“Poikilia” delle emozioni. La complessità dei “pathe” in Platone. A cura di Laura Candiotto e Alessandro Stavru.

Con contributi di Mariapaola Bergomi, Douglas Cairns, Laura Candiotto, Melania Cassan, Fulvia de Luise, Gabriele Flamigni, José Antonio Giménez, Luca Grecchi, David Konstan, Laura Marongiu, Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano, Anna Pavani, Olivier Renaut e Alessandro Stavru.

Mariapaola Bergomi, Douglas Cairns, Laura Candiotto, Melania Cassan, Fulvia de Luise, Gabriele Flamigni, José Antonio Giménez, Luca Grecchi, David Konstan, Laura Marongiu, Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano, Anna Pavani, Olivier Renaut, Alessandro Stavru, Poikilia delle emozioni. La complessità dei pathe in Platone, Prefazione e cura di Laura Candiotto e Alessandro Stravu.

ISBN 978-88-7588-383-6, 2024, pp. 296, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “il giogo” [186].

In copertina: Vassily Kandinsky, Composition 7, 1913.

indicepresentazioneautoresintesi


Introduzione

 di

Laura Candiotto & Alessandro Stavru

 

 

I

Ci sono ormai diversi studi sulle emozioni in Platone1. Se fino a pochi anni fa la ricerca filosofica sulle emozioni nel periodo classico si concentrava specialmente sulla Retorica di Aristotele, oggi il ruolo epistemico, morale ed estetico delle emozioni nella filosofia platonica è stato ampiamente evidenziato e discusso. Perché dunque proporre una nuova pubblicazione sulle emozioni in Platone?

La finalità di questa raccolta è analizzare le emozioni in Platone nella loro diversità e complessità. Spesso gli studi sono dedicati a una specifica emozione e in un preciso contesto dialogico2. Gli articoli che qui presentiamo, invece, affrontano la questione delle molteplici forme che l’esperienza emotiva assume in svariati contesti dialogici. Le emozioni sono varie e spesso presentano una natura complessa. La diversità esprime la ricchezza e la bellezza dell’analisi fenomenologica platonica. L’esperienza affettiva viene così associata all’anima incarnata, alla meraviglia epistemica, e al fascino estetico. La complessità allude però anche alla sregolatezza e trasformazione delle emozioni che richiama l’esigenza etica della cura di sé e il governo delle emozioni. Questa è l’ambiguità dell’affascinante varietà (poikilia) delle emozioni da cui deriva il titolo della raccolta.

Se l’assenza di uniformità e precisione analitica può scoraggiare gli interpreti, in questo volume si evidenzia come invece essa possa stimolare una ricerca che abbraccia la dimensione complessa e tensionale del reale per proporre una lettura sistematica, seppur contestuale, del ruolo delle emozioni in Platone. Il risultato, a nostro parere, è molto interessante. Non riportiamo qui un sommario dei diversi contribuiti perché esso è presente nella magistrale postfazione di Linda Napolitano Valditara, la cui ricerca sulle emozioni in Platone è stata pioneristica ed ha ispirato molti dei contributi qui raccolti. Vogliamo invece accennare ad alcuni passi platonici in cui la nozione di poikilia ricorre in associazione con la psyche e la sua complessità emotiva.

 

II

Nel IX libro della Repubblica, dopo una lunga disamina sulla natura dello stato, Platone volge la sua attenzione alla natura dell’anima (588c)3. Per essere compresa, la psyche richiede di essere plasmata in una “immagine verbale” (eikona… logoi) in grado di raffigurarne tutta la complessità. Al pari di esseri mitici come la Chimera, Scilla e Cerbero, essa “riassume in un’unica natura” (sympephykyiai… eis hen) “molte forme” (ideai pollai). Ha dunque la caratteristica di essere multiforme e al tempo stesso una. È “una bestia variopinta e policefala” (theriou poikilou kai polykephalou), e, per di più, metamorfica: le sue teste, di belve ferine e di animali addomesticati, si trasformano le une nelle altre avvalendosi del loro potere di rigenerarsi continuamente (metaballein kai phyein ex hautou).

In questo senso è dunque da intendersi la poikilia dell’anima e delle emozioni che la pervadono: come una moltitudine eterogenea di elementi che, proprio in virtù della sua irriducibile complessità e dinamicità, è in grado di apparire sempre come in sé coerente e unitaria. Questo modello ha una lunga tradizione: l’idea di una poikilia complessa e dinamica, in grado di conferire unità a un insieme eterogeneo di elementi, si trova, ben prima di Platone, applicata a una molteplicità di ambiti4. “Variopinti”, “elaborati” sono non soltanto i manufatti e i prodotti dell’arte, ma anche, in una prospettiva indipendente dall’agire umano, le facies di animali e altri oggetti prodotti nell’ambito della natura. Possono essere poikiloi l’intricata manifattura di un’arma5 o di una calzatura6, del trono di Afrodite7, di un disegno istoriato sul celebre scudo di Achille8, ma anche i suoni di strumenti musicali9, addirittura interi Inni10. Variopinti sono però altresì il manto di un cavallo11, la pelle di un serpente12, le piume di un uccello13.

La poikilia platonica delle emozioni riflette dunque un’idea ampiamente attestata nella tradizione arcaica, dove essa definisce una complessità dinamica in grado di articolarsi in una unità molteplice. Si è visto come l’immagine del therion poikilon sia a tal proposito estremamente significativa. Si tratta, tuttavia, di un’immagine verbale, come Platone non manca di sottolineare: in quanto tale, il therion poikilon istituisce un nesso tra due unità complesse, quella dell’anima e quella del linguaggio. Tale nesso trova un significativo approfondimento nel Fedro, dove si evince che a una “anima variopinta” (poikilei psychei) è utile abbinare “discorsi” altrettanto “variopinti” (poikilous logous), comprendenti tutte le armonie, mentre per un’anima semplice è preferibile optare per discorsi anch’essi semplici (277c). Sappiamo che nel X libro della Repubblica Platone prende le distanze dall’idea di un’anima poikile, poiché la molteplicità mal si abbina alla più importante delle caratteristiche della psyche, quella cioè di essere immortale: “non dobbiamo credere che nella sua autentica natura l’anima sia una realtà colma di una moltitudine di tratti variopinti (hoste polles poikilias), di confusione e di differenze” (611b). La “vera anima” non è quella incarnata proprio in quanto molteplice: occorre quindi esaminarla solo quando è riconoscibile nella sua unità, il che avviene solo quando è purificata dalle affezioni corporee. Sul piano emotivo, ciò si traduce in una liberazione dalla molteplicità dalle hedonai, dalla quale occorre astenersi soprattutto in giovane età.

Questo risvolto educativo trova largo spazio in svariati luoghi della Repubblica. Occorre sottrarsi a tutto ciò che è capace di “suscitare infiniti piaceri di ogni genere e tipo” (pantodapas hedonas kai poikilas), poiché i piaceri hanno il potere di trasformare l’anima, fino a mutare un carattere oligarchico in uno democratico (559d-e)14. Le implicazioni paideutiche della poikilia delle emozioni si riflettono dunque in ambito politico15: la varietà delle passioni è uno dei tratti portanti dell’arte per definizione antieducativa, quella mimetica (399e)16. I giovani cittadini devono essere educati nella semplicità (401a), evitando, per quanto possibile, ogni forma di sofisticazione (404d-e), in quanto la poikilia emotiva ingenera “malattie” che risultano perniciose non soltanto perché molteplici e variegate (426a), ma anche perché il fascino derivante dalla loro varietà impedisce di osservare la realtà al di là della sua superficiale apparenza: chi ne rimane avvinto corre “il rischio di fare come chi, alzando lo sguardo per contemplare le variopinte decorazioni sul soffitto (en orophei poikilmata theomenos), per il solo fatto di scorgervi qualcosa si illude di avere contemplato con l’intelletto, mentre ha invece contemplato con gli occhi” (529b). L’illusione è data dal fatto che la realtà sensibile, proprio in quanto variopinta, risulta avvincente in tutte le sue espressioni: la sua poikilia caratterizza il movimento dei pianeti e i loro variegati movimenti nel cielo (ta en toi ouranoi poikilmata), ma anche il modo in cui questi si riflettono nei molteplici fenomeni visibili della realtà terrena (en horatoi pepoikiltai) (529d)17.

La poikilia è dunque ingannevole perché induce a contemplare (theorein), a elevare lo sguardo a una bellezza dal fascino irresistibile, perché osservabile nella sua multiforme unità. La sua capacità di muovere dal molteplice all’uno è analoga a quella che è dato riscontrare nella vera conoscenza, conseguente alla contemplazione delle idee – laddove la visione si caratterizza invece per la sua semplicità e immediatezza. Platone sembra qui focalizzare un punto di fondamentale importanza: la differenza tra le due modalità del theorein – da un lato l’illusione variopinta, dall’altro la visione noetica delle idee – è data non tanto dalla modalità di osservazione, che in entrambi i casi si caratterizza per una decisa verticalità, quanto piuttosto per i rispettivi organi e ambiti di competenza. Se la complessità (emotiva e teoretica) permette di cogliere la realtà sensibile solo a partire da un organo sensibile (l’anima e l’occhio), la semplicità consente invece di contemplare la realtà ultrasensibile mediante un organo preposto a osservare proprio tale realtà, ovvero l’intelletto. La poikilia si caratterizza dunque per la sua radicale ambivalenza: intrinsecamente ingannevole, è altresì sintesi del molteplice sensibile, e dunque capacità di abbracciare l’infinita varietà delle sue forme. In questo senso va dunque intesa la complessità delle emozioni platoniche: come un insieme variegato, potenzialmente pericoloso e ingannevole, ma caratterizzato da una straordinaria ricchezza di sfumature, intrecci, sovrapposizioni.

I saggi contenuti nel presente volume si cimentano in vario modo con la stratificazione insita nella nozione di poikilia, nel tentativo non di risolvere, ma di evidenziare – e se possibile anche di problematizzare – le difficoltà insite nella teoria platonica delle emozioni. Trovano spazio contributi dei maggiori esperti sull’argomento, i quali vengono arricchiti da prospettive innovative, avanzate da studiosi giovani e promettenti. L’esito di una simile ricerca non può che essere interlocutorio, vista la all’indomani dell’uscita di ben due volumi incentrati su Platone e le emozioni18, il presente volume assolve al compito di rilanciare le questioni più importanti poste sul tappeto negli ultimi anni.

 

 

* La presente introduzione è stata concepita nel suo insieme dai due autori. Il primo paragrafo (I) è tuttavia da attribuire a Laura Candiotto, il secondo (II) ad Alessandro Stavru.

1 Citiamo almeno le due più recenti raccolte in lingua inglese ed italiana presentate presso l’Università di Verona nell’ottobre del 2021: L. Candiotto & O. Renaut (eds.), Emotions in Plato, Brill, Leiden/Boston 2020 e F. Benoni & A. Stavru (eds.), Platone e il governo delle passioni. Studi per Linda Napolitano, Aguaplano, Perugia 2021. È da questo incontro che è scaturita la presente iniziativa.

2 Pur non potendo essere esaustivi, forniamo qui di seguito una lista dei lavori più recenti su alcune specifiche emozioni in Platone. Amore: P.W. Ludwig, Eros in the Republic, in: G.R.F. Ferrari (ed.), The Cambridge Companion to Plato’s Republic, Cambridge University Press, Cambridge 2007, 202-231. O. Renaut, Challenging Platonic Eros: The Role of Thumos and Philotimia in Love, in: E. Sanders/C. Thumiger/N.J. Lowe (eds.), Eros in Ancient Greece, Oxford University Press, Oxford 2013, 95-110; F.C.C. Sheffield, Erōs and the Pursuit of Form, in: P. Destrée/Z. Giannopoulou (eds.), In Plato’s Symposium: A Critical Guide, Cambridge University Press, Cambridge 2017, 125-141; L. Candiotto, The Divine Feeling: The Epistemic Function of Erotic Desire in Plato’s Theory of Recollection, Philosophia, 48, 2020, 445-462. Coraggio: J. Wilburn, Courage and the Spirited Part of the Soul in Plato’s Republic, Philosopher’s Imprint 15 (26), 2015, 1-21. Invidia: B. Bossi, On Mild-Envy and Self-Deceipt (Phlb. 47d-50e), in: Candiotto & Renaut (eds.), Emotions in Plato, cit., 220-237. Meraviglia: L.M. Napolitano Valditara, Meraviglia, perplessità, aporia: cognizioni ed emozioni alle radici della ricerca filosofica, Thaumàzein – Rivista di Filosofia 2, 2014, 127-178; L. Candiotto & V. Politis, Epistemic Wonder and the Beginning of the Enquiry: Plato’s Theaetetus 155d2-4 and Its Wider Significance, in Candiotto & Renaut (eds.), Emotions in Plato, cit., 17-38. Paura: L. Palumbo, La paura e la città (Platone, Leggi i, ii), Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche 117, 2007, 309-323. Rabbia: M. Jiménez, Plato On the Role of Anger in Our Moral and Intellectual Development, in: Candiotto & Renaut (eds.), Emotions in Plato, cit., 285-387. Vergogna: R.B. Cain, Shame and Ambiguity in Plato’s Gorgias, Philosophy & Rhetoric 41 (3), 2008, 212-237; D.B. Futter, Shame as a Tool for Persuasion in Plato’s Gorgias, Journal of the History of Philosophy 47 (3), 2009, 451-461; L. Candiotto, “Purification through Emotions: The Role of Shame in Plato’s Sophist 230b4-e5.”, in J.M. Dillon & M.L. Zovko (eds.), Educational Philosophy and Theory 50 (6-7), 2018, 576-585; F. de Luise, La pedagogia della vergogna nel Simposio di Platone. Due modelli a confronto per l’uso di un’emozione sociale, in: Benoni & Stavru, Platone e il governo delle passioni, cit., 131-162.

3 La questione è già stata affrontata da Jonathan Fine, Plato and the Dangerous Pleasures of Poikilia, Classical Quarterly 71, 2021, 152-169, la cui prospettiva diverge tuttavia in modo significativo da quella qui proposta.

4 Per una rassegna delle concezioni più significative legate alla nozione di poikilia, cfr. il volume collettaneo E. Berardi/F. Lisi/D. Micalella (eds.), Poikilia. Variazioni sul tema, Bonanno, Acireale 2009. Ma si vedano anche, per un senso più tecnico di poikilia, gli studi di A. Grand-Clément: La fabrique des couleurs: histoire du paysage sensible des Grecs anciens (VIIIe début du Ve siècle av. n. è.). De l’archéologie à l’histoire, De Boccard, Paris 2011, 488 n. 436; Poikilia. Pour une anthropologie de la bigarrure, in: P. Payen/E. Scheid-Tissinier (eds.), Anthropologie de l’Antiquité. Anciens objets, nouvelles approches, Brepols, Turnhout 2013, 239-262 e Poikilia, in: P. Destrée/P. Murray (eds.), A Companion to Ancient Aesthetics, Wiley Blackwell, Malden, MA/Oxford/Chichester, 406-421, spec. 415-416. Cfr. anche P. LeVen, The Colours of Sound: Poikilia and Its Aesthetic Contexts, Greek and Roman Musical Studies 1, 2013, 229-242.

5 Bacch. 10.43.

6 Sapph. fr. 39.2.

7 Sapph. fr. 1.1.

8 Il. 18.590. Altre significative occorrenze omeriche sono Il. 11.482, 14.214-221; Od. 3.163, 13.293 (discusse in Fine, Plato and the Dangerous Pleasures of Poikilia, cit., 156-157).

9 Pind. Ol. 3.8 e 4.2.

10 Pind. Ol. 6.87 e Nem. 5.42.

11 Pind. Pyth. 2.8.

12 Alcm. fr. 1.66, Pind. Pyth. 4.249, 8.46, 10.46.

13 Pind. Pyth. 4.214-216; Alcm. fr. 345.2.

14 La pericolosità della poikilia delle emozioni è stata messa in luce più volte, soprattutto in riferimento alla critica platonica alla mimesis: cfr. B. Rosenstock, Athena’s Cloak: Plato’s Critique of the Democratic City in the Republic, Political Theory 22, 1994, 363-390; S. Halliwell, The Aesthetics of Mimesis: Ancient Texts and Modern Problems, Princeton University Press, Princeton 2002, 93-94 e 325; J. Moss, What is Imitative Poetry and Why Is It Bad?, in: G.R.F. Ferrari (ed.), The Cambridge Companion to Plato’s Republic, Cambridge University Press, Cambridge 2007, 415-444, spec. 426 e 435-437; R.W. Wallace, Plato, Poikilia, and New Music in Athens, in: E. Berardi/F. Lisi/D. Micalella (eds.), Poikilia, cit., 201-213; J.I. Porter, The Origins of Aesthetic Thought in Ancient Greece: Matter, Sensation, and Experience, Cambridge University Press, Cambridge 2010, 86-87; R.S. Liebert, Apian Imagery and the Critique of Poetic Sweetness in Plato’s Republic, Transactions and Proceedings of the American Philological Association 140, 2010, 97-115 e, della stessa autrice, Tragic Pleasure from Homer to Plato, Cambridge University Press, Cambridge 2017, 134-155; Z. Petraki, The Poetics of Philosophical Language: Plato, Poets and Presocratics in the Republic, de Gruyter, Berlin 2011, 64-65, 181-185, 235-250.

15 Circa le implicazioni politiche della poikilia si veda anche Leg. 3.693d, su cui cfr. G. Cambiano, Platone e il governo misto, Rivista storica italiana 124, 2012, 143-165. Opportune le riflessioni di Jonathan Fine (Plato and the Dangerous Pleasures of Poikilia, cit., 160), il quale nota come Platone, nella sua polemica contro la poikilia democratica, sembri parodiare l’ideale teognideo del poikilon ethos (cfr. Thgn. 213-218).

16 La poikilia è caratteristica dell’arte mimetica in tutte le sue accezioni. Non fa eccezione la suprema delle arti mimetiche, la poesia, come si evince da Menex. 234c-235c, Phdr. 277b-c e Leg. 2.665c. Si veda in proposito M. Tulli, Una Spaltung: Platone, la poikilia e il sapere, in: Berardi/Lisi/Micalella (eds.), Poikilia, cit., 227-238.

17 Il fascino variopinto del visibile si evince anche da Phaed. 110b-d e Tim. 39d-40a. Cfr. in proposito A. Nightingale, The Aesthetics of Vision in Plato’s Phaedo and Timaeus, in: A. Kampakoglou/A. Novokhatko (eds.), Gaze, Vision, and Visu­ality in Ancient Greek Literature, de Gruyter, Berlin 2018, 331-353.

18 Cfr. Candiotto & Renaut (eds.), Emotions in Plato, cit. e Benoni & Stavru (eds.), Platone e il governo delle passioni, cit.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

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e saranno immediatamente rimossi.

Alessandro Stavru – «Scritti sul piacere», di Aristotele. Il piacere correttamente inteso costituisce l’oggetto della virtù, è il segno distintivo della virtù. La comprensione teoretica della natura e del bene dell’uomo è il requisito per agire nel modo migliore.



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Alcuni dei libri di Alessandro Stavru



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Lidia Palumbo – Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica.

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«[Intendo] mostrare come solo una comprensione unitaria del fenomeno mimetico – una comprensione cioè che riconosce nella mimesis, in tutti i casi di mimesis, uno stesso fenomeno che si ripete in contesti diversi – possa essere una sua autentica comprensione, e possa quindi cogliere l’importanza che la mimesis assume nella filosofia platonica, una filosofia che interpreta tutta intera la realtà sensibile e tutta intera la conoscenza di essa come casi di mimesis» (p. 17).

«[…] il teatro assume agli occhi di Platone un significato importantissimo, che è quello di mostrare a chiare lettere il modo di funzionare di ogni realtà mimetica: ogni realtà mimetica, infatti, per Platone, è quella che è perché rimanda a qualcosa che la trascende, e rispetto alla quale essa è una rappresentazione, una riproduzione, una visualizzazione. Il teatro, con il suo straordinario potere di ingannare, di simulare la presenza di un assente, di rappresentarla, di visualizzarla, si pone come l’osservatorio privilegiato dal quale è possibile guardare all’intero mondo empirico come ad una mimesis» (p. 158).

«[…] laddove c’è mimesis c’è qualcos’altro di cui la mimesis è mimesis. Questo qualcos’altro – il modello dell’atto mimetico – è assolutamente irriducibile al risultato dell’atto mimetico stesso: il mondo delle idee è altro, irriducibile, ulteriore, assolutamente ed incommensurabilmente migliore del mondo empirico che è di esso una mimesis. Il mondo delle idee è qualcosa di altro, di ulteriore e di migliore, anche rispetto al pensiero filosofico, che a quel mondo rivolge il suo sguardo e che nella scrittura dialogica riflette una mimesis di questo rivolgimento e di questo sguardo. Ma le forme mimetiche – il mondo empirico come il dialogo filosofico – sono tutto ciò di cui dispongono gli uomini per vedere, al di là della rappresentazione, l’invisibilità dei modelli di cui tali forme mimetiche sono rappresentazioni. Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica» (p. 279).

Il fondamento della mimesis non è quindi soltanto estetico, ma anche ontologico ed ermeneutico: l’intera realtà empirica è rappresentazione di un originale destinato a rimanere altrimenti inaccessibile. Si tratta di una rappresentazione intrinsecamente paradossale, poiché implica un farsi visibile di ciò che è costitutivamente invisibile. Infatti,

«[…] ciò che consente questo “calarsi” nel tempo e nello spazio, questa moltiplicazione, questa visibilità è precisamente la rappresentazione, la mimesis. Essa però – ed è questo il punto cruciale – comporta una “trasformazione”: calandosi nel tempo e nello spazio, assumendo molteplicità e mobilità, divenendo visibile, l’idea perde ciò che ha di più caratteristico, e cioè la sua essenzialità immutabile, la sua dimensione unitaria ed atemporale. In questo senso ogni rappresentazione, proprio in quanto rappresentazione, è una sorta di tradimento» (p. 199).

 

«[…] lo spettacolo, con il suo darsi scenico, con la potenza della sua mimesis, con l’evidenza della sua visualizzazione, con la straordinaria persuasività della sua parola poetica fagocita tutte le altre possibilità del pensiero dello spettatore: l’uomo diventa soltanto spettatore – vive come in un sogno – e la sua maniera di pensare e di vivere sarà modellata dal poeta tragico, che è nei fatti l’unico educatore dell’Atene teatrocratica» (pp. 208-209).

Lidia Palumbo, Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo, Napoli 2008.

 

Tra i libri di Lidia Palumbo

Il non essere e l’apparenza: sul Sofista di Platone, Loffredo, 1994.


 

Eros, Phobos, Epithymia. Sulla natura dell’emozione in alcuni dialoghi di Platone, Loffredo 2001.


 

Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo 2008.

***
*

Alessandro Stavru*

* Es profesor de Filosofía antigua en la Universitá degli Studi di Napoli “L’Oriéntale”; se interesa por la estética antigua y moderna, así como por las relaciones entre mito y filosofía. 

Tra i meriti più significativi del recente libro di Lidia Palumbo vi è sicuramente quello di proporre un’interpretazione unitaria della mimesis in Platone. In tal senso, esso si inserisce a pieno diritto in un dibattito scaturito in seguito alla recente pubblicazione di alcune cospicue monografie. Nei primi mesi del 2009 è infatti apparso il penetrante studio di Jean-Francois Pradeau, seguito a breve distanza dalla traduzione italiana del testo di Stephen Halliwell (ed. inglese del 2002), considerato ormai unanimemente un “classico” sull’argomento.1

Sin dalle pagine introduttive l’autrice dichiara che lo scopo della sua indagine è di

mostrare come solo una comprensione unitaria del fenomeno mimetico  – una comprensione cioè che riconosce nella mimesis, in tutti i casi di mimesis, uno stesso fenomeno che si ripete in contesti diversi – possa essere una sua autentica comprensione, e possa quindi cogliere l’importanza che la mimesis assume nella filosofia platonica, una filosofia che interpreta tutta intera la realtà sensibile e tutta intera la conoscenza di essa come casi di mimesis.2

Di qui la proposta, formulata esplicitamente dall’autrice, di tradurre unitariamente il termine mimesis con “rappresentazione”. La monografia sviluppa con coerenza questa tesi, arrivando ad enucleare un denominatore comune alle molteplici accezioni di mimesis presenti nel corpus Platonicum. Ciò permette da un lato di far luce sulla concezione originaria di tale nozione, dall’altro di mostrare come le sue pur evidenti sfaccettature semantiche si fondino su un comune retroterra speculativo. È dunque soltanto a partire dall’idea di rappresentazione che è possibile cogliere l’intrinseca polivalenza semantica della mimesis e, a partire da essa, mettere in luce i limiti insiti nella sua riduzione a semplice “imitazione”.

La studiosa si propone di fare i conti soprattutto con quest’ultimo modo di intendere la mimesis, particolarmente radicato tra gli studiosi moderni.3 Infatti, mentre l’imitazione definisce solo un aspetto della mimesis, la rappresentazione ricomprende al proprio interno l’imitazione senza esaurirsi in essa. Ciò risulta in maniera particolarmente evidente non appena si riporta la mimesis al suo contesto originario, quello della cultura poetico-teatrale. Qui essa vuol dire essenzialmente rappresentazione nel senso di uno “spettacolo” che implica da un lato la dimensione produttiva della “messa in scena”, dall’altro la dimensione ermeneutico-interpretativa di una fruizione che è al tempo stesso contemplativa e partecipativa (tale cioè da determinare un’identificazione dell’uditore con la rappresentazione stessa):

La mimesis non è dunque l’imitazione, ma è la rappresentazione di un mondo e di una possibilità di vita. Tale rappresentazione è mimetica in quanto è in grado di coinvolgere lo spettatore inducendo immedesimazione. La nozione di emulazione non esprime allora la mimesis in quanto tale, ma i suoi effetti: la mimesis non è imitazione, ma può generare imitazione in chi la osserva, in chi osserva la rappresentazione e ne è coinvolto. In quanto arte figurativa o poetica, la rappresentazione mimetica non è imitativa ma può essere imitata. Si tratta di una differenza sottile ma cruciale. È confondendo il movimento produttivo della rappresentazione creativa che si è potuta ridurre l’intera sfera della mimesis ad un’imitazione. La mimesis (rappresentazione) non è imitativa del mondo, è piuttosto il mondo che, rappresentato in un certo modo dalla mimesis, può trasformarsi e somigliare alla sua immagine: può diventare come è stato rappresentato. Le opere d’arte non copiano affatto la realtà, ma la rappresentano, e per effetto di tale rappresentazione la realtà può avviare una propria trasformazione in direzione di quella possibilità formale che la mimesis ha suggerito, ha evocato, ha creato.4

Tale nesso tra la rappresentazione e l’identificazione dello spettatore viene esaminato da Lidia Palumbo nel secondo capitolo,5 il quale è dedicato ad un approfondimento del contesto in cui la mimesis platonica matura e prende forma. È infatti soltanto a partire dalla cultura teatrale dell’Atene del quinto e del quarto secolo che tale nozione ottiene un fondamentale chiarimento:

il teatro assume agli occhi di Platone un significato importantissimo, che è quello di mostrare a chiare lettere il modo di funzionare di ogni realtà mimetica: ogni realtà mimetica, infatti, per Platone, è quella che è perché rimanda a qualcosa che la trascende, e rispetto alla quale essa è una rappresentazione, una riproduzione, una visualizzazione. Il teatro, con il suo straordinario potere di ingannare, di simulare la presenza di un assente, di rappresentarla, di visualizzarla, si pone come l’osservatorio privilegiato dal quale è possibile guardare all’intero mondo empirico come ad una mimesis.6

La similitudine del procedimento mimetico con quello teatrale ha dunque una giustificazione che è in primo luogo di carattere metafisico: entrambi sono una presentificazione di ciò che è costitutivamente oltre quel che viene rappresentato.

Ancor più importante è però un ulteriore parallelismo con il teatro. Come nella rappresentazione scenica la storia risale ad un narratore che non appare al pubblico, così la mimesis si riferisce a qualcosa che non si mostra, ma che viene rappresentato sulla “scena del mondo”. Qualcosa che rimane celato dietro la sua immagine mimetica, ma che diventa visibile grazie a quella medesima immagine: “nel preciso senso di mimeisthai, rappresentare significa simulare l’effettiva presenza di un assente”.7 Questa relazione tra il visibile e l’invisibile caratterizza in particolar modo la mimesis che connette le idee trascendenti alla realtà empirica:

laddove c’è mimesis c’è qualcos’altro di cui la mimesis è mimesis. Questo qualcos’altro —il modello dell’atto mimetico— è assolutamente irriducibile al risultato dell’atto mimetico stesso: il mondo delle idee è altro, irriducibile, ulteriore, assolutamente ed incommensurabilmente migliore del mondo empirico che è di esso una mimesis. Il mondo delle idee è qualcosa di altro, di ulteriore e di migliore, anche rispetto al pensiero filosofico, che a quel mondo rivolge il suo sguardo e che nella scrittura dialogica riflette una mimesis di questo rivolgimento e di questo sguardo. Ma le forme mimetiche —il mondo empirico come il dialogo filosofico— sono tutto ciò di cui dispongono gli uomini per vedere, al di là della rappresentazione, l’invisibilità dei modelli di cui tali forme mimetiche sono rappresentazioni. Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica.8

Il fondamento della mimesis non è quindi soltanto estetico, ma anche ontologico ed ermeneutico: l’intera realtà empirica è rappresentazione di un originale destinato a rimanere altrimenti inaccessibile. Si tratta di una rappresentazione intrinsecamente paradossale, poiché implica un farsi visibile di ciò che è costitutivamente invisibile. Infatti,

ciò che consente questo “calarsi” nel tempo e nello spazio, questa moltiplicazione, questa visibilità è precisamente la rappresentazione, la mimesis. Essa però – ed è questo il punto cruciale – comporta una “trasformazione”: calandosi nel tempo e nello spazio, assumendo molteplicità e mobilità, divenendo visibile, l’idea perde ciò che ha di più caratteristico, e cioè la sua essenzialità immutabile, la sua dimensione unitaria ed atemporale. In questo senso ogni rappresentazione, proprio in quanto rappresentazione, è una sorta di tradimento.9

E tuttavia il teatro greco ci insegna che la rappresentazione mimetica, lungi dall’essere solo inganno, possiede una forza persuasiva senza eguali:

lo spettacolo, con il suo darsi scenico, con la potenza della sua mimesis, con l’evidenza della sua visualizzazione, con la straordinaria persuasività della sua parola poetica fagocita tutte le altre possibilità del pensiero dello spettatore: l’uomo diventa soltanto spettatore — vive come in un sogno — e la sua maniera di pensare e di vivere sarà modellata dal poeta tragico, che è nei fatti l’unico educatore dell’Atene teatrocratica.10

Di qui l’affinità — prima ancora che la differenza — tra la mimesi cosiddetta “cattiva”, quella dei poeti e dei tragediografi da cui Platone prende polemicamente le distanze nella Repubblica (libri II, III e X) e la mimesi cosiddetta “positiva”, caratteristica precipua dell’insegnamento filosofico nelle Leggi:

Noi stessi siamo autori di una tragedia che, per quanto possibile, è la più bella e la migliore; infatti tutta la nostra costituzione è stata ordinata come mimesis della più bella e della migliore vita, che noi affermiamo essere davvero la tragedia più vera. Poeti siete voi, e poeti delle stesse cose siamo anche noi, vostri rivali nell’arte e avversari nel dramma più bello, che il solo vero nomos per natura realizza (817B).11

Il teatro è, insieme alla poesia, la forma più potente di persuasione educativa di cui disponga l’Atene di età classica. Ed è proprio a questa capacità persuasiva che Platone attinge nella sua scrittura filosofica, la quale viene così a distinguersi nettamente dalla asettica trattatistica peri physeos in voga nel mondo presocratico.

 

Note

1 S. Halliwell, L’Estetica della Mimesis: testi antichi e problemi moderni, tr. it. di D. Guastini e L. Maimone Ansaldo Patti, a cura di G. Lombardo, Palermo, Aesthetica, 2009 (ed. orig. The Aesthetics of Mimesis. Ancient Texts and Modern Problems, Princeton NJ-Oxford, Princeton University Press, 2002);  J.-F. Pradeau, Platon, l’imitation de la philosophie, Paris, Aubier, 2009.

2 L. Palumbo, Mimesis, cit., p. 17.

3 In epoca moderna fu Johann Joachim Winckelmann a individuare nella nozione di Nachahmung la quintessenza della mimesis degli antichi. In un piccolo volumetto del 1755, destinato a diventare nel giro di pochi anni il manifesto del Klassizismus, egli si soffermò sulle implicazioni estetico-artistiche alla base di tale nozione. Le sue riflessioni influenzarono un’intera generazione di celebri poeti e scrittori (per citare solo i più illustri: Johann Gottfried Herder, Gotthold Ephraim Lessing, Moses Mendelssohn, Friedrich Schiller e Johann Wolfgang Goethe).

4 L. Palumbo, Mimesis, cit., pp. 235-236, n. 249.

5 Ivi, pp. 154-236.

6 Ivi, pp. 158.

7 Ivi, pp. 155.

8 Ivi, pp. 279.

9 Ivi, pp. 199.

8 Ivi, pp. 208-209.

11 Trad. F. Ferrari e S. Poli, con modifiche.


 

Verba manent. Su Platone e il linguaggio, Iniziative Editoriali, 2014.


 

Trentadue ore di filosofia, Iniziative Editoriali, 2015.


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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