Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?

 

Michel Foucault

 

 

Introduzione

Non vi sono opere in cui è presente una trattazione etica: il tema è disperso nei suoi testi e si intreccia tra decostruzione e costruzione del soggetto. Si cercherà, quindi, di rinvenire le tracce che possano permettere di ricostruire una possibile proposta etica dell’autore.
L’oggetto dell’analisi di Foucault, come egli ha più volte evidenziato, è il soggetto e non il potere; si potrebbe cogliere in questo una sensibilità etica, giacché l’etica ha al centro la persona e tutto riconduce ad essa.
Il rapporto potere-verità ha rappresentato un’ossessione cognitiva nel suo percorso intellettivo. Il fine dichiarato è stato sganciare il potere costituito dalla verità, in questo binomio Foucault coglieva l’invasività minacciosa verso il soggetto, che in tal modo cade nelle maglie dei processo di assoggettamento senza consapevolezza, nel silenzio di una negazione senza redenzione.
Rompere il binomio potere-verità ha l’effetto di una scissione atomica e libera una quantità inesauribile di energia; i soggetti liberati, infatti, possono uscire da silenzi e secolari mortificazioni, per una rottura epistemologica assoluta: la volontà di sapere, sostituendo la verità, che, mentre si afferma capillarmente, divora le alterità e conduce a nuovi modelli inaspettati di vita, protagonista un soggetto, che altrimenti sarebbe stato attraversato da forme assoggettanti vissute quali uniche possibile.
Si descriverà il possibile percorso di Foucault tra decostruzione del potere e gli effetti nei campi d’azione.
Un nuovo soggetto è liberato dall’Umanesimo e dai suoi assoluti funzionali ai sistemi di potere, nel cui orizzonte la parola verità non porta il peso dell’esclusione, ma, sostituita dalla volontà di sapere, può rifondare e liberare nuove forme di soggettività per nuovi campi d’azione in cui esserci.

L’ Enunciato

L’enunciato occupa una posizione centrale all’interno della struttura del pensiero di Foucault, è il mezzo minimo e complesso mediante il quale è possibile ricostruire dinamicamente saperi, oggetti del sapere, parole e soggetti.
Il soggetto e le parole sono gli effetti dell’enunciato all’interno di uno spazio dove avvengono ed emergono soggetti ed oggetti del sapere. Gli enunciati non sono mai singoli, ma sempre in una relazione tendenzialmente olistica con altri enunciati.
Se vi è l’enunciato, si eclissa ogni umanesimo: non si ricerca la sostanza o i miti concettualmente limitrofi (soggetto forte, origine, sostanza, continuità).
Il piano di emersione si fa privo di profondità, manca lo sguardo che insegue con la parola la causa e l’effetto.
Nel campo d’azione gli enunciati costituiscono la rete di relazioni spaziali e temporali entro cui si pone l’emergenza, essi non sono le precondizioni, queste ultime conservano la profondità dell’origine e sono sottratte allo sbattere delle spade del campo d’emersione dove sguardi, ruoli, dicibilità, gesti, orizzonti percettivi si intrecciano.
L’enunciato è la genealogia della parola, della dicibilità. E’ una funzione e non una struttura. Non appartiene al soggetto e non fa riferimento ad esso, piuttosto è una funzione in un campo d’azione che consente l’emergere degli oggetti.
L’inversione è avvenuta, per tradizione tipica dell’Umanesimo si partiva dal soggetto o da un oggetto epistemico, entrambi riposavano in un tempo annichilito dalla profondità. Ora sono restituiti al campo d’azione dove emergono grazie alla funzione enunciativa. È ripetibile poiché ha un suo statuto all’interno di un campo di utilizzazione. Vive in uno spazio, in un reticolo di funzioni, acquisisce in tal modo visibilità e materialità, consente di dire, di essere riconosciuto, ripetuto, circola, si dinamizza nel campo enunciativo ma all’interno di un campo di stabilizzazione, altrimenti non è possibile l’emersione di un sapere (vedasi la funzione enunciativa in Archeologia del Sapere).
Nella Nascita della clinica Foucault descrive il passaggio tra tipi di approccio metodologico in medicina, cogliendo la funzione della spazializzazione e della verbalizzazione, entrambe sono colte nel loro farsi, nel loro emergere al fine di cogliere l’oggetto e di formarlo.
Spazializzazione e verbalizzazione divengono funzioni enunciative per l’emersione del soggetto.
Così Foucault: «Per cogliere la mutazione del discorso all’atto della sua produzione bisognerà interrogare qualcosa di diverso dai contenuti tematici o dalle modalità logiche, e volgersi verso la regione in cui “le cose” e le “parole” non sono ancora separate, là dove, a fior del linguaggio, modo di vedere e modo di dire si compenetrano ancora. Bisognerà interrogare la distribuzione originaria del visibile e dell’invisibile, nella misura in cui è connessa colla divisione tra ciò che si enuncia e ciò che viene taciuto: apparirà allora, in una unica figura, l’articolazione del linguaggio medico e del suo oggetto. Ma non v’è precedenza di sorta per chi non si pone alcuna questione retrospettiva: sola merita d’esser portata in una luce di proposito indifferente la struttura parlata del percepito, lo spazio pieno nel cavo del quale il linguaggio assume volume e misura. Bisogna porsi, e, una volta per tutte, mantenersi al livello della spazializzazione e della verbalizzazione fondamentali per il patologico, là ove prende origine e si raccoglie lo sguardo loquace che il medico posa sul cuore venoso delle cose» (M. Foucault – La Nascita della clinica – Einaudi Torino – 1991).
Dunque l’enunciato assomma gesto, sguardo, visibile, invisibile in un campo di relazioni, dal cui incontro si forma l’oggetto, in questo la patologia.
L’autopercezione del medico inserito in uno spazio di relazioni è sostenuta dai linguaggi attivi in uno spazio, quali verità legittimate dalla clinica, e questo consente di definire una posizione di potere, una pratica di potere all’interno di un fascio di relazione che ritaglia nel farsi la malattia e, dunque, il paziente.
La parola enunciativa è colta nello spazio della sua dicibilità, condensata nel gesto, che mentre dice esclude, marginalizza saperi non legittimati dalle strutture di potere, nel contempo emerge nel campo delle relazione-azioni l’oggetto nominato, prende forma nella parola che porta con sé lo spessore spaziale del gesto.
L’ enunciato, dunque, si riferisce ad un campo funzionale dove si concretizza la dispersione del soggetto: il medico non è l’autore, il protagonista col suo io roccioso, piuttosto egli stesso emerge nel campo in quanto attraversato da un fascio di relazioni spaziali.
Si è formato come soggetto medico nello spazio della clinica, nella lingua specialistica che fa di lui un medico che si autopercepisce in una posizione di potere, che sussiste all’interno di una rete spaziale in cui incontra e definisce la malattia, la patologia, il paziente.
Se si sposta il medico in un’altra istituzione, in un altro spazio di relazioni, emerge la dispersione del soggetto che assume una funzione enunciativa differente.
Dov’è l’autore?
Dov’è il soggetto fondato in senso trascendentale?
I rapporti si invertono, è nelle maglie delle relazioni e delle funzioni enunciative che emergono i discorsi e con essi i soggetti. Processi di soggettivazione corrono paralleli alla formazione dei discorsi.
Chi parla?
Il soggetto è sostituito da un mormorio, da un “si dice” che affiora dalla carne della soggettivazione. Sii taglia, dunque, la testa al re, con essa ogni forma di soggettività umanistica.
Il potere scorre ovunque, ha perso con la testa ogni centro, come il dio di Cusano, il centro è ovunque.
Entstehung, l’emergenza, è l’entrata in scena delle forze, con esse l’enunciato fa la sua apparizione-irruzione, lo spazio si distribuisce e con esso gli uni sono dinanzi agli altri: lo sguardo, il gesto, la posizione occupata nello spazio. La parola si nutre dell’apparire materiale per tagliare lo spazio, per attraversarlo e restituire ad ognuno con la decifrabilità, in un confronto, affronto non privo di tensioni ripetibili.
Il soggetto ‘forte’ ripiegato nella sua sostanza splendente prima della sua caduta, identità rintracciabile all’interno della contingenza spaziale e delle forme di verbalizzazione fa parte di quel regime di verità che trova la sua genealogia all’interno del potere.
L’autore diventa il veicolo delle verità funzionali al sistema, che pongono il soggetto prima del tempo, anteriore allo spazio, il depositario istituzionale della verità, la linea che consente di identificare la continuità della verità.
La continuità trova nel soggetto-autore la sostanza mediante cui costruire una storia, dove potere e verità vivono in un binomio indiscutibile: «Credo che esista un altro principio di rarefazione di un discorso. Si tratta dell’autore. L’autore considerato non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità e origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza» (M. Foucault – L’ordine del Discorso – Einaudi Torino – pag 22).
Per fondare una nuova morale libera da forme di soggettivazione ed assoggettamento diventa necessario, con la morte del soggetto, introdurre la wirkliche Historie, la quale restituisce definitivamente l’uomo e le sue esperienze epistemiche alla sua temporalità. La finitudine e la fine dell’Umanesimo sono i capisaldi teoriciche fondano un’etica per Foucault.
Con l’enunciato e la sua pratica il soggetto e la parola sono gli effetti delle pratiche discorsive; così Deleuze sull’enunciato: «Ma tutte queste posizioni non sono figure di un Io primordiale da cui deriverebbe l’enunciato: esse derivano, al contrario dall’enunciato stesso, e a questo titolo sono i modi di una ‘’non persona’’, di un ‘’EGLI’’ o di un ‘’SI’’- EGLI parla, ‘’Si parla’’ – che si specifica a seconda della famiglia di enunciati. Foucault si collega così a Blanchot che denuncia una ‘’personologia’’linguistica, e colloca i posti di soggetto nello spessore di un mormorio anonimo» (G. Deleuze – Foucault – Feltrinelli Milano – pag 18).
Non vi è più una intenzionalità, lo spessore profondo di una coscienza, uno stato di cose avulso dalle realtà e dai contesti materiali della storia.
Con tale fondamenti ogni etica di tradizione umanistica tramonta, al suo posto resta un soggetto con il compito di costruire individualmente la propria soggettività e percorsi di consapevolezza.
In Foucault la metodologia genealogica, mutuata da Nietzsche, riporta l’uomo nelle maglie della sua finitudine e con essa vi è la fine di ogni mito prima della caduta; resta l’assoluta libertà di un soggetto che può diventare con la cura di sé un’opera d’arte, materiale duttile da cesellare.
La volontà di sapere sostituendo la volontà di verità col suo potere censorio, col suo ritagliare gli spazi della dicibilità, ridona la libertà del poter essere, potenzialità infinite si aprono alla fine della storia dell’Umanesino, resta la responsabilità dell’individuo dinanzi a se stesso.
Se l’Umanesimo legava l’individuo ad una socialità iscritta nella natura, destino ineludibile ed ineluttabile, ora l’individuo è solo con la sua carnalità sciolta da legami trascendenti.
La creatività, la liberazione dei possibili, spinge e rompe o minaccia di rompere ogni identità costruita seconda continuità.
Pensiero divergente che si avviluppa nel segreto della carne che ritrova se stessa come traguardo e resistenza.
Ora l’uomo è liberato, la volontà di potenza nietzschiana ha trovato una nuova modalità di espressione totale, oltre la genealogia, nei reticolati della microfisica del potere, la liberazione induce ad un prospettivismo consapevole.
Cosa resta?
Foucault incontra fortemente e pericolosamente Nietzsche: un nichilismo attivo è quanto propone Foucault, non resta che il divenire da interpretare (cfr. Nietzsche – La volontà di potenza – aforisma 72).
Riportato il soggetto alla sua storia, svelate le continuità come forme di manipolazione, la storia può diventare il luogo di un palcoscenico dove i soggetti sono mossi da forme di sperimentazione etica e dalla cura di sé, testimonianza di una umanità liberata e prometeica.
Non vi è alcun concetto di natura, nessuna socialità, nessuna intenzionalità solo il possibile: la carne liberata può prendere il suo bisturi e ritagliare la sua anima.
La morte di Dio che Foucault coglie nella sua pienezza consente la ricerca di un’etica da sperimentare. Fin dove spingersi, qual è il limite oltre il quale non è dovuto sporgersi non è dato sapere.

Gli interdetti

Liberare le individualità significa svelare le forme implicite di censura che si ritrovano nei campo epistemici, nel mormorio che mentre avviene spazializza, dandone i confini e le possibilità d’essere all’individuo.
Si ritrova un Foucault, figlio della scuola del sospetto, che insegue gli interdetti nel loro prendere forma.
La lezione di Marx e Nietzsche sono qui presenti: il primo svela le logiche del potere, il quale si autofonda su presunti universali che celano interesse particolari, il secondo indica nella maschera, il manifestarsi di un’apparenza che mostra l’invisibile.
Quest’ultimo è costituito dalle forze inconsce che parlano in quella maschera a cui il soggetto è ridotto.
La distanza che lo separa da Marx è notevole, in quanto ha tagliato la testa al re, e la sua microfisica del potere svela la circolarità del potere, la sua dispersione nelle istituzioni che sono il campo d’azione del mormorio in cui il soggetto prende forma e dà forma.
L’enunciato e la sua funzionalità rende il farsi del potere visibile.
Per Foucault il potere è ovunque e rende possibili fasci di relazioni in cui il soggetto è immischiato, diventando parte integrante del potere.
Per Marx il potere può essere diviso spazialmente lungo una linea netta, che divide i detentori da coloro che ne sono privi, per Foucault è una diagonale che disegna lo spazio di tutti i soggetti.
Malgrado la sua militanza nel partico comunista francese, la distanza teorica dello stesso non poteva essere più grande, e difatti la sua espulsione ne fu una conseguenza.
Rendere consapevoli le forme di dicibilità e svelarne le censure è una precondizione assoluta per formulare un’etica nel pensiero di Foucault.
Per liberare gli individui e le potenziali individualità si deve staccare il potere dalla verità per far questo Foucault elenca una serie di procedure che consentono il binomio potere – verità.
La volontà di verità consente la soggezione antropologica ovvero la trasmissione e la ripetizione del binomio verità – potere a tal fine ‘funziona’ la soggezione a Dio, alla sostanza, alla natura, alle leggi della storia.
Il commento quale modalità conservatrice dell’identità permette la ripetizione in modo liturgico e solo pochi, depositari delle tecniche e dei linguaggi.
Se il commento è blindato, codificato nella sua lettura interpretativa, la sua verbalizzazione permette la conservazione di istituzioni, e spinge ogni ‘lettura altra’, verso la dequalificazione epistemica.
Le Università con la loro ‘citatologia’, direbbe il compianto Costanzo Preve, sono modus agendi di esclusione e di autoriproduzione dei poteri, portatori nel loro statuto la violenza cognitiva mascherata da formalismi liturgici: «L’indefinito spumeggiare dei commenti è lavorato dall’interno dal sogno di una ripetizione mascherata: al suo orizzonte, non vi è forse nient’altro che ciò che era al suo punto di partenza, la semplice recitazione. Il commento scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte: esso consente certo di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo testo stesso ed essere detto e in qualche modo compiuto.» (L’Ordine del Discorso – Einaudi – pag 22).
La Partitura è altra strategia di esclusione, si insinua nel linguaggio e nei confini epistemici mediante antesi quali Ragione – Follia la partitura concettuale diviene una pratica di esclusione della parola e degli spazi: il manicomio e un effetto della pratica della partitura: «Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non più un interdetto, ma una partizione e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia ( ) La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano mai accolte né ascoltate.» (ibidem – pag 11).

In Sorvegliare e Punire e in Storia della Follia la partitura è resa operativa e visibile nella definizione degli spazi, nella geometria dei confini, il cui perimetro segna la partizione tra il mondi di senso ed il mondo dove la parola collassa in un insensato dire che va normalizzato per cui il potere istituzionale pratica un ortopedia pedagogica.
Le modalità di esclusione presuppongono la disciplina: irregimentare le scienze, espellere da esse ogni modalità epistemica non riconosciuta e che minacci la sua autoriproduzione, la sua istituzionalizzazione: «Entro i suoi limiti, ogni disciplina riconosce proposizioni vere e false: ma essa respinge oltre i suoi margini tutta una teratologia del sapere. L’esterno di una scienza è più o meno popolato di quanto non si creda: certo, c’è l’esperienza immediata, i temi immaginari che portano e ripropongono senza posa credenze senza memorie; ma forse non ci sono errori in senso stretto, poiché l’errore non può sorgere ed essere deciso se non all’interno di una pratica definita; in compenso si aggirano dei mostri, la cui forma cambia con la storia del sapere.» (ibidem – pag 27)

La storia genealogica è dunque finalizzata a ritrovare dietro la continuità, le leggi che definiscono la continuità e nello stesso tempo segnano i confini tra dicibile ed indicibile.
La storia genealogica rivolge l’attenzione conoscitiva verso gli esclusi, liberare il non detto della storia, le individualità mute e sconfitte ma il cui recupero, la cui parola indica la violenza della volontà di verità: «Atro uso della storia: la dissociazione sistematica della nostra identità, pur debole, che cerchiamo di assicurare e di raccogliere sotto una maschera, non è che una parodia: il plurale abita, anime innumerevoli vi si disputano; i sistemi s’incrociano e si dominano gli uni con gli altri. E in ognuna di queste anime, la storia non scoprirà un’identità dimenticata, sempre pronta a rinascere, ma un sistema complesso di elementi a loro volto molteplici, distinti, e che nessun potere di sintesi domina(). La storia genealogicamente diretta, non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, questa prima patria dove i metafisici ci promettono che faremo ritorno: essa si occupa di far apparire tutte le DISCONTINUITA’ che ci attraversano.» (M. Foucault – Microfisica del Potere – Einaudi – pag 51).

La storia genealogica diviene metodologia d’indagine e di denuncia, forse il momento più alto dell’intenzionalità di ricerca che svela il suo valore etico.
Inseguire gli esclusi all’interno dei campi epistemici, riascoltare le loro voci, rompere gli spazi claustrali, raggiungere le soggettività negate, le vite consumate nel mutismo, perché la catastrofe della storia possa condensarsi nel presente in un possibile in cui gli spazi siano plurimi.
La pastorale dell’incontro, gonfia di retorica, non può fondare autonomamente un nuovo inizio, necessita di una teorizzazione delle strutture cognitive che hanno consentito i crimini e la catastrofe, direbbe Walter Benjamin, da capire per affermare nuovi paradigmi di vita condivisi.

Un’etica possibile

Un’intenzionalità etica è emerge nello stesso operare archeologico e nell’analisi della microfisica del potere.
Se la ricerca delle fluide strutture del potere diventa la storia filosofica vissuta del filosofo, ciò accade perché il potere è organizzato nello spazio, nella parola, nella carne del soggetto.
Esso è onnipervasivo bisogna scovarlo nel dettaglio perché agisce sui particolari: il corpo è all’interno delle spirali del potere, ne è plasmato, manipolato, organizzato.
Nell’analisi del biopotere il corpo diventa non l’oggetto del potere ma ne è organizzato nelle funzione biologiche, è salvato dalla malattia, scrutato prima ancora che tastato per renderlo omogeneo ad un apeiron in cui il suo ruolo è iscritto nel tutto funzionante.
Il soggetto è guardato, il temo dello sguardo, del soggetto guardato senza essere visto è una costante.
Sguardo e percezione sono tematiche diffuse nella cultura francese: Bataille, Merleau Ponty, Blanchot, Bergson è all’interno di quest’area che si fa fondante il tema del soggetto.
Si pensi alla descrizione del Panopticon: «Alla periferia una costruzione ad anello; al centro della torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte (..). Il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti, senza mai essere visti; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti» (M. Foucault – Sorvegliare e Punire – Einaudi – pag 218).

Si tratta dunque di un lavoro d’analisi al cui centro non vi è il potere ma il disperso e di ricostruirne le forme di soggettivizzazione e di assoggettamento con i suoi regimi di verità, anzi l’uomo è un’invenzione della pratica del potere.
Esso lo scruta, lo analizza, lo pervade per farlo emergere: l’uomo è un’invenzione recente oggetto delle tecniche che non sono circoscritte il confini distinguibili per chè sono la società, circolano nel corpo della società.
L’uomo è oggetto di conoscenza per poterlo render addomesticabile in una complicità collettiva.
La circolarità non implica la necessariamente la passività, anzi ciascun soggetto del sistema opera col potere nel mentre ne è costituito nel suo farsi essere.
Pertanto l’iperattivismo che Foucault utilizza per neutralizzarlo deve avere una funziona critica e consapevole. Se questa è la realtà del potere, l’iperattivismo cognitivo di Foucault è un modo per disinnescare il pericolo strisciante: la volontà di verità.
Per evitare questo l’iperattivismo assomma partecipazione politica e presenza critica: <<Il mio punto di vista non è quello secondo cui tutto è male, ma piuttosto che tutto è pericoloso, abbiamo sempre qualcosa da fare. Quindi, la mia posizione non conduce all’apatia, ma a un iperattivismo, e a un attivismo pessimistico. Penso che la scelta etico politica che dobbiamo fare ogni giorno consista nel determinare quale sia il pericolo peggiore.>> (Dreyfus – La ricerca di M. F. – Firenze – pagg 259, 260).
Educarsi al meno pericoloso implica la consapevolezza dell’uso della parola, attraverso di essa passano e si solidificano le forme di esclusione, per cui bisogna ridare la voce a tutti, far parlare i diretti interessati, volgersi nell’ottica dell’ascolta.
Solo una fenomenologia della parola può evitare la violenza istituzionalizzata.
L’esperienza del G.I.P è coerente con questo, l’organizzazione si proponeva di dare direttamente la parola ai detenuti, in modo che potessero illustrare i loro bisogni ed esprimere ciò che ritenevano intollerabile: «Il G.I.P non si propone di parlare a nome dei detenuti delle diverse carceri. Si propone invece di dare loro la possibilità di parlare di sé e di quello che accade nelle prigioni» (Didier Eribon – M. Foucault – Milano – pag 268).
Liberare la parola dai filtri delle censure, diviene un processo di liberazione generale, tutti gli attori ne sono coinvolti.
Rompere il binomio potere – volontà significa trasformare il brusio assoggettato in un atto creativo di consapevolezza per rifiutare le forme di assoggettamento silenziose ed inconsapevoli: «Forse oggi l’obiettivo principale non è scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare per sbarazzarci poi di quella sorta di doppio legame politico costituito dalla individualizzazione e totalizzazione simultanee del potere moderno.» (ibidem – pag 244).
Uno dei mezzi attraverso cui impedire agli individui la libera ricerca di nuove forme di sé è sempre stato il pericolo che questo potesse significare la fine dei sistemi socio politici di appartenenza, in realtà tale ricatto non ha senso per Foucault, in quanto pura forma per giustificare l’assoggettamento coercitivo: «Per secoli siamo stati convinti che fra la nostra etica, la nostra etica personale, la nostra vita quotidiana da un lato, e le grandi strutture politiche sociali ed economiche dall’altro, vi fossero delle relazioni analitiche. E abbiamo creduto di non poter cambiare nulla, ad esempio, della nostra vita sessuale, o della nostra vita famigliare, senza mettere in pericolo la nostra economia, la nostra democrazia, e così via. Penso che dovremmo sbarazzarci di questa idea di una relazione analitica o necessaria tra l’etica e le altre strutture sociali, economiche o politiche.» (ibidem – pag. 264).
Affinché ciò si possa realizzare è necessario che l’intellettuale agisca nel suo iperattivismo non solo per denunciare, ma anche per indicare le fragilità istituzionali, dare strumenti di indagini ed analisi pubblici e trasparenti, in modo da far apparire il potere dove si rende più insidioso e più invisibile: «Quel che l’intellettuale può fare è dare strumenti di analisi; è questo oggi il compito dello storico. Si tratta, infatti, di avere del presente, una percezione spesso di lunga durata, che permetta di individuare dove sono le linee di fragilità, dove i punti forti, a cosa siano legati i poteri; sulla base di un’organizzazione che ha ormai centocinquant’anni, dove si sono impiantati. In altri termini fare un rilievo topografico e genealogico della battaglia. E’ questo il ruolo dell’intellettuale.» (M. F. – Microfisica del potere – Einaudi – pag. 26).
Le parola appena citate di Foucault conducono ad una relazione tendenzialmente o fortemente individualistica.
Non vi è una natura umana come afferma in La Natura Umana pertanto svelato il potere e le sue forme di ripetizione e di autoriproduzione il soggetto per mezzo delle cure del sé può trasformare la sua esistenza in un’opera/pratica estetica ovvero sceglie le forme di assoggettamento in modo libero e consapevole.
La cura del sé non necessariamente accade in una pratica che conserva la relazione sociale quale momento fondante, l’uomo per natura non è un animale sociale è pura potenza.
E’ possibile con le tecniche del sé trasformarsi in un’opera d’arte, lavorando le tensioni della carne o liberandole, autopossedendosi.
Risuona la lezione di Pierre Hadot negli Esercizi Spirituali secondo cui la filosofia nella sua fase aurorale è pratica, è orizzonte vissuto, per cui la teorizzazione filosofica è l’effetto del sentire cognitivo nella carne.
Pensare diviene azione, ovvero modificare se stessi in un’ottica di autonomia.
Non manca riferimenti nietzscheani, all’individualismo di Nietzsche secondo cui l’Oltreuomo, vive e sperimenta forme di vita, più vite nella stessa vita, e è un tendere verso le forme testimoniato dalla vita stessa, la parola si fa silenziosa dinanzi alla coerenza di un ‘Über’, non vi sono nature o sostanze ma solo un oltre, per cui nell’iperattivismo pessimistico di Foucault, prevale il momento della parresia.

La parresia è dire il vero.
Qual è il significato generale della parola parresia? Etimologicamente, παῤῥησιάζομαι (parresiàzomai) significa «dire tutto», da «pan» (tutto) e «rhema» (ciò che viene detto).
Dunque la parresia è la relazione tra il parlante e ciò che viene detto.
Nei suoi sei corsi californiani il tema è trattato secondo canoni non convenzionali.
La relazione è con se stessi, trasformare se stessi mediante la parola in verità.
L’attenzione è posta sull’individuo, sul soggetto, ogni legame con l’altro diventa secondario.
La concretezza di un’individualità legata alla comunità da una relazione ontologica è assente, non vi è famiglia, non vi è società né stato, l’individuo sperimenta mancando una natura, una individualità senza limiti, o quanto meno nella lettura di Foucault del mondo greco predilige una parte occultando il senso della comunità.
Nei presocratici ma anche in Platone ed in Aristotele è la comunità fondata sulla natura dell’individuo ad essere l’elemento imprescindibile del ben vivere, la comunità è garanzia della misura, come lo sfero di Parmenide, ogni punto è equidistante dal centro, è il tutto a fare la sfera, secondo un ordine di proporzioni e misure.
Nel caso di Foucault l’individuo libero dal potere è schiacciato su se stesso, come fosse eternamente sclerotizzato nella fase dello specchio di Lacan.
La liberazione avviene in solitudine, senza legami necessari con la comunità verso la quale non vi sono doveri naturali.
Le tracce dell’etica in Foucault portano ad un individualismo che se può essere accolto come coerente con il 68’ e gli anni successivi in funzione del contropotere, oggi può essere veicolo e parte della logica della dismisura, del capitale quale feticcio che non vuole regole e limiti ma solo individui pronti ad abbattere ogni radicamento relazionale in quanto limite alla circolazione dei desideri e dunque del mercato.
Pertanto mentre svela con la genealogia il binomio poter – verità, cade nell’invisibile del potere ovvero favorire la libera circolazione delle individualità, ammiccare ad esse, ridicolizzare ogni regola della misura, ed ogni idea di natura fondata dialetticamente per rendere l’atomo individuo con i suoi desideri illusoriamente libero.
Il Foucault della Storia della Sessualità ripiega sulla liberazione dal potere, lascia l’individuo al suo sé, certo non ritiene che i modelli stoici o cinici possano rivivere, ma diventano un orizzonte dal quale poter trarre considerazioni sul tipo di società a cui tendere.
Manca un progetto di comunità, anzi quest’ultima è giudicata con sospetto come un potenziale limite alla libera metamorfosi pensante del soggetto.
Il male è ‘anche’ in ogni comunità dove vige la dialettica come veicolo di una verità condivisa, perché ci sia l’individuo per Foucault la comunità deve lasciar spazio alle libere soggettività le quali sono prioritarie rispetto alla comunità, il regno del nichilismo e dell’ultimo uomo rischia di trasformarsi nel regno osannato delle libertà dei liberi voleri.
Sentire se stessi senza l’altro nella concretezza delle forme medie di comunità tra l’individuo e lo stato, non potrebbe diventare il regno degli egoismi?
Più in generale per Foucault la liberazione delle individualità dal giogo – gioco dei poteri avviene respingendo l’antitesi tra identità e contraddizione, superando la dialettica hegeliano platonica, il soggetto è liberato da ogni processo di normalizzazione e paradigma di normalità a cui tendere quale dovere, Sollen kantiano, resta l’individualità da scegliere, da autofondare .
L’orizzonte della liberazione in mancanza di una prassi comunitaria, ravvisata nella storia, si sposta in avanti, finisce con l’assumere i caratteri utopici di un mondo a venire, in cui la pacificazione delle differenze delinea l’irruzione nella storia del possibile: «Il gioco così famigliare di mirarci all’altro termine di noi stessi nella follia, e di protenderci all’ascolto di voci che, venute da molto lontano, ci dicono da vicino ciò che noi siamo, quel gioco, con le sue regole, con le sue tattiche, le sue invenzioni, le sue astuzie, le sue illegalità tollerate, non sarà più, e pur sempre, se non un rituale i cui significati saranno ridotti in cenere. Qualcosa come le grandi cerimonie di scambio e di rivalità nelle società arcaiche.» (M. Foucault – la follia, l’assenza d’opera – pag 627).
Si comprende il successo di Foucault di cui si prediligono gli studi sulle tecniche del sé piuttosto che la denuncia sugli effetti del potere ed in particolare del biopotere.
Ogni fondamento ontologico è sostituito da uno spazio cavo dove poter operare quanto una macchina può operare sulla materia infinitamente con infinite trasformazioni.
Non si può non considerare l’affermazione citata secondo cui è possibile la cura di sé senza temere gli effetti sulla realtà socio politica, un’etica con un’impronta così fortemente individualistica è infondata in una società globalizzata in cui, benché la valorizzazione del capitale e delle merci spinga verso forme di individualismo parossistico, non si può non considerare che ogni vita e legata in modo indissolubile al pianeta ed alle persone contigue e lontane.
La spinta verso la globalizzazione individualistica necessita di un’etica contro la paura che rischia di ridurre in tensione bellicosa ogni relazione famigliare, duale, politica.
La società della paura esige la cura dell’altro conosciuto e non, come rimedio all’atomizzazione terrorizzante, così Bauman descrive l’attuale condizione: «In un mondo come il nostro gli effetti delle azioni si diffondono ben oltre il raggio dell’effetto routinizzante del controllo, e della conoscenza che occorre per progettarlo. Il nostro mondo è vulnerabile soprattutto ai pericoli la cui probabilità non è calcolabile: un fenomeno totalmente differente da quello cui fa di solito riferimento il concetto di <<rischio>>. I pericoli per principio non calcolabili sorgono in un contesto irregolare per definizione, in cui le sequenze interrotte e non ripetute sono divenute la regola e l’assenza di normalità è ormai norma. Esse sono incertezza sotto altro nome.» (Zygmunt Bauman – Paura liquida – Laterza Bari 2008).
La descrizione di Bauman è esplicativa, la paura monta nell’irregolarità divenuta legge e paradigma della contemporaneità, al pari di Jonas fa appello ad un’etica della responsabilità, della partecipazione e della cura della comunità.
La paura si accresce nello smantellamento di ogni tutela sociale cui si aggiungono flussi di variabili infinite utilizzate per giustificare lo smantellamento di ogni forma di socialità solidale codificata politicamente.
Per vincere la paura e ritrovarsi essere umani piuttosto è la relazione con l’altro, consapevole e dialogica, che può e deve riportare al centro la persona piuttosto che il ‘dispositivo’ sociale anonimo quale è la struttura sociale cognitiva ed epistemica descritta da Foucault nella Volontà di sapere.
Il sistema attuale tende ad utilizzare teorizzazioni che possano autogiustificarla; l’individualismo così codificato può rafforzare l’anonimo sistema in cui il mercato, l’Europa, la globalizzazione decidono: ipostasi senza volto, senza responsabilità, nuovi feticci totemici che lasciano muto e solo il suddito globale.
Manca una prassi contro la paura, la genealogia e l’impegno destrutturato di M. Foucault non hanno effetto se non vi è una prassi comunitaria capace di trasformare la paura in lettura delle contraddizioni ed in programma politico, fino a quando le scelte saranno strettamente individuali anche in presenza di una consapevolezza, elemento raro dell’attualità, nessun effetto si avrà sulle dinamiche, sul governo della globalizzazione.
Il primo momento attraverso cui riscoprire per rivivere un’azione nella comunità è il sentirsi parte in senso cognitivo ed emotivo delle comunità in cui si vive il quotidiano, ogni forma altrimenti di critica è pura teoria senza prassi, favorita anche dai potentati politico finanziari, poiché una critica o una libera individualità sciolta dal contesto è pura astrazione da cui nulla temere, può servire al pavoneggiarsi falso democratico della cultura lobbistica.
Solo con una categoria della totalità in cui si misurano e si legano soggetto – oggetto e storia – natura, il distaccarsi dell’individuo atomo può e deve fondare un’etica della prassi e della liberazione collettiva.
La responsabilità verso il presente è gravida del futuro.

Chi ha paura della totalità?

Già György Lukács in Storia e coscienza di classe afferma che la Borghesia ha paura della totalità, oggi potremmo dire che la filosofia negando la totalità rende impossibile la prassi storica.
L’appello a cui non ci si può sottrarre per riformalizzare un’etica è riattivare la categoria della totalità quale mezzo interpretativo e d’azione.
Nella totalità entrano in scena i soggetti nelle loro connessioni ideologiche, riattivano le energie sopite da processi di reificazione che ha trasformato la complessità della persona in cliente globale.
La vicinanza della parola e del programma è il fondamento epistemico da ricostruire per dare risposte alle urgenze attuali.
Nello scambio dialogico e dialettico la partecipazione politica disseminata e diffusa può essere l’ancora di salvezza per la comunità.
L’individualismo etico di Foucault somiglia al giorno dopo la catastrofe, nel nulla del presente storico, il curvarsi dello spazio e delle temporalità nell’individuo alle ricerca di una salvezza che diventi rivoluzione interiore.
L’Aufhebung della reificazione generalità vuole che il soggetto si riscopra non astratto dalla comunità ma che senta e pensi la vocazione alla comunità senza la quale è nulla e cade nel niente globalizzato.
Vi è il rischio che senza tensione dialettica, polemòs eracliteo, nell’anonimato dei significati del mercato, sia quest’ultimo la voce della sua coscienza, sia allagato il suo io, divenuto tempo dell’economia integrale.
L’urgenza di un’etica comunitaria è tanto più vera se si considera ”il pericolo” della manipolazione tecnologica, Gestell a cui bisogna ridare il governo.
Non si può non mettersi in ascolto dell’imperativo categorico di H. Jonas, “Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra”.
Difendere la vita e per questo ogni azione quotidiana si ritrova nella meraviglia del legame con l’altro, ogni spazio è condivisione di effetti, delle pluralità che si incontrano per viverne la responsabilità dell’attualità proiettata nel presente.
Non si può in un contesto storico in cui la permanenza della vita in senso biologico e di espressione delle differenze tradizioni è minacciata, rifugiarsi in una cura di sé, sciolta da ogni relazione.
Pertanto il recupero della categoria della totalità è il recupero di un’etica potenziale che possa nel suo farsi ridare un ruolo alla Filosofia appiattita da un’analitica trascendentale kantiana che legittima il fenomeno.
Negare la totalità è negare la funzione della filosofia, la quale indica la meraviglia, il thauma, per rifondare il presente nella sua complessità storica, la quale esige il mormorio di una relazione sociale senza la quale si potrebbe dire nietzschianamente “Il deserto avanza, guai chi fa avanzare il deserto”.
L’ultimo uomo, nel Così Parlò Zarathustra, definito come il più disprezzabile degli uomini, è la figura che minaccia un’etica della comunità, dedito al nichilismo, indifferente al bene quanto al male, o meglio redige un’idea di bene che coincide con la propria individualità mercantile.
La Verfallenheit è la sua condizione, spregevole perché reso cosa tra le cose volutamente
Trionfo del nichilismo e del mercato, con la morte di dio non resta che il proprio sé, ingiudicabile, con Dio muore la dialettica, la verità dialogica ed ogni filosofia in cui le parti sono in tensione comunicante.
La dismisura dell’ultimo uomo, è il trionfo di un’esistenza frammentaria, ma che diventa tutto: l’unico orizzonte di senso della gabbia d’acciaio.
L’ultimo uomo rischia di diventare la versione volgare della cura di sé, anziché la cura dell’anima, la cura dei propri affari minimi.
L’ultimo uomo profezia realizzata di Nietzsche è osannato: paradigma di una verità mediocre.
L’atomizzazione globale ne incentiva i desideri del ventre ne ha sclerotizzato il reale in un rispecchiamento ideologico.
Ha espulso ogni idea di comunità la quale è giudicata un limite alla dismisura di un ego apolide e vorace.
La cura di sé a cui guarda M. Foucault, improbabile che non diventi la cura di un orto sempre più ristretto oltre il quale ciò che accade è il nulla.
La filosofia che si rifugia nelle élite di comunità di individui che hanno strumenti per la tecnica del sé e lasciano fuori di sé il proliferare dell’ultimo uomo e della politica minima, consegnano al totalitarismo delle cose il tutto favorendo processi di totalitarismi nel disimpegno dalla politica e dall’economia.
La totalità rinnegata e di cui si sente l’assenza deve riformulare se stessa nella categoria del complesso: ogni elemento riportato al suo ordito, alla trama che ne svela la tessitura costituita di parti il cui senso è inscritto nella complessità.
La negazione della totalità – complessità quale categoria critica ha come effetto il favorire la riattivazione di forme succedanee, la nostalgia di un tutto in cui il mito si sostituisce all’approccio autenticamente olistico.
Ne era consapevole A. Hitler, il quale somministrò alle classi medie immiserite e senza riferimenti, strette nella paura del presente, il falso mito della razza compensatorio delle frustrazioni e delle tensioni del primodopoguerra a cui non riuscivano a dare risposte dialettiche, così H. Rauschning riporta le parole del Führer: «So bene anch’io come i vostri intellettuali, i vostri pozzi di scienza, che non esistono razze nel significato scientifico della parola. Ma voi, che siete un agricoltore e un allevatore, voi certamente siete costretto a basarvi sulla nozione di razza, senza la quale ogni allevamento sarebbe impossibile. Ebbene, io che sono un uomo politico, ho necessità anch’io di una nozione che mi consenta di infrangere un ordine radicato nel mondo e di contrapporre alla storia la distruzione della storia. Capite quel che intendo dire? Bisogna che io liberi il mondo dal suo storico passato (…). Con la nozione di razza il nazionalsocialismo spingerà la sua rivoluzione fino alla fissazione di un ordine nuovo.» (H. Rauschning – Hitler mi ha detto – Mondadori Milano 1945 – pp. 245 246).
La totalità autentica e da intendersi in senso ologrammatico: la parte è nel tutto, il tutto è nella parte, questo principio metodologico e programmatico indica in sé il concetto di male.
Ogni forma di esemplificazione è male, può diventare male.
Non è sufficiente liberare l’individuo dal confine della dialettica per evitare la violenza del potere, un individuo che diviene protagonista della costruzione del proprio sè, relativizzando la relazione complessa con la prassi politica può diventare portatore di male.
Rischia di affermarsi nella differenza liberamente scelta una forma di esemplificazione, poiché si perde la consapevolezza della formazione collettiva del sé.
Ogni persona è portatrice di un multiuniverso in cui sono stratificate in modo dinamico le temporalità della comunità.
Per cui ciascuno è un ologramma “microcosmo” di un ologramma più vasto.
Si tratta di riattivare una multidimensionalità non totalitaria per tessere la rete delle relazioni che possano ridare una narrazione alla “gabbia d’acciaio”.
Per fare questo non la filosofia dell’impotenza e dell’ineluttabile deve prevalere dato che essa induce alla fatalizzazione esemplificatoria.
Piuttosto il coraggio di non sentirsi inattuali ridando vita e storicità ad una tradizione filosofica che ha in sé gli strumenti concettuali e metodologici per una speranza collettiva, la quale non ha nulla di messianico, ma la concretezza del presente, nel coraggio della complessità.
Quest’ultima può dare l’incanto di leggere il presente con nuovi sguardi, facendosi voce del mutismo interiore, a cui rispondere con gli strumenti interpretativi della filosofia, che mentre svelano, già indicano orizzonti possibili.

Carmine Fiorillo – Un messaggio nella “Bottiglia”. Un viaggio possibile verso «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”»

Il necessario fondamento umanistico del "comunismo"

«Chi vuol fare una ricerca conveniente sulla Costituzione migliore,
deve precisare dapprima quale è il modo di vita più desiderabile.
Se questo rimane sconosciuto, di necessità rimane sconosciuta anche la Costituzione migliore».
Aristotele, Politica, VII, 1,1323 a, 1-4

 

 

«[…] quello che fin dall’inizio distingue il peggiore architetto dalla migliore delle api,
è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di averla costruita nella cera […].
Egli non opera soltanto un mutamento di forma dell’elemento naturale;
egli contemporaneamente realizza in questo il propriofine, di cui ha coscienza».
K. Marx, Il Capitale

 

«Vous êtes embarqué», direbbe Pascal. La metafora del viaggio, e dell’imbarco, include l’idea che vivere significhi anche essere già in mare aperto [Homme libre,toujours tu chériras la mer! (Uomo libero, sempre avrai caro il mare!); Baudelaire, Fiori del male]; in mare dove, oltre a salvezza e rovina, non si prospettano altre soluzioni, altre riserve.

Affidiamo dunque Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”  ad una Bottiglia lanciata in questo mare aperto di internet.

Se trovate questa Bottiglia, potreste fare come Lord Glenarvan, che (ne I figli del Capitano Grant, di Giulio Verne) si decise a «spezzare il collo della preziosa bottiglia» dopo aver osservato che «il contenuto è più prezioso del contenente ed è preferibile sacrificare questo a quello». «Sui frammenti di carta mezzo distrutti dall’acqua marina, erano visibili soltanto poche parole […]» (ididem): ed ecco Lord Glenarvan, John Mangles, lady Elena intenti a decifrarne il senso … e partire alla ricerca dell’autore del messaggio.

La metafora del messaggio nella Bottiglia potrebbe fornire alcuni spunti di riflessione:

1) Testimonia la particolare situazione vissuta dall’autore del messaggio. Questi chiede aiuto per superare una situazione di difficoltà, evidenziando la propria fragilità e la propria dipendenza dagli altri.

2) L’autore del messaggio compie un atto di fiducia: immagina che chi trovi il messaggio nella Bottiglia possa prendere in carico il contenuto del messaggio e, andando alla ricerca dell’autore pur senza conoscerlo (proprio in quanto ri-conosce la propria umanità nei contenuti espressi dall’autore del messaggio), dimostri di aver saputo misurarsi con la fragilità che si esprime nell’idea stessa di naufrago (e dunque con la propria realtà di naufrago in altra latitudine) non disconoscendo il valore e il senso del messaggio.

3) L’autore del messaggio, nell’affidarlo alla Bottiglia (e al mare), non si pone alcuna scadenza temporale. Sa che il suo messaggio potrà essere trovato anche dopo la sua morte. L’immagine di chi affida un Messaggio alle acque del mare rimanda infatti ad un senso ben più profondo della pura e semplice richiesta di aiuto. Del resto, il messaggio in sé costituisce una comunicazione di più ampio respiro pur conservando il carattere di una richiesta di aiuto.

Mi permetto segnalare con questa metafora, tra le edizioni della Associazione culturale Petite Plaisance,l’uscita del libro Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”, scritto insieme all’amico Luca Grecchi. Questo libro, come si legge nella quarta di copettina, cerca di mostrare che una buona progettualità teorica del comunismo è necessaria, data la grave condizione di sofferenza materiale e spirituale prodotta dal modo di produzione capitalistico. Tale progettualità, per essere buona, necessita però di un fondamento filosofico, ossia di una buona conoscenza della natura umana. In assenza di questo fondamento, il “comunismo” si trasforma in mera istanza oppositiva, smarrendo le proprie profonde radici culturali (orientali, greche, cristiane, medievali: non solo moderne). Solo invece recuperando una solida fondazione filosofica, nonché la consapevolezza della propria costante presenza nella storia umana, il “comunismo” potrà tornare ad essere pensato nella maniera corretta, ovvero come un modo di produzione sociale ideale in cui vivere, in quanto conforme alla natura comunitaria dell’uomo.

Chi lo desideri ne potrà leggere l’Introduzione (http://www.petiteplaisance.it/libri/151-200/198/int198.html), ai link indicati, e consultarne l’Indice.

È un invito a vivere e a confrontarsi in conformità a buoni progetti, razionali e morali, e di ampio respiro. Anche progettandolo, possiamo offrire ai nostri figli e agli uomini che verranno, un mondo migliore di come lo abbiamo trovato. Pur se non riusciremo a veder compiutamente realizzato ciò che abbiamo progettato e tentato di realizzare ne avremo comunque vissuto e respirato l’essenza. È proprio questo respiro, questo πνεύμα, il lascito più importante, spirito comune a tutti gli uomini, che può trasmettersi inciso nel più imperituro dei materiali scrittorî, come insostituibile viatico sia per chi ha concluso il proprio viaggio sia per chi è e sarà ancora per la via.
L’Associazione Petite Plaisance e gli autori auspicano la più ampia interlocuzione sui temi proposti alla considerazione critica.

Carmine Fiorillo


Virginia Held – La cura di sé non è cosa distinta dalla cura degli altri

V. Held, The Ethics of Care

Aristotele suggerisce di considerare non solo il ricevere ma anche il fare il bene fra le cose piacevoli. Dice infatti « […] poiché ricevere il bene significa ottenere ciò di cui si ha desiderio mentre farlo vuol dire possedere più del normale: entrambe le condizioni sono ambite. E dal momento che è piacevole fare il bene, è allora piacevole per gli esseri umani anche migliorare chi sta vicino a loro» (Retorica, 1371b).

Non diversamente scrive Virginia Held: «[…] nelle relazioni di cura le persone agiscono allo stesso tempo per sé e per gli altri. La postura che le caratterizza non è né egoistica né altruistica […] il ben-essdere di una relazione di cura implica il ben-essere condiviso di quelli che sono in relazione e il ben-essere della della relazione in sé» (V. Held, The Ethics of Care, Oxford, 2006, p. 12)

Alessandra Papa, L’identità esposta. La cura come questione filosofica. La tecnobiomedicina ha deformato la relazione ippocratica, stravolgendola nei suoi principi fondamentali.

lidentita-esposta

Alessandra Papa, L’identità esposta. La cura come questione filosofica, Vita e Pensiero, 2014

La tecnobiomedicina ha abbandonato l’idea di salute come equilibrio di natura, e propone l’idea di uomo non nel suo aspetto di fragilità creaturale, bensì immaginandolo come un mero organismo tessutale e facendone un antifragile: a partire cioè dalla malattia considerata non più come condizione umana, ma come comportamento di segno negativo, raffigurando l’uomo nella sua forma originaria come antico e ormai facile da superare.

Nei nuovi scenari culturali della tecnobiomedicina, la salute diviene infatti suscettibile di continue forzature, con pretese miglioristiche e di potenziamento: si compie un’aggressione sistematica dell’uomo nella sua forma originaria, aggressione che passa attraverso nuovi criteri di liceitàe interventi profondi di alterazione strutturale della persona stessae della sua identità biologica.
«[…] La sofferenza è, con la gioia, il rifugio ultimo della singolarità […] Considero precetto primo della saggezza pratica, esercitata sul piano medico, il riconoscimento del carattere singolare di cura, innanzi tutto di quella del paziente stesso. Questa singolarità implica il carattere non sostituibile di una persona con un’altra […]; la diversità delle persone umane fa sì che non sia la specie ad essere curata, ma ogni volta un esemplare unico del genere umano» (P. Ricoeur, Il giudizio medico, 206, pp. 31-35).
Se quindi la scienza medica procede, mediante l’utilizzo di modelli epistemologici, per investigazioni universali, la medicina come téchne, invece, si realizza proprio in quanto pratica particolare. Per usare un lessico aristotelico, in effetti, corre una differenza fondamentale tra la conoscenza degli universali e il giudizio pratico.
Da qui il distinguo tra la medicina come conoscenza dell’universale, dove per universale ci si riferisce alla malattia come morbo nei suoi aspetti causali che colpisce tutti gli esseri umani e che in quanto tale va indagata, e la medicina come conoscenza del particolare, per cui a essere colpita dalla malattia è la persona con nome e cognome. Nel primo scenario, infatti, si investigano soltanto i principi che costituiscono nei tratti generali una teoria, per cui per esempio rispetto alla medicina in quanto scienza si ricercano le sole cause della malattia, deducendone poi l’andamento secondo regole. All’opposto, in un secondo contesto di indagine battesimale, vale a dire quello più artistico e narrativo, la medicina come tecnica rinvia a una speciale forma di conoscenza che inerisce il singolo nella sua specificità. Così appunto accade in ambito medico quando la cura, all’interno della relazione medico-paziente, è pur sempre necessariamente riferita a quell’unicum che e la persona umana.
C’è, dunque, uno scarto tra la dimensione della, medicina come conoscenza delle cause e che, in quanto tale, è perciò trasmissibile come sapere universale e, viceversa, la medicina come render conto in termini esperienziali. Quest’ultima, infatti, comporta l’obbligo precipuo non semplicemente di riconoscere la malattia, ma anche quello di orientare la terapia, individuando cioè la cura che possa giovare a questa persona, nella sua unicità. Tuttavia, non si tratta di realizzare un mero scarto produttivo, bensì ancora di riconoscere una peculiarità ontologica, che fa sì che lo scientifico debba comunque sempre rassegnarsi a una perdita di autonomia radicale, là dove l’uomo da se stesso si ponga come limite conoscitivo.
A segnare la differenza tra la cura dell’impersonale scientifico e la cura come terapia orientata fortemente sulla persona umana è anzitutto, perciò, la richiesta d’aiuto, il pathos, quella che Ricoeur chiama sofferenza. È, infatti, proprio l’appello patetico del malato a costringere il medico a uscire dai modelli della causalità e dai quadri di comprensione meramente eziologici della malattia. Ci si ammala tutti dello stesso morbo, ma si soffre in modo differente in quanto persone e perciò insostituibili nel soffrire. Cosicché la richiesta d’aiuto è diversa da uomo a uomo.
Ne risulta, allora, che il patologico è fortemente condizionato dall’esperienza concreta del vivere della persona malata e non potrebbe essere altrimenti, perché se per un verso, per usare un’espressione di Georges Canguilhem, sono i malati che «chiamano il medico» (Il morale e il patologico, Torino, 1998, p. 171), dall’altra il medico non può esimersi dal rispondere all’appello che viene dal malato, superando la curiosità dei principi patogeni e guardando oltre il mero fisiologico. Scrive, infatti, Canguilhem a questo proposito: «È stato per primo il malato che un giorno ha constatato che ‘qualcosa non andava’, ha notato certe modificazioni sconvolgenti o dolorose della struttura morfologica o del comportamento. Ha attirato su di esse, a torto o a ragione, l’attenzione del medico. Questi, avvertito dal malato, ha proceduto all’esplorazione metodica dei sintomi evidenti e più ancora dei sintomi latenti. […] Ora vi è qui un oblio professionale […]. Il medico ha la tendenza a dimenticare che sono i malati a chiamare il medico […]. La vita non si innalza alla coscienza e alla scienza di se stessa se non tramite […] il dolore» (ibidem).
Un mutamento di paradigma Il malato, in quanto persona vulnerabile, è dunque uno stilema ontologico complesso. È la persona umana messa a nudo dalla malattia, sguarnita di “vita buona” in senso aristotelico (Aristotele, Metafisica, Z 7, 1032 a 12-1034 a8), che richiede solidarietà e assistenza, a causa di una sopravvenuta condizione di squilibrio; circostanza che la espone tanto all’incertezza quanto alla necessità di stabilire relazioni improntate su schemi e modelli di cura complessi. In particolare, il concetto di vulnerabilità, inteso appunto come nudità, rimanda per contenuti e semantiche ai ruoli riflessivi della biopolitica liberale di matrice anglosassone, allorquando è artificialmente parametrato su modelli sociali competitivi ed è inteso come mancanza di bene, secondo sistemi di azione utilitaristici.
In simili scenari, in tempi in cui si assiste a una medicina che sembra aver perso la grammatica ippocratica della beneficialità, ci si chiede se proprio l’homo vulnerabilis – icona fragile bandita dalla modernità – non sia sottoposto, con un forzato impoverimento ontologico, a pressioni utilitariste e funzionaliste, per essere tragicamente isolato e svincolato dal legame comunitario. Quanto poi è andato evidentemente perduto nei dogmatismi della medicina scientifica ancorata a parametri statistici è anzitutto l’antica idea di salute come equilibrio di natura, che si è trasformata in un’idea-forza dell’umano in grado di sostituire la ragione medica con una sorta di ragione progettante che ha smarrito la visione originaria, carnale, dell’uomo nel suo aspetto di fragilità creaturale, immaginandolo come un mero organismo tessutale e facendone un antifragile: un Über-Mensch della modernità di segno negativo.
Detto in altri termini, la salus come virtù naturale è andata oramai perduta nelle sue implicazioni semantiche antiche e va rapidamente dissolvendosi in un concetto artificiale di salute post-umana. Nei nuovi scenari culturali, la salute diviene infatti suscettibile di continue forzature, con pretese miglioristiche e perciò soggetta a lecite modificazioni, non solo rispetto alla patologia, ma anche rispetto a una condizione di normatività naturale, o meglio di normalità. Da qui è derivata un’aggressione sistematica dell’uomo nella sua forma originaria che passa attraverso nuovi criteri di liceità e interventi profondi di alterazione strutturale della persona stessa e della sua identità biologica, accampando sovente giustificazioni che, se pure oramai gradite al senso comune, non sono sempre accettabili rispetto alla grammatica etica di composizione profonda della soggettività.
La questione delle trasformazioni pratico-teoriche della condizione umana sul piano filosofico pone, dunque, un problema di gittata antropologica riguardo all’identità e alla comprensione stessa dell’uomo. In un’ottica funzionalista ed efficientista, l’introduzione di un fine esterno artificiale, che riduce l’essere umano alle sue capacità e alla sua portata qualitativa, autorizza a ritenere l’uomo mera natura biologica, comunque estraneo alla sua nascita, e pertanto non più temporaneo e finito, ma temporaneo e suscettibile di modificazioni successive e continue.
Con la medicina miglioristica e del potenziamento è, dunque, cambiato il paradigma di cura della modernità. Il gesto di cura, non solo come soccorso samaritano, ma anche inteso come il tentativo del medico di ristabilire un equilibrio tra la persona umana e il suo ambiente, è definitivamente collassato sotto gli urti di una medicina che da una parte ha forzato in modo lineare i propri aspetti scientifici in modo autoreferenziale, e dall’altra ha sormontato la sua stessa natura artistica travisandola nei compiti in un fare progettante che stressa continuamente la natura umana nelle sue forme originarie.
Se, infatti, l’antica idea di cura aveva ancora a che fare con il limite normativo del secundum naturae, con la medicina moderna invece la normatività naturale è stata messa in crisi dalle tecnologie avanzate che hanno prodotto una corporeità multi-buttons. In particolare, la cura affidata sempre più spesso all’imago della tecnologia, sposta continuamente, negli aspetti applicativi, il limite stesso della natura, oramai smarginalizzata.
Sotto i colpi dei bisogni e dei desideri individuali, è, infatti, il concetto di salute a diventare sempre più divaricato dal naturale in sé, proprio a causa di quella nuova capacità di lettura profonda che è propria della tecnobiomedicina. Da qui poi anche la torsione del concetto di ‘normalità’ della vita umana nella prospettiva di un utile contrattualistico e del soddisfacimento di aspettative sociali che, nei fatti, minimalizzano e riducono la corporeità al modello funzionalistico della performance e a criteri di efficienza sociale e di potenziamento artificiale, oltrepassando il modello della terapia e legittimando un nuovo ideale normativo, povero di semantizzazioni etiche.
Nata dal connubio tutto moderno tra biologia, medicina e tecnologia, la tecnobiomedicina ha deformato la relazione ippocratica, stravolgendola nei suoi principi fondamentali, e ha inaugurato una sorta di crisi dell’etica in cui la persona umana è divenuta oramai una vera e propria emergenza. Cosicché, in ambito bioetico, ne è scaturito un effetto domino che apre oggi un fronte di riflessione molto problematico: dalla medicalizzazione della nascita, all’interesse riabilitativo, al fine vita, alla salute a tutti i costi e al migliorismo. In questo senso ciò che oramai sembra essere messo definitivamente a rischio è allora proprio la persona umana.
A seguito di una sovraesposizione del personale e dell’identitario all’alta tecnologia e al biologisrno sono, infatti, venute meno quelle tutele che custodivano la persona ippocratica oltre l’uscio di casa (“In quante case entrerò – ammonisce Ippocrate nel suo Giuramento –, andrò per aiutare i malati, astenendomi dal recar volontariamente ingiustizia e danno […]”): l’erosione della sua dimensione privata, la violazione di quegli assetti strutturali della personalità che hanno sempre fatto rimando alla nominazione, hanno stravolto l’antica pratica medico-assistenziale, così come Ippocrate l’aveva per primo teorizzata.
Sul piano culturale ha poi fatto da cassa di risonanza l’idea della malattia come condizione difettiva, legittimando peraltro solo la natura umana come integrum e mettendo al bando quella corporeità ferita che entra in relazione proprio in quanto vulnus, poiché ferito-tra-gli-altri. In tal modo la medicina come ‘semplice’ scienza ha portato alle estreme conseguenze l’idea organicista dell’umano, ignorandone il pathos e anzi isolandolo come fatto a sé stante. L’appello patetico è oggi sottoposto a esame secondo logiche deterministiche e valori artificiali che lo condizionano nella loro nuova normatività: il normale diviene così il patologico rispetto al desiderio della perfezione immaginata. Al contempo la medicina come arte – sempre più decisa dalle ambizioni prometeiche di un degenere homo pictor (Hans Jonas, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, 1999, pp. 204-223) – sembra avere pure essa completamente frainteso il suo compito originario, quando ha assunto storicamente come oggetto di trasmissione artistica l’uomo quale bios progettabile e oggetto puramente estetico.
Una zona sempre più consistente della medicina, esacerbata nei suoi compiti e radicalizzata nelle sue fisionomie di scienza e di arte, oscillando in maniera schizofrenica tra la spiegazione razionale e quella estetica, ha così cominciato a pensare l’uomo, ma affrancandosi dalla filosofia. E lo ha pensato come l’antifragile appunto, a partire cioè dalla malattia considerata non più come condizione umana, ma come comportamento di segno negativo, se non persino polarizzando biologicamente la differenza tra pathos e male, dunque interrompendo lo scarto ontologico tra la sofferenza (non più compresa come rivelatore universale dell’umano) e la malattia (oramai intesa come peccato biologico), per farne una distanza organica.
Da qui pure la distorsione del telos metafisico. L’uomo – che è un essere teleologico – con il suo cascame di materialità è oramai teorizzato come essere puramente casuale, un prodotto occasionale che ha totalmente deviato dalla finalità metafisica. I nuovi mezzi biotecnologici hanno generato, infatti, una nuova finalità dell’uomo: il miglioramento della natura umana, telos che risulta evidentemente più adeguato a un progetto solo provvisorio di natura umana. Gli aspetti puramente conoscitivi della medicina rischiano, in questi progetti, di sopraffare quelli artistici, forzati pure essi, in una formidabile volontà riedificativa dell’umano.
Ciò che si sta smarrendo, in questo processo di razionalizzazione della pratica di cura, è allora l’autocomprensione del soggetto stesso. Da qui il rischio inevitabile di una perdita valoriale del soggetto di cura come soggetto morale: trasformato in un individuo normato secondo canoni artificiali e oramai configurato secondo modelli teorici prestazionali preordinati.
In un’angolatura biopolitica, pertanto, l’uso crescente e potenziato delle tecnologie traccia oggi nuovi scenari rispetto alla relazione fra tecnoscienze e natura umana, ma anche rispetto alla stessa pratica medica.
La tecnica, infatti, in quanto oramai ‘cultura’ – che ha generato un linguaggio con cui pensare e progettare una nuova e artificiale identità umana, in nome del progresso e del miglioramento stimati come conquiste sociali – rischia, in effetti, di sovraordinare le categorie della salute, raffigurando l’uomo nella sua forma originaria come antico e ormai facile da superare.
Alessandra Papa, L’identità esposta. La cura come questione filosofica, Vita e Pensiero, 2014, pp. 118-124.

Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi

 

Aristotele

«Non bisogna seguire coloro che consigliano all’uomo, perché l’uomo è mortale, di badare solo a cose umane e mortali. Al contrario, bisogna comportarsi da immortali e vivere secondo la parte più nobile che è in noi: la quale, sebbene per massa sia piccola, per potenza e valore è ben superiore a tutte le altre.
[ … ] Per l’uomo questa è la vita secondo intelletto».

Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177b, 33, 1178a, 7).

Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Aristotele

Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

I dirigenti dei partiti tradizionali, quale è in Italia oggi soprattutto il Partito Democratico, si possono distinguere, in base al fine principale della loro attività, in due categorie: a) aventi come fine l’ottenimento di incarichi pubblici; b) aventi come fine la realizzazione di forme di giustizia sociale. Quando un partito governa, la prima tipologia, che di solito coincide con la cosiddetta “classe dirigente”, è contenta: si aprono infatti molte possibilità. La seconda tipologia, che di solito coincide con la cosiddetta “base militante”, tende invece paradossalmente ad essere scontenta: negli ultimi anni, in effetti, le politiche adottate dai governi non rispondono alle idee di giustizia sociale più condivise. Ciò accade in quanto, per riuscire ad ottenere il potere, i partiti devono sposare le teorie economiche dominanti, le quali si oppongono strutturalmente, nel modo di produzione capitalistico, alla giustizia sociale.

Non mi addentro, in questa sede, nella descrizione dei processi di conquista del potere da parte di organizzazioni, come i partiti, che pure dovrebbero essere democratiche (democrazia significa, in greco, “potere del popolo”). Il mio scopo è più limitato: vorrei solo mostrare come, a mio avviso, la delusione attuale di molti elettori PD sia principalmente frutto di una illusione, consistente nel ritenere possibili cose strutturalmente impossibili, per la struttura stessa del PD per come è divenuto. Saranno molto utili, in questa analisi, alcuni strumenti teorici forniti da Aristotele.

Come noto, l’antico filosofo invitava a distinguere tra ciò che un certo ente è in atto, e ciò che esso è in potenza. Il seme di una rosa è, in atto, un seme, ma in potenza è una rosa, poiché ciò è inscritto nella sua essenza. Diventerà anzi sicuramente una rosa, se non sarà impedito da qualche elemento accidentale. Ciò in quanto gli enti naturali hanno principalmente al proprio interno la causa del loro mutamento, ossia mutano soprattutto in base alla propria essenza, mentre gli enti sociali – quali sono anche i partiti – hanno tale causa principalmente all’esterno, ossia mutano soprattutto adeguandosi all’ambiente in cui vivono. Il PD oggi, in atto, non è un partito che si pone come fine prioritario la giustizia sociale, in quanto ha saputo adattarsi efficacemente all’ambiente capitalistico. Per comprendere se lo potrà diventare, occorre appunto cercare di comprenderne l’essenza.

Per la comprensione di tale essenza ci si deve basare su alcune evidenze e su alcune riflessioni, le quali paiono univoche nel mostrare che il fine prioritario del PD sta sempre più diventando la ricerca del potere. La prioritaria attenzione ai risultati elettorali, la presenza crescente di figure “acchiappavoti”, la vicinanza agli industriali più che ai lavoratori, i crescenti attacchi al sindacato, lo stesso atteggiamento “padronale” di molti giovani leader, paiono segnali inequivocabili. Ora: poiché – come insegna ancora Aristotele – quando muta il fine di un ente ne muta anche l’essenza, difficilmente il PD potrà in breve tempo, salvo appunto trasformazioni strutturali, divenire un partito avente come fine la giustizia sociale (la quale è cosa differente dai famosi 80 euro, i quali peraltro sarebbero stati anche di più semplicemente rinnovando in modo impersonale contratti di lavoro scaduti da anni).

Per concludere, è possibile chiedersi: davvero i militanti PD devono disilludersi di vedere attuata, nel futuro prossimo, una seria politica di giustizia sociale? Se i segnali che ho sinteticamente evidenziato sono corretti – ma in queste analisi, come Aristotele sapeva bene, è sempre possibile sbagliare, ossia considerare essenziali elementi che non lo sono, così come non considerare elementi essenziali –, direi che non possono farsi molte illusioni. La possibilità, cioè, che l’attuale PD realizzi riforme di giustizia sociale, è grosso modo la medesima che ha un seme di rosa di trasformarsi in una palma. Ciò che non è nel fine non è infatti nemmeno nella essenza di un ente, dunque non è in potenza presente in esso, e pertanto non può realizzarsi in atto. Si tratta di una vera e propria impossibilità, che una maggiore dimestichezza con la filosofia classica insegnerebbe a riconoscere. Forse è anche per questo che le riforme della scuola degli ultimi vent’anni hanno tolto spazio alla filosofia.

                                                       Luca Grecchi

Autori, e loro scritti

A

A

AA.VV. – «Multifocal Approach» – LA REALTÀ AMA NASCONDERSI? DOES REALITY LIKE HIDING? – Il multifocal approach come valorizzazione dei profili “visibili” e “invisibili” di una realtà complessa – PRIMO INCONTRO INTERNAZIONALE

AA.VV., Macerata (5-6 dicembre 2018) – AL DI QUA DEL BENE E DEL MALE. Gli Antichi e la complessità del reale alla luce del Multifocal Approach *(Maurizio MIGLIORI – Paola Rosalba CAMACHO GARCIA – Lucia PALPACELLI – Mino IANNE – Federica PIANGERELLI – Luca GRECCHI – Arianna FERMANI – G. Angelini – R. Di Stefano – E. Napoletani – G. Teti)

AA.VV.  – «Immanenza e trascendenza in Aristotele». Scritti di: Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon, Arianna Fermani, Luca Grecchi, Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta.

AA.VV. Ricerche Aristoteliche. Etica e politica in questione. Introduzione e cura di Giulia Angelini. Saggi di Claudia Baracchi, Manuel Berrón, Enrico Berti, Michele Di Febo, Silvia Gullino, Alberto Jori, Pietro Li Causi, Giovanni Battista Magnoli Bocchi, Francesca Masi, Marcello Zanatta.

Claudio Abbado (1933-2014) – Nell’arte e nella letteratura di un paese ho imparato a comprenderne meglio anche la musica.

Giampaolo Abbate – Ne «Il luogo in Aristotele» ho tentato di mostrare come Fisica Δ 1-5 contenga una dottrina unica e coerente svolta secondo certe premesse metodologiche che saranno mantenute pressoché costantemente dal primo al quinto capitolo.

Raffaele Accarino – Albert Steiner, il fotografo dei paesaggi alpini.

Fabio Acerbi, Riflessi condizionali.

Fabio Acerbi – È importante cercare di capire le origini storiche del concetto di modello. Il presente contributo intende fornire i risultati di una prima ricognizione nel campo della scienza greca antica.

Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

Mortimer Jerome Adler (1902-2001) – La lettura dei grandi libri non avrebbe alcun significato, se non ci proponessimo di rendere migliore la società.

Adonis, Alī Ahmad Sa’īd Isbir – L’uomo è conoscenza e “conoscenza reciproca”. L’io, in quanto conoscenza, non si può comprendere se non a partire dall’esplorazione dell’altro in quanto conoscenza.

Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto attinge a quel concetto che è servito sempre a sancire la violenza sociale come immodificabile.

Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – Una società emancipata è la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze. Una politica a cui questo stesse veramente a cuore dovrebbe richiamare l’attenzione sulla cattiva eguaglianza di oggi […] e concepire uno stato di cose migliore come quello in cui si potrà essere diversi senza paura.

Theodor L. W. Adorno (1903-1969) – È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.

Theodor L. Adorno (1903-1969) – Il fatto che a filosofia metafisica, quale storicamente coincide in sostanza coi grandi sistemi, abbia più splendore di quella empiristica e positivistica non è un elemento meramente estetico.

Theodor L. Adorno (1903-1969) – L’ontologia di Heidegger finisce in una terra di nessuno. In ciò si manifesta la miseria del pensiero che vuoI giungere al suo altro, e non può permettersi nulla senza timore di perdervi ciò che afferma. La filosofia diventa tendenzialmente gesto rituale. In esso però c’è anche qualcosa di vero: il suo ammutolirsi.

Theodor L. Adorno (1903-1969) – … quando il tempo si contrae e scorre infruttuosamente fra le dita … ciò che si rivela in questa contrazione delle ore è esattamente l’opposto del tempo realizzato … Il corpo registra questa angoscia nella fuga delle ore. Il tempo vola.

Max Horkheimer, Theodor W. Adorno – Kant ha anticipato intuitivamente ciò che è stato realizzato consapevolmente solo da Hollywood: le immagini sono censurate in anticipo, nell’atto stesso della loro produzione. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria. Ogni connessione logica, che richieda fiato intellettuale, viene scrupolosamente evitata.

Uliano Lucas – Tatiana Agliani – La realtà e lo sguardo. Storia del fotogiornalismo in Italia.

Vincenzo Agnetti (1926-1981) – Le parole e gli oggetti venduti dal sistema ci offrono sempre due significati: uno vero, che per vanità non vogliamo leggere, e uno falso, indolore, che accettiamo con voluta complicità per sentirci storicamente validi.

Julián Marías Aguilera (1914-2005) – Si può “scivolare” attraverso la vita senza dedicarsi ad essa con energia. Spesso si tratta dell’avarizia vitale, dell’incapacità di dare, che è principalmente darsi.

Leon Battista Alberti (1404-1472) – L’animo degli studiosi sia acceso di virtù e di sapienza.

Leon Battista Alberti (1404-1472) – Sempre meco stanno uomini periti, eloquentissimi, apresso di quali io posso tradurmi a sera e occuparmi a molta notte ragionando. Non a me mancano i filosofi, apresso de’ quali io d’ora in ora me senta divenire più dotto anche e migliore.

Alberto Magno di Bollstädt (1206-1280) – La perseveranza è un atto compreso nella fortezza e consiste nell’essere saldi nel proposito di rimanere nella difficoltà fino a vincerla e nel non voler cedere per il permanere e il prolungarsi delle difficoltà.

Alceo (630 a.C.– 560 a.C.) – Da terra conviene progettare la rotta, se si riesce a farlo in modo corretto. Ma quando si è per mare, si deve andare con il vento che c’è.

Alessandro Alfieri – Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino.

Vittorio Alfieri (1749-1803) – L’ambizione d’arricchire è la più universale delle tirannidi. Ogni società che lo ammetta è tirannide, ogni popolo che lo sopporta è schiavo.

Dante Alighieri (1265-1321) – Nè si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade.

Dante Alighieri (1265-1321) – Io ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare. Movemi desiderio di dare dottrina. La filosofia è somma cosa. Coloro che vivono con intelletto e con ragione sono dotati di una certa divina libertà. Non abuso di alcuna autorità, poiché non sono ricco. Ma ciò significa che sono quel che sono, non grazie alle ricchezze. Ho come maestro il Filosofo che, determinando i principi eterni della morale, ha insegnato che a tutti gli amici bisogna anteporre la verità.

Dante Alighieri (1265-1321) – Spetta agli uomini che sono tratti all’amore della verità trasmettere quella ricchezza che essi stessi hanno ricevuto dall’operosità degli antichi. È ben lontano dal proprio dovere chi, imbevuto di pubbliche dottrine, non si cura di apportare alcunché alla cosa pubblica.

Alicia Alonso (1921-2019) – È stato facile decidere di dedicarsi al balletto classico, perché la vita altro non è che un continuo movimento che assomiglia alla danza.

Massimo Ammaniti – Forse si invecchia veramente solo quando non ci si stupisce più, quando si dà tutto per scontato e la vita sembra non riservare più sorprese. Si può mantenere il gusto della conoscenza e sapersi ancora meravigliare di un fiore che si schiude o di una bambina che ti sorride.

Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.

Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.

Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.

Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.

Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.

Günter Anders (1902-1992) – Non sono disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi esseri umani siamo in grado di provocare e che abbiamo effettivamente provocato.

Günter Anders (1902-1992) – Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite

Günter Anders (1902-1992) – «Lo sguardo dalla torre». I racconti di G. Anders palesano agli occhi della mente ciò che di solito rifiutiamo di problematizzare e di tematizzare, offuscando noi stessi la visione della verità.

Roberto Andreotti – Esiste un altro modello di rappresentazione nel quale la memoria è concepita come corredo funzionale in grado di interferire nel profondo con il nostro vissuto, con il nostro modo di concepire e organizzare il mondo hic et nunc.

Amedeo Anelli – «Quartetti». Tempi sospesi e riflessioni filosofiche giocate con un linguaggio all’apparenza semplice, con i ritmi della filastrocca. Amedeo Anelli scrive di sogni sognati e il pennello di Guido Conti cerca un segno che diventi senso.

Amedeo Anelli – Occidente e oriente a confronto nella voce poetica di Maura Del Serra.

Amedeo Anelli – È in stampa il sessantesimo numero (n. 59, giugno 2021) della rivista internazionale di Poesia e Filosofia «Kamen’», il numero del suo trentesimo anno.

Giulia Angelini – Gli uomini si costituiscono in una koinonía solo se c’è un «télos» che soggiace, costituisce e precede la loro unione. non bisogna assolutamente ridurre questo télos alla mera sopravvivenza di un insieme. Senza un télos si può dare solo un raggruppamento casuale di uomini e non già un insieme.

Giulia Angelini – Il nodo dell’èthos. A margine del libro di Claudia Baracchi, «L’architettura dell’umano: Aristotele e l’etica come filosofia prima».

Massimo Angelini – Ripristinare un’economia morale fondata sul dono potrebbe essere contagioso, certamente incomprensibile, come espressione di follia per chi confida solo sul denaro e al denaro affida l’ultima parola nelle proprie scelte e sull’altare del denaro brucia, idolatra, la propria vita, ma sarebbe rivoluzionario.

Massimo Angelini – Cultura significa innanzitutto coltivare, avere cura, trattare con attenzione, far crescere, onorare, e non va confusa con erudizione, che ha il proprio fine in sé stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro ostentazione sociale o accademica, guscio di un sapere ridotto alla sua apparenza.

Giulio Angioni (1939-2017) – Quando non si saprà … tu forse lo saprai che qui e ora sei.

Antica esortazione irlandese – Trova il tempo per leggere, per giocare, per l’amicizia, per sognare, per amare ed essere amato, per aiutare gli altri, per ridere.

Antifonte (480 a.C. circa – 410 a.C. circa) – Nell’effimera vigilia della vita nessuno di noi può esser definito né come barbaro, né come greco. Tutti infatti respiriamo l’aria con la bocca e con le narici, poiché di natura tutti siamo assolutamente uguali. Se violentiamo le norme poste in noi da natura si offende non l’opinione, ma la verità.

Antifonte (480 – 410 a.C.) – Nell’indugio spesso il tempo frapposto distoglie la mente dall’intenzione: il che a cosa fatta non è più possibile, nell’indugio invece può accadere.

Giovanni Antonucci – Il Teatro poetico di Maura Del Serra vive sul palcoscenico e nel corpo dell’interprete.

Sergio Arecco – La durevole passione per il cinema con i miei libri in questi ultimi cinquanta anni.

Sergio Arecco – Fisica e metafisica del cinema. Il battle study dal muto al digitale.

Sergio Arecco – Quando il cinema era giovane. I fantasmi dell’opera, i fantasmi all’opera.

Hannah Arendt (1906-1975) – L’amore è in primo luogo la potenza della vita, è il principio creativo che oltrepassa il semplice fatto di essere vivi, poiché dalla sua amondanità nasce un nuovo mondo. In quanto tale, «supera» la morte.

Daniela Ariano – Recensione a «Teatro» di Maura del Serra – Pagine intrise di teatro allo stato puro.

György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.

Aristofane (450 a.C.-385 a.C.) – I politicanti, finché restano poveri hanno a cuore il paese. Fattisi ricchi col denaro pubblico, eccoli a minacciare la democrazia.

Aristosseno (375-322 a.C.) – Il vero amore del bello sta nelle attività pratiche e nelle scienze, perché l’amare e il voler bene hanno inizio dalle buone usanze e occupazioni.

Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi.

Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.

Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.

Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.

Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi.

Aristotele (384-322 a.C.) – Se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.

Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.

Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».

Aristotele (384-322 a.C.) – Le radici della ‘paideia’ sono amare, ma i frutti sono dolci. Il modello più razionale di ‘paideia’ abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio.

Aristotele (384-322 a.C.) – La virtù è uno stato abituale che orienta la scelta, individua il giusto mezzo e lo sceglie. Il male ha la caratteristica dell’illimitato, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato.

Aristotele (384-322 a.C.) – Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. L’intelletto è quanto di più elevato si possa pensare, è il «toccare» il vero, rappresenta la realtà più divina ed eccellente che c’è in noi.

Aristotele, La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. La mano ha fatto l’uomo, è l’uomo stesso, è lo strumento degli strumenti. In verità il pensiero si impone come artigianale così come la mano.

Aristotele (384-322 a.C.) – La poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia. La poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare

Aristotele (384-322 a.C.) – In qualunque campo si raggiungerebbe la migliore visione della realtà, se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo e fin dalla prima origine.

Aristotele (384-322 a.C.) – Il fatto di vivere è comune anche alle piante. Ciò di cui andiamo in cerca per l’uomo è qualcosa di specifico. Il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù in una vita umana compiuta, in atto nel senso più proprio. un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno.

Aristotele (384-322 a.C.) – L’individuo moralmente retto è in accordo con se stesso, impegnandosi per il bene. La sua mente è ricca di pensieri e piacevoli sono i ricordi delle azioni compiute e buone sono le speranze di ciò che accadrà nel futuro.

Aristotele (384-322 a.C.) – Non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso che offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo.

Aristotele (384-322 a.C.) – Moralmente bello significa fare il bene senza mirare al contraccambio. L’uomo moralmente retto ricerca per sé il bello morale e antepone il bello a tutto il resto.

Aristotele (384-322 a.C.) – Tra tutti i beni quelli scelti in vista di se stessi sono fini. Tra questi, poi, sono belli tutti quelli che sono degni di lode. Infatti questi sono quelli da cui derivano azioni che sono degne di lode ed essi stessi sono degni di lode.

Aristotele (384-322 a.C.) – La moneta è nata per convenzione. Essa ha il nome di moneta (nomisma), perché non esiste per natura ma per legge (nomos), e dipende da noi cambiarne il valore e porla fuori corso.

Aristotele (384-322 a.C.) – «Protreptico. Esortazione alla filosofia». La felicità della vita non consiste nel possesso di grandi sostanze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima. La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi.

Aristotele (384-322 a.C.) – La natura dell’equità è proprio quella di correggere la legge laddove essa, a causa della sua formulazione universale, è difettosa. Ciò che è giusto e ciò che è equo sono la stessa cosa e, pur costituendo entrambe realtà eccellenti, l’equità è superiore.

Aristotele (384-322 a.C.) – Chi è davvero virtuoso sopporta in modo estremamente dignitoso le vicende della sorte, in ogni occasione. In lui risplende il bello morale se è capace di sopportare molte e grandi sventure con animo sereno, non perché è insensibile ma perché è nobile e fiero. Mai potrà diventare misero, incostante e volubile, chi è felice.

Aristotele (384-322 a.C.) – Conoscere se stessi è la cosa più difficile e non è possibile conoscersi senza un altro che ci sia amico. Dunque l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso.

Aristotele (384-322 a.C.) – Il vivere è desiderabile, aver consapevolezza di sentire o di pensare significa aver consapevolezza di esistere. allo stesso modo è desiderabile e si deve sentire insieme anche l’esistenza dell’amico, condividendo ragionamenti e pensieri. L’individuo moralmente retto è disposto verso gli amici come si comporta verso se stesso e avrà bisogno di amici moralmente retti .

Franco Arminio – Un uomo che arriva in ospedale è un mondo. Curare un uomo significa prendersi cura del tutto che è in tutti. Un ospedale è un osservatorio astronomico.

Franco Arminio – Abbiamo bisogno di gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, significa rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.

Nadeem Aslam – Qualcuno, da qualche parte, ha sempre bisogno di aiuto. Per questo scrivo. Se vogliono costruire un muro non possiamo fermarli. ma saremo i Frida Kahlo in piedi su quel muro, ribelli.

Margaret Atwood – Considerando gli animali in sparizione, il proliferare di fogne e di paure, l’addensarsi del mare, l’aria prossima a estinguersi, dovremmo essere gentili, dovremmo sentire l’allarme, Invece siamo contro.

Pierre Aubenque – L’uomo non richiede di essere superato ma di essere protetto, prima di tutto da se stesso. Il sovrumano è a un passo dal disumano.

Wystan Hugh Auden (1907-1973) – Udii un innamorato che cantava: «L’amore non ha fine. Io ti amerò finché l’oceano sia ripiegato e steso ad asciugare. Io tengo stretto fra le braccia il Fiore delle Età, e il primo amore al mondo».

Aulo Gellio (125-180) – Humanitas è paidéia. Coloro che con sincerità aspirano ad esse, sono di gran lunga i più umani (“vel maxime humanissimi).

Paul Auster – Ciascun libro è un’immagine di solitudine, le sue parole rappresentano molti mesi, se non anni, della solitudine di un individuo. Ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che siamo di fronte a una particella di quella solitudine.

Paul Auster – Un giorno c’è la vita. Poi, d’improvviso, capita la morte. Come dire: la vita si interrompe. E può interrompersi in qualunque momento.

Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.

1 10 11 12