«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Arianna Fermaniinsegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Indagare le relazioni esistenti tra Aristotele e i saperi anteriori ha significato indagare la riappropriazione da parte della filosofia di tali discorsi di sapere, ponendosi in una prospettiva diacronica molto ampia; l’ampiezza di orizzonte della ricerca è rappresentata nel sottotitolo del nostro volume.
[…] Indagare le relazioni esistenti tra Aristotele e i saperi anteriori della Grecia e dell’Oriente ha significato per il nostro gruppo di ricerca internazionale PARSA indagare, fin dal 2013, su un piano più generale, la riappropriazione da parte della filosofia di tali discorsi di sapere, ponendosi in una prospettiva diacronica molto ampia; l’ampiezza di orizzonte della ricerca è rappresentata nel sottotitolo del nostro volume. Aristotele citatore raccoglie quindi riflessioni che muovono da lontano e che sono state esposte e sottoposte a viva e proficua discussione nella cornice di un Convegno Internazionale di studi tenutosi a Torino nel 2019. Il Convegno ha radunato membri del gruppo di ricerca del PARSA e esperti su invito o risposta a Call; i ventisette relatori hanno dialogato fruttuosamente e con passione tra loro e con colleghi e giovani studiosi convenuti ad assistere. Questo si riflette con grande ricchezza nei contributi dati alla stampa, legati tra loro da una fitta rete di rimandi che traducono su carta il dialogo costante tra le parti. Il Convegno torinese è stato preceduto da altri tre incontri internazionali che hanno posto basi fondamentali per lo sviluppo del tema: il punto di partenza della ricerca nel 2013 è consistito in una riflessione su uno stato di conoscenza pre-disciplinare, un’indagine su, […] quei ‘primi filosofi’ che non lo sono. Il PARSA si è interrogato su uno stato – e su uno statuto – di sapere precedente o contemporaneo alla filosofia; non abbiamo quindi scelto di interrogare i cosiddetti ‘Presocratici’ (come dal XVIII secolo è invalso di chiamare i ‘primi filosofi’) in quanto tali, e a ben riflettere, del resto, coloro che siamo pronti oggi ad arruolare sotto la bandiera della filosofia non si definivano loro stessi tali. Abbiamo invece considerato che si assiste nel mondo antico a un nuovo tipo di discorso di conoscenza che si oppone ad altri discorsi di conoscenza, considerati come tali o che pretendono di essere tali. Ci siamo interrogati sulla natura di questa novità, senza dare per scontato che essa risiedesse nell’assenza del ruolo degli dèi nella riflessione sul mondo. La novità non ci è parsa tanto consistere in cosa il discorso dicesse, quanto in una diversa relazione con il logos stesso, con tutte le possibilità di riappropriazione, deviazione, ri-significazione che una tale modifica può aprire. Un nuovo tipo di discorso della conoscenza, che non significa però un discorso unico della conoscenza: lo dimostra l’accusa di Eraclito contro Esiodo, ma anche contro Pitagora, Ecateo e Senofane. Questi tipi di discorso sono tutti caratterizzati da ciò che Eraclito attribuisce loro, cioè la polymatheia. Ci è parso quindi opportuno vedere in questa polymatheia il tratto distintivo del pensiero arcaico – piuttosto che ‘presocratico’ – da cui la ‘filosofia’ deriva, pur differenziandosi da essa per l’istituzione di campi di conoscenza distinti. Con tale chiave di lettura abbiamo superato la questione della situazione cronologica dei ‘presocratici’, alcuni dei quali sono in realtà contemporanei di Socrate e anche di Platone. Abbiamo inoltre superato la questione se la filosofia potesse costituirsi (e auto-costituirsi) solo più tardi con l’adozione posturale di un’autorità responsabile di un’omogeneizzazione che l’aveva comunque preceduta da tempo. Essa infatti si riferiva a una certa concezione del sapere – la polymatheia – e della ‘natura’, intesa come un insieme strutturato in cui ciascuno dei suoi costituenti ha il suo posto: il cielo e i corpi celesti; la terra – la sua fauna, la sua flora e le sue regioni; l’uomo – il suo corpo, le sue sostanze costitutive, i suoi stati (in malattia o in salute); la sua anima, la sua natura, le sue funzioni, le sue facoltà; il suo modo di vivere, dall’animalità alla cittadinanza; la città, le sue istituzioni, il suo passato, il suo comportamento in guerra o in pace. Abbiamo constatato quindi la diversità dei discorsi e delle conoscenze che circolano, si compenetrano, si influenzano e si modificano a vicenda. Questo è stato l’obiettivo raggiunto dai primi due Convegni di Grenoble dedicati alla poesia arcaica (2014) e drammatica (2015) come discorsi di sapere; il loro scopo è stato analizzare, al di là di qualsiasi approccio disciplinare o esclusività, le relazioni che si intessevano tra questi sapienti – sophoi o sophistai, non importa – il cui linguaggio offre testimonianza del pensiero. Con tali premesse il Gruppo ha affrontato l’indagine su Platone e il rapporto con i saperi anteriori (Grenoble 2017) e ora pubblica i risultati di una analoga indagine su Aristotele. Questi saperi anteriori, come è emerso dalla nostra ricerca, si rivelano anche saperi filosofici ormai così lontani nel tempo da Aristotele da necessitare a suo giudizio di una traduzione, che è al tempo stesso interpretazione e ri-appropriazione: penso al caso degli atomisti Leucippo e Democrito che Aristotele nel primo libro della Metafisica (985b) riprende e ri-volge in un diverso linguaggio. Nel volume si susseguono quindi stimolanti contributi che si occupano del rapporto del corpus aristotelico con diversi discorsi di saperi anteriori, epos e poesia arcaica, teatro comico e tragico, ma anche storiografia, retorica, medicina, pensatori ‘presocratici’, logoi sulle tradizioni dei popoli anellenici. Infine, e non sorprende nella complessità del pensiero aristotelico, Aristotele si confronta con se stesso attraverso l’autocitazione: il nostro volume si chiude con la riflessione condotta da Étienne Helmer su questo tema affascinante.
Elisabetta Berardi, Intervista pubblicata su «Letture.org».
Aristotele citatore costituisce il quarto capitolo del Programma pluriennale di ricerca del PARSA «Il problema della riappropriazione da parte della filosofia dei discorsi di sapere anteriori» e ne accoglie i risultati scientifici presentati nel Colloquio Internazionale di Torino (27-29 marzo 2019). Partendo dall’analisi delle citazioni aristoteliche dirette o indirette dai poeti arcaici e classici e da altri discorsi di sapere non filosofici del mondo greco, giovani ricercatori e specialisti di scienze dell’antichità hanno osservato somiglianze e scarti tra le fonti e l’uso che ne è fatto da Aristotele, rilevando il contesto pragmatico di enunciazione e il quadro argomentativo nel quale esse si collocano; i saggi contenuti nel volume mostrano l’interesse che questi saperi hanno potuto suscitare, i pericoli che hanno potuto rappresentare – soprattutto in termini di concorrenza –, le riappropriazioni e/o le distorsioni di cui sono stati oggetto.
Aristote citateur constitue le quatrième volet du Programme pluriannuel de recherche du PARSA «Le problème de la réappropriation par la philosophie des discours de savoir antérieurs» et réunit les résultats scientifiques présentés lors du colloque international de Turin (27-29 mars 2019). En partant de l’analyse des citations directes ou indirectes d’Aristote aux poètes archaïques et classiques et à d’autres discours de savoir non philosophiques du monde grec, de jeunes chercheurs et des spécialistes des sciences de l’antiquité ont constaté des similitudes mais aussi des différences entre les sources et l’usage qu’en fait Aristote, en prenant en compte le contexte pragmatique d’énonciation et le cadre argumentatif dans lequel elles s’insèrent. Les communications contenues dans cet ouvrage collectif montrent tout l’intérêt que ces savoirs pouvaient susciter, les dangers qu’ils pouvaient représenter – notamment en termes de concurrence –, les réappropriations et/ou les distorsions dont ils ont été l’objet.
Elisabetta Berardi (Università di Torino) si occupa di letteratura greca di età imperiale, con particolare riguardo alle dinamiche tra retorica e filosofia tra I e II sec. d.C. e al Fortleben del Gorgia e del Fedro platonici. Elisabetta Berardi è Presidente del PARSA
Maria Paola Castiglioni (Université Grenoble Alpes) si occupa di storia greca, con particolare riguardo ai fenomeni culturali, politici e sociali nelle epoche arcaica e classica. Marie-Laurence Desclos (Université Grenoble Alpes) si occupa di storia della filosofia greca in un approccio antropologico, con un particolare interesse per Platone.
Paola Dolcetti(Università di Torino) si occupa di letteratura greca con particolare riguardo alla prosa delle origini, al genere letterario del dialogo e a Luciano di Samosata nelle sue interazioni con la filosofia e il mito.
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Voici, pour la première fois édité et traduit, un texte grec antique perdu dans la langue originale et conservé en arabe. Il s’agit d’une lettre rédigée par un mystérieux Ptolémée, philologue aristotélicien actif à Alexandrie autour de l’an 200 après J.-C., dans laquelle celui-ci rapporte la Biographie et le Testament d’Aristote, ainsi qu’un Catalogue d’une centaine de titres inconnu par ailleurs. Ce vestige est l’une de nos meilleures sources d’information – et la seule qui soit interne à l’école péripatéticienne – sur la vie d’Aristote. Elle permet de reconstituer les liens entre Aristote et le pouvoir macédonien – Philippe, Alexandre le Grand et le général Antipatros – ainsi que l’émancipation progressive d’Aristote à l’égard de Platon. C’est aussi notre seul témoignage sur la première édition, dans l’Antiquité, des écrits savants du Philosophe. Instantané pris sur le vif de l’état de la philologie aristotélicienne, à Alexandrie, à la fin du IIe siècle, ce texte est une lecture essentielle pour quiconque s’intéresse à la question de savoir ce que nous lisons quand nous lisons Aristote.
Ptolémée « al-Gharib »
Ptolémée « al-gharīb » est un philologue aristotélicien de l’Antiquité, sans doute actif à Alexandrie autour de l’an 200 ap. J.-C.
Marwan Rashed
Après avoir été professeur de philologie grecque à l’Ecole normale supérieure, Marwan Rashed est aujourd’hui professeur de philosophie à la Sorbonne, où il enseigne l’histoire de la philosophie grecque et arabe.
Marwan Rashed vous présente une découverte exceptionnelle pour l’histoire de la philosophie ancienne : l’Épître à Gallus sur la vie, le testament et les écrits d’Aristote, de Ptolémée « Al Gharīb », qu’il a édité et traduit.
Introduction 1. État de la question 1.1. Trace de l’épître dans l’Antiquité 1.2. La redécouverte moderne de Ptolémée
2. Le texte et l’auteur 2.1. Structure de l’Épître à Gallus 2.1.1. Prologue 2.1.2. La Biographie d’Aristote 2.1.3. Le Testament d’Aristote 2.1.4. Le Catalogue des écrits d’Aristote 2.2. L’auteur 2.2.1 Ptolémée le Péripatéticien cité par Longin 2.2.2. Ptolémée le Platonicien 2.2.3. Ptolémée le Péripatéticien cité par Sextus Empiricus 2.2.4. Une attribution fautive à Ptolémée Philadelphe 2.2.5. Ptolémée Chennos 2.2.6. Ptolémée l’adultère
3. Ptolémée et les Pinakes d’Andronicos de Rhodes 3.1. État de la question 3.2. Sept points remarquables de la liste de Ptolémée 3.2.1. Absence de l’Éthique à Nicomaque 3.2.2. Une Métaphysique en treize livres 3.2.3. Présence du De interpretatione 3.2.4. Position des Topiques 3.2.5. Le titre des Premiers et des Seconds Analytiques 3.2.6. Le titre des Réfutations Sophistiques 3.2.7. Le titre du traité Du ciel 3.2.8. Conclusion : Ptolémée et l’érudition alexandrine autour de l’an 200
4. L’histoire ancienne du corpus 4.1. Les récits anciens : Strabon, Plutarque, Athénée … et al-Fārābī 4.1.1. La contradiction entre le récit de Strabon et de Plutarque et l’indication d’Athénée 4.1.2. Al-Fārābī : une version favorable au rôle d’Alexandrie ? 4.2. Les six données positives 4.2.1. Les listes anciennes 4.2.2. Le testament de Théophraste 4.2.3. Le renseignement de Posidonius 4.2.4. Rouleaux et traités : Porphyre et Ptolémée 4.2.5. Ptolémée et « la bibliothèque d’Apellicon » 4.2.6. Ptolémée et la découverte d’Andronicos 4.3. Retour sur le texte d’al-Fārābī 4.4. L’histoire ancienne du corpus Aristotelicum
5. La transmission du texte 5.1. Un texte arabe traduit du syriaque 5.2. Tradition directe et tradition indirecte 5.2.1. La tradition indirecte arabe 5.2.2. La tradition directe arabe 5.2.3. Établissement du texte
Sigla
Texte arabe et traduction مقالة لرجل يسمّى بطلميوس فيها وصية أرسطوطاليس وفهرست كتبه وشيء من أخباره الى رجل يسمّى غلس Traité d’un nommé Ptolémée contenant le testament d’Aristote, le catalogue de ses écrits et sa biographie, adressé à un nommé Gallus
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Claudia Baracchi, Manuel Berrón, Enrico Berti, Michele Di Febo, Silvia Gullino, Alberto Jori, Pietro Li Causi, Giovanni Battista Magnoli Bocchi, Francesca Masi, Marcello Zanatta
Quarta di copertina Questo volume parte da una serie di problematiche che, riprendendo delle espressioni comunemente in uso, si addensano sull’etica e sulla politica dello Stagirita: che cos’è l’etica? Che cos’è la politica? Qual è il loro fine? A chi si riferiscono? Qual è il collegamento tra le due? Ma ancora, passando ai trattati, qual è il rapporto tra le Etiche e la Politica sia in sé che rispetto alla continuità e discontinuità di certi temi? Oltre alla questione dell’ἐπιστήμη – che, al di là della sistematizzazione consueta, non è assolutamente scontata –, si tratta però di concentrarsi anche su tutti quei temi che si impongono sempre in un’interrogazione di questo tipo, interrogazione che deve sempre tenere presente la specificità storico-categoriale del pensiero dello Stagirita. Anche per questo, piuttosto che offrire una semplice ricostruzione, qui si cercherà di complicare il più possibile questo nodo, che, come si vedrà, è tutto tranne che risolto.
Ricerche aristoteliche. Etica e politica in questione è la quarta di una serie di collettanee aristoteliche uscite sempre per Petite Plaisance: Sistema e sistematicità in Aristotele (2016), Immanenza e trascendenza in Aristotele (2017) e Teoria e prassi in Aristotele (2018).
Indice
Giulia Angelini: Introduzione
Enrico Berti: L’unità della filosofia pratica in Aristotele
Alberto Jori: Praxis – ethos – polis. La Rehabilitierung der praktischen Philosophie e la sua interpretazione dell’etica e della politica di Aristotele
Marcello Zanatta: I principi e lo statuto epistemologico della politica architettonica in Aristotele
Manuel Berrón: La filosofia pratica e il metodo degli Analitici
Claudia Baracchi: Note sul Bene e sull’Uno tra Platone e Aristotele
Francesca Masi: La virtù etica della giustizia distributiva e la sua rilevanza politica
Michele Di Febo: Educare alla moltitudine, educare la moltitudine. Alcune considerazioni sul dinamismo del plethos nella Politica di Aristotele
Silvia Gullino: La nozione di autarchia nel pensiero politico di Aristotele dalla Politica alla Costituzione degli Ateniesi
Giovanni Battista Magnoli Bocchi: La retorica, fra etica e politica
Pietro Li Causi: Il dilemma della responsabilità animale nel quadro della ‘eto-logia’ aristotelica
Le Autrici – Gli Autori
Indice dei nomi
Giulia Angelini ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Padova, dove, attualmente, è Cultrice della materia in S.S.-D. SPS/01 (Filosofia politica). La sua ricerca verte principalmente sul pensiero di Aristotele e, in particolare, sulla questione dello ζῷον πολιτικόν, sull’epistemicità della filosofia pratica e sui vari significati delle categorie di potenza e atto. Proprio in relazione a questi temi, ha partecipato a numerose conferenze nazionali e internazionali ed è autrice di svariati contributi scientifici. Inoltre, ha sempre collaborato nella gestione di varie riviste: ad oggi, è responsabile editoriale di “Universa. Recensioni di filosofia” (Padova University Press).
Claudia Baracchi è Ph. D. in Filosofia (Vanderbilt University 1990-1996), Docente di Filosofia Antica e Filosofia Europea alla University of Oregon (1996-1998) e alla New School for Social Research di New York (1999-2009). Dal 2007 è Professore di Filosofia Morale all’Università di Milano-Bicocca. Tra le pubblicazioni si ricordano Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche (Petite Plaisance), Amicizia (Mursia), Aristotle’s Ethics as First Philosophy (Cambridge University Press), Of Myth, Life, and War in Plato’s Republic (Indiana University Press). È co-fondatrice della Ancient Philosophy Society. Ricerca sulla filosofia antica in rapporto al mito, alla poesia e al teatro, sulle tradizioni orientali (soprattutto indo-vediche), sulla psicoanalisi e le pratiche del sé. È docente a Philo–Scuola di Analisi Biografica a Orientamento Filosofico.
Manuel Berrón è professore (1999) e Dottore in Filosofia (2012). Professore Aggiunto di “Filosofía Antigua” all’Universidad Nacional del Litoral (UNL – Argentina) e Professore Associato di “Problemática Filosófica” all’Universidad Nacional de Entre Ríos (UNER – Argentina). Ha realizzato studi postdottorali in Argentina (2012-2014) e all’Università degli Studi di Macerata (2018). È autore di diversi articoli nel campo della filosofia aristotelica e del libro Ciencia y dialéctica en Acerca del cielo de Aristóteles (2016). è membro del consiglio editoriale di Tópicos (Revista de Filosofía de Santa Fe). Inoltre, è membro dell’Asociación Latinoamericana de Filosofía Antigua e attualmente è Presidente dell’Asociación Argentina de Filosofía Antigua (2017-2021).
Enrico Berti è professore emerito dell’Università di Padova, socio nazionale dell’Accademia dei Lincei e membro della Pontifica Accademia delle Scienze. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui una nuova traduzione italiana della Metafisica di Aristotele (Laterza 2017), e i volumi Aristotelismo (Il Mulino 2017), Scritti su Heidegger (Petite Plaisance 2019), Nuovi studi aristotelici, V – Dialettica, fisica, antropologia, metafisica (Morcelliana 2020), Storicità e attualità di Aristotele (Studium 2020), Saggi di storia della filosofia (Studium 2020).
Michele Di Febo è laureato in “Filologia, Linguistica e Tradizioni Letterarie” presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara. Con G.A. Lucchetta ha curato l’edizione italiana del Boristenitico di Dione di Prusa (Carabba, Lanciano 20202). Attualmente svolge il dottorato di ricerca presso la “Scuola Alti Studi” della Fondazione Collegio San Carlo di Modena e il suo ambito di ricerca è la storia del pensiero politico classico, in particolare la Politica di Aristotele e i suoi principali nuclei di innovazione rispetto alla tradizione precedente.
Silvia Gullino è Dottore di Ricerca in Filosofia e svolge la propria attività presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università degli Studi di Padova, dove è Assegnista di Ricerca nonché Cultrice della Materia in Storia della Filosofia Antica. In passato, è già stata Assegnista di Ricerca presso l’Università della Calabria. Tra le sue pubblicazioni, che riguardano il pensiero antico e, in particolare, Aristotele e la tradizione aristotelica, figurano le recenti monografie Aristotele e i sensi dell’autarchia (Padova, 2013), Pathos (Milano, 2014) e Philia (Milano, 2017) e Aristotele e gli esempi di virtù nella Costituzione degli Ateniesi (Lecce, 2019).
Alberto Jori insegna Filosofia all’Università di Tubinga, dove ha conseguito l’Habilitation nel 2008 e il titolo di Professor nel 2011, e Storia della filosofia antica all’Università di Ferrara. Nel 2003 ha vinto il premio dell’Internatonal Academy of the History of Science. Tra la sue opere: Medicina e medici nell’antica Grecia. Saggio sul ‘Perì téchnes’ ippocratico (il Mulino-Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1996), Aristotele (Bruno Mondadori, 20083), Aristoteles, Ueber den Himmel (Akademie Verlag-WBG, 2009), Natura naturans. Il pensiero di Roberto Ardigò (Nuova Ipsa, 2020).
Pietro Li Causi ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale per la seconda fascia in Lingua e Letteratura Latina, e insegna materie letterarie presso il Liceo Scientifico “S. Cannizzaro” di Palermo. È responsabile della sezione “Ricerca e sperimentazione didattica” della rivista ClassicoContemporaneo ed è stato membro aggregato di “IRN Zoomathia (Transmission Culturelle des savoirs zoologiques – Antiquité-Moyen Âge)”. Autore di diversi contributi sulla storia della letteratura e sull’antropologia del mondo antico, si è occupato di autori come Aristotele, Plutarco, Plinio il Vecchio, Seneca, Ovidio, dell’etno-zoologia e della paradossografia dei Greci e dei Romani, e di antropologia del dono nel mondo antico. Fra le sue pubblicazioni, Gli animali nel mondo antico (il Mulino, 2018), L’anima degli animali (curato con R. Pomelli, Einaudi, 2015), nonché, per Palumbo, Sulle tracce del manticora (2003), Generare in comune (2008), Il riconoscimento e il ricordo. Ha curato anche, assieme a E. Romano, M. Formisano e R. Marino, una traduzione con commento del De oratore di Cicerone (Edizioni dell’Orso, 2015).
Giovanni Battista Magnoli Bocchi insegna “Forme di potere e comunicazione nel mondo greco” presso l’Università di Pavia. Si occupa di storiografia, retorica e comunicazione politica, cioè del racconto della realtà a fini politici. Fra le sue ultime pubblicazioni: Politica e Storia nella Retorica di Aristotele (Carocci 2019), La resilienza dell’antico. Il passato alla prova del presente (Mimesis 2020). È coautore di Come i social hanno ucciso la comunicazione (Guerini 2020).
Francesca Masiè Professore Associato di Storia della Filosofia Antica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. I suoi interessi vertono in particolare sull’ontologia, la fisica, l’epistemologia, la psicologia e l’etica antiche. Ha scritto numerosi saggi e curato vari volumi sulla filosofia di Aristotele, su Epicuro, Lucrezio e l’Epicureismo. È autrice di due monografie: Epicuro e la filosofia della mente. Il XXX libro dell’opera Sulla natura e Qualsiasi cosa capiti: natura e causa dell’ente accidentale. Aristotele, Metafisica E 2-3.
Marcello Zanatta, già professore ordinario di Storia della Filosofia Antica e incaricato di Retorica Classica, è specialista di Aristotele, cui ha dedicato cinque monografie e di cui ha redatto l’edizione italiana di molte opere. Si é occupato altresì dello stoicismo antico e romano e della retorica giudiziaria di Ermagora di Temno. Dirige la collana “Questioni di Filosofia Antica” e la collana “Vette Filosofiche” ed é membro di Società filosofiche italiane e internazionali.
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«Se il vivere è in sé buono e piacevole […] e se chi vede ha la consapevolezza di vedere, chi ode di udire, chi cammina di camminare e lo stesso vale per tutti gli altri casi, vi è qualcosa che ci rende consapevoli del fatto di esercitare un’attività, cosicché noi possiamo avere la consapevolezza di sentire e di pensare, ed aver consapevolezza di sentire o di pensare significa aver consapevolezza di esistere (infatti si era detto che il fatto di esistere consiste nel sentire e nel pensare), ma se l’avere consapevolezza di vivere è, di per se stesso, una cosa piacevole (infatti la vita è, per natura, un bene, e sentire che questo bene noi lo possediamo in noi stessi è piacevole) e il vivere è desiderabile, soprattutto per le persone virtuose, poiché il fatto di esserci è bene per loro ed è anche piacevole (infatti godono di percepire insieme il bene in sé), se l’individuo moralmente retto è disposto verso gli amici come si comporta verso se stesso (infatti l’amico costituisce un alter ego), allora, come per ciascuno è desiderabile il fatto di esistere, allo stesso modo […] è desiderabile l’esistenza dell’amico. Abbiamo detto che l’esserci è desiderabile perché si ha la consapevolezza che noi stessi siamo virtuosi; una tale sensazione, inoltre, è piacevole di per se stessa. Quindi si deve sentire insieme anche l’esistenza dell’amico e questo avverrà vivendo insieme e condividendo ragionamenti e pensieri. […] Quindi l’individuo felice avrà bisogno di amici moralmente retti».
Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 1170 a 26-34 – 1170 b 1-19, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 875-877.
«[…] conoscere se stessi, come hanno detto alcuni tra i sapienti, è la cosa più difficile, ma anche la più piacevole […]; come, dunque, quando vogliamo vedere la nostra faccia la vediamo guardandoci allo specchio, allo stesso modo quando vogliamo conoscere noi stessi potremmo conoscerci guardandoci nell’amico; infatti l’amicoi è, come abbiamo detto, un alter ego. Se, quindi, è piacevole conoscere se stessi, e non è possibile conoscersi senza un altro che ci sia amico, l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso».
Aristotele, Grande Etica, II, 1213 a 13-25, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 1187-1189.
Nato come ampliamento del precedente Aristotle’s Ethics as First Philosophy (Cambridge University Press, Cambridge 2008), L’architettura dell’umano: Aristotele e l’etica come filosofia prima (Vita e Pensiero, Milano 2014) di Claudia Baracchi è un’opera molto particolare che presenta, fin dall’inizio, due anime: se si può inserire nella più classica e scolastica tradizione degli studi aristotelici per il tema scelto e per l’ampia mole del materiale preso in esame e dei passi filologicamente analizzati, allo stesso tempo ha un’impostazione totalmente radicale che ne sorregge l’andamento. Alla traduzione e al fitto commento di numerosi passi dello Stagirita, che rimangono il canovaccio seguito per tutto il percorso, si accompagna, infatti, il tentativo di rivedere il senso complessivo della sua speculazione, complicandolo con dei nuovi elementi che ne scardinano l’impalcatura tradizionale per poi riassemblarla da capo.[1] Concentrandoci su questo secondo aspetto, che è direttamente proporzionale all’alto rischio qui assunto, l’obiettivo che si vuole conseguire è espresso dallo stesso titolo: presentare l’etica aristotelica non tanto come una filosofia tra le altre, ma come la vera e propria, e l’unica, filosofia prima. Infatti, si vuole leggere «l’articolazione filosofica della conoscenza scientifico-teoretica […] come fondata sul vivere-in-azione, su dati fenomenologici, esperienziali e sensibili».[2] Se ne risulta che, proprio nello Stagirita, l’indagine teoretica si basa essenzialmente sul coinvolgimento della sensibilità e dell’azione, «allora l’etica (lo studio strutturale di tali ineludibili condizioni) è la disciplina che in modo cruciale, se non esclusivo, dischiude le origini, i principi e gli assunti della conoscenza e finanche della sapienza».[3] L’etica si configura, quindi, come la capacità di cogliere l’umano nella sua originarietà e a questo si deve il suo carattere primario tra le filosofie, che sancisce la sua stessa necessità per il posizionamento delle altre.[4] Ora, anche se questo quadro preliminare potrebbe instillarne il dubbio, qui si è ben lontani da un’impostazione à la Gadamer e à la Arendt che, nel secolo precedente, hanno avuto al centro del loro pensiero queste tematiche, suscitando negli stessi critici reazioni contrastanti tra loro.[5] Se ciò non avviene, è perché, riassumendo estremamente il movimento di L’architettura dell’umano, la posizione dell’etica al vertice della filosofia non vuole portare a un semplice ribaltamento della gerarchia delle scienze in Aristotele, quanto a un suo ripensamento che, in un certo senso, pone l’etica stessa come ontologia e, quindi, come ciò che fonda e struttura l’essere stesso degli uomini e la sua intelligibilità, che è anch’essa essenzialmente pratica. Infatti, non c’è un’etica incentrata solo sulla prassi che supera la teoreticità dell’ontologia e delle altre scienze mantenendo, in questa gerarchizzazione, un primato e, con esso, una separatezza rispetto a queste ultime, ma vi è il tentativo di far convergere i due orizzonti per porre l’etica all’inizio di esse. In altri termini, si tratta di pensare l’etica come il punto nevralgico di dispiegamento dello stesso mondo in un’interazione tra prassi e teoria che è sempre più necessario accettare per il fatto che né la teoria né la prassi si danno separatamente, quanto in un’ineludibile interazione reciproca.[6]
Tuttavia, anche con questa precisazione, la paradossalità (da intendersi letteralmente e, quindi, come un qualcosa che va contro, sopra e scansa l’opinione comune) di presentare l’etica come filosofia prima rimane: tenendo conto di tutte le difficoltà del tema, così come delle varie interpretazioni, in Aristotele la filosofia prima è la scienza dell’ente in quanto ente e delle cause, diverse, della stessa realtà. Che la filosofia prima sia l’ontologia, la teologia e la metafisica – con tutte le complicazioni di quest’ultimo termine –, non significa nient’altro che porla nella sua necessità rispetto al darsi e al pensarsi del reale. Nessun’altra scienza teoretica può aspirare a questo titolo, e non lo possono tantomeno fare quelle pratiche e poietiche, che hanno altre finalità. Infatti, rimanendo aderenti ai testi aristotelici, l’impossibilità di assurgere l’etica a filosofia prima sta anche e soprattutto nel fatto che essa, con tutte le difficoltà di tematizzazione che presenta, non ha nemmeno come fine il sapere, ma, tradizionalmente, quell’azione che l’allontana di nuovo dalla primarietà di quella che poi è diventata l’ontologia propriamente detta – o, di nuovo, la teologia e la più complicata metafisica. La filosofia prima si rivolge alla conoscenza delle realtà immutabili, e non all’azione e alla produzione.[7] Ora, per far fronte a questa situazione, si svela il vero e proprio asse portante del libro, che non è rappresentato tanto della rilettura degli Analitici Secondi e di alcuni libri della Metafisica, a cui pure si dedica molto spazio, ma dall’apertura dell’idea tradizionale di etica, che ne esce totalmente trasformata. Sullo sfondo di un’analisi molto dettagliata, ci si concentra su Omero, Esiodo, Erodoto[8] e perfino Platone[9] per scavare sul senso abituale di etica, problematizzando quell’“ἦθος” da cui poi essa è derivata. Se “ἦθος” significa, nella classicità, “carattere”, ma anche “costume”, “tradizione” e “abitudine”, in origine indicava la dimora di determinati animali e la casa di una particolare popolazione, finanche del sole. Al di là di quello che poi l’etica è andata a esprimere, Omero, Esiodo, Erodoto e, in un frangente, anche Platone non hanno mai tematizzato un “ἦθος” che, fin da subito, indica quelle qualità degli uomini che successivamente si sono condensate nella stabilità del “carattere”, ma con esso ci si rapporta a un qualcosa che interessa il dispiegarsi originario della vita stessa e il suo legame con un determinato mondo. È proprio questo l’aspetto che qui si vuole mantenere – e lo si fa anche proiettandolo sull’esperienzialità umana, che trova nell’“ἦθος” la sua condizione di possibilità. Alla luce di ciò, sulla scorta di un sentire che, al di là di una certa filosofia araba,[10] si riallaccia molto al Brief über den „Humanismus” di M. Heidegger, che in queste pagine ci sembra trovare una grande eco,[11] si può sì sostenere che l’etica sia la filosofia prima, ma purché si abbandoni una sua definizione stretta, che è quella che invero si desume dalle tre Etiche e da opere a esse contigue. L’etica non attiene semplicemente alle virtù e alla felicità umana, ma è il prodursi e il venire al mondo degli stessi esseri viventi. Quindi, non bisogna assumere l’etica nella limitatezza della disciplina sul comportamento corretto o scorretto degli uomini, oppure sulla scorta di una delle altre accezioni ricavate dalle Etiche e da altri testi aristotelici, ma si deve intenderla come ciò che riguarda il fenomeno umano nel suo complesso e nel suo complessivo dispiegarsi. Proprio per questo motivo l’etica può essere detta filosofia prima, essendo che la filosofia prima si occupa, da sempre, della e delle manifestazioni originarie del mondo. Tuttavia, mettendo per un momento da parte un’analisi più puntale dell’opera, sorge già una domanda, che non riguarda direttamente il suo contenuto, ma è un nodo ermeneutico che per forza di cose si impone durante la lettura: si può forzare così tanto la categoria dell’etica per poi leggere, attraverso essa, l’intera filosofia di Aristotele, che nella sua vera e propria formulazione non la contiene? Per delineare una risposta, bisogna cominciare dall’omonimia, ovviamente voluta, con l’Éthique comme philosophie première[12] di E. Lévinas,[13] che, per quanto non sia minimante un testo su Aristotele, ci sembra contenere lo spirito dell’opera che stiamo analizzando: con Lévinas si ha l’occasione di pensare l’etica nella sua primarietà perché è questo che, nel concreto, compone la stessa vita – ineffabile se non nella pratica, che oltrepassa, di fatto, la razionalità tradizionale. Al di là del binarismo tra vero e falso e di tutti gli altri teoricismi, bisogna porre la stessa verità in termini irriducibilmente diversi e altri da quelli a cui siamo stati abituati. Quindi, si tratta di raffigurarla, proprio con Lévinas, attraverso l’originarietà dell’etica e dello stare insieme degli uomini, che ha alla sua base un mistero che impedisce all’etica stessa di essere colta, e determinata, una volta per tutte. Per quanto ci caratterizzi, l’etica sfugge a quella cristallizzazione che la razionalità discorsiva le impone.[14] Ora, se è palese il background a cui guarda l’Autrice, che ci permette di leggere Aristotele tramite Lévinas, ma anche Lévinas tramite Aristotele, è perché, al di là di ogni storicismo, il motore della ricerca risulta essere il seguente: si tratta di tenere aperta, sempre e comunque, la possibilità dell’interpretazione e di innervarla ogni volta dandole nuova linfa. Al di là dei riferimenti, la filosofia risulta attraversata dagli stessi ineludibili nodi, che si devono riattivare e portare alla luce anche capovolgendo quelle che sono le sue formulazioni più abituali. Tenendo conto del terreno da cui muove, la filosofia deve continuare a interrogarsi, con l’impossibilità di terminare una volta per tutte le interpretazioni che la caratterizzano, anche perché qualsiasi risposta che si dà ha poi la necessità di essere nuovamente riaffermata.[15] Detto ciò, lasciando inevitabilmente sullo sfondo una discussione più profonda di questo nodo, che travalica anche lo spazio di un commento, bisogna riconoscere che, se la chiave interpretativa utilizzata è molto forte, a onor del vero è sostenuta coerentemente dall’inizio alla fine di tutta l’opera, su cui si mette costantemente alla prova. Infatti, a quest’altezza del discorso, quello stesso legame con la teoria precedentemente messo in campo inizia a farsi più chiaro: ampliare il significato di etica permette di leggere nella loro eticità l’inizio della conoscenza – e, quindi, l’αἴσθησις – ma anche lo stesso principio di non contraddizione, che è alla base della validità di qualsiasi asserzione, soprattutto scientifica. Di nuovo, non si tratta di porre la loro eticità tramite delle ricadute e delle conseguenze pratiche che essi possono avere, ma, all’opposto, come l’empiricità e la praticità del terreno da cui scaturiscono. Non potendo essere dedotti da nessun ragionamento, così come da nessuna ragione in senso forte, il sostrato dell’αἴσθησις e quello del principio di non contraddizione sono etici – e non possono che essere tali. In altri termini, non c’è un pensiero che, in origine, non sia incarnato e corporale e, soprattutto, che non si sviluppi dallo stare insieme degli uomini e dal manifestarsi, frammentario in sé, dell’umano. Riprendendo un’osservazione dell’Autrice, che però ha alle spalle lo scarto tra il λόγος e il νοῦς, così come una disamina della dialettica, si afferma questo:
«Non è che l’etica soltanto, nella sua imprecisione e nel suo concentrarsi sul pratico, possa avere un fondamento esclusivamente dialettico. Piuttosto, le scienze stesse, ognuna di esse, sono in ultima analisi basate su principi definiti dialetticamente – dove, ovviamente, definiti dialetticamente significa articolati attraverso le pratiche della comunicazione e della comunanza, e quindi essenzialmente appartenenti alla fenomenicità e alla fenomenologia dell’ethos umano».[16]
In questo senso, si può ora aggiungere che, se l’inizio della conoscenza insito nell’αἴσθησις è un qualcosa di irriducibilmente etico, è perché niente è già dato nella mente umana e tutto si forma nel momento in cui si esperisce quello che ci sta intorno, dove l’accoglimento di questa datità, che è una delle espressioni dell’αἴσθησις, sblocca anche il sapere e tutte le sue potenzialità intrinseche. Lo stesso valga per il principio di non contraddizione, il quale, come fondamento di ogni conoscenza, è indimostrabile per chi voglia farlo se non nel momento in cui lo si nega, motivo per cui la dimostrazione, nella sua impossibilità teoretica, rimane essenzialmente pratica e, quindi, etica. Ponendo sempre l’accento su questo aspetto, si è poi proposta una rilettura del famoso incipit della Metafisica, che fa perno sullo stretto collegamento tra la conoscenza e la stessa vista, fonte particolare della prima. Infatti, non è scorretto dire che «tutti gli uomini per natura tendono al conoscere (τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται)», ma sarebbe meglio affermare che «essi per natura desiderano aver visto (τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται)». La conoscenza è sempre sensibile e sensoriale e lo stesso verbo che qui viene scelto, εἰδέναι, ha un rimando ineludibile alla vista, per cui ogni sapere non può fare a meno di un qualsiasi organo sensorio – e la vista sarebbe solo un esempio. Se gli uomini conoscono, è sostanzialmente perché “hanno visto”, motivo per cui rendere la celebre asserzione in questi termini, non farebbe altro che scavare sul suo vero e proprio senso. Nella stessa direzione, gli uomini non tendono semplicemente al conoscere, ma desiderano questa conoscenza e, se lo fanno, è perché essa è un qualcosa che è quasi connaturato alla loro natura. Si è attratti dalla realizzazione di sé in quanto esseri umani ancor prima di qualsiasi decisione si possa prendere a tal proposito. Se si desidera aver visto, è perché si esperisce questa necessità dall’interno.[17] Sviluppando le osservazioni fin qui condotte, l’Autrice ha poi potuto affermare l’anacronistico anticartesianesimo di Aristotele: nel momento in cui Aristotele affronta il dubbio iperbolico, si arriva a capire come «il pensiero e le sue strutture logiche non sono separabili dall’esperienza, dalla dimensionalità dell’ambito fisico e, nel senso più ampio, dal coinvolgimento nell’azione».[18] I non-detti del nostro pensiero, «che comportano la massima conseguenza in relazione a cosa e come pensiamo»,[19] non solo sono indeducibili, ma ci caratterizzano fino in fondo e Aristotele stesso l’ha affermato con chiarezza. Proprio per questo motivo, bisogna accettare al di là di ogni dubbio la verità dell’esistenza – soprattutto di fronte alle incongruenze che il pensiero, di per sé, provoca e in cui continua a incagliarsi. Ad ogni modo, se quello appena emerso è uno dei pilastri fondamentali dell’opera, ci sembra però che essa conti su un altro fondamentale passaggio, che, se non compiuto, avrebbe portato all’invalidazione di tutto il percorso. Anche a fronte della rimodulazione di questa nozione, in cui, a torto o a ragione, si è intravista una forte impronta heideggeriana, la maggiore difficoltà di porre l’etica come filosofia prima non la si ha tanto con il confrontarsi con la filosofia prima propriamente detta, ma con la messa in campo della politica: non solo Aristotele chiama la politica, e non già l’etica, la scienza architettonica,[20] che ordina tutte le altre scienze all’interno della città, ma in vari passi lo Stagirita afferma che l’etica è addirittura una parte della politica, senza che però venga meglio precisata la qualità della subordinazione.[21] In questo senso, la vera e propria scienza è esclusivamente quella politica, che è chiamata a decidere delle altre scienze utili, o meno, alla comunità in cui si trova. Non ci può essere un’etica che prescinda da quest’ultima, o che addirittura la scavalchi. Per far fronte a questa situazione,[22] che contiene un’eccessiva forzatura nel finire con il sostenere l’architettonicità della stessa etica,[23] si cerca di leggere la politica come etica, o meglio, l’etica come politica, mantenendo però un decisivo scarto tra le due che, se ne sancisce lo stretto collegamento, ne precisa anche la rispettiva autonomia. Con un esempio che isoliamo dal testo,[24] che ha l’indubbio pregio di non nascondere le stesse criticità che, agli occhi di noi moderni, si presentano nella lettura dei classici, la filosofia pratica di Aristotele si presenta in questo modo: se si afferma che tutti gli uomini – e, quindi, il cittadino, lo schiavo e la donna – sono, nei precetti aristotelici, “animali politici”, è pur vero che la realizzazione di sé in quanto uomo è appannaggio del solo cittadino, che è quello che interpreta la politica e il politico nel senso stretto del termine. Da una parte, infatti, c’è un’accezione ampia di politicità che abbraccia tutti gli uomini come “animali politici” senza distinzioni di alcun tipo – motivo per cui anche lo schiavo e la donna possono esserlo –, ma, dall’altra, vi è la politicità escludente del tempo, che fa sì che solo dei determinati uomini siano liberi e che, quindi, possano realizzarsi in quanto tali. Sviluppando il quadro, ci sembra che prenda sempre più piede questa convinzione: la politica, nella sua storicità, risulta la stessa cristallizzazione di un ordinamento ben determinato, che può produrre delle divisioni che l’originario stare insieme degli uomini, che è uno stare insieme fondamentalmente etico, non dovrebbe avere. Questo è il caso che lo schiavo e la donna testimoniano, essendo che, al di là del loro essere “animali politici”, essi mai e poi mai potranno vivere pienamente alla maniera del cittadino, cosa che invece dovrebbero aver modo di fare e che il loro essere uomini permette. Stando così le cose, è per questo motivo che l’etica, e non già la politica, può essere definita filosofia prima: la politica risulta essere troppo istituzionalizza ed escludente per essere la vera e propria filosofia prima, titolo che invece l’etica, per il suo carattere aperto, può arrogarsi. La politica rischia di produrre delle contorsioni che il terreno dell’etica non ha, con la conseguenza che, se si ponesse la sua primarietà, che pure è uno sconfinamento che l’etica come politica prevede, le differenze e le gerarchie che porta con sé sarebbero giustificate a un livello superiore, che, però, non deve esserci proprio per mantenere l’apertura dello spazio etico originario, di contro alla chiusura e all’istituzionalizzazione di un certo tipo di politico. L’etica è più aperta ed è da ciò che deriva la sua superiorità. Ad ogni modo, quello di cui abbiamo parlato finora è solo un aspetto de L’architettura dell’umano, che si è accentuato a scapito di moltissimi altri, come, ad esempio, quello del legame tra giustizia e amicizia, oggetto del capitolo finale del libro, che, se riassume tutto il percorso compiuto in quelli precedenti, ne affronta contestualmente i suoi possibili sviluppi. Anche se gran parte della Rehabilitierung der praktischen Philosophie[25]ha sottovalutato questa questione (oltre a Gadamer e Arendt, ma anche a Heidegger stesso, si sta pensando a J. Ritter, M. Riedel, G. Bien, ecc.),[26] si è fatto qui doppiamente bene a sottolineare l’importanza della giustizia nell’ordine del discorso aristotelico: non solo nella giustizia si riassume ogni virtù, ma non c’è una virtù più perfetta e completa. Infatti, se tutte le virtù dei singoli si possono analizzare nella loro autonomia, le stesse hanno bisogno della giustizia per avere la loro vera e propria giustificazione e, quindi, per porsi nella loro diretta derivazione dalla città, che altrimenti non si spiegherebbe. Infatti, la giustizia finisce per riassumere ogni virtù, che è specifica, nell’ottica dell’utile della comunità, motivo per cui essere virtuosi in un singolo aspetto significa far del bene alla città e, quindi, essere giusti. La giustizia non è una semplice virtù, ma è quella virtù che permette la ricomprensione di tutte le altre.[27] In una frase ormai celebre, Aristotele dice:
«Si ritiene che la giustizia sia la virtù più eccellente, e non sono ammirate tanto quanto lei la stella della sera o la stella del mattino (καὶ διὰ τοῦτο πολλάκις κρατίστη τῶν ρετῶν εἶναι δοκεῖ ἡ δικαιοσύνη καὶ οὔθ› ἕσπερος οὔθ› ἑῷος οὕτω θαυμαστός), citando il proverbio, noi diciamo che “Nella giustizia si riassume ogni virtù” (ἐν δὲ δικαιοσύνῃ συλλήβδην πᾶσ› αρετὴ ἔνι)».[28]
Tuttavia, questo è solo un aspetto della giustizia, dato che nella sua accezione più ampia essa finisce per essere il vero legame tra le Etiche e la Politica: la giustizia non è un qualcosa di esterno che si impone sulla comunità soffocandola, ma serve a quest’ultima per esserci e per mantenersi stabile senza soccombere su se stessa per tutti i dissidi interni che, inevitabilmente, si vengono a creare. Essa riguarda l’ordinamento e, soprattutto, il buon governo della comunità, che, per funzionare, ha bisogno che tra i suoi membri ci sia giustizia nelle varie attività svolte, così come nel sovrintendere alle stesse.[29] In questo senso, con un’impostazione che, nel gioco delle parti, ci sembra apertamente antischmittiana, non è assolutamente un caso che, sulla scorta di Etica Nicomachea VIII, si sottolinei la sua identità e la sua differenza con l’amicizia, con un sottotesto per cui, quando si è amici, non c’è nemmeno bisogno della prima:[30] se la giustizia e l’amicizia sono fondamentali per il legame sociale, «l’amicizia eccede di gran lunga la giustizia intesa nel suo senso più ristretto, come legalità».[31] L’amicizia, infatti, è una sorta di rispecchiarsi diretto dell’eticità originaria – senza quelle prescrizioni che la giustizia prevede. In questo senso, «in qualità di sistema giuridico-normativo che garantisce stabilità e protegge la polis dal dissenso o dalla discordia, la giustizia è la condizione necessaria per l’istituzione, la sussistenza e la continuazione della polis».[32] La giustizia, in tutte le sue innumerevoli sfaccettature, è uno dei cardini su cui la città si regge. Tuttavia, l’amicizia è forse più etica perché, nella sua essenza, non prevede quelle imposizioni che la giustizia inevitabilmente porta con sé. Nel rapporto appena istauratosi, che riproduce su un diverso piano la coincidenza, nello scarto, che c’è tra l’apertura dell’etica e la chiusura della politica, si ha la potenzialità nascosta dell’amicizia: essa è «il più alto conseguimento concepibile della politica, o perfino […] il superamento di sé da parte della politica».[33] Proprio perché attua immediatamente ciò su cui ogni città deve pronunciarsi, «l’amicizia segnerebbe il superamento della politica come mero programma gestionale, volto a istituire norme che mantengano la coesistenza entro parametri di tollerabilità».[34] Infatti, con l’amicizia si armonizzerebbe lo stare insieme degli uomini, con il superamento delle imperfezioni che qualsiasi legge, anche solo per il fatto di essere tale, ha al suo interno. Ora, tutt’altro che un’analisi a sé stante, è proprio qui che si inserisce un’ulteriore tesi del libro, che non solo non è ricavabile dal pensiero aristotelico, ma per la sua ispirazione «genuinamente moderna»[35] non vuole nemmeno esserlo. Mettendo in gioco I. Kant, che, paradossalmente, riavvicina quest’opera proprio a quegli autori da cui finora si è distaccata,[36] ci si rivolge al legame tra trascendenza e immanenza, ma anche tra il singolo e la comunità – fino al profilarsi della stessa possibilità del cosmopolitismo. Si è sempre dei singoli uomini che devono vivere in un preciso raggruppamento, ma, alla fine, si sente anche l’esigenza di scavalcare questo confine per poterlo ripensare – ed è qui che viene introdotto il tema del cosmopolitismo. Esso è ciò che, di fatto, potrebbe risolvere tutti i particolarismi su cui ogni comunità ristretta si fonda, permettendo poi a ogni singolo uomo di realizzarsi in quanto tale. Si tratta di pensare a quest’orizzonte come a un’universalizzazione della stessa umanità, che è permesso anche dal carattere trascendente che appartiene all’essere umano, che non è mai definito nella sua datità. È proprio rispetto allo slancio di questa conclusione, di cui si è riassunto solo un aspetto, che si riconferma sotto un’altra luce quel dubbio ermeneutico espresso in precedenza: al di là di qualsiasi classico venga analizzato, l’etica come filosofia prima si delinea come un impegno che si prende per tenere aperto, ora, lo stesso presente, con tutte le variazioni e le costanti che lo stare insieme degli uomini prevede nell’accavallarsi delle epoche. Non c’è solo il tentativo di assumere la primarietà dell’etica come chiave di volta di un determinato autore, ma di attivarla e poterla sempre riattivare per i tempi che incombono. Lo stare insieme degli uomini si muove sulle stesse costanti cangianti – in un nesso ineludibile tra ciò che si è e ciò che, tendendovi, si può diventare, senza che questa tensione venga mai meno.
Giulia Angelini
Note
[1] Si segnala fin da ora che una riproposizione di questa tesi, che ha un carattere sicuramente più divulgativo di quello che qui è stato adottato, si può trovare in C. Baracchi, Di nuovo su Aristotele e l’etica come filosofia prima, in L. Grecchi (ed.), Teoria e prassi in Aristotele, Petite Plaisance, Pistoia 2017, pp. 191-219.
[2] C. Baracchi, L’architettura dell’umano: Aristotele e l’etica come filosofia prima, Vita e Pensiero, Milano 2014, p. 7.
[4] Per quanto riguarda la composizione dell’opera, essa è così formata: dopo l’introduzione, in cui si fissano il problema principale e i termini in cui verrà discusso, si ha un primo capitolo – intitolato Preludio. Prima dell’etica: Metafisica A e Analitici posteriori B.19 –, e un secondo sui primi sette libri dell’Etica Nicomachea. Quasi a metà si trova un interludio su Metafisica IV, la cui prima sezione è chiamata Aporiai della scienza “dell’essere in quanto essere”. Come conclusione, l’ultima sezione è dedicata ai tre restanti libri dell’Etica Nicomachea, che completano l’analisi condotta sui precedenti.
[5] Per quanto riguarda il rischio intravisto nelle posizioni di H. G. Gadamer e di H. Arendt, si rimanda al classico F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in L. Iseppi-C. Natali-C. Pacchiani-F. Volpi, Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C. Pacchiani, Aldo Francisci Editore, Abano Terme (Padova) 1980, pp. 11-97.
[6] Come viene subito affermato dall’Autrice, «il punto non è rispondere al tradizionale privilegio della sapienza teoretica dando invece preminenza alla pratica o “riabilitando” il pensiero pratico. Piuttosto, lo scopo qui è comprendere questi registri dell’attività umana nella loro irriducibilità, certo, eppure allo stesso tempo nella loro inseparabilità. Più precisamente, l’indagine dovrebbe far luce sul modo in cui le considerazioni pratiche segnano in modo decisivo l’inizio o la condizione della contemplazione come pure di ogni investigazione discorsiva» (C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., p. 7).
[7] Per quanto riguarda una delle più note formulazioni aristoteliche, che si sviluppa nel contrasto con la fisica, cfr. Aristotele, Metaph., VI 1, 1026a 27-32 (trad. it. Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2010): «Orbene, se non esistesse un’altra sostanza oltre quelle che costituiscono la natura, la fisica sarebbe la scienza prima (ἡ φυσικὴ ἂν εἴη πρώτη ἐπιστήμη); se, invece, esiste una sostanza immobile, la scienza di questa sarà anteriore (alle altre scienze) e sarà filosofia prima, e in questo modo, ossia in quanto è prima, essa sarà universale (εἰ δ’ ἔστι τις οὐσία κίνητος, αὕτη προτέρα καὶ φιλοσοφία πρώτη, καὶ καθόλου οὕτως ὅτι πρώτη), e ad essa spetterà il compito di studiare l’essere in quanto essere, cioè che cosa l’essere sia e quali attributi, in quanto essere, gli appartengono».
[8] Per quanto riguarda le occorrenze di ἦθος in Omero, Esiodo ed Erodoto, così come il rispettivo commento delle stesse, cfr. C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., pp. 61-63.
[9] Anche se nella maggior parte dei casi ἦθος è utilizzato da Platone nel suo significato classico, vi è però un’importante occorrenza, preziosa proprio per la sua rarità, dove sembra ritornare il senso antico, essendo che qui ἦθος va a indicare il giardino e il luogo che, per Platone stesso, è predisposto alla crescita e alla fioritura delle piante e anche degli stessi discorsi umani: cfr. Plat., Phaedr., 276e-277a.
[10] Con un’osservazione molto generale, nel testo, o meglio, nelle note ai vari capitoli sono numerosi i riferimenti alla filosofia araba e, in particolare, alla sintesi che ne fa al-Farabi, sia perché «l’indagine (invero la scienza) dell’etica ricerca i principi intellettuali inerenti all’essere umano, e quegli atti e stati del carattere con cui l’essere umano si adopera al perfezionamento di sé» (C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., p. 18, n. 1), ma anche per il motivo che nella sua teorizzazione si capisce l’importanza della vita in comune e dell’associazione politica «per realizzare quella perfezione per quanto possibile» (ivi, p. 234, n. 21).
[11] Al di là delle diverse finalità, si può leggere che: «Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ἦθος, il termine “etica” vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria. Ma questo pensiero non è nemmeno etica per il fatto che prima è ontologia. L’ontologia, infatti, pensa sempre e solo l’ente (ὄν) nel suo essere. Ma finché non è pensata la verità dell’essere, ogni ontologia resta senza il suo fondamento» (M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, p. 93).
[12] Per quanto riguarda la prima pubblicazione di questa conferenza, che poi è uscita anche come volume a parte, cfr. E. Lévinas, Éthique comme philosophie première, in Id., Justifications de l’éthique, Editions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1984.
[13] Oltre a E. Husserl, non è assolutamente un caso che uno dei riferimenti di E. Lévinas sia di nuovo Heidegger.
[14] Nel saggio successivo a cui si è già fatto riferimento, l’Autrice ha scritto: «Già traspare dalle considerazioni esposte finora che non ritengo insostenibile l’ipotesi interpretativa che segue da Lévinas. Che, anzi, credo colga un aspetto cruciale del pensiero aristotelico e, più ampiamente, greco […]. Ma vale sottolineare che non si tratta tanto, né semplicemente, di ipotizzare un cripto-aristotelismo in Lévinas, né di proiettare il discorso levinasiano su Aristotele. Si tratterebbe piuttosto di rigenerare il senso stesso di queste diciture (“aristotelico”, “levinasiano”), di ridare energia a contenuti e confronti che faticano a emergere e a precisarsi perché eccentrici rispetto a paradigmi abituali, istituzionali, specialistici» (C. Baracchi, Di nuovo su Aristotele e l’etica come filosofia prima, cit., p. 198).
[15] All’osservazione precedente, si aggiunge subito che: «La posta in gioco è, come sempre, l’interpretazione. Ed è salutare che l’interpretazione rimanga materia contestata, che i testi vengano ascoltati nella loro inesauribilità, per quello che può essere ancora impensato in essi, e dunque per quello che resta a venire» (ibidem).
[16] C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., p. 83.
[17] Per questa particolare questione, cfr. ivi, pp. 24-25: «Sia il desiderio di “aver visto” che l’inclinazione a “prendere in sé” puntano alla passione e alla passività che variamente segnano la condizione umana. Gli esseri umani avranno, in quanto tali, sempre già subìto l’impulso, la spinta desiderante a perseguire la visione, e con essa la consapevolezza. A sua volta, l’impulso a perseguire la visione sarà stato suscitato in virtù di un ulteriore patimento dell’anima, ancora più elementare: il patire che ha luogo come apprensione percettiva, in essa e tramite di essa. Visto alla luce della fondamentale traccia di passività, l’essere umano emerge già nella sua apertura e ricettività di fronte a ciò che non è umano. Nella sua ospitalità nei confronti di ciò che esso non è, nel suo essere abitato (se non invaso) da ciò che lo eccede, l’essere umano si manifesta dal principio come una strana struttura ontologica che si definisce attraverso l’alterità, una struttura la cui definizione comporta l’alterità da sé, e, quindi, una certa infinità, una certa mancanza di determinazione e delimitazione».
[21] Per le occorrenze più significative, cfr. Aristot., EN, I 2, 1094b 11-12; Rhet. I 2, 1356a 29-32 e MM, I 1, 1181a 23-26.
[22] Per questa questione, cfr. C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., pp. 66-68.
[23] Anche se non c’è nessun riscontro in Aristotele, spesso e volentieri l’etica viene chiamata scienza architettonica e questo viene fatto sulla base del legame istaurato tra l’etica stessa e la politica. Tuttavia, proprio perché, nell’opera che stiamo analizzando, se ne sancisce anche lo scarto, non si capisce come l’etica possa comunque avvalersi di tale attributo. Tra l’altro, è proprio quello che non fa essere la politica la filosofia prima, che rende la politica la scienza architettonica – e viceversa. Per questo motivo, non si spiega perché questo titolo venga ancora riferito all’etica. Sempre seguendo il filo del libro, se non lo fosse, l’etica non perderebbe certo il suo primato come filosofia tra le filosofie, anche perché quest’ultimo non è assolutamente legato alla questione dell’architettonicità, che è un problema diverso.
[24] Cfr. C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., pp. 137-139.
[25] Per questa questione, che costituisce lo sfondo della maggior parte degli interpreti qui utilizzati, si rimanda ancora a F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, cit. pp. 11-97.
[26] Di questo, ad esempio, ha avuto modo di lamentarsi G. Zanetti, che, dovendo trattare della categoria della giustizia nella filosofia aristotelica, ha constatato come la Rehabilitierung non l’avesse, purtroppo, mai tematizzata. Come fa sempre notare Zanetti, questo non è tanto un problema di per sé, ma risulta strano che questo nodo non venga affrontato in un fenomeno come quello della Rehabilitierung che ha avuto proprio al centro delle sue speculazioni e nei suoi interessi il tentativo di riattualizzare il versante pratico della filosofia aristotelica, che ha proprio nella giustizia uno dei suoi perni e leganti. Per la seguente osservazione, cfr. G. Zanetti, La nozione di giustizia in Aristotele: Un percorso interpretativo, il Mulino, Bologna 1993, pp. 9-11.
[27] A tal proposito, nell’opera si è costantemente fatto leva sulla specificazione del πρὸς ἕτερον, che è una delle qualifiche più importanti della giustizia.
[28] Aristot., EN, V 3, 1129b 27-30 (trad. it. Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 2001).
[29] Come scrive l’Autrice, rimarcando il carattere che la giustizia svolge nella comunità nelle varie forme che Aristotele stesso ci presenta: «Sebbene regoli la vita in comune al di là delle inclinazioni particolari, delle predilezioni e dei legami di affetto (venendo così a trovarsi in una certa tensione rispetto all’amicizia), la giustizia non si manifesta solo come indifferente imposizione normativa. Essa presuppone piuttosto un certo tenore dei rapporti umani, e in effetti risulta essa stessa da un certo clima socio-relazionale, per così dire. La giustizia come legalità, che si dice ordini la polis, mantenendola coesa e garantendone la continuità unitaria, richiede per la propria operazione che alcune caratteristiche numerico-strutturali siano date, che la polis sia una. La giustizia come esercizio della normatività presuppone una giustizia intesa in senso più primordiale: la giustizia che costitutivamente rende solidi e solidali i legami in seno alla comunità, e in questo modo tutela l’integrità dell’organismo politico» (C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., p. 155).
[30] Per l’importanza, riportiamo in maniera estesa il passo aristotelico: «A quanto pare l’amicizia tiene unite le città (ἔοικε δὲ καὶ τὰς πόλεις συνέχειν ἡ φιλία), e i legislatori si preoccupano di essa più che della giustizia, infatti si ritiene che la concordia sia qualcosa di simile all’amicizia e i legislatori perseguono soprattutto questa, mentre tengono fuori dalla città soprattutto l’inimicizia, come una nemica (ἡ γὰρ ὁμόνοια ὅμοιόν τι τῇ φιλίᾳ ἔοικεν εἶναι, ταύτης δὲ μάλιστ’ ἐφίενται καὶ τὴν στάσιν ἔχθραν οὖσαν μάλιστα ἐξελαύνουσιν). Tra gli amici non c’è nessun bisogno di giustizia, mentre i giusti hanno ancora bisogno dell’amicizia, e il culmine della giustizia è considerato un sentimento vicino all’amicizia (καὶ φίλων μὲν ὄντων οὐδὲν δεῖ δικαιοσύνης, δίκαιοι δ’ὄντες προσδέονται φιλίας, καὶ τῶν δικαίων τὸ μάλιστα φιλικὸν εἶναι δοκεῖ)» (Aristot., EN, VIII 1, 1155a 22-29).
[31] C. Baracchi, L’architettura dell’umano, cit., p. 295.
[36] Anche se per motivi totalmente differenti da quelli di quest’opera, gran parte dei membri della Rehabilitierung è partita da Kant per impostare le coordinate della sua indagine, con la conseguenza che molti testi aristotelici sono stati letti con questo retroterra. La Rehabilitierung non ha mai utilizzato Aristotele in maniera neutrale, ma, appunto, è sempre stata interessata alla delineazione di una nuova razionalità e al superamento delle dicotomie della contemporaneità, vedendo in Kant stesso un riferimento imprescindibile per la sua comprensione.
Il saggio di Giulia Angelini è già stato pubblicato in «Syzetesis», Rivista di filosofia, VI/1 – Nuova serie – (2019), pp. 215-228.
«[…] nessuna delle opere umane è dotata di tanta stabilità quanto le attività secondo virtù; esse, infatti, sono ritenute essere ancora più salde delle scienze; tra queste, poi, le più stimabili sono anche le più stabili, dal momento che coloro che vivono beatamente trascorrono in esse, in massima parte e in modo massimamente continuo, la loro esistenza; questa infatti, a quanto pare, è la ragione per cui non vengono più dimenticate. Quindi le caratteristiche che cerchiamo apparterranno alla persona felice ed egli sarà tale per tutta la vita; infatti sempre, o soprattutto, compirà le azioni secondo virtù e si dedicherà alla contemplazione, e sopporterà in modo estremamente dignitoso le vicende della sorte, in ogni occasione, con eleganza, come si confà a chi è davvero virtuoso, saldo e senza macchia. Siccome, poi, le vicende della sorte sono molte, e differenti tra loro per grandezza e piccolezza, le piccole fortune, come pure le piccole sfortune, è evidente che non hanno alcun peso all’interno dell’esistenza, mentre quelle grandi, e che si verificano in gran quantità, se positive, rendono la vita più beata (infatti, prese per sé, adornano l’esistenza e noi le utilizziamo in modo bello e moralmente retto) mentre, se si verifica il contrario, riducono e oscurano la beatitudine; infatti comportano dolori e impediscono molte attività. Ciononostante, anche in questi casi, risplende il bello morale, se uno è capace di sopportare molte e grandi sventure con animo sereno, non perché è insensibile ma perché è nobile e fiero. E se, come abbiamo detto, le attività costituiscono l’elemento più importante dell’esistenza, nessun individuo beato potrà mai diventare misero; infatti non compirà mai azioni odiose e riprovevoli. Noi infatti riteniamo che l’individuo veramente virtuoso e saggio sarà in grado di sopportare tutti gli eventi della sorte in modo decoroso, saprà sempre compiere le azioni più belle tra quelle che gli si presentano […]. Se le cose stanno così, chi è felice non diventerà mai misero […]. E neppure sarà un individuo incostante, né sarà volubile […]».
Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I, 10, 1100 b 15-35 – 1101 a 1-10, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 469-471.
«[…] ciò che è giusto e ciò che è equo sono la stessa cosa e, pur costituendo entrambe realtà eccellenti, l’equità è superiore. […] ogni legge è universale, ma su certe questioni non è possibile pronunciarsi correttamente in forma universale. […] Perciò l’equità è giusta, ed è migliore di un certo tipo di giusto, anche se non del giusto in assoluto, ma del giusto che è difettoso per il fatto di essere stato formulato in generale. E la natura dell’equità è proprio quella di correggere la legge laddove essa, a causa della sua formulazione universale, è difettosa. […] Quindi, che cos’è l’equità, che è giusta e che è migliore di una certa specie di giusto, è chiaro. Da ciò risulta anche chiaro chi è l’individuo equo. Infatti chi sceglie e mette in pratica tali cose, e nell’applicazione della legge non è inflessibile nel senso peggiore del termine, ma è duttile, pur essendo sostenuto dalla legge, è un individuo equo, e il suo stato abituale è l’equità, la quale costituisce un certo tipo di giustizia e non una disposizione diversa dal giusto».
Aristotele, Etica Nicomachea, libro V, 1137 b 10-35 – 1138 a 1-3. in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 676-679.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero.
Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.
L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).
«La felicità è la vita stessa quando viene vissuta al meglio: si è felici perché si vive bene, perché la vita ha acquisito un peso, una direzione, un orientamento, perché la vita si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice e anonima sussistenza, trasformandosi in una vita dotata di senso, in una individuale e particolarissima consistenza. […] felicità intesa come pienezza, come attingimento pieno del telos. Se il telos è interno all’energeia che lo produce, se il fine è contenuto nell’azione ed è indistinguibile da essa, allora è impossibile pensare ad una felicità che risieda escludivamente nel bersagio e non anche lungo i passi che conducono al suo raggiungimento […] lungo tutto il tragitto della vita». Arianna Fermani, Vita felice umana, 2006.
«[…] il problema della vita nel suo complesso a qualcuno di noi può sembrare meno impellente di quanto non sembrasse a Socrate. Epure la sua domanda ci incalza ancora oggi e reclama l’impegno a riflettere sulla nostra vita nel suo complesso, e cioè nella totalità dei suoi aspetti e in tutta la sua profondità». Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, 1985.
Nel concetto della filosofia come domanda totale, problematicità pura, e perciò metafisica, risiede la classicità del pensiero antico. […] Se la filosofia rinuncia al suo carattere di domanda totale rinuncia al […] senso antico della filosofia, intesa come acquisizione perenne dello spirito, come vero κτῆμα εἰς ἀεί [possesso pe sempre]». Enrico Berti, Quale senso ha oggi studiare la filosofia antica, 1965.
«ὡς ἡδὺ καὶ μακάριον τὸ κτῆμα» [quanto soave e felice è il possesso della filosofia]. Platone, Repubblica, 496 c.
«[…] il movimento nel quale è contenuto anche il fine è anche azione. […] Uno che vive bene, ad esempio, ad un tempo ha anche ben vissuto, ed uno che è felice, ad un tempo è stato anche felice». Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048 b.
Note sul testo Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del biosteleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come euprattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Note sull’autore
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: L’etica di Aristotele. Il mondo della vita umana, Brescia, Morcelliana, 2012; By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, a cura di E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2016; Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Brescia, Morcelliana, 2019. Ha tradotto integralmente le Etiche di Aristotele (Aristotele, Le tre Etiche, Milano, Bompiani, 2008; Giunti, 2018) e ha collaborato all’edizione dell’Organon (a cura di M. Migliori, Milano, Bompiani, 2016).
Indice Prefazione di Salvatore Natoli
Introduzione
Parte prima. Semantica della felicità
Capitolo primo. La felicità come domanda originaria 1.1. Domanda “di” felicità
1.2. Domande “sulla” felicità 1.2.1. Felicità: una questione terminologica 1.2.2. Felicità e forme di vita
Capitolo secondo. Felicità e dolore 2.1. L’esperienza del dolore 2.1.1. Il dolore come accadimento 2.1.2. Le forme del dolore 2.2. Cicatrizzazione del dolore e cura di sé 2.2.1. Approcci al dolore 2.2.2. Cura del dolore e cura di sé 2.2.3. L’assunzione del dolore 2.3. Concludendo
Capitolo terzo. Felicità e piacere 3.1. L’esperienza del piacere 3.2. Fenomenologia del piacere 3.2.1. Il piacere nell’orizzonte della corporeità 3.2.2. Dinamiche piacevoli e dolorose
3.2.3. Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena
3.2.4. Anima e corpo di fronte al piacere 3.2.5. Piaceri e criteri di scelta 3.3. Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto. Felicità e realizzazione di sé 4.1. Profili della virtù: tentativi di un recupero 4.1.1. Virtù come eccellenza 4.1.2. Virtù come forza 4.1.3. Virtù come disposizione 4.1.4. Virtù come giusto mezzo 4.2. La virtù come architettonica della felicità 4.2.1. Vita felice e accordata: la virtù come musica 4.2.2. Vita felice e ordinata: la virtù come misura 4.2.3. La virtù come arte del vivere bene
Capitolo quinto. Felicità e beni esteriori 5.1. Primi approcci al problema 5.2. Felicità e fortuna 5.2.1. Lampi di felicità, colpi di fortuna 5.2.2. Fortuna e virtù 5.2.3. Felicità e fortuna: osservazioni conclusive 5.3. Felicità e amministrazione dei beni 5.3.1. Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Parte seconda. Prassi di felicità
Capitolo primo. Felicità e valorizzazione delle proprie risorse 1.1. Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti 1.1.1. Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis 1.1.2. Felicità al singolare, felicità al plurale 1.2. Eudaimonia come ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon 1.2.1. Felicità come consapevolezza 1.2.2. Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità 1.3. Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo. Felicità come conquista di pienezza 2.1. Felicità tra esperienze di pienezza e pienezza di vita 2.1.1. Tentativi di articolazione della nozione di pienezza
2.2. Per una pienezza nell’orizzonte dell’energeia 2.3. La difficoltà di far spuntare le ali: la felicità come conquista 2.3.1. Felicità pienamente consapevole e pienamente umana 2.4. Riflessioni conclusive
Conclusioni 1. Per concludere 2. Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia 1. Dizionari e lessici 2. Testi antichi 3. Testi moderni e contemporanei 4. Letteratura critica e studi generali
«Le ferite non scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è, contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere», A. Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele.
Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani
Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote
«Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma, al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).
Questo contributo mira a mettere a fuoco il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio
Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia, oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.
Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Editore: eum, 2006 [prima edizione]
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
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Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012
Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano. La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti Premessa I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni II “Essere” e “dirsi in molti modi” Introduzione I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele II. Autenticità delle tre Etiche III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù Capitolo primo: Giustizia e giustizie Capitolo secondo: La fierezza Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca” Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni Bibliografia Indice dei nomi
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Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.
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Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
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Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
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J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
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ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.
La felicità della vita non consiste nel possesso di grandi sostanze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima.
Si può chiamare felice soltanto quell’anima che sia educata, e soltanto l’uomo educato, non colui che è ornato di splendidi beni esterni, ma che personalmente non vale nulla.
Bisogna considerare uomini meschini coloro per i quali l’acquisizione di qualche ricchezza è più importante del loro carattere.
La saggezza filosofica è il risultato del proprio più serio impegno e della ricerca di quelle cose che la filosofia ci pone in grado di cercare; perciò dobbiamo dedicarci alla ricerca filosofica.
Dobbiamo diventare filosofi se vogliamo attendere rettamente agli affari dello stato e ordinare utilmente la nostra vita privata.
Il filosofo soltanto vive mirando costantemente alla natura ed al divino. Come il buon capitano di una nave, egli ormeggia la sua vita a ciò che è eterno e costante, là getta l’ancora e vive padrone di sé.
Coloro che si dedicano alla filosofia non ne hanno dagli uomini una ricompensa che li possa spronare a tali sforzi.
La saggezza filosofica è una parte dell’eccellenza dell’anima e della vita felice.
La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi.
La gioia che deriva dal pensiero costituisce la più eminente delle gioie della vita.
Per gli uomini non c’è nulla di divino e di beato all’infuori di quell’unica cosa che sola merita i nostri sforzi, cioè quanto esiste in noi di intelligenza e capacità della mente.
lI tuo desiderio di sapere e i tuoi sforzi, mio caro Temisone, per conseguire l’eccellenza e una vita felice, mi sono noti per sentito dire, ed io sono convinto [B1] che nessuno è in condizioni più propizie delle tue per accostarsi alla filosofia, dal momento che tu sei ricco, sicché puoi prodigare del denaro a questo scopo, e la tua posizione è eminente. Ora la maggioranza delle persone pensa che una vita felice si fondi sul possesso dei beni esterni, e non del tutto senza ragione, perché vediamo che ad alcuni tutto procede per il meglio, e il successo arride, sebbene siano stolti. Ma certamente tu hai anche sperimentato dei casi in cui accade il contrario. Sia, quindi, dalla tua conoscenza del passato, che per la tua personale esperienza ti verranno in mente molti casi in cui l’orgogliosa grandezza è caduta in rovina; tu hai conosciuto degli uomini che riponevano troppa fiducia nella ricchezza, nella felicità e nel potere, e che quindi dovettero provare una repentina caduta nell’infelicità. Quanto maggiore fu il loro successo, tanto più grave sentono l’insuccesso e l’infelicità, e si vergognano perché la loro attuale posizion [B2] impedisce loro di prendere l’iniziativa di compiere ciò che considerano il loro dovere. E poiché vediamo le disgrazie di queste persone, dovremmo evitare una sorte simile, e tenere presente che la felicità della vita non consiste nel possesso di grandi sostanze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima. Anche per quanto riguarda il corpo, nessuno dirà che è favorito perché è avvolto in abiti magnifici, ma piuttosto si dice così di quello che è dotato di buona salute e si trova in buona condizione, dovessero pure mancargli tutti quegli ornamenti esterni. Allo stesso modo, si può chiamare felice soltanto quell’anima che sia educata, e soltanto l’uomo educato, non colui che è ornato di splendidi beni esterni, ma che personalmente non vale nulla. Così è anche per un cavallo; può portare un morso d’oro e finimenti preziosi, ma se per il resto non vale nulla, non lo apprezziamo affatto, e diamo invece la preferenza a quello che possiede delle buone qualità. [B3] Inoltre accade che, quando gente dappoco giunge in possesso di grandi sostanze, spesso apprezzi queste proprietà perfino più dei beni dell’anima, che è la cosa fra tutte più vergognosa. Se un signore apparisse da meno del suo servo, sarebbe oggetto di derisione; allo stesso modo, bisogna considerare uomini meschini coloro per i quali l’acquisizione di qualche ricchezza è più importante del loro carattere.
[B4] Così è in realtà; poiché, come dice il proverbio, sazietà genera insolenza; e quando la mancanza di educazione si accompagna al potere, ne nasce la megalomania. A coloro la cui anima è mal disposta, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono utili, ma invece quanto più abbondantemente essi posseggono queste cose, tanto più profondamente e per modi più numerosi questo possesso li danneggia, se non è accompagnato da saggezza. Il detto “al bambino non dare un coltello” significa “non dare potere alle persone da poco”. [B5] La saggezza filosofica per contro – su questo punto tutti concorderanno – è il risultato del proprio più serio impegno e della ricerca di quelle cose che la filosofia ci pone in grado di cercare; perciò dobbiamo dedicarci alla ricerca filosofica senza cercar scampo in pretesti. [B6] L’espressione “filosofare” significa da un lato chiedersi se bisogna dedicarsi alla filosofia, e dall’altro dedicarsi alla filosofia. [B7] Poiché ci rivolgiamo a uomini, e non a quegli esseri la cui vita è divina, allora dobbiamo aggiungere a quelle anche altre esortazioni che siano di utilità pratica nella vita sociale. Si dirà dunque così. [B8] Ciò che abbiamo a disposizione per vivere, cioè il corpo, e ciò che serve al corpo, costituisce per noi come una sorta di strumento. L’uso di questi strumenti è esposto a pericolo: per le persone che non li sanno usare nel modo retto, essi producono per lo più l’effetto opposto. Noi dobbiamo dunque aspirare a quella forma di sapere che ci possa aiutare ad adoperare nel modo migliore tutti questi strumenti, dobbiamo conseguirla ed usarla in modo appropriato. Dobbiamo diventare filosofi, se vogliamo attendere rettamente agli affari dello stato e ordinare utilmente la nostra vita privata.
[B9] Esistono, ora diversi tipi di conoscenza; quella conoscenza che produce i beni della vita, e quella che se ne serve. Un’altra partizione è questa: ci sono tipi di conoscenza subordinati, ed altri che impongono l’ordine. Questi ultimi occupano il posto più elevato, e presso di loro si trova il bene in senso autentico. Se ora soltanto quella sorta di sapere che è capace di esprimere un giudizio esatto, che usa la ragione ed ha di mira il bene nella sua totalità, vale a dire la filosofia, sa servirsi di tutti gli altri tipi di conoscenza e dirigerli in accordo ai princìpi della natura, questo è un ulteriore argomento che indica che dobbiamo dedicarci alla filosofia. Infatti soltanto la filosofia include in sè l’esattezza di giudizio e l’infallibile saggezza, la quale ha la capacità di determinare con i suoi ordini che cosa bisogna fare e che cosa no. […]
[B40] Tutti gli uomini decidono a favore di ciò che ha maggiore consonanza con il loro carattere, così per esempio il giusto sceglie la vita giusta, il valoroso la vita valorosa, l’uomo temperato la vita secondo la temperanza. Similmente è chiaro che l’uomo dotato di capacità intellettuali si deciderà per la filosofia, perchè il filosofare è compito di quella capacità. Da questo giudizio, espresso con la maggiore sicurezza possibile, risulta chiaramente che la capacità dell’intelletto è il più alto di tutti i beni. [B41] Con ancora maggiore chiarezza la verità di questa tesi risulta dai seguenti argomenti. La riflessione e la conoscenza sono desiderabili dagli uomini di per sè, in quanto senza di esse non è possibile vivere una vita degna di un uomo. Ma esse sono anche utili per la vita pratica, perché nulla ci appare buono, se non è portato a compimento con la riflessione e mediante un’attività avveduta. Ora, la vita felice, può consistere nella gioia e nel benessere, o nel possesso dell’eccellenza morale, o nell’esercizio della capacità intellettuale: in ognuno di questi casi, comunque, bisogna dedicarsi alla filosofia, perché un giudizio chiaro su queste cose si può conseguire soltanto mediante la filosofia.
[B42] Chi cerca da ogni forma di scienza un risultato diverso da essa ed esige che ogni scienza debba essere utile, ignora completamente quale fondamentale differenza ci sia tra ciò che è buono e ciò che è necessario; è, infatti, una differenza straordinariamente grande. Perché quelle cose che noi desideriamo in vista di qualcos’altro, e senza le quali non è possibile vivere, le chiamiamo necessarie e concause; ciò , invece, che desideriamo per se stesso, anche se non ci procura null’altro, lo chiamiamo bene in senso proprio. Infatti una cosa non è desiderabile sempre in vista dell’altra, e così avanti all’infinito: da qualche parte ci deve essere un punto fermo. E’, di fatto, completamente ridicolo cercare ovunque un’utilità che sia diversa dalla cosa stessa, e chiedersi: “quale vantaggio ne abbiamo?”, e “a cosa può servire?“. Chi parla così, in nessun modo, come s’è detto, risulta simile a colui che conosce il bello ed il bene e sa distinguere tra causa e concausa. […]
[B44] Non dobbiamo perciò preoccuparci se la filosofia non si dimostra utile o vantaggiosa perché non affermiamo innanzi tutto che sia vantaggiosa, ma piuttosto che è buona, e che la si debba scegliere non per qualcos’altro, ma per se stessa. […] [B45] Così ora abbiamo preso le mosse dal finalismo della natura per un’esortazione alla filosofia, convinti che il dedicarsi alla filosofia costituisca un bene ed è nobile cosa già per sé, anche se non ne dovesse derivare alcuna utilità per la vita pratica.
[B46] Che però la speculazione filosofica sia realmente utile anche per la vita pratica di ogni giorno si comprenderà facilmente se lo si esemplifica con le arti e le professioni. […] Allo stesso modo anche il politico deve avere certi termini di riferimento, che desume dalla natura stessa e dalla verità, con l’aiuto dei quali potrà giudicare che cosa è giusto, che cosa è bello e che cosa è conveniente. Infatti, come gli strumenti del tipo di cui abbiamo parlato sono i migliori nelle attività professionali, così anche il miglior termine di riferimento è quello che in massimo grado si conformi alla natura. […] [B50] Infatti il filosofo soltanto vive mirando costantemente alla natura ed al divino. Come il buon capitano di una nave, egli ormeggia la sua vita a ciò che è eterno e costante, là getta l’ancora e vive padrone di sé. [B51] Ora questa conoscenza è di per sè teoretica, però ci offre la possibilità di regolare su di essa ogni nostra azione. Come cioè, la vista non crea né produce nulla, perché la sua funzione è soltanto quella di distinguere a rendere evidenti ognuna delle cose visibili, però ci pone in grado di fare certe cose ricorrendo ad essa, e ci offre l’aiuto più importante per l’azione (infatti saremmo pressoché completamente incapaci di muoverci, se non la possedessimo), così anche risulta chiaro che mediante questo sapere noi compiamo innumerevoli azioni, sebbene esso sia teoretico; con il suo aiuto decidiamo se una certa cosa deve essere ricercata, un’altra evitata; ma soprattutto, mediante questa conoscenza, conseguiamo tutto ciò che è buono.
[B52] Chi si propone di verificare ciò che abbiamo detto, deve avere ben chiaro che tutto ciò che per l’uomo è buono e utile alla vita sta nell’esercizio e nell’azione, e non nella sola conoscenza del bene. […] ciò che importa più di tutto, non viviamo una vita più bella e più nobile perché conosciamo qualcosa dell’essere, ma piuttosto perché il nostro agire è buono; questa infatti è veramente la vita felice. Ne consegue che anche la filosofia, se è davvero utile come noi asseriamo, o è un esercizio di azioni rette, oppure è giovevole per tali azioni. [B53] Quindi non bisogna fuggire la filosofia, se davvero la filosofia è, come io credo, acquisizione e applicazione della sapienza, e si annovera la sapienza tra i beni più alti. Se per amore del denaro si viaggia fino alle colonne d’Eracle e ci si espone a molti rischi, perché non si dovrebbe affrontare qualche fatica e qualche spesa per la filosofia? E’ tipico dell’uomo comune, in realtà, di desiderare la vita e non la vita buona, di seguire le opinioni del volgo invece di aspettarsi che sia esso a dare ascolto alla sua opinione, di essere avido di denaro, ma di non occuparsi per nulla delle cose nobili. (B54) L’utilità e l’importanza dell’oggetto mi sembrano ormai sufficientemente provate. Ci si dovrebbe poi convincere che è molto più facile conseguire la conoscenza filosofica che qualsiasi altro bene in base a quanto segue. [B55] Coloro che si dedicano alla filosofia non ne hanno dagli uomini una ricompensa che li possa spronare a tali sforzi. Essi possono aver dedicato molta fatica per conseguire altre capacità, e tuttavia in tempo minore compiono rapidi progressi verso la scienza esatta; questo mi sembra indicare con quale facilità si può conseguire la conoscenza filosofica. [B56] Un ulteriore argomento è che tutti gli uomini si sentono a loro agio nella filosofia, e volentieri si dedicano ad essa, mentre lasciano ogni altro interesse. Anche questo costituisce una prova non piccola che è un piacere occuparsi di essa, giacché, se fosse semplicemente una fatica, nessuno si tormenterebbe a lungo con essa. Inoltre l’attività filosofica ha un altro grande vantaggio rispetto a tutte le altre; non si ha cioè bisogno di un particolare strumento, né di una sede particolare per esercitarla, ma in qualunque punto della terra uno si ponga all’opera con il pensiero, dovunque gli sarà allo stesso modo possibile afferrare la verità, come se essa fosse presente. [B57] Così dunque è provato che è possibile dedicarsi alla filosofia, che essa è il maggiore di tutti i beni, e che è facile conseguirla. Per tutti questi motivi, vale la pena di coltivarla con passione.
[B58] Affrontiamo ora il problema del compito specifico della conoscenza filosofica, e per quale motivo a essa tutti aspiriamo. Vorrei giungere a una risposta procedendo da un diverso punto di partenza. […] [B68] Sicché nessuna delle virtù particolari, di cui si parla comunemente, costituisce l’opera della saggezza filosofica; infatti essa è superiore a tutte queste. Il fine conseguito è sempre superiore alla conoscenza mediante la quale lo si consegue. Per altro non ogni eccellenza dell’anima è un risultato della saggezza filosofica, e neppure la vita felice. Se infatti la saggezza filosofica fosse produttiva, allora produrrebbe qualcosa di diverso da se stessa, così come l’architettura fabbrica le case, pur senza essere una parte della casa; la saggezza filosofica, invece, è una parte dell’eccellenza dell’anima e della vita felice. Infatti io affermo che la vita felice, o ne deriva, oppure è essa stessa.
[B69] In base a questo argomento, la saggezza filosofica quindi non può essere una scienza produttiva; il fine deve stare al di sopra della via che conduce ad esso; ma non esiste nulla di più alto della vita filosofica, se non forse una delle cose che abbiamo menzionato prima, cioè eccellenza e vita felice: ma la loro opera non è niente altro che la vita filosofica. Bisogna quindi tener per fermo che la conoscenza di cui parliamo è teoretica, dal momento che il suo fine non può essere una produzione. [B70] La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono dunque il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi, paragonabile, io credo alla vista, che certamente si apprezzerebbe anche nel caso in cui grazie ad essa non si ottenesse altro risultato se non appunto e soltanto il vedere. […] [B89] Parimenti chiamiamo vita felice quella vita felice la cui presenza dà felicità alle persone che la vivono; non parliamo di vita felice nel caso di persone che nel vivere hanno gioia da qualche cosa, ma nel caso di coloro per i quali la vita stessa costituisce una gioia, e che appunto provano gioia nel vivere. (B90) In base a queste considerazioni, diciamo che chi è desto vive in maggior grado di chi dorme, chi è intelligente in maggior grado di chi manca di intelligenza, e riteniamo che la gioia nella vita dipenda dall’uso che si fa dell’anima; l’attività dell’anima costituisce realmente la vita. (B91) Si può essere attivi con l’anima in diversi modi, però l’attività più importante di tutte è comunque quella di pensare quanto più intensamente si può. E’ un punto acquisito, quindi, che la gioia che deriva dal pensiero costituisca l’unica, o la più eminente delle gioie della vita. Vivere felicemente e provare la vera gioia è dunque una prerogativa esclusiva o preminente del filosofo. Infatti l’esercizio dei nostri pensieri più veri, che traggono alimento dai più alti princìpi dell’essere e custodiscono continuamente e con saldezza la compiutezza che a essi è accordata, è proprio quella che procura in massimo grado la gioia della vita fra tutte le altre attività. [B92] Proprio per gustare le gioie vere e buone gli uomini intelligenti devono dunque dedicarsi alla filosofia.
[B102] Anche la paura della morte che è propria dell’uomo comune attesta il desiderio di conoscenza dell’anima. Essa infatti fugge ciò che le è ignoto, l’oscurità ed il mistero, e per sua natura cerca ciò che è visibile e conoscibile. […]
[B104] Si potrebbe capire questa stessa cosa anche in base a ciò che diremo ora, se soltanto si considerasse la vita umana spassionatamente. Allora si scoprirebbe che tutte quelle cose che appaiono importanti agli uomini, altro non sono che un gioco delle vane ombre. Perciò a ragione si dice anche a ragione che l’uomo è un nulla, e che nulla delle cose umane ha stabilità. Infatti la forza, la grandezza e la bellezza sono cose risibili, e prive di ogni valore; esse ci appaiono tali soltanto perché non siamo in grado di vedere nulla rettamente.
[B105] […] Onore e reputazione, le cose a cui solitamente l’uomo aspira più che ad ogni altra, sono piene di indescrivibile stoltezza; infatti chi ha visto qualcuna delle realtà eterne giudica assurdo faticare per tali scopi. Che cosa c’è tra le cose umane che viva a lungo o abbia una durata consistente? Soltanto per la nostra debolezza e per la brevità della nostra vita, a mio giudizio, anche queste ci appaiono grandi. […] [B108] Per gli uomini non c’è dunque nulla di divino e di beato, all’infuori di quell’unica cosa che sola merita i nostri sforzi, cioè quanto esiste in noi di intelligenza e capacità della mente. Di tutto ciò che è nostro, questo solo sembra incorruttibile.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia, a cura di Enrico Berti, UTET, Torino 2008.
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