosofo decide la libertà di esserci contro il potere. Il pensiero, l’adesione ad una corrente filosofica è l’effetto della testimonianza individuale ed irripetibile, ad un modello di vita che si disegna nella carne e che si eleva verso l’universale: filosofare è pensare questa elevazione, senza la quale non vi è che logorroica sequela di parole ripiegate su se stesse. Il filosofo è bimondano appartiene a due mondi: a se stesso ed alla comunità, fa dono di sé alla comunità perché è autentico. Senza autenticità, senza il disporsi ad una verità personale – e nel contempo oggettiva perché pensata – non vi è che il freddo adeguarsi al mondo, al suo chiasso che astrae, distrae ed aliena. Il filosofo vive dentro di sé, stende il confine tra sé ed il mondo, non per isolarsi, o per iattanza, ma per riconfigurare il concetto, per formarlo, dopo non sarà più lo stesso, nel processo di autocoscienza avrà messo in atto un avanzamento.
La Filosofia è “il proprio tempo pensato”, affermava Hegel. Il filosofo è bimondano perché pensa il mondo, lo concettualizza, e tale attività implica un doppio movimento: ritirarsi dal mondo con i suoi stimoli, per rinascere a nuova vita e donarsi, con la semplice testimonianza, con la coerenza tra parola e comportamento. La Filosofia testimonia, in tal modo, che la vita è al plurale, contro ogni cinico riduzionismo nichilista.

 

La Filosofia come atopos

Hadot nelle sue ricerche ha posto attenzione sui processi genetici di formazione della Filosofia. Il filosofo è atopos, è stravagante, non ha collocazione spaziale e temporale convenzionale, si pone in un’ottica nuova, ha il coraggio del “no”, ascolta fortemente la passione del pensiero.

«I suoi concittadini non possono percepire il suo invito a rimettere in discussione tutti i loro valori, tutti i loro modi di agire, a prendere cura di se stessi, se non come un taglio radicale con la vita quotidiana, con le abitudini e le convenzioni della vita di tutti i giorni, con il mondo che è loro familiare. E inoltre, l’esortazione a prendere cura di se stessi non è forse un invito a distaccarsi dalla città, invito che viene da un uomo che sembra lui stesso essere un po’ fuori dal mondo, atopos, ossia sconcertante, non catalogabile, inquietante? Socrate non verrebbe ad essere così il prototipo dell’immagine, tanto diffusa e altrettanto falsa, del filosofo che fugge le difficoltà della vita per rifugiarsi nella sua buona coscienza».[1]

Il filosofo è atopos, ma non fugge dalla città, il suo ritirarsi in sé è l’inizio della catabasi, della discesa tra i concittadini, nella comunità, per condividere un percorso, senza obblighi, cerca amici con cui dividere il dono del pensiero per moltiplicarlo. Non è un caso che la sophia è un “saper fare”, è un ridisporsi per praticare la buona vita, non è un fatale destino l’eccedenza della sofferenza, essa è una condizione scelta solo in apparenza, è la doxa che si materializza in un’esistenza esposta alla tirannia dei sensi come dei dicitur mediatici.

 

La saggezza come mancanza

La sophia inizia con una mancanza, con una lucida constatazione di una privazione, ovvero la saggezza, la pratica di vita, insegna la necessità di una vita saggia, in cui si possa discernere l’autentico dall’inautentico nel rispetto della natura umana. Il metron ed il katechon, la misura ed il limite sono un ideale verso cui tendere, la saggezza è dunque un’assenza e nel contempo una presenza da completare, da ridefinire.

«Ancora una volta si può riconoscere nelle sembianze di Eros non soltanto il filosofo, ma Socrate che, in apparenza, proprio come gli stolti non sapeva niente, ma che al tempo stesso era cosciente di non sapere niente: e dunque era diverso dagli stolti per il fatto di essere cosciente del suo non-sapere, tuttavia desiderando di sapere, anche se, come ho detto, la sua raffigurazione del sapere era profondamente diversa dalla raffigurazione tradizionale. Socrate, il filosofo, è dunque Eros: privato della saggezza, della bellezza, del bene, egli desidera, ama la saggezza, la bellezza, il bene. Egli è Eros e dunque è Desiderio, non un desiderio passivo e nostalgico, ma un desiderio impetuoso, degno di quel “pericoloso cacciatore” che è Eros. In apparenza, non vi è nulla di più semplice e di più naturale di questa posizione intermedia del filosofo: a metà strada tra il sapere e l’ignoranza. Si potrebbe supporre che gli sarà sufficiente praticare la sua attività di filosofo per superare definitivamente l’ignoranza e raggiungere la saggezza. Ma le cose sono alquanto più complesse».[2]

 Il filosofo accoglie la difficoltà della scelta, e la sua prassi, deliberare rettamente secondo virtù, aretè, esige il confronto con la propria medietà, ovvero desiderare la saggezza, in quanto l’assenza di essa, del suo totale possesso, invita ad un orizzonte di ricerca e confronto. Il demone socratico è l’ascolto del logos: non vi è attività più difficile che l’ascolto della parole, del pensiero che si concentra per concettualizzare e deliberare. La sophia con il daimon, e con i propri demoni che confliggono con il logos. L’autodominio è ideale deliberativo ed in quanto tale libero.

«Con il Simposio, l’etimologia della parola philosophia, “amore, desiderio di saggezza”», diventa il programma stesso della filosofia. Si può dire che con il Socrate del Simposio la filosofia assuma, definitivamente nella storia, una colorazione ironica e tragica. Ironica, perché il vero filosofo è colui che sa di non sapere, che sa di non essere saggio e che dunque non è né saggio né non-saggio, che non si sente al suo posto né nel mondo degli stolti, né nel mondo dei saggi, né totalmente nel mondo degli uomini, né totalmente in quello degli dei; che è dunque un non catalogabile, un senza fissa dimora, come Eros e come Socrate. Tragica, perché quest’essere bizzarro è torturato, straziato dal desiderio di raggiungere la saggezza che gli sfugge e che ama».[3]

 

La Filosofia come pratica olistica

Filosofare è confrontarsi con se stessi, trasformare la parola in carne viva, fare del logos una divinità a cui ci si dedica, che vuole dedizione ed attenzione, in cammino delle quali un passo in avanti è stato svolto nella caverna o nella gabbia d’acciaio, ma quel passo è il senso di una vita, è la verità di noi stessi, separa l’inautentico dall’inautentico. Filosofare è una pratica olistica, distante dalle contraddizioni del nostro oggi: il teoretico non è scisso dalla pratica. Per teoretico si intende la buona vita, essa è il vivere per attività conoscitive per se stesse. Lo scandalo oggi è la sospensione dell’utile: il sistema salterebbe senza l’abitudine all’utile. La libertà è gioia, se non dipende dall’utile, o dai risultati, ma è attività vissuta risponde al profondo di sé, per cui il chiasso del mondo diviene secondario. La teoretica implica la pratica, poiché il sapere teoretico dev’essere vissuto, la gioia è nel rendere comunitario ciò che umanizza.

«Nel linguaggio moderno “teorico” si oppone a “pratico” in quanto astratto, speculativo, in contrapposizione a ciò che ha a che fare con l’azione e la concretezza. Sarà dunque lecito, in questa prospettiva, contrapporre un discorso filosofico puramente teorico a una vita filosofica praticata e vissuta. Ma Aristotele stesso non utilizza che la parola “teoretico”, e la utilizza per indicare da una parte il modo di conoscenza che ha come scopo il sapere per il sapere e non un fine esterno a se stesso e, dall’ altra parte, il modo di vita che consiste nel consacrare la vita a questo modo di conoscenza. In quest’ultimo senso, “teoretico” non si oppone a “pratico”; in altre parole, “teoretico” può essere applicato a una filosofia praticata, vissuta, attiva, apportatrice di felicità».[4]

La Filosofia è dunque una pratica, l’adesione ad una scuola sottintende un ridisporsi gestaltico, la scelta concettuale è l’effetto della prassi, del deliberare. Lo studio della Filosofia come sequenza di concetti, nasconde l’essenziale: essa è riposizionamento ed attività nella carne, la concettualizzazione è complementare a tale pratica, il cui fine è formare un habitus ed operare la prassi.

«Penso che sarebbe anche utile precisare in breve la rappresentazione che io stesso mi faccio della filosofia. Ammetto senz’altro che, nell’antichità come ai giorni nostri, la filosofia sia un’attività teorica e “concettualizzante”. Ma penso anche che, nell’antichità, è la scelta compiuta dal filosofo riguardo a un modo di vita a condizionare e determinare le tendenze fondamentali del suo discorso filosofico, e credo, infine, che questo sia valido per tutte le filosofie. Non intendo naturalmente dire che la filosofia sia determinata da una scelta cieca ed arbitraria, ma intendo piuttosto che ci sia un primato della ragione pratica sulla ragione teorica: la riflessione filosofica è motivata e diretta da “ciò che interessa la ragione”, come dice Kant, ovvero dalla scelta di un modo di vita».[5]

 

La Filosofia come pratica dell’inutile concreto

Sono così svelati i pregiudizi con cui si cerca di rimuovere la sua presenza, quando liberata dalle liturgie del clero orante, afferma il diritto alla verità, al fondamento. La Filosofia, si afferma, è astratta ed inutile. Nulla di più menzognero. La Filosofia è concretezza, in quanto riporta l’unità dive vige la divisione, la genealogia dove i processi sono naturalmente ipostatizzati, e specialmente ricongiunge il teoretico con la prassi. In quanto tale, ha un valore etico di per se stessa. Il logos del teoretico con la prassi è un invito, mai un obbligo per la comunità. Se l’uditore non vuole collaborare, è recalcitrante all’ascolto, il Filosofo devia il suo cammino per altri ascolti ed ascoltatori.

«Nell’ordine teoretico non è sufficiente ascoltare un discorso, e nemmeno essere in grado di ripeterlo a memoria, per sapere, vale a dire per accedere alla verità e alla realtà. Prima di tutto, per capire il discorso sarà necessario che chi ascolta abbia già una certa l’esperienza delle cose trattate, una qualche familiarità con l’argomento».[6]

Il logos non è espresso solo con le parole, ma specialmente con la pratica di vita, come già detto, per cui l’esempio è la paideia fattasi carne, e dunque ricerca, etica sociale, ed educazione si ricongiungono per fare della Filosofia una possibilità necessaria della natura umana, senza la quale l’umanità – indebolita dal caos degli stimoli e dai falsi miti – compare e scompare dalla scena della vita e della Storia come semplice attrice che recita un copione scritto da altri.

«Il maestro dovrà dunque prepararsi a subire degli scacchi, tentare e ritentare di correggere il comportamento del discepolo compatendo le sue difficoltà. Per fare ciò è necessario, però, che il discepolo non esiti ad ammettere le proprie difficoltà e i propri errori, e che parli con libertà assoluta. Si vede, dunque, come la tradizione epicurea riconosca il valore terapeutico della parola. Il maestro, da parte sua, dovrà ascoltare con simpatia, senza irrisione né malevolenza. In risposta alla “confessione” del discepolo, il maestro dovrà anch’egli parlare liberamente per ammonire il discepolo, facendogli capire lo scopo effettivo dei rimproveri che gli ha rivolto. Epicuro, nota Filodemo, non aveva esitato a rimproverare vivamente il suo discepolo Apollonide in una lettera a quest’ultimo indirizzata. Occorre che l’ammonimento sia sereno, senza mancare di benevolenza. Si noterà che Filodemo aggiunge anche che il filosofo non deve temere di rivolgere rimproveri agli uomini politici».[7]

L’ostilità verso la Filosofia, il suo addomesticamento mediatico, celano il timore di una posizione etica all’interno di un contesto globale, che ha fatto dell’indifferenza ed del cinismo il paradigma di una libertà quantitativa, senza qualità. Necessitiamo di strutture di pensiero, e non solo di PIL. Ma urge fare chiarezza su cosa sia la Filosofia, affinché la speranza del logos possa riportare nella «gabbia d’acciaio» del disincanto una deviazione, un clinamen significativo.

Salvatore A. Bravo

[1] Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Torino 2010, p. 38.

[2] Ibidem, pp. 46-47.

[3] Ibidem, p. 48.

[4] Ibidem, pp. 79-80.

[5] Ibidem, p. 260.

[6] Ibidem, p. 87.

[7] Ibidem, p. 206.


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