Paolo Isotta (1950-2021) – Per me Totò è un Santo: per l’altezza della sua arte, per la gioia da lui per decenni donata a milioni di persone.

Paolo Isotta


Io sono un uomo all’antica, e credo solo nei Santi: e nemmeno in tutti […].

Per me Totò è un Santo: per l’altezza della sua arte, per la gioia da lui per decenni donata a milioni di persone: gente del popolo, piccola borghesia, poi persino alta, ma anche autentici reietti. Per esser riuscito, con la risata che suscitava, a far per un attimo dimenticare a tutti, non solo ai reietti, le loro tragedie. E, incredibile, per esser l’idolo dei ragazzi di ogni ceto, da molte generazioni. Affatto disgiunti dalla realtà storica e sociale che aiutò a generarne l’arte, vedono i suoi films e pronunciano le sue battute, entrate misteriosamente nel loro gergo.

Questo libro può apparir frutto di presunzione. Non sono un critico cinematografico né uno storico del cinema. In fondo, di films ne ho visti pochi, nella mia vita. Non sono un «cinefilo». Tuttavia credo di posseder ancora un po’ di esercizio del pensiero e della memoria. Non pretendo di mettermi in lizza cogli illustri Scrittori che ringrazio e cito in bibliografia. Peraltro, facile est inventis addere. Ma, siccome Totò e un argomento universale, che travalica la stessa Napoli e la stessa Italia, ritengo che chiunque abbia diritto – esito a parte – di pensar su di lui. Il fatto d’esser io napoletano, e di esser restato uno dei pochi che nel sermo cotidianus in napoletano – quello vero – si esprima, mi fornisce qualche arma in più.

Paolo Isotta, San Totò, Marsilio, Venezia 2021, Pp. VIII-IX.


Risvolto di copertina

«Chi non ha visto Totò a teatro non ha visto Totò», si è sempre sentito dire Paolo Isotta da suo padre. Noi ci troviamo tutti, ora, in questa situazione: di Totò abbiamo solo le interpretazioni cinematografiche, molte delle quali contengono spezzoni di Rivista, il che faceva indignare i critici puristi. L’autore la ritiene invece una fortuna, perché si può così tentare di ricostruire un’immagine intera del sommo attore.

Di Totò hanno scritto storici del cinema, del teatro, antropologi, studiosi della lingua italiana e latina, filologi classici e filosofi della politica … ma mai uno storico della musica come Paolo Isotta, che dichiara di aver affrontato l’impresa non da esperto ma in quanto innamorato di Totò. Nella prima parte del volume si tenta un ardito ritratto, completo e sintetico, del principe de Curtis. La seconda, che rappresenta a modo suo una novità, è costituita da «una scheda per film», raccontato ora analiticamente, ora brevemente.

Il talento di Totò emerge non solo e non tanto nella recitazione, ma nella creazione, attraverso battute memorabili «ai vertici della metafisica». Egli non temeva la competizione, comprendendo che, quanto meglio veniva accompagnato, tanto meglio il suo genio ne sarebbe emerso, in una sorta d’opera d’arte collettiva. Così, fra teatro e cinema, tra spalle e comprimari, sfilano sotto i nostri occhi grandi personaggi dello spettacolo come Aldo Fabrizi, Mario Castellani, Nino Taranto, Aroldo Tieri, Raimondo Vianello, Paolo Stoppa, Macario, Carlo Croccolo. E poi Peppino (la più naturale intesa e unico alla sua altezza»), Alberto Sordi e Titina De Filippo, Franca Valeri e Franca Faldini, che di Totò fu l’ultima compagna.

Un tributo raffinato e giocoso a colui che «affermava di ritenersi lieto di avere fatto per mestiere il comico perché la comicità aiuta la gente a prendere la vita come viene e gliela rende più accettabile. Che altro fanno, i Santi?».

Quale filo unisce Totò ad Aristofane, Plauto e Orazio fino alle maschere della Commedia dell’Arte e alla Rivista del Novecento? Com’è nato l’uomo-marionetta (una delle tante facce di Toto)? Perché nelle sue mani persino la lingua latina diventava strumento eversivo?

Da quali tare della cultura italiana deriva il disprezzo che gli intellettuali gli riserbarono dagli anni Quaranta alla morte?

Un superbo ritratto in cui rivivono il genio e le contraddizioni di un gigante.


PAOLO ISOTTA (Napoli, 1950-2021) è stato Professore Emerito del Conservatorio di Musica di Napoli. Dal 1974 ha esercitato la critica musicale: per trentacinque anni al «Corriere della Sera». A ottobre del 2015 ha abbandonato quest’attività per dedicarsi allo studio, alla lettura e a comporre libri che gli diano l’illusione di scrivere qualcosa di meno effimero di articoli giornalistici. Le sue opere principali sono: I diamanti della corona. Grammatica del Rossini napoletano (1974), Dixit Dominus Domino meo: struttura e semantica in Händel e Vivaldi (1980), Il ventriloquo di Dio. Thomas Mann: la musica nell’opera letteraria (1983), Victor De Sabata: un compositore (1992), La virtù dell’elefante: la musica, i libri, gli amici e San Gennaro (Marsilio 2014: premio Acqui Storia 2015), Altri canti di Marte (Marsilio 2015), Otello: Shakespeare, Napoli, Rossini (Napoli 2016), Paisiello e il mito di Fedra (Napoli 2016, premio Paisiello 2017), Il canto degli animali. I nostri fratelli e i loro sentimenti in musica e in poesia (Marsilio 2017), De Parthenopes musices disciplina. L’educazione musicale a Napoli dal Medio Evo ai giorni nostri (Napoli 2018), «Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste». Il convito e la fame tra mito, musica, poesia e teatro napoletano (Ariano Irpino 2018), La dotta lira. Ovidio e la musica (Marsilio 2018), Verdi a Parigi (Marsilio 2020).

A settembre 2017 gli è stato assegnato, «per altissimi meriti culturali», il premio Isaiah Berlin.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Antonio De Curtis , Totò (1898-1967) – Il riso è l’indizio della libertà umana, è l’arboscello della gioia, ha un’importanza sociale: esso attacca, è contagioso. Il contagio del riso è spirituale: unisce gli uomini.

Totò Antonio de Curtis 02

Antonio De Curtis ha espresso la sua idea della comicità in una breve novella,  autobiografica, intitolata Due mamme e un comico. Il protagonista è un attore comico di nome Antonio:

«Portava sul volto, Antonio, quasi una maschera tragica: il viso scavato da rughe, l’occhio fermo e severo, il naso aquilino su una bocca a taglio netto, lo dicevano nato per i ruoli fortemente drammatici: invece era divenuto un comico, quasi avesse voluto scegliere la via più lunga e difficile per giungere al successo.
I primi anni erano stati duri: il pubblico, uso ad una comicità senza contenuto di pensiero, non sapeva assuefarsi al grottesco elaborato con il cuore e con l’intelligenza, alle pantomime che, se in superficie slargavano al riso, nel fondo compendiavano tutto l’amaro della vita. […]
Fare della comicità rappresentava per Antonio non l’esercizio di una professione più o meno lucrativa, quanto una necessità di distribuire alle platee quel dono che i Malesi chiamano “l’arboscello della gioia”, quell’arboscello che la credenza indigena vuole che cresca all’interno del corpo, con le radici che affondano nel ventre e la corona nella testa: il riso, indizio della libertà umana. Applicava nell’esplicazione della sua arte una filosofia corrente, ma senza alcun dubbio profondamente umana. Deposti gli abiti d’obbligo del pagliaccio la sua maschera tornava tragica, come se le tre ore di spettacolo avessero esaurito in lui la meravigliosa linfa, e necessitasse ogni volta di un lungo riposo, per ricaricare le pile da cui traeva il suo umorismo. E ad ogni spettacolo egli sapeva dare sempre qualcosa di nuovo, di suo: era un fisiologo della risata. “Il riso – egli aveva scritto un giorno in un articolo nel quale aveva tentato di definire la funzione del comico nella società moderna –, ha un’importanza sociale: esso attacca, è contagioso. Lo sbadiglio lo è ancora di più, ma la sua funzione è meramente corporale. Il contagio del riso è invece spirituale: esso unisce gli uomini, li livella, poiché nel momento culminante della barzelletta tutti gli uditori sono dominati dalla stessa impressione, nessuno può sottrarsi al riso. L’anima umana ha sempre il desiderio di equilibrio e di livellare i sentimenti che la agitano”. Teorie difficili da far capire a masse di diversi gusti e diverse sensibilità convenute solo per divertirsi senza prestare pensiero ad altro».

Antonio De Curtis, Totò, Due mamme e un comico, novella pubblicata su «La Domenica del Corriere», Anno 58, n. 41, 7 ottobre 1956.


Antonio De Curtis – Totò (1898-1967) – I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla sempre al posto di comando.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Antonio De Curtis – Totò (1898-1967) – I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla sempre al posto di comando.

Totò Antonio de Curtis 01

«L’umanità io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali per fortuna è la minoranza.
Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama.
I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla sempre al posto di comando spesso senza averne l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque».

Antonio De Curtis, Uomini o caporali (1955), regia di Camillo Mastrocinque, soggetto di Antonio de Curtis, sceneggiatura di Vittorio Metz, Mario Mangini, Nelli, Camillo Mastrocinque, Antonio de Curtis.

Così nel 1955.
Nel 1963 Totò precisa:

«Quella mia battuta “siamo uomini o caporali” non è affatto un gioco. Il mondo io lo divido così, in uomini e caporali. E più vado avanti, più scopro che di caporali ce ne son tanti, di uomini ce ne sono pochissimi; i caporali sono quelli che vogliono essere capi. C’è un partito e sono capi. Cambia il partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature».

Totò spiega la differenza tra uomini e caporali

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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