«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
http://www.petiteplaisance.it/libri/371-380/378/int378.html371 Silvia Gastaldi, Fulvia de Luise w Mario Vegetti / Diego Lanza v Gherardo Ugolini, Giusto Picone, In ricordo di una amicizia filosofica. ISBN 978–88–7588-282-2, 2021, pp. 120, formato 140×210 mm, Euro 13 – Collana “Il giogo” [128]. In copertina: Raffaello Sanzio, Autoritratto con un amico, Parigi, Museo del Louvre, 1518-1520 circa.
372 Costanzo Preve, Hegel Marx Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea. II Edizione.
ISBN 978-88-7588-284-6, 2021, pp. 96, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [72]. In copertina: Elaborazione creativa dell’opera di Eduardo Chillida, Elogio del Horizonte, Gijón (1990).
373 Aldo Lo Schiavo, Il contributo della tragedia attica al razionalismo antico. ISBN 978–88–7588-286-0, 2021, pp. 96, formato 140×210 mm, Euro 10 – Collana “Il giogo” [129].
In copertina: Epigrafe scolpita sulla pietra, Teatro antico della Acropoli di Atene.
374 Livio Rossetti, Strategie macro-retoriche. Prefazione di Mauro Serra.
ISBN 978–88–7588-280-8, 2021, pp. 192, formato 130×200 mm, Euro 16 – Collana “Il giogo” [130].
In copertina: Joan Mirò, Il mio Alfabeto, 1972.
376 Costanzo Preve, Marxismo Filosofia Verità. Seconda Edizione.
ISBN 978-88-7588-290-7, 2021, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [74]. In copertina: Gustav Klimt, Nuda Veritas, olio su tela, 1899, Österreichisches Theatermuseum, Vienna. In quarta: G. Klimt, Nuda Veritas, tavola pubblicata nel 1898 sulla rivista viennese “Ver Sacrum”.
377 Claudio Lucchini, La scuola della merce e le esigenze della libera individualità. ISBN 978-88-7588-292-1, 2021, pp. 80, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [131]. In copertina: Andy Warhol, Campbell’s Soup Cans, 1962 e Henri Matisse, La Danse, 1910.
378 Salvatore A. Bravo, Pilocchio. Storia di un Pinocchio dei nostri giorni. ISBN 978-88-7588-294-5, 2021, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Divergenze” [75]. In copertina: Antonio de Curtis, Totò nel quadro «Pinocchio e Lucignolo», Rivista teatrale Volumineide, 1942.
379 Aldo Lo Schiavo, Filosofia del mito greco. In Appendice: Themis, la dea del giusto consiglio.
ISBN 978–88–7588-296-9, 2021, pp. 80, formato 140×210 mm, Euro 10 – Collana “Il giogo” [132].
In copertina: Themis di Ramnunte, dal tempio di Nemesi (ca. 300 a.C.), Museo Archeologico Nazionale di Atene. In quarta: Charites (grazie), rilievo votivo, periodo arcaico. Glyptothek, Monaco di Baviera, Germania.
380 Margherita Guidacci, Lato di ponente. A cura di Ilaria Rabatti.
ISBN 978–88–7588-267-9, 2021, pp. 112, formato 140×210 mm, Euro 13 – Collana “Egeria” [20].
In copertina: Giorgione, La vecchia, 1506 circa, part. Gallerie dell’Accademia, Venezia.
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La condanna platonica della tirannide è radicale La condanna platonica della tirannide è la più radicale che la storia del pensiero politico abbia mai pronunziato. Anche se tanta parte della cultura e della politica greche aveva già manifestato forte avversione a ogni forma di tirannide, quella di Platone può essere considerata a ragione la più coerentemente argomentata e fondata, e anche perciò rimane una condanna senza appello, definitiva. Platone infatti collega, come sappiamo, la fenomenologia politica al fondamento ontologico della costituzione psichica dell’uomo. Su tale base, la tirannide si pone necessariamente all’estremo limite della scala degenerativa del potere, così come l’uomo tirannico costituisce l’ultimo anello della degradazione morale dell’individuo. Alla radice di tutto ciò sta l’eros tyrannos (Repubblica, 573 b). L’indigenza (penia), l’insaziabilità (aplestia), lo spavento (phobos) caratterizzano certamente la personalità del tiranno (577 e – 578 a). Ma più di ogni altra cosa, è la condizione di schiavitù a contrassegnare sia la città dominata dal tiranno sia l’uomo dominato dall’animo tirannico: in entrambi i casi viene ridotta al minimo la possibilità di agire secondo libera determinazione (577 c-e). La tirannide si pone all’ultimo gradino delle forme politiche degenerate proprio perché si trova all’estremo opposto della città ideale, così come l’individuo tirannico si trova all’estremo opposto dell’uomo regale aristocratico (576 d, 580 b-c). In effetti, «non c’è città più sventurata di quella sottoposta a tirannide, né più felice di quella governata dalla regalità» (576 e); correlativamente, «l’uomo più virtuoso e più giusto è il più felice, […] il più malvagio e più ingiusto è il più sventurato» (580 c). Si ha così anche la dimostrazione conclusiva del punto che Socrate aveva posto all’inizio della Repubblica (354 a): «il giusto è felice, l’ingiusto sventurato» (pp. 351-352).
Per Platone la città perfetta è un prodotto della ragione filosofica […] Per Platone la città perfetta, indipendentemente dal fatto che sia mai esistita o che possa esistere da qualche parte, prima di ogni altra cosa è un prodotto della ragione filosofica. Essa «è posta in cielo come un modello (paradeigma) offerto a chi voglia vederlo, e tenendolo d’occhio possa insediarvi se stesso» (Resp. 592 b; trad. di M. Vegetti). Più esattamente, fuor di metafora, essa si configura come un imperativo laico, il dover essere di ogni persona filosoficamente formata. Questi può vederla idealmente in cielo, in quanto può realizzarla in se stesso come una «costituzione interiore» (591 e 1; 590 e 4), in quanto cioè si fa governare da ciò che in lui «è divino e dotato d’intelligenza» (590 d), dalla ragione appunto. La città ideale di Platone non cerca una legittimazione teologica, né un fondamento trascendente. Essa trova fondamento e legittimità nella natura razionale dell’uomo, alla cui responsabilità intellettuale e morale in ultima analisi risale. Tale valore normativo, però, non si esaurisce nell’interiorità del soggetto, ma obbliga il filosofo a intervenire nella realtà politica, a impegnarsi per la trasformazione della città storica nella città del modello, scoperto dentro se stesso come fosse in cielo. Il suo compito è di istituire quaggiù, e di difenderle se già istituite, le misure delle cose belle giuste e buone che egli vede lassù (484 d 1-3), ovvero che egli scopre con la ragione. Vedendo quelle essenze, «tutte disposte secondo un ordine razionale», egli non può limitarsi a plasmare se stesso, ma deve essere pronto a trasporre nella dimensione della realtà politica quell’ordine superiore noetico che trova disegnato nella città interiore-celeste (500 c-e). […]
La politeia ideale della Repubblica si presenta quale coerente progetto di trasformazione etico-politica della società La politeia ideale della Repubblica, quindi, da un lato costituisce […] il criterio di giudizio e di valutazione critica delle forme costituzionali registrate nella realtà storica, e, dall’altro lato, si presenta quale coerente modello normativo, quale progetto di trasformazione etico-politica della società, progetto sorretto da una rigorosa strategia educativa coinvolgente in modo diretto o indiretto l’intera comunità. Il disegno platonico, perciò, non può definirsi una semplice “metafora dell’anima”, quasi si esaurisse in quella “costituzione interiore” pur auspicata dal filosofo. Né d’altra parte esso assume le sembianze di un mito o di una visione puramente utopica della società. Quel disegno, invece, intende essere un paradigma ideale diretto a orientare l’azione, a guidare i comportamenti morali, sociali e politici dei singoli e dell’intera comunità. La realizzabilità storica di tale modello non è esclusa in linea di principio, sebbene questa possibilità rimane un evento del tutto eccezionale, e anche in questo caso, per i limiti insiti nella natura umana, non potrebbe trattarsi che di una realizzazione imperfetta, di una approssimazione al modello (472 b -473 b; 501 b-c). Della kallipolis (527 c 2) Platone non individua specifiche istituzioni politiche. Stabilisce però quale è la funzione o l’obiettivo dello stato perfetto, quale la sua struttura sociale, quali i fattori o le condizioni che devono contrassegnarlo.
Il progetto di Platone intende risolvere alla radice il problema della stasis Il progetto di Platone intende risolvere alla radice il problema della stasis, della discordia intestina (444 b), che era propria delle città greche in generale e di Atene in particolare, come lo è stato in seguito di tutte le comunità pervase da forte spirito individualistico. L’unità dello stato diventa dunque l’obiettivo primo e fondamentale del suo disegno insieme etico e politico. Mentre una città mal governata non è “una” città ma una “pluralità” di città, una città invece ben governata nel segno della “saggezza” è una città unita (polin mia) (422 e – 423 a). E la ragione di ciò sta nell’attuazione di un «principio», quello della “giustizia” (nel senso platonico del termine), ossia nel principio secondo il quale ogni parte di un tutto (sia esso l’individuo o la città) deve svolgere la propria funzione senza invadere quella delle altre, e fare in modo che tutte si armonizzino fra di loro, in base a quella sapienza (sophia) che presiede a queste cose (443 b – 444 a). In tal modo si ha l’uomo giusto e la città giusta. […] Tale principio riflette ancora il motivo socratico del primato della competenza. Si giunge così a vedere che il massimo bene (megiston agathon) per l’assetto dello stato, quello al quale il legislatore deve mirare nel porre le leggi, consiste nel coordinare insieme le differenti parti (gruppi sociali) della città, in modo da farne di molte una, mentre il massimo male (megiston kakon) consiste nel separare quelle parti, sì da fare di una città sola molte città (462 a 2 – b 2). Alla promozione dell’unità dello stato nella diversità delle sue componenti interne, Platone collega un secondo, non meno importante, obiettivo, che consiste nella promozione e salvaguardia del benessere generale. La felicità (eudaimonia) non può mancare nello stato ideale: bisogna, anzi, che l’intera città, e non un solo gruppo, sia per quanto più possibile felice (420 b-c). […]
Il richiamo all’unità fondativa dello stato è fortemente temperato dal concetto di unità nella diversità Queste tesi rivelano una concezione fortemente unitaria dello stato, ma tutt’altro che sorda e cupa, e anzi alquanto avanzata, attenta al fatto che non vi siano privilegi per alcun gruppo sociale e interessata all’esigenza che tutti i cittadini partecipino del benessere comune. Il problema è che, di fronte al valore assoluto dello stato, il singolo individuo non compare come soggetto portatore di valori autonomi, non conta come tale; compare soltanto come cittadino e come membro di una classe sociale. Questo limite è tipico, peraltro, della concezione tradizionale della polis greca. Semmai bisogna riconoscere che Platone approfondisce, come nessun altro pensatore greco, gli elementi costitutivi che sono al fondo della personalità umana e della sua autonoma responsabilità, elementi in mancanza dei quali non avrebbe neppure senso parlare dell’individuo come soggetto autonomo. Il richiamo all’unità fondativa dello stato, d’altra parte, è fortemente temperato dal concetto di unità nella diversità, diversità di ruoli e di funzioni relativi purtroppo ai gruppi sociali più che agli individui nella loro singolare autonomia (pp. 355-358).
Il manifesto del filosofo laico
La digressione sul filosofo contenuta nel Teeteto (172 c – 177 c) per un verso richiama motivi socratici presenti nella giovanile Apologia, ma per altro e più importante verso si colloca nella prospettiva di pensiero della maturità di Platone. Conviene ora esaminare queste pagine nella loro interezza, individuando i punti salienti del discorso di Socrate, prima di formulare un giudizio d’insieme sulla digressione stessa.
La schiavitù dei retori e la libertà del filosofo Il filo conduttore del ragionamento di quelle pagine è rappresentato dalla contrapposizione fra due condizioni di vita antitetici: la schiavitù del retore e la libertà del filosofo. Fin dalle prime righe del discorso di Socrate (172 c) viene sottolineata la differenza che corre fra quanti sono abituati a frequentare tribunali e luoghi simili e quanti invece sono stati allevati allo studio della filosofia. I primi appaiono come schiavi di fronte a uomini liberi. La circostanza che discrimina le due condizioni sta nel modo di utilizzare il proprio tempo. Nella ricerca filosofica, la libertà (eleutheria) si sposa alla padronanza del proprio tempo; nella ricerca del successo, la schiavitù (douleia) è una conseguenza dei condizionamenti del tempo a disposizione nell’agone giudiziario o politico. Quelli che hanno trascorso «molto tempo» nello studio della filosofia, apprezzano il loro tempo libero, conducono i loro discorsi con agio, possono tranquillamente passare da un discorso all’altro se questo serve al loro unico obiettivo: arrivare a cogliere «ciò che è», l’essere (172 d 9). Gli altri, al contrario, si sentono incalzati dal tempo che scorre secondo la misura della clessidra, non possono svolgere i discorsi come desiderano, devono anzi sottostare ai limiti loro imposti da un padrone-giudice che, seduto sopra uno scanno, ha nelle sue mani «una certa giustizia» (172 e 6). Pur di prevalere nei tribunali o nelle assemblee, retori e simili non esitano ad agire per vie oblique, a ricorrere a menzogne e ingiurie, fino a perdere la dignità di un uomo libero. Soprattutto imparano presto a lusingare il loro padrone-giudice con le parole e a ingraziarselo con i fatti (173 a). In questa pagina, la condanna dei giudici e della giustizia amministrata dalla città non nasce, come nell’Apologia, dal caso singolo della sentenza ingiusta pronunciata contro Socrate, bensì è una condanna assai più forte, vuole essere una condanna generale dei tribunali e dei singoli giudici di ogni città e di ogni tempo, giudici ai quali sembrano inevitabilmente connaturati arroganza, arbitrio, corruzione. Il termine despotes qui usato per designare i giudici, appunto giudici-padroni, non lascia adito a dubbi sulla portata della loro condanna, una condanna senza appello. Il giudice non è uomo di giustizia, di cui illegittimamente si ammanta, perché, al pari dei retori, non fa parte degli uomini allevati nella filosofia, e quindi ignora cosa sia la vera giustizia, la giustizia in sé. A distanza di oltre tre secoli, Platone rinnova e rafforza filosoficamente la condanna espressa da Esiodo negli Erga nei confronti dei giudici-re del suo tempo, che ripetutamente definisce mangiatori di doni (dorophagoi).
Il sapere cui tende il filosofo Chi si occupa di filosofia non ha giudici che presiedano alla sua attività, non è interessato a ciò che si discute nei tribunali o in altre adunanze pubbliche, né sa di tutte quelle cose e pettegolezzi di cui gli altri si servono per acquistare onori e reputazione. Soltanto il suo corpo risiede nella città, mentre il suo pensiero vola altrove, verso «le profondità della terra», come diceva Pindaro, o piuttosto verso l’indagine scientifica, la geometria, l’astronomia, la natura stessa degli esseri nella loro universalità. Esprime bene questo orientamento del filosofo la storiella di Talete deriso dalla servetta tracia perché, tutto preso a osservare le cose del cielo, non si accorgeva degli ostacoli che aveva davanti ai suoi piedi (173 c – 174 a). Qui siamo di fronte a un Platone molto lontano dall’agnosticismo del maestro. Quel Socrate che nell’Apologia dichiara di non sapere, e che anzi controbatte le accuse di Aristofane (19 b-d) asserendo che delle cose di sotterra e di quelle celesti egli non se ne intende né molto né poco e neppure si cura di fame ricerca, ebbene quel Socrate è stato sostituito nel Teeteto da un altro Socrate, il quale, al contrario del precedente, è proprio impegnato nella ricerca di come stanno le cose di sotterra e del cielo, è anzi tutto proteso ad abbracciare col pensiero «la terra tutta intera» e a fissare sempre lo sguardo su «il tutto (to pan)» (174 e 4 – 175 a 1). L’indagine sulla totalità del reale avvicina il filosofo alla sophia, che è il sapere appunto della totalità, del fondamento di ogni cosa. Nel perseguire questo obiettivo, peraltro, il filosofo non trascura di indagare ancora su cosa sia la giustizia e l’ingiustizia, in cosa consistano la felicità e l’infelicità umane (175 c). Tale è appunto il modo di essere del filosofo, di colui che è stato «allevato realmente nella libertà e nella padronanza del proprio tempo» (175 e 1 s.).
Assimilarsi a dio, ovvero diventare giusti La conoscenza teorica, sia quella scientifica sia quella dialettica, non è sufficiente a realizzare il bene. Anzitutto occorre essere consapevoli che, nella natura umana, il bene si trova spesso commisto al suo contrario. Di conseguenza, bisogna cercare di fuggire dalle cose di quaggiù e tentare per quanto possibile di «assimilarsi a dio». L’impegno teorico deve tradursi nell’impegno pratico. L’assimilarsi al dio vuol dire «diventare con intelligenza giusti e santi», «fuggire la malvagità e perseguire la virtù» (176 b). Se è vero che la divinità in nessuna circostanza è ingiusta, bensì è sempre al massimo grado giustissima, non c’è nulla che più gli assomigli di colui che fra gli uomini sia diventato a sua volta dikaiotatos, il più giusto possibile. Conoscere ciò e comportarsi di conseguenza significa possedere vera sapienza (sophia) e virtù (arete), mentre non conoscerlo e non esserlo è manifesta ignoranza (amathia) e malvagità (kakia) (176 b-c). Il richiamo congiunto a sapienza e virtù indica che, nella prospettiva platonica, conoscenza e azione devono essere inseparabili, devono procedere in sintonia. Nella realtà, infatti, esistono due modelli di vita (paradeigmata): uno divino, felicissimo; l’altro non divino, infelicissimo. Scegliere fra questi due modelli, seguire l’uno o l’altro, con le conseguenze che ne derivano, è frutto di conoscenza e sapienza nel primo caso, di stupidità e follia nel secondo (176 e – 177 a). E allora assimilarsi a dio non vuol dire abbracciare un modo di vita ascetico, distaccato dal mondo. Né vuol dire seguire un particolare credo religioso. Al contrario, vuole semplicemente dire che è necessario ispirarsi a quel sommo criterio di giustizia che riteniamo appartenga nella sua purezza alla divinità, non essendo una qualità sempre e sicuramente presente fra gli uomini, i quali invece spesso la negano per ignoranza o per malvagità.
I temi ora riassunti consentono di vedere nella digressione del Teeteto un manifesto della libertà e laicità del filosofo. Il laicismo filosofico del Teeteto va molto oltre il laicismo agnostico dell’Apologia. Dalla giovanile adesione alla critica confutatoria di Socrate, Platone è passato alla rivendicazione dell’autonomia e piena libertà della ricerca filosofica. La stessa critica dell’uomo pubblico (oratore, sofista o mestierante politico) e la connessa condanna del foro giudiziario e dei giudici-padroni sono diventate assai più radicali e senza attenuanti. Ma il punto di maggior distacco sta nel fatto che ora la ricerca filosofica ha un obiettivo preciso: pervenire alla comprensione dell’essere, indagare la natura e l’uomo nella loro essenza costitutiva, scoprire attraverso queste indagini la ragione del tutto. La riflessione filosofica sull’essere, da un lato, la tensione morale verso la massima giustizia, dall’altro lato, danno fondamento a quell’ideale unitario di pensiero e di vita che identifica la sophia, la vera sapienza, per mezzo della quale l’uomo si sente vicino alla divinità, ovvero prossimo al grado più elevato di perfezione. Si comprende soltanto in questa chiave il senso della ricreata atmosfera socratica del Teeteto. Nel momento in cui si sta avvicinando alla sophia, ai più rigorosi criteri del sapere insieme scientifico-dialettico ed etico-politico, Platone rivive in una luce del tutto nuova l’insegnamento del maestro, al quale rivolge un ultimo omaggio, che è, in un certo senso, anche un commiato. Rende questo omaggio-commiato proprio perché è consapevole di essere entrato in un orizzonte di pensiero che ha superato o sta superando lo stallo aporetico del metodo socratico. Di tale nuovo orientamento, il Teeteto è documento significativo, almeno relativamente al pluralismo, insieme epistemologico e ontologico, che affiora sia nell’ abbozzo di teoria dei koina sia nella discussione intorno al tutto-intero e ai prota stoicheia […] (pp. 444-448).
Aldo Lo Schiavo, Platone e le misure della sapienza, Bibliopolis, Napoli, 2008.
Quarta di copertina
Nel corso della sua lunga esperienza intellettuale, Platone non ha certo dimenticato la grande lezione socratica. La sua opera, però, è andata ben oltre quella lezione. Se l’obiettivo primario è stato quello di trovare una soluzione positiva del problema morale e politico, egli ha tuttavia allargato progressivamente l’orizzonte della filosofia. Non solo ha indagato come nessun altro prima di lui le vie della ricerca, ma si è interessato in profondità ai temi dell’ordine della natura, della struttura del cosmo, dei principi stessi dell’essere e delle sue determinazioni molteplici. Egli ha inverato in una costruzione molto più avanzata e coerente ipotesi e idee della cultura prefilosofica e filosofica precedente. Al centro di tale costruzione trova posto un’attiva intelligenza ordinatrice, la quale, aldilà di tensioni e contrasti pure esistenti, promuove in ogni aspetto della realtà misure di ordine e di equilibrio che costituiscono la ragione d’essere delle singole cose e del tutto. L’itinerario filosofico di Platone appare contrassegnato da una ricerca, continua e sempre aperta, in fondo alla quale la philosophia riesce quanto meno a intravedere una superiore sophia, un’immanente sapienza ordinatrice operante in ogni sfera del cosmo e dell’esperienza umana.
Aldo Lo Schiavo (n. 1934) è stato ispettore centrale nel Ministero della pubblica istruzione per l’insegnamento della filosofia. È stato redattore capo e poi direttore della rivista «Annali della Pubblica Istruzione». Ha presentato un’interpretazione critica del pensiero gentiliano nel saggio La religione nel pensiero di G. Gentile («La Cultura», 1968, pp. 333-378) e nei due volumi La filosofia politica di G. Gentile (Roma 1971) e Introduzione a Gentile (Roma-Bari 1974, collana «I Filosofi»). Si è poi dedicato allo studio del pensiero greco, ed ha pubblicato a riguardo: Il contributo della tragedia attica al razionalismo antico (Roma 1979) e Omero filosofo. L‘enciclopedia omerica e le origini del razionalismo greco (Firenze 1983).
«[…] Tutto lascia pensare che gli antichi greci avessero percezione diffusa della fragilità del loro mondo di vita, e che forse per questo cercassero con insistenza dei punti ideali in grado di orientarli verso qualcosa di più saldo e sicuro. Non amavano le fughe dalla realtà, non erano dei contemplativi inveterati, né si abbandonavano facilmente al fatalismo. Avvertivano tuttavia come un limite la loro esperienza del precario, del non definito, della dismisura. Non li aiutavano, certo, le avare condizioni del loro ambiente naturale, la frammentazione delle etnie e dei dialetti, il particolarismo delle comunità, le divisioni interne e gli stessi umori della gente, facili a mutare e non esenti da estremismi. Ma forse proprio ciò dovette rafforzare in quel popolo, nella parte più sensibile e intelligente di esso, l’esigenza di una misura ideale, di modelli superiori di coerenza e di equilibrio, in cui riflettere la propria esperienza del mondo e della vita. Era nella coscienza comune delle antiche civiltà l’idea che esistesse un ordine nelle cose del mondo e che la natura stessa lo rivelasse nelle sue molteplici manifestazioni, nei fenomeni celesti come in quelli della vita sulla terra. Il movimento periodico degli astri, il succedersi delle stagioni, i cicli della vita animale e vegetale palesano delle costanti, quasi obbediscono a delle leggi. I sistemi mitologici di quei popoli, elaborati con sorprendente varietà di immagini e di disegni cosmogonici, si preoccupano di raccontare come ciò sia potuto avvenire, attraverso quali emblematiche vicende il mondo abbia trovato il suo assetto attuale. L’antichissima teologia egizia, con incredibile audacia speculativa, era giunta a individuare in Maat il principio stesso dell’ordine […]. La figura di Themis, in qualche misura equivalente alla Maat egiziana, rimase in Grecia una divinità minore, di limitato richiamo, anche dopo che Esiodo aveva visto in essa la rappresentante unitaria dei valori normativi. […] Nondimeno, è proprio intorno a Themis e al gruppo di divinità a lei collegato che il pensiero mitico compie il più avanzato sforzo di individuazione dell’idea di ordine universale. E lo compie in una direzione che appare subito tipicamente e originalmente greca: la stessa, in sostanza, nella quale si muoverà più tardi la riflessione filosofica, seguendo il suo proprio metodo d’indagine. È la direzione volta a definire le condizioni di un ordine complesso e dinamico, necessario ma non deterministico, quello per cui in ogni parte del mondo si scopre una regolarità che non esclude varietà di situazioni e non esige uniformità di posizioni. La sensibilità e l’intelligenza greche coglievano nella natura tutta, nei fenomeni fisici come nei processi vitali, la vigenza di ritmi o di costanti perfettamente conciliantisi con la ricchezza e la polimorfia delle sue manifestazioni. Giungevano a scorgere ciò, o comunque aspiravano a vedere realizzarsi qualcosa di simile, anche sul terreno dell’organizzazione politica, dove il buon governo e le leggi comuni possono realizzare la concordia collettiva nel rispetto della libertà dei singoli e dei gruppi. La prospettiva generale verso la quale s’indirizzò, dall’inizio, la migliore cultura greca postulava, dunque, non un ordine qualsiasi, bensì un ordine qualificato da una specifica sapienza, quella sapienza che individua il criterio in base al quale enti molteplici e forze differenti possono coesistere in un tutto armonico, diversificato, non monolitico. […] Sappiamo che Themis era venerata già in epoca micenea, ma purtroppo i testi rimastici ci hanno conservato quasi soltanto il nome. I poemi omerici, però, con i termini comuni themis e themistes, delineano un ampio capitolo relativo ai comportamenti sociali, a ciò che è lecito o dovuto, al ruolo delle istituzioni di governo e giudiziarie. I due termini vengono usati tutte le volte che entrano in gioco le norme fondamentali poste a garanzia dell’ordine civile. Nei poemi e in altri documenti di quell’epoca compare anche la Themis che favorisce la decisione ponderata nell’assemblea degli dèi o degli uomini, la dea del saggio consiglio, a cui si collega il rispetto dei limiti del potere sovrano. La lungimiranza di Themis appare essenziale per la stessa conservazione del dominio di Zeus, come per la legittimazione di ogni potere costituito. Su altro fronte, in un diverso ambiente, affiora l’immagine di una Themis profetica, collegata a Gaia e Apollo. Questa Themis, inserita dalla teologia delfica nella sequenza mitica delle divinità detentrici di quell’oracolo, accentua la sua natura di divinità cosmica, portatrice di una sapienza antica, che ella ha attinto dalla protomantis Gaia e che ha trasmesso, trasfigurata, a Apollo, i cui responsi, non a caso, prendono il nome di themistes. Fra la sapienza radicale ma oscura di Gaia, la Terra, e la sapienza luminosa ma distante di Apollo, il Cielo, si pone la sapienza ordinatrice di Themis, che assegna alle cose tutte limiti, norme, misure convenienti.
Esiodo, nella Theogonia, giunge a tracciare della dea il profilo teologico più organico e avanzato. […] Themis eredita dalla madre [Gaia] la conoscenza delle strutture originarie dell’universo e la capacità di prevedere ciò che serve alla stabilità del mondo; dal padre [Urano], invece, riceve la conoscenza delle misure dell’ordine disegnato in cielo dalle stelle e dalle loro costellazioni. In lei si combinano quindi le condizioni basilari dell’ordine cosmico. In secondo luogo, Themis diventa una delle spose di Zeus, il quale, dopo avere conquistato il suo regno, deve riconoscere prima e rispettare poi le prerogative di tutti gli altri dèi, chiamati a condividere con lui il potere. La sovranità di Zeus, dice il poeta, deve essere ispirata sempre ai dettami di themis, per il cui tramite soltanto si realizza l’equilibrato rapporto fra le molteplici sfere divine (ossia, le diverse dimensioni del reale) e l’unità del governo del mondo. Il principio dell’ordine si collega al principio della sovranità, ma rimane distinto da questo, poiché altrimenti verrebbe meno la garanzia del rispetto delle diverse componenti del tutto. In terzo luogo, Themis diventa la madre di due importanti terne divine, le Horai e le Moire, le quali esplicano in tutte le direzioni il principio unitario dell’ordine impersonato dalla madre e contribuiscono pertanto a rendere il mondo governato da Zeus un universo sapientemente articolato nelle sue parti. Proprio queste due terne divine testimoniano che l’ordine impresso al mondo non è qualcosa di uniforme, valido dappertutto, bensì qualcosa di diversificato e vario secondo la natura o la destinazione propria di ciascun ambito definito della realtà. […] La letteratura mitico-poetica dell’età seguente non ha saputo far propria integralmente la lezione esiodea. Divenuto preminente l’interesse per i temi della vita sociale e della politica, secondo la vocazione tipica della grecità, è passato in secondo piano il collegamento di ciò con il più generale tema dell’ordine cosmico. Dike ha preso gradualmente il sopravvento su Themis, a partire già dagli Erga, il poema che si è soliti attribuire allo stesso Esiodo. L’esperienza di governo porta Solone a non ritenere più del tutto inconciliabile bia e dike. Con Pindaro si affaccia l’idea che il nomos universale, in sostanza, coincide con la volontà sovrana di Zeus. Eschilo può pensare che Zeus, sia pure nella prima fase del tempo mitico, abbia esercitato sugli altri dèi un potere tirannico, senza limiti. Il tragediografo attico praticamente schiaccia la figura di Themis su quella di Gaia, nel mentre riporta Dike nel potere di Zeus. […] Nella seconda metà del V secolo, col primato accordato alla politica, passa al centro del dibattito ideologico la discussione sulla natura e la validità del nomos. Si apre un contrasto di vedute senza precedenti fra coloro che sostengono i valori della tradizione e quelli che propugnano i nuovi orientamenti costituzionali, fra chi si richiama alle leggi non scritte e chi alle leggi deliberate con procedure riconosciute, fra quanti pongono il fondamento di legittimazione delle norme giuridiche nella divinità stessa oppure nella natura o ancora nella convenzione umana. L’antichissima convinzione di una ideale corrispondenza fra ordine divino, naturale e civile appare scossa; si perde ogni intesa sulla possibilità di riconoscere un superiore punto d’incontro dei diversi valori normativi; teologia, etica e politica sembrano separarsi senza possibilità di conciliazione. […] Nelle due principali proposte di teologia mitica, quella esiodea e quella orfica, Themis si rivela dunque portatrice di un sapere specifico, essenziale, il sapere originario e fondativo dell’ordine cosmico. […] Il criterio fondativo dell’ordine è il medesimo: consiste nel riconoscimento che il tutto risulta dall’accordo di una pluralità di enti differenti. Ad ogni livello di realtà, il disordine si trasforma in ordine soltanto se si realizzano le condizioni per cui tutte le diverse componenti trovano posto nell’equilibrio dell’insieme. Più precisamente, il criterio universale dell’ordine implica il verificarsi di tre condizioni fondamentali: a) una pluralità di enti, ognuno dei quali è riconosciuto essenziale, autonomo, ineliminabile; b) la varietà qualitativa di funzioni o competenze, che individuano e distinguono fra loro i singoli enti; c) una serie diversificata di relazioni che collegano i singoli enti a un centro di riferimento unitario, in grado di rispettare la singolarità di quelli e nel contempo di garantirne la coesistenza. Per la sua via, quindi, il pensiero mitico greco è giunto a individuare nell’accordo di unità e pluralità il principio base dell’ ordine universale. Non si ha ordine, infatti, quando una parte s’impone senza limiti sulle altre o quando si realizza una disciplina che mortifica l’autonomia dei singoli. Ciò viene espresso paradigmaticamente nel sistema del pantheon olimpico, dove non c’è il dominio esclusivo o totalitario di un dio. C’è il governo di un dio più potente, che si afferma all’inizio con la forza, ma subito legittima il suo potere seguendo i dettami di themis, associando nel governo del mondo gli altri dèi, guidandoli anche e però rispettando pienamente le prerogative di ciascuno e di tutti. Gli dèi, d’altra parte, non sono che paradigmi di una realtà complessa, variegata, che dal suo interno si dispiega per assumere le forme compiute delle diverse nature che la compongono. Il cosmo non è stato creato dall’esterno, da un dio con un suo atto di volontà. Si è invece dischiuso dal chaos, che resta una dimensione ineliminabile della realtà. Esso contiene, tuttavia, anche il suo contrario, il principio di ogni possibile ordinamento, dispiegato da una sapienza immanente, per cui le cose tendono ad accordarsi intorno a un centro unitario, a mantenere un giusto equilibrio nel tutto. L’ordine olimpico non è dato comunque una volta per tutte. Resta precario, perché sempre esposto all’azione di forze contrastanti. Gli stessi piani provvidenziali di Zeus sono minacciati di continuo dalla resistenza di quelle forze e persino dalla incostanza o possibilità di arbitrio del medesimo sovrano dei numi. Da qui l’esigenza, riconosciuta dal mito, che l’opera di questo sovrano venga costantemente sorretta dalla presenza al suo fianco della dea del saggio consiglio, di colei che ha conoscenza dei limiti, delle giuste misure, dei ritmi appropriati delle cose e del loro ponderato equilibrio. Zeus potrà restare alla guida del mondo, non come un dio unico e totalitario, bensì soltanto come un dio che condivide con gli altri il governo, come sovrano che si riconosce al centro di un sistema di poteri differenti e autonomi. […] Si potrebbe dire che la vigenza dei valori di Themis rappresenta l’acme del processo di costituzione del mondo. Il kosmos risulta costituito da una pluralità di sfere distinte, ciascuna delle quali segue proprie leggi (nomoi), legittimate da una legge superiore (thesmos), che esige l’unità nella distinzione (themis). Il disordine, provocato da hybris o da bia, resta sempre e dovunque possibile. Ogni forma di kratos porta connaturata una dimesione di hybris. E però il disordine può ritrovare l’ordine tutte le volte in cui si riscoprono le ragioni di un’equa distribuzione dei poteri e delle responsabilità (diataxis), per la quale è indispensabile individuare le misure appropriate (metra) e i limiti (moirai) di ogni ente, riaffermare i valori (eunomia, dike, eirene) che devono guidare una molteplicità armonica, e per ciò stesso ristabilire la legittimità (themis) dell’organizzazione. Un’organizzazione, dunque, necessaria, ma di una necessità (ananke) che appartiene al piano della razionalità e della doverosità, anziché a quello della fattualità. Una necessità non assoluta, cieca, ineluttabile, bensì suggerita dalla ragione oggettiva delle cose e da questa misurata. Soltanto l’intelligenza della natura delle cose e del mondo può consentire che si realizzi un ordine giusto e stabile. Così come soltanto il sapere può guidare il ripristino (nemesis) dell’ordine turbato. La medesima intelligenza o sapienza ci dice che l’ordine in nessun caso comporta uniformità di atteggiamenti, rigidità di condizioni, cieca disciplina e subordinazione. Al contrario, esso esige sempre varietà di situazioni, elasticità di condotta, misure aperte e tali da favorire libere disposizioni convergenti. Le condizioni dell’ordine sapiente sono sempre le stesse, sia negli ordinamenti particolari e settoriali sia in quello complessivo dell’universo. All’interno di ciascun ordinamento, i differenti soggetti o le differenti funzioni interagiscono variamente e pur convergono nell’obiettivo comune. Il sistema di regole si adatterà, in ogni caso, alle caratteristiche delle diverse situazioni, e tuttavia risulterà sempre ispirato allo stesso principio ordinatore che ne garantisce la convergenza. Questa intuizione di fondo, di una sapienza dell’ordine immanente alle cose e per la quale è il mondo stesso a dettare le condizioni della sua organizzazione, costituisce forse il maggior contributo del pensiero mitico greco all’affermazione di una razionalità laica, antidogmatica. I greci hanno mostrato in atto la loro convinzione dipingendo una comunità olimpica dove ogni divinità agisce autonomamente nel campo a lei riservato, è persino gelosa delle sue prerogative, ma riconosce sempre l’autorità del comune sovrano e concorre con lui a dirigere le cose del mondo. L’idea di un equilibrio dinamico fra entità distinte, idea secondo la quale è possibile conciliare una molteplicità non anarchica e una unità non tirannica, deve essersi maturata in Grecia insieme alla formazione di quel particolare e originale politeismo, una formazione certamente graduale, ma che appare già in una fase avanzata nei poemi omerici e nell’ opera teologica di Esiodo. La razionalità essenziale espressa da detto politeismo, che pure riflette la polimorfia della natura e delle sue leggi come erano percepiti dalla sensibilità greca, deve avere contribuito verosimilmente non poco alla nascita del pensiero filosofico e scientifico.
Aldo Lo Schiavo, Themis e la sapienza dell’ordine cosmico, Bibliopolis, Napoli 1977, pp. 227-237.
Quarta di copertina
È possibile pensare a una forma di ordine che non si riduca a strumento del potere, ma che anzi questo condizioni e guidi al rispetto di tutte le componenti del consorzio? Per quanto paradossale possa sembrare, l’idea di un ordine armonico e policentrico è nata nella Grecia antica dall’esperienza del libero disordine, dall’urto spesso doloroso di spinte opposte che agitarono la vita di quel popolo. E da tale esperienza quell’idea è rimasta influenzata, contribuendo alla lezione di civiltà e di razionalità laica che ci viene dal mondo greco. Di ciò si rende interprete per primo il pensiero mitico, che arriva a intuire il criterio universale fondativo dell’ordine, facendo della divina figura di Themis la sapiente cosigliera di Zeus e la madre delle celesti Horai e delle severe Moire. Avendo diretta esperienza delle vicende tragiche per la successione al governo del cosmo, da Urano a Crono e a Zeus, Themis sa guardare all’avvenire del mondo, per il quale auspica un ordinamento al tempo stesso stabile e giusto, senza prevaricazioni e violenze.Themis pertanto esprime una normatività non costrittiva, non cieca, perché portatrice di una specifica sapienza cosmica. Lo stesso sistema del pantheon greco si caratterizza per il fatto di riconoscere la presenza attiva di una pluralità di dèi, autonomi e diversi fra loro, i quali tuttavia si raccordano e si legittimano in una unità equilibrata, dove perciò la molteplicità non è anarchica e l’unità non è esclusiva o tirannica. Il pensiero filosofico, da Anassimandro a Filolao, da Platone a Aristotele agli Stoici, ha affrontato con la coerenza sua propria lo stesso tema di fondo affacciatosi al pensiero mitico, ne ha chiarito le premesse teoriche e ha sviluppato posizioni originali, forse però senza cogliere tutte le potenzialità di certe intuizioni mitiche.
Gli studiosi della religione e del mito ellenici hanno prestato in genere scarsa attenzione alla figura delle Charites, che pure ritorna non di rado nelle fonti poetiche e letterarie e persino nelle testimonianze archeologiche. Ha poca consistenza una teoria di qualche tempo fa, ma di largo seguito, che le considera espressione di una religiosità agraria e ctonia, interessata ai fenomeni della vegetazione e fertilità dei campi. La stessa cosa, invero, potrebbe dirsi di un’infinità di altre divinità venerate in tempi remoti, quando quella preoccupazione assorbiva quasi per intero le energie della comunità. In realtà sfugge a detta ipotesi un’ampia gamma di funzioni e di qualità che le fonti, fin dall’età arcaica, ascrivevano a quelle dee; qualità e funzioni diverse fra loro, relative a campi di esperienza molteplici, ma che tuttavia, ad un esame attento, rivelano una nota o tratto comune, a sua volta indicativo di uno specifico ruolo assegnato alle dee. Tale ruolo specifico va individuato e riconosciuto alle Charites, come del resto ad altri gruppi divini, quali le Muse, le Horai, le Moire, sebbene essi compaiono per lo più nel corteggio di grandi divinità. Il fatto è che nel fluido pantheon della religione olimpica ogni figura divina, maggiore o minore che sia, va considerata, più che in sé e isolatamente, nell’intreccio molto ampio di nessi e relazioni che la legano ad altre divinità secondo schemi mutevoli, variamente significativi. Se dietro ogni divinità traluce un’idea del mondo sotto questo o quell’aspetto particolare, è pur vero che nell’intreccio dei rapporti fra i diversi personaggi dell’Olimpo emerge la visione d’insieme di un universo, ritmico e ordinato, quale i Greci se lo rappresentarono. Le Charites non si sottraggono a questa norma, poiché anch’esse concorrono con la loro natura specifica a definire quel cosmo, esse che lasciano il segno del loro splendore là dove liete posano lo sguardo. Circostanze di tempo e di luogo incidono, ovviamente, sulla caratterizzazione del gruppo delle Charites, mettendo in evidenza ora uno ora altro elemento della loro natura, segnalando una funzione ed altre lasciandole in ombra. Questo vale per ogni figura del pantheon greco. Non si può prescindere, perciò, dall’indagine storica per chiarire lo svolgersi di idee o intuizioni che pur si celano dietro le rappresentazioni di ciascun personaggio divino. Si tratta di idee che, da una prima intuizione mitica, a volte assai penetrante, riemergono e si chiariscono anche in altre espressioni della vita culturale. Nondimeno, scorgere nel loro svolgimento storico una linea evolutiva coerente verso la piena esplicazione razionale delle stesse, secondo l’abusato paradigma ‘dal mito al logo’, risulta oggi alquanto ingenuo, schematico o semplicistico. Pensiero mitico e pensiero logico s’intersecano più spesso di quanto comunemente si creda; e ciò, per la verità, non solo nel mondo letterario e filosofico della Grecia antica. Del resto, l’intuizione sottesa all’immagine mitica costituisce pur sempre un’operazione intellettuale. E se, da una parte, il mito utilizza schemi mentali a cui non si può negare una certa razionalità, dall’altra parte la riflessione critica muove quasi sempre da un assunto, da un dato intuitivo, da un quid non dimostrato. Con qualche prudenza metodica, è possibile ritrovare nello sviluppo di temi filosofici impostazioni e atteggiamenti mentali recepiti pure in altri ambiti culturali. Il cammino delle idee, all’interno di un’esperienza determinata di civiltà, presenta innovazioni e approfondimenti persino talvolta radicali, ma rivela anche una sua continuità di fondo, senza di cui quella civiltà non avrebbe unità e identità storica. Nella presente indagine, comunque, si è cercato di contemperare per quanto possibile e la linea analitico-sistematica e quella propriamente storica, nell’intento di evitare i rischi che entrambe comportano se utilizzate separatamente l’una dall’altra, in maniera esclusiva. Infatti, privilegiando il metodo analitico si finisce per racchiudere in un modello rigido, definito una volta per tutte, elementi che invece hanno assunto modulazioni differenti in tempi e situazioni mutate; per contro, adottando esclusivamente il metodo storico, il più delle volte si perde per strada il senso unitario di un’idea che permane al di là delle sue molteplici manifestazioni nel corso delle vicende culturali. I contributi fomiti negli ultimi decenni dalla riflessione sul mito rimangono ancora poco sfruttati dagli storici del pensiero filosofico; i quali, salvo rare eccezioni, continuano a guardare alla produzione mitica delle culture antiche come ad un fenomeno confinato nel tempo delle origini di quelle culture, rivelatore di una mentalità in sostanza prerazionale, radicalmente diversa da quella scientifica e logica espressa dalla prima filosofia . Si continua cioè a presupporre una cesura netta fra l’uno e l’altro fronte. Eppure la filosofia greca, persino nei suoi momenti più alti, si è misurata sempre con temi, immagini, categorie elaborate dalla letteratura mito-poetica e mito-teologica che l’hanno preceduta e che l’hanno accompagnata fino alla tarda antichità. In ciò sta certo una delle ragioni della sua ricchezza problematica, dell’apertura e laicità dei suoi interessi. Del resto è noto che il sapere filosofico, quando non si isola in un formalismo tecnico fine a se stesso, non può che trarre sostanziale giovamento dall’analisi delle origini e del radicamento delle rappresentazioni mentali nel fitto tessuto di esigenze, sentimenti, reazioni individuali e collettive espresse nelle concrete situazioni in cui gli uomini operano e costruiscono la loro civiltà. La storia delle idee si pone a mezza strada, come un ponte di raccordo, fra le espressioni diffuse di cultura e la pura ricerca filosofica. Il transito su tale ponte resta possibile in entrambe le direzioni. Possibilità storica, non c’è dubbio, perché di fatto verificatasi; ma anche possibilità teorica, se le manifestazioni di cultura diffusa non vogliono privarsi della luce della ragione e se la razionalità filosofica non intende perdere i contatti con la ricchezza della vita. Omero, per ricordare il caso più eclatante, è citato dai filosofi greci di ogni età; e però, lo stesso Omero in certo senso filosofa, fin già nel modo in cui organizza la materia del suo racconto. Come ben sanno i filologi, ogni analisi dell’evoluzione del linguaggio, compresi alcuni termini del vocabolario filosofico, non può che prendere le mosse dagli antichi poemi. In Omero poi (come ho cercato di mostrare in un capitolo dell’Omero filosofo dedicato alla teologia dei poemi e alle strutture del mito) troviamo applicati al mondo divino una serie di correlazioni, di schemi formali, di principi regola tori, i quali non raggiungono certo l’astrazione e la chiarezza e la sinteticità dei concetti, ma riescono tuttavia a svolgere un’importante funzione di organizzazione dell’esperienza e a riflettere una determinata visione del mondo. La successiva letteratura greca, a partire dalla Theogonia di Esiodo, continua a offrire materiali preziosi in questo campo; e le figure degli dèi, col variopinto corredo di racconti che li riguardano, restano a lungo il centro di un vasto sforzo di pensiero, una parte almeno del quale esprime una forma embrionale di categorizzazione del reale. Il presente lavoro sulle Charites s’inserisce in tale linea di ricerca, che ovviamente si avvale secondo i casi di tutte quelle testimonianze in cui si rivela la forza di un’idea, la sua prima formazione e la sua capacità di affermarsi in contesti più ampi. Perciò, oltre i documenti privilegiati costituiti da testi poetici, teologici e filosofici, anche le testimonianze relative alle forme di culto, alle espressioni artistiche, alle istituzioni sociali e politiche diventano utili nel tentativo di ricostruire quel complesso di significati e valori che, nel caso in esame, sono stati tramandati sotto il nome collettivo delle tre figlie di Zeus e di Eurynome.
Aldo Lo Schiavo, Charites. Il segno della distinzione, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 9-13.
INDICE
Premessa I. Le Charites nel culto II. Charis e la luce. Lo splendore delle Charites III. Elementi di uno statuto teologico. Aglala, Euphrosyne e Thalia, figlie di Zeus e di Eurynome IV. Nel segno di Apollo. La vittorza negli agoni, il canto del poeta, l’educazione degli efebi V. Nel segno di Afrodite. Amore, bellezza e grazIa VI. Nel segno di Efesto. Bellezza e ornamenti. Natura, tecnica, arte VII. Nel segno di Hermes. Le Charites degli incontri sociali, la parola eloquente, peitho e apate VIII. La charis della città democratica. Demos, Charites e la gratitudine pubblica IX. La charis della paideia filosofica e la kalokagathia X. Il contributo del pensiero mitico all’etica-estetica della distinzione
Bibliografia delle opere citate
Aldo Lo Schiavo (n. 1934) è stato ispettore centrale nel Ministero della pubblica istruzione per l’insegnamento della filosofia. È stato redattore capo e poi direttore della rivista «Annali della Pubblica Istruzione». Ha presentato un’interpretazione critica del pensiero gentiliano nel saggio La religione nel pensiero di G. Gentile («La Cultura», 1968, pp. 333-378) e nei due volumi La filosofia politica di G. Gentile (Roma 1971) e Introduzione a Gentile (Roma-Bari 1974, collana «I Filosofi»). Si è poi dedicato allo studio del pensiero greco, ed ha pubblicato a riguardo: Il contributo della tragedia attica al razionalismo antico (Roma 1979) e Omero filosofo. L‘enciclopedia omerica e le origini del razionalismo greco (Firenze 1983).
Quarta di copertina
Sebbene frequentemente richiamate da poeti e scrittori greci, le Charites sono state poco studiate dalla critica moderna nella loro natura specifica e nei nessi che le legano alle figure maggiori del pantheon olimpico. Eppure esse conferiscono a quel pantheon una luce particolare, espressiva dei valori laici della civiltà greca. Quasi dappertutto i Greci scorgevano il segno della loro presenza, delle loro splendide qualità: nel cielo illuminato dal vario splendore degli astri, sulla terra colorata di fiori a primavera, negli oggetti lavorati con maestria, nell’impresa dell’atleta vittorioso, sul viso delle giovani donne, nella parola perspicua dell’oratore, negli incontri festosi della comunità, nel buon governo della città, in tutto ciò che si fa apprezzare e ammirare per una qualche nota superiore, per un tratto di particolare distinzione. In effetti, dietro il mondo a vivi colori delle Charites s’intravede un’etica-estetica della distinzione, che tende a mettere d’accordo la natura e l’uomo, la bellezza fisica e le qualità morali, la valentìa dei singoli ed il prestigio della comunità. Un’etica-estetica a cui hanno collaborato pensiero mitico e pensiero filosofico, entrambi attenti a non sacrificare la varietà, la molteplicità, le differenze presenti nel reale, a favore di un’unità monolitica che tutto livella ed oscura.
Nella mitologia greca Charis (Χάρις), Grazia, e al plurale Charites (Χάριτες), Grazie è il nome di tre dee (secondo Esiodo: Aglaia [luminosità, splendore], Eufrosine [gioia, letizia] e Talia [pienezza, prosperità, fioritura]) figlie di Zeus ed Eurynome. Scrive Aldo Lo Schiavo (Charites. Il segno della distinzione, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 27 ss.): «Fra il nome delle dee e il nome comune Χάρις c’è indubbia connessione. Del nome comune i lessici registrano varie sfumature di significato, che i Latini, con felice intuizione ma con inevitabile approssimazione, rendevano col termine gratia. Fondamentale, fra gli altri, risulta il valore semantico indicante una qualità oggettiva, vale a dire la grazia o bellezza, la leggiadria, l’incanto, lo splendore che promanano da persone o cose. Sono qualità che segnalano un elemento di distinzione e che sottintendono forse una qualche idea di misura: non si ha vera bellezza se non accompagnata da giusta proporzione, da grazia appunto. […] Il lessico impiegato da poeti, storici, oratori ci dice dunque quanto ampia e diversificata sia l’area di riferimento del termine Χάρις […]».
Gli studiosi della religione e del mito ellenici hanno prestato in genere scarsa attenzione alla figura delle Charites, che pure ritorna non di rado nelle fonti poetiche e letterarie e persino nelle testimonianze archeologiche. Ha poca consistenza una teoria di qualche tempo fa, ma di largo seguito, che le considera espressione di una religiosità agraria e ctonia, interessata ai fenomeni della vegetazione e fertilità dei campi. La stessa cosa, invero, potrebbe dirsi di un’infinità di altre divinità venerate in tempi remoti, quando quella preoccupazione assorbiva quasi per intero le energie della comunità. In realtà sfugge a detta ipotesi un’ampia gamma di funzioni e di qualità che le fonti, fin dall’età arcaica, ascrivevano a quelle dee; qualità e funzioni diverse fra loro, relative a campi di esperienza molteplici, ma che tuttavia, ad un esame attento, rivelano una nota o tratto comune, a sua volta indicativo di uno specifico ruolo assegnato alle dee. Tale ruolo specifico va individuato e riconosciuto alle Charites, come del resto ad altri gruppi divini, quali le Muse, le Horai, le Moire, sebbene essi compaiono per lo più nel corteggio di grandi divinità. Il fatto è che nel fluido pantheon della religione olimpica ogni figura divina, maggiore o minore che sia, va considerata, più che in sé e isolatamente, nell’intreccio molto ampio di nessi e relazioni che la legano ad altre divinità secondo schemi mutevoli, variamente significativi. Se dietro ogni divinità traluce un’idea del mondo sotto questo o quell’aspetto particolare, è pur vero che nell’intreccio dei rapporti fra i diversi personaggi dell’Olimpo emerge la visione d’insieme di un universo, ritmico e ordinato, quale i Greci se lo rappresentarono. Le Charites non si sottraggono a questa norma, poiché anch’esse concorrono con la loro natura specifica a definire quel cosmo, esse che lasciano il segno del loro splendore là dove liete posano lo sguardo. Circostanze di tempo e di luogo incidono, ovviamente, sulla caratterizzazione del gruppo delle Charites, mettendo in evidenza ora uno ora altro elemento della loro natura, segnalando una funzione ed altre lasciandole in ombra. Questo vale per ogni figura del pantheon greco. Non si può prescindere, perciò, dall’indagine storica per chiarire lo svolgersi di idee o intuizioni che pur si celano dietro le rappresentazioni di ciascun personaggio divino. Si tratta di idee che, da una prima intuizione mitica, a volte assai penetrante, riemergono e si chiariscono anche in altre espressioni della vita culturale. Nondimeno, scorgere nel loro svolgimento storico una linea evolutiva coerente verso la piena esplicazione razionale delle stesse, secondo l’abusato paradigma ‘dal mito al logo’, risulta oggi alquanto ingenuo, schematico o semplicistico. Pensiero mitico e pensiero logico s’intersecano più spesso di quanto comunemente si creda; e ciò, per la verità, non solo nel mondo letterario e filosofico della Grecia antica. Del resto, l’intuizione sottesa all’immagine mitica costituisce pur sempre un’operazione intellettuale. E se, da una parte, il mito utilizza schemi mentali a cui non si può negare una certa razionalità, dall’altra parte la riflessione critica muove quasi sempre da un assunto, da un dato intuitivo, da un quid non dimostrato. Con qualche prudenza metodica, è possibile ritrovare nello sviluppo di temi filosofici impostazioni e atteggiamenti mentali recepiti pure in altri ambiti culturali. Il cammino delle idee, all’interno di un’esperienza determinata di civiltà, presenta innovazioni e approfondimenti persino talvolta radicali, ma rivela anche una sua continuità di fondo, senza di cui quella civiltà non avrebbe unità e identità storica. Nella presente indagine, comunque, si è cercato di contemperare per quanto possibile e la linea analitico-sistematica e quella propriamente storica, nell’intento di evitare i rischi che entrambe comportano se utilizzate separatamente l’una dall’altra, in maniera esclusiva. Infatti, privilegiando il metodo analitico si finisce per racchiudere in un modello rigido, definito una volta per tutte, elementi che invece hanno assunto modulazioni differenti in tempi e situazioni mutate; per contro, adottando esclusivamente il metodo storico, il più delle volte si perde per strada il senso unitario di un’idea che permane al di là delle sue molteplici manifestazioni nel corso delle vicende culturali. I contributi fomiti negli ultimi decenni dalla riflessione sul mito rimangono ancora poco sfruttati dagli storici del pensiero filosofico; i quali, salvo rare eccezioni, continuano a guardare alla produzione mitica delle culture antiche come ad un fenomeno confinato nel tempo delle origini di quelle culture, rivelatore di una mentalità in sostanza prerazionale, radicalmente diversa da quella scientifica e logica espressa dalla prima filosofia . Si continua cioè a presupporre una cesura netta fra l’uno e l’altro fronte. Eppure la filosofia greca, persino nei suoi momenti più alti, si è misurata sempre con temi, immagini, categorie elaborate dalla letteratura mito-poetica e mito-teologica che l’hanno preceduta e che l’hanno accompagnata fino alla tarda antichità. In ciò sta certo una delle ragioni della sua ricchezza problematica, dell’apertura e laicità dei suoi interessi. Del resto è noto che il sapere filosofico, quando non si isola in un formalismo tecnico fine a se stesso, non può che trarre sostanziale giovamento dall’analisi delle origini e del radicamento delle rappresentazioni mentali nel fitto tessuto di esigenze, sentimenti, reazioni individuali e collettive espresse nelle concrete situazioni in cui gli uomini operano e costruiscono la loro civiltà. La storia delle idee si pone a mezza strada, come un ponte di raccordo, fra le espressioni diffuse di cultura e la pura ricerca filosofica. Il transito su tale ponte resta possibile in entrambe le direzioni. Possibilità storica, non c’è dubbio, perché di fatto verificatasi; ma anche possibilità teorica, se le manifestazioni di cultura diffusa non vogliono privarsi della luce della ragione e se la razionalità filosofica non intende perdere i contatti con la ricchezza della vita. Omero, per ricordare il caso più eclatante, è citato dai filosofi greci di ogni età; e però, lo stesso Omero in certo senso filosofa, fin già nel modo in cui organizza la materia del suo racconto. Come ben sanno i filologi, ogni analisi dell’evoluzione del linguaggio, compresi alcuni termini del vocabolario filosofico, non può che prendere le mosse dagli antichi poemi. In Omero poi (come ho cercato di mostrare in un capitolo dell’Omero filosofo dedicato alla teologia dei poemi e alle strutture del mito) troviamo applicati al mondo divino una serie di correlazioni, di schemi formali, di principi regola tori, i quali non raggiungono certo l’astrazione e la chiarezza e la sinteticità dei concetti, ma riescono tuttavia a svolgere un’importante funzione di organizzazione dell’esperienza e a riflettere una determinata visione del mondo. La successiva letteratura greca, a partire dalla Theogonia di Esiodo, continua a offrire materiali preziosi in questo campo; e le figure degli dèi, col variopinto corredo di racconti che li riguardano, restano a lungo il centro di un vasto sforzo di pensiero, una parte almeno del quale esprime una forma embrionale di categorizzazione del reale. Il presente lavoro sulle Charites s’inserisce in tale linea di ricerca, che ovviamente si avvale secondo i casi di tutte quelle testimonianze in cui si rivela la forza di un’idea, la sua prima formazione e la sua capacità di affermarsi in contesti più ampi. Perciò, oltre i documenti privilegiati costituiti da testi poetici, teologici e filosofici, anche le testimonianze relative alle forme di culto, alle espressioni artistiche, alle istituzioni sociali e politiche diventano utili nel tentativo di ricostruire quel complesso di significati e valori che, nel caso in esame, sono stati tramandati sotto il nome collettivo delle tre figlie di Zeus e di Eurynome.
Aldo Lo Schiavo, Charites. Il segno della distinzione, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 9-13.
INDICE
Premessa I. Le Charites nel culto II. Charis e la luce. Lo splendore delle Charites III. Elementi di uno statuto teologico. Aglala, Euphrosyne e Thalia, figlie di Zeus e di Eurynome IV. Nel segno di Apollo. La vittorza negli agoni, il canto del poeta, l’educazione degli efebi V. Nel segno di Afrodite. Amore, bellezza e grazIa VI. Nel segno di Efesto. Bellezza e ornamenti. Natura, tecnica, arte VII. Nel segno di Hermes. Le Charites degli incontri sociali, la parola eloquente, peitho e apate VIII. La charis della città democratica. Demos, Charites e la gratitudine pubblica IX. La charis della paideia filosofica e la kalokagathia X. Il contributo del pensiero mitico all’etica-estetica della distinzione
Bibliografia delle opere citate
Aldo Lo Schiavo (n. 1934) è stato ispettore centrale nel Ministero della pubblica istruzione per l’insegnamento della filosofia. È stato redattore capo e poi direttore della rivista «Annali della Pubblica Istruzione». Ha presentato un’interpretazione critica del pensiero gentiliano nel saggio La religione nel pensiero di G. Gentile («La Cultura», 1968, pp. 333-378) e nei due volumi La filosofia politica di G. Gentile (Roma 1971) e Introduzione a Gentile (Roma-Bari 1974, collana «I Filosofi»). Si è poi dedicato allo studio del pensiero greco, ed ha pubblicato a riguardo: Il contributo della tragedia attica al razionalismo antico (Roma 1979) e Omero filosofo. L‘enciclopedia omerica e le origini del razionalismo greco (Firenze 1983).
Quarta di copertina
Sebbene frequentemente richiamate da poeti e scrittori greci, le Charites sono state poco studiate dalla critica moderna nella loro natura specifica e nei nessi che le legano alle figure maggiori del pantheon olimpico. Eppure esse conferiscono a quel pantheon una luce particolare, espressiva dei valori laici della civiltà greca. Quasi dappertutto i Greci scorgevano il segno della loro presenza, delle loro splendide qualità: nel cielo illuminato dal vario splendore degli astri, sulla terra colorata di fiori a primavera, negli oggetti lavorati con maestria, nell’impresa dell’atleta vittorioso, sul viso delle giovani donne, nella parola perspicua dell’oratore, negli incontri festosi della comunità, nel buon governo della città, in tutto ciò che si fa apprezzare e ammirare per una qualche nota superiore, per un tratto di particolare distinzione. In effetti, dietro il mondo a vivi colori delle Charites s’intravede un’etica-estetica della distinzione, che tende a mettere d’accordo la natura e l’uomo, la bellezza fisica e le qualità morali, la valentìa dei singoli ed il prestigio della comunità. Un’etica-estetica a cui hanno collaborato pensiero mitico e pensiero filosofico, entrambi attenti a non sacrificare la varietà, la molteplicità, le differenze presenti nel reale, a favore di un’unità monolitica che tutto livella ed oscura.
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