«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«La scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia; sarebbe perciò assurdo che l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente giudicare da una sola delle sue ideazioni […]».
Edmund Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaft und die transzendentale Phanomenologie (1934-1937, pubblicata nel 1954); tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1972, § 31, p. 147.
«La scienza naturale è una forma culturale che rientra soltanto nel mondo culturale di quell’umanità che l’ha elaborata e solo nel suo ambito esiste la possibilità di comprenderla. Rendersene conto apre la via alla possibilità di tematizzare l’unità universale di un’umanità […] che può essere tematizzata solo nell’unità della sua vita temporale, nell’unità di quella temporalità che costituisce la forma stessa di questa vita, e non per esempio nell’unità della temporalità della natura scientificamente esatta che, in virtù del suo stesso senso, costituisce il tempo identico di una natura assolutamente identica, al di là di tutte le nature di tutte le particolari umanità, e non il tempo relativo che inerisce per essenza a tutte le singole umanità che vivono e sono nella comunità, con tutti i loro passati e nel loro aperto futuro, che è sempre il futuro dell’uomo attuale, e che ha appunto un senso in quanto futuro delia sua umanità»
Edmund Husserl,La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Seconda dissertazione: “L’atteggiamento delle scienze naturali e l’atteggiamento delle scienze dello spirito. Naturalismo, dualismo e psicologia psicofisica”, il Saggiatore, Milano 1972, p. 325.
«Ma “noi stessi”, noi filosofi del presente […] possiamo tornare tranquillamente al lavoro che abbiamo interrotto, ai nostri “problemi filosofici”, alla costruzione della nostra propria filosofia? Possiamo seriamente farlo dopo che abbiamo scoperto con certezza che la nostra filosofia, come quelle di tutti gli altri filosofi presenti e passati, non avrà che l’effimera esistenza di una giornata nell’ambito della flora filosofica che sempre di nuovo si rinnova e che poi torna a sfiorire? Proprio in questo sta la nostra miseria, la miseria di noi tutti, noi che non siamo filosofi letterati, noi che, educati dai veri filosofi del nostro grande passato, viviamo della verità e che solo così siamo e vogliamo essere nella nostra propria verità. Ma come filosofi del presente siamo caduti in una penosa “contraddizione esistenziale”. Noi non possiamo rinunciare alla fede nella possibilità della filosofia come compito. Noi “sappiamo” di essere “chiamati” a questo compito in quanto vogliamo essere seriamente filosofi. Eppure, come tener fermo a questa fede, che ha un senso soltanto in relazione con un fine uno, unico e a tutti comune, cioè con “la” filosofia? Noi siamo riusciti a comprendere, anche se soltanto nelle linee più generali, come il filosofare umano e i suoi risultati non abbia affatto il significato puramente privato o comunque limitato di uno scopo culturale. Noi siamo dunque – e come potremmo dimenticarlo –, nel “nostro” filosofare, “funzionari dell’umanità”. La nostra responsabilità personale per il nostro vero essere filosofi, nella nostra vocazione interiore personale, include anche la responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un “telos”, e che “se può essere” realizzato, lo può soltanto attraverso la filosofia».
Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, in L’obiettivismo moderno. Riflessioni storico-critiche sul pensiero europeo dall’età di Galileo, premessa, introd. e a cura di Guido D. Neri, trad. it. Enrico Filippini, Il Saggiatore, Milano 1976, 7. “Il proposito di queste ricerche”, pp. 27-28.
Se si esamina in retrospettiva il contributo di Herbert Marcuse alla cultura marxista degli anni Sessanta e Settata, non c’è dubbio che l’estetica abbia rappresentato per lui un campo di riflessione privilegiato. In un libro come Eros e civiltà (1955), lavorando sugli elementi di antropologia che in Marx si legano all’analisi dell’opera d’arte, Marcuse giunge a riconoscere nel comportamento estetico il modello di un’esperienza non alienata, il luogo in cui viene a ricomporsi la tipica scissione con la quale la società borghese divide anima e mondo, ideologia e base sociale. In questa prospettiva, Marcuse rivaluta la nozione romantica del «gioco» e ne fa il principio di una cultura non più repressiva di cui l’arte diventa una pietra angolare, dato che in essa si incontrano e si conciliano le istanze della libertà creativa e la necessità dei condizionamenti materiali. L’arte, tuttavia, è e resta in Marcuse soltanto l’esempio di una prassi più generale che mira al rovesciamento degli ordini sociali esistenti e che egli definisce «dimensione estetica». Non è una scelta priva di ambiguità, posto che in assenza di una reale trasformazione della società il radicalismo di Marcuse rischia di confondersi con una strategia di estetizzazione dell’esperienza, ennesima variante di un atteggiamento divenuto oggi dominante. Ma è una scelta portata avanti con coerenza, al punto da diventare la preoccupazione più marcata dei suoi ultimi anni, come testimonia il saggio La dimensione estetica, apparso nel 1978, cioè un anno prima della sua morte. A riportare la nostra attenzione sulla connessione tra estetica e politica in Marcuse è una raccolta di testi curata da Paolo Perticari per l’editore Guerini e Associati. Si intitola, appunto, La dimensione estetica. Un‘educazione politica tra rivolta e trascendenza (pp. 296) e contiene, oltre al saggio che dà il titolo al volume, altri quattro contributi: «Industrializzazione e capitalismo nell’opera di Max Weber» (1968), «Tolleranza repressiva» (1969), «Saggio sulla liberazione» (1969), «Controrivoluzione e rivolta» (1972). In aggiunta a questo materiale, il volume propone un’intervista raccolta da Frederick Olafson nel1977 e finora inedita in italiano, nella quale Marcuse affronta per la prima volta in chiave autobiografica il proprio rapporto con Martin Heidegger, di cui fu allievo a Friburgo negli anni successivi alla pubblicazione di Essere e tempo. La posizione di Marcuse è esemplare di una ricezione di Heidegger condizionata dalla sua adesione al nazismo – una terribile «sorpresa», egli dice, per tutti coloro che l’avevano conosciuto e frequentato – e dunque sostanzialmente disinteressata ai suoi lavori del dopoguerra. Ne diamo qui un’anticipazione abbreviata rispetto a quella del volume e leggermente riformulata per quel che riguarda le domande di Olafson.
Stefano Catucci
F. Olafson Professor Marcuse, pochi sanno che Heidegger ha avuto un ruolo significativo nel suo percorso intellettuale. Che contatti ha avuto con lui.
H. Marcuse Lessi Essere e tempo quando uscì, nel 1927. Dopo averlo letto decisi di tornare a Friburgo dove avevo conseguito la mia laurea in filosofia nel 1922 – con l’intenzione di lavorare con Heidegger. Rimasi a Friburgo fino al 1932. Quando lasciai la Gennania – prima che Hitler salisse al potere – l’amicizia finì. Rividi Heidegger dopo la seconda guerra mondiale, cioè intorno al 1946/47, nella Foresta Nera, dove possedeva una casetta. Ci fu un colloquio dai toni poco amichevoli. Fino a quel momento c’era stato uno scambio epistolare, ma poi tutti i contatti tra noi si interruppero. [ … ] Durante il primo periodo, diciamo dal 1928 al 1932, da parte mia c’era solo una piccola riserva e relativamente poche critiche su Essere e tempo. Vorrei dire piuttosto da parte nostra, perché in quel periodo Heidegger non costituiva un problema personale, bensì un problema per la maggior parte della generazione che studiò in Germania dopo la prima guerra mondiale. Noi vedevamo in Heidegger ciò che all’inizio avevamo visto in Husserl: un nuovo inizio, il primo tentativo realistico di dare basi concrete alla filosofia, una filosofia che si interessasse della condizione umana e non solo di idee e principi astratti. Condividevo questo con una parte piuttosto ampia della mia generazione ed è superfluo dire che la delusione per questa filosofia arrivò presto, penso negli anni Trenta. E abbiamo fatto un riesame completo di Heidegger dopo che si è saputo del suo rapporto con il nazismo.
F. Olafson Lei si è occupato delle implicazioni sociali e politiche della filosofia di Heidegger?
H. Marcuse Me ne sono interessato molto. Nello stesso periodo scrivevo articoli sulle analisi marxiste per l’organo teoretico della socialdemocrazia tedesca, «Die Gesellschaft». All’inizio pensavo che potesse esserci una combinazione di esistenzialismo e marxismo sulla base di un’analisi concreta dell’esistenza umana e del suo mondo. Ma presto mi accorsi che la concretezza di Heidegger era in gran parte un’apparenza, che la sua filosofia era in realtà molto astratta e si allontanava dalla realtà, o meglio la evitava, proprio come le filosofie che allora dominavano le università tedesche: il neo-kantismo, il neo-idealismo, ma anche il positivismo. [ … ]
F. Olafson Ma le analisi fenomenologiche e ontologiche di Essere e tempo possono essere utilizzate in chiave sociale?
H. Marcuse Nel mio primo articolo (Contributi ad una fenomenologia del materialismo storico, 1928) ho cercato di combinare esistenzialismo e marxismo. L’essere e il nulla di Sartre è un tentativo ancora più ampio in tal senso, ma quando Sartre si rivolse al marxismo rovesciò i suoi scritti esistenzialisti e alla fine se ne staccò, proprio perché non riusciva a conciliare Marx con Heidegger. Come lo stesso Heidegger, Sartre sembrava usare l’esistenzialismo per isolarsi dalla realtà sociale, invece di penetrarla. […] Concetti heideggeriani come «Esserci», «Essere», «Ente», «Esistenza», sono cattive astrazioni, nel senso che non sono strumenti concettuali per comprendere la concretezza vera sotto l’apparenza […]. Quella di «Esserci», per esempio, è per Heidegger una categoria sociologicamente e persino biologicamente «neutra» (non esistono differenze sessuali!). La «domanda sull’essere» rimane sempre senza risposta, e viene sempre ripetuta, mentre il fenomeno reale della paura si trasforma nel concetto di un’angoscia acuta, ma indefinita. […] L’ultimo Husserl cercò di arricchire la sua filosofia con una maggiore «concretezza storica». L’esistenzialismo di Heidegger, invece, resta in realtà un idealismo trascendentale.
F. Olafson Dobbiamo concluderne che i teorici sociali dovrebbero abbandonare ogni tentazione esistenzialista e limitarsi a una descrizione funzionale della natura umana, accettando di fatto i presupposti del comportamentismo? Sia Heidegger che Sartre hanno cercato di opporsi a questo tipo di filosofia.
H. Marcuse No, non significa questo. Dipende solo da cosa s’intende per ontologia. Se un’ontologia trascura la storia, ne ignora il peso, la butta via e ritorna a un concetto trascendentale statico, allora io credo che non possa fornire alcuna base concettuale per una teoria sociale e politica.
F. Olafson In Essere e tempo Heidegger definisce «storicità» la struttura peculiare dell’esistenza umana, il rapporto costitutivo dell’individuo con il proprio passato, la sua dipendenza da una tradizione, il suo modo di raccoglierla e di cambiarla. Non sono elementi di concretezza?
H. Marcuse Anche questa è una falsa concretezza, perché in realtà nessuna delle condizioni culturali, materiali e sociali che fanno realmente la storia trovano posto in Essere e tempo. La storia come tale viene neutralizzata […] e compressa in una categoria esistenziale totalmente immune dal materiale specifico e dalle condizioni mentali che sono il fondamento della storia. Ci può essere un’eccezione: l’interesse degli ultimi scritti di Heidegger per la tecnica e la tecnologia, il momento in cui la domanda «sull’essere» si ritira davanti alla domanda «sulla tecnica». Ammetto di non aver capito molte cose di questi scritti. […] Ma ho l’impressione che i concetti heideggeriani di tecnologia e di tecnica siano gli ultimi di una lunga serie di neutralizzazioni: vengono trattati come «forze in sé», lontane dai contesti di potere con i quali sono in relazione e che determinano il loro utilizzo e la loro funzione. Per questo vengono oggettivati come destino. […]
F. Olafson Ma quando paria di storicità, Heidegger non ha forse in mente qualcos’altro? Per una teoria sociale, non è importante mostrare in che modo l’individuo si rispecchia in una determinata società? Non è importante caratterizzare la situazione non solo al livello di forze e tendenze relativamente impersonali, ma sul piano delle loro ripercussioni individuali?
H. Marcuse È una necessità prioritaria, ma è proprio qui che le circostanze concrete della storia entrano in gioco. Come si pone l’individuo e come si vede nel capitalismo – in un determinato livello di sviluppo del capitalismo –, nel socialismo, come membro di questa o quella classe e così via? Questa dimensione manca completamente. Sono sicuro che l’Esserci si costruisce nella storicità, ma Heidegger si concentra sull’individuo purificato dalle umiliazioni nascoste e palesi della sua classe, del suo lavoro, della sua realizzazione, purificato dai danni che sono stati causati dalla società e che gli individui subiscono attraverso la società. In Heidegger non c’è alcuna traccia di quella ribellione quotidiana che aspira alla libertà. Il «Si» anonimo, il «chiunque», non è un sostituto della realtà sociale.
F. Olafson Inquietudine e angoscia sono per Heidegger categorie esistenziali dell’individuo perché poste in relazione con la dimensione dell’essere per la morte. Lei ritiene che l’enfasi con la quale egli sottolinea questo aspetto dipenda dalla sua impronta teologica?
H. Marcuse Sì, è possibile che abbia qualcosa a che fare con questo, ma è molto importante che lei ricordi il significato del concetto di morte nella sua filosofia. Credo che sia un buon inizio per una breve discussione sulla possibilità che il nazismo heideggeriano sia visibile nella sua filosofia prima del 1933. Io posso dirle, per esperienza personale, che né nelle sue conferenze, né nei suoi seminari, né a livello personale Heidegger ha mai dato alcun segno di simpatia per il nazionalsocialismo. In realtà non si discusse mai di politica e, fino alla fine, egli elogiò entrambi gli ebrei ai quali aveva dedicato i suoi libri: Edmund Husserl e Max Scheler. La sua aperta adesione al nazionalsocialismo fu perciò una sorpresa per noi. Da quel momento ci venne spontanea una domanda: ci siamo lasciati sfuggire qualcosa […] in Essere e tempo e negli altri scritti? E abbiamo fatto un’osservazione interessante, ex-post. Se si esamina la sua nozione di «essere nel mondo», si trova una visione dell’esistenza umana estremamente repressiva e opprimente. Rileggiamo le categorie […] con cui descrive l’Esserci: chiacchiera oziosa, rarità, ambiguità, caduta, gettatezza, angoscia, proiezione verso la morte, paura, sgomento, noia e così via. Quest’immagine gioca con le paure e le frustrazioni degli uomini e delle donne nelle società repressive; è materiale umano per la personalità autoritaria. Ed è sintomatico che, in Essere e tempo, manchi l’amore, citato solo in nota e in un contesto teologico, insieme con la fede, il peccato e il rimorso. Ora, ex-post, vedo nella sua filosofia un fortissimo deprezzamento della vita, una svalutazione della gioia e del godimento, della sensualità e dell’appagamento. Forse a quel tempo ne avevamo sentore, ma ne siamo stati consapevoli solo dopo aver saputo della sua adesione al nazismo.
F. Olafson Lei crede che Heidegger fosse politicamente ingenuo? Secondo lei comprendeva le implicazioni della sua collaborazione con il partito nazista, quando era rettore dell’università di Friburgo?
H. Marcuse Su questo posso dare informazioni sicure, perché ne ho discusso con lui dopo la guerra. Per preparare un po’ la mia risposta, mi permetta di leggere […] una delle sue affermazioni. Cito testualmente: «Non lasciare che le idee o i principi governino l’essere. Oggi e in futuro il Führer stesso è la realtà e la sua legge». Queste furono le parole di Heidegger nel novembre del 1933. Parliamo di un uomo che si dichiarava erede della grande tradizione filosofica occidentale, di Kant, di Hegel e di altri celebri filosofi. Tutto questo viene ora screditato. Norme, principi e idee sono obsoleti quando il Führer stabilisce la legge e definisce la realtà – la realtà tedesca! Ho parlato di questo con lui alcune volte ed egli ha ammesso che si era trattato di un «errore». Si era fatto un’idea sbagliata di Hitler e del nazionalsocialismo. […] Un filosofo può commettere molti sbagli, ma qui non si tratta di un errore […], bensì di un tradimento della filosofia e di tutto quello che essa rappresenta. […] Heidegger riconobbe che c’era stato uno sbaglio, ma poi abbandonò li il problema. Rifiutava (e io credo che in qualche modo lo trovasse divertente) qualsiasi tentativo di negarlo o di spiegarlo in un’altra versione o non so cosa, perché non ha mai voluto appartenere alla stessa categoria dei suoi colleghi che, come egli diceva, all’improvviso non ricordavano più cosa avevano insegnato sotto il nazismo, o che l’avevano persino appoggiato, salvo poi dichiarare che non erano mai stati nazisti. Per quanto ne so, nel 1935 o 1936 Heidegger rinunciò a quell’aperta identificazione con il nazismo […], ma per me questo non basta a revocare il suo discorso del 1933. È irrilevante quando e perché egli volse le spalle al nazismo […]. Rilevante è che egli pronunciò quella frase, che idolatrò Hitler ed esortò i suoi studenti a fare lo stesso. Se «la realtà e la legge tedesca d’oggi e del futuro» è solo il Führer stesso, allora rimane un’unica filosofia, una filosofia della rinuncia, della resa. […]
F. Olafson Lei pensa che Heidegger abbia un concetto di società e, se sì, come sì esprime?
H. Marcuse Non sarebbe corretto se rispondessi a questa domanda in modo diretto, perché io praticamente dal 1947 non so più nulla di lui. Fino ad allora, se aveva un concetto di società, non era esattamente un concetto degno di un filosofo. Se poi sia stato diversamente, le cose che potrei dire ora non avrebbero alcun valore. Dopo tutte le critiche che gli ho rivolto […] vorrei sottolineare che ho anche imparato qualcosa dal primo Heidegger: ho imparato a pensare […]. E soprattutto ho imparato a leggere un testo e a maneggiarlo seriamente, anche allontanandomi dalle interpretazioni tradizionali. Penso che i maggiori contributi filosofici di Heidegger siano le interpretazioni della filosofia greca. Egli sapeva davvero analizzare una frase di Aristotele o dei pre-socratici, e non solo in una o due ore, ma in mezzo semestre. Noi eravamo totalmente catturati ed entusiasti. […] Oggi, nell’epoca dello strutturalismo, bisognerebbe insistere sul fatto che ogni testo ha una sua propria autorità e che vi si può accedere solo forzandolo.
Testi pubblicati su il manifesto, 12-06-2002, p. 12.
L’aporeticità dell’eristica e la risolvibilità della dialettica
Abstract: Nel Menone, attraverso il vivace canovaccio narrativo, si evidenzia il dinamismo del pensare platonico, che può essere interpretato, senza intendere effettuare forzature ermeneutiche, bensì semplicemente valorizzando i risultati della Wirkungsgeschichte, come un dinamismo di riconduzione a essenza (analogo a quello della fenomenologia husserliana) che dischiude in sé l’esigenza di un’ulteriorità dialogica, all’interno della concettualizzazione dej temi principali del dialogo, o un dinamismo di pensiero speculativo (a modo della fenomenologia hegeliana), invitando al pensiero l’intera comunità ermeneutica delle opere platoniche, e infine sottendendo la centralità della teoria sui principi supremi o protologia in Platone, che informa di sé la teoria delle idee. Il presente articolo intende mostrare non solo l’autoevidenza di una esigenza di dialogicità all’interno della suddetta ermeneutica ma evidenziare un confronto attualizzante, con sguardo filosofico della storia, tra Platone, Husserl ed Hegel. Quest’ultimo, in particolare, con il suo considerare l’essenza, nella dottrina dell’essenza della sua fenomenologia come fondamento dell’esistenza (das Wesen als Grund der Existenz ), si rivela come un autentico interprete del pensiero platonico essenziale.
Wie gründer sich Gott? Gott gründt sich ohne Grund und mißt sich ohne Maß: Bist du ein Geist mit ihm, Mensch, so verstehst du das. Angelus Silesius, Cherubinischer Wandersmann
Lo scopo di questo articolo non è dimostrativo in senso razional-strumentale, bensì strettamente filosofico. L’articolo vuole essere un invito al pensiero, e, utilizzando come guida la posizione di Erich Przywara sulla “filosofia dell’essenza”, intende mostrare che sia possibile un confronto attualizzante (ossia oltre che storico-filosofico, filosofico-storico[2]), tra Platone, Husserl ed Hegel, osservando in tali autori una profondità speculativa, reciprocamente analoga. Presentando inoltre esso stesso un dinamismo speculativo, che rischia di apparire criptico ai più, il presente scritto ha l’intento di rendere autoevidente l’esigenza, all’interno della concettualizzazione[3] di alcuni temi del Menone platonico, di un’ulteriorità del pensare stesso, che produca a sua volta pensiero, e di una dialogicità intrinseca ai concetti stessi utilizzati da Platone, non tanto dunque per evidenziare “diaireticamente” il ventaglio delle possibilità esegetiche dell’opera platonica ma per rendere autenticamente scientifica, cioè pensante, la sua ermeneutica. Ma che significa pensare se non, platonicamente, ma anche husserlianamente ed hegelianamente, (e questa è la posizione specifica della scrivente posta all’attenzione del lettore) spingere i concetti attraverso il dinamismo essenzializzante, fino a preludere a un cominciamento (noetico), che abbia a che fare con una libera asserzione iniziale, analoga a un assenso di fede? Dire (affermare, assentire) infatti che la speculazione sia dialogica in sé, e tale lo sia il pensiero, al di là dei vincoli della catalogazione dossografica, non significa, a mio parere, porsi apoditticamente e dogmaticanente nel circuito della comunità pensante, ma invitare i componenti attuali di questa stessa comunità, alla profondità della meditazione e della riflessione, oltre ogni chiusura. L’intento è pensare insieme al Platone del Menone, soffermandosi sui suoi stessi contenuti essenziali e con la medesima apertura problematica e il medesimo stupore caratterizzanti il Platone stesso del suo tempo. Considerando altrimenti l’approccio al testo, la deriva manualistica sarebbe sempre una possibilità, e ciò, all’interno della ricerca, non gioverebbe certamente all’ermeneutica platonica. Dire teoreticismo manualistico è a mio parere dire anche irresolutività sofistica in senso platonico. L’aporeticità del dire eristico appare infatti ben evidente nelle argomentazioni del personaggio platonico intitolato a Menone, l’intellettuale ateniese dalla parlantina sicura e da una forte determinazione d’intenti, che incontriamo nell’omonimo dialogo. Essa deriva dal fatto che egli non possiede i requisiti adeguati a soddisfare i criteri di un’“intellezione[4]” che sia capace di “iniziare” un processo autenticamente ideativo (o di essenzializzazione). Essenzializzazione è termine che desumiamo dalla fenomenologia husserliana e dalla speculazione hegeliana, orientati dalla trattazione dell’analogia entis di Erich Przywara[5]. Per Husserl, la riduzione fenomenologica, che conduce alla coscienza intenzionale è “essenzialmente” (eideticamente) un processo di riconduzione a essenza dell’esperienza fenomenologica[6], che è, husserlianamente, fondativa dell’esperienza conoscitiva e dunque epistemologia. Coscienza intenzionale è coscienza dell’apertura della coscienza stessa a una intenzionalità primigenia, ovvero a una interna ed esterna dialogicità tra un mondo soggettivo e un mondo oggettivo. Una essenzializzazione è a mio parere, e significativamente, ben rintracciabile nel canovaccio delle opere platoniche, desumibile dal rimando continuo a un’esigenza fondazionale (protologica[7]) di tutto il processo di pensiero che si sviluppa attraverso i dialoghi. Ciò che non si conosce autenticamente è ciò di cui non si intuisce l’essenziale, e ciò di cui non si intuisce l’essenziale (v. intellezione) non si può indagare, perché l’approccio meramente teoretico o logico in senso astratto produce contraddizioni insanabili (eristikos logos). Chi già conosce in senso meramente gnoseologico (della conoscenza come nozione) non è necessario che aggiunga nozione a nozione, perché il criterio sarebbe qui meramente quantitativo, chi invece non conosce, come tabula rasa o mero recipiente da riempire, non saprebbe che cosa varrebbe la pena conoscere, non possedendo l’attitudine valutante di un sapere noetico. Il discorso eristico non ha rilevanza filosofica, poiché si trova al di fuori dell’essenza come causa formale a cui accedere con l’aitias logismos[8]. Esso è aporetico, teoreticistico, ossia inutile. La stessa sofistica lo disvela. L’aporia appare come un’esigenza del discorso, intesa in senso hegeliano, di senso ulteriore (essenzializzazione nella fenomenologia hegeliana[9]). Riconoscere tale problematicità inerente all’aporia significa trovarsi già nello “speculativo”. La mancanza di significatività del dire aporetico allude all’esigenza di un’apertura a livello originario. Mancando tale apertura, vengono a mancare le basi della pensabilità. Ma dove si rinviene, e se così si può dire, agostinianamente, tale apertura originaria, dove essa si deve ricercare? Platone è chiarissimo. La via deve essere anamnestica. Lo schiavo di Menone accede nell’immediato a una “orthe doxa”, guidato sapientemente da Socrate partendo dal suo interiore ricordare. Ma dapprima va detto in mythologein ciò che si riferisce a un’ulteriorità che supera ogni concezione riduttivistica del sapere. Che l’anima sia immortale e che abbia a che fare con quell’ulteriorità, i poeti e i sacerdoti, familiari ai racconti sugli dèi, già da sempre lo dicono. Ma occorre giungervi filosoficamente, ovvero dialetticamente (per aitias logismos). Se rimanesse solo nell’alveo di una divina mania non sarebbe condivisibile, comunicabile[10]. Occorre invece farne oggetto di pensiero, di quella ratio-relatio che converte integralmente (speculativamente) a una vita virtuosa. Il racconto di un’anima immortale diviene racconto di una intuizione originaria. L’anima ha già visto tutte le cose di questo mondo e dell’Ade, nascendo più volte (pollakis gegonouia), come occorre rinascere a quell’origine di divina significanza, per poter riformulare, ripensare l’ordine delle cose e del mondo, a partire da una iniziale “syngeneia”, congenericità e consentaneità[11]. Syngeneia è quell’affinità della natura con se stessa e con l’anima dell’uomo (a motivo dell’iniziale conoscenza), affinché essa stessa congenere e consentanea intuisca l’imprescindibilità di un pensiero che debba riguardare la totalità delle cose e dell’uomo (che in termini hegeliani può tradursi come quel vero che sia l’intero, ovvero che lo riguardi dall’inizio e come risultato). La syngeneia, di chiara ascendenza pitagorica, risulta essere “uno dei filosofemi più importanti dell’epistemolgià platonica”[12]. Esso rappresenta l’inizio del pensiero speculativo che non può che riferirsi a una dimensione protologica, all’interno di una disposizione volta a una costante unificazione delle cose del mondo e del divenire[13]. Cosicché non ci riferiamo a una collocazione provvisoria dell’oggetto del pensiero ma a una integrazione vitale, come vera e propria “condizione” dell’anima. Essa esprime l’ordine speculativo, come scaturigine dell’esperienza pensante a partire dall’intuizione iniziale di una integralità e totalità mai pienamente e compiutamente esauribili razionalmente. L’anima immortale rappresenta ovvero l’anima pensante, sintonizzata con la condizione del pensare, cioè l’archè anypotheton[14]. La mitologica dimenticanza di ciò che si è visto nella pianura della verità, di quel cominciamento che vada continuamente riconquistato e riattualizzato per essere riaffermato, rappresenta l’esigenza del pensare come riposizionamento rispetto all’epoca del soggetto pensante[15]. La syngeneia è intuizione ontologica, poiché è affermazione dell’affinità di tutti i generi nel pensiero sull’essere, ovvero la massima realtà di tutto l’esistente. Il mito qui, in tanto è utilizzato, in quanto riconduce a un cambiamento di ordine morale. Il mito è ancora una volta ordinato alla prassi. Lo schiavo è guidato da Socrate a effettuare un’inferenza geometrica laddove il risultato del problema postogli non sia commensurabile numericamente. Il giovane, non consono al sapere epistemico, privo dell’attitudine integrale ad acquisirlo, ma dotato di quella sincerità immediata che lo porta a intraprendere il sentiero contingente dell‘orthe doxa, della quale si sente naturalmente congenere, viene guidato a quell’intuizione geometrica capace di superare e contenere, come una specie di unità eraclitea, l’uno in se stesso distinto, l’aporeticità e il riduttivismo di una matematica considerata secondo un aspetto meramente gnoseologico e privata di quell’essenziale ampliamento che solo una visione noetica in senso protologico avrebbe potuto fornire. Che cos’è quell’irrazionalità all’interno della misurazione che se considerata fine a se stessa può decettivamente essere scambiata per irrapportabilità? È “realmente” irrapportabile il valore numerico della diagonale con il lato del quadrato? Ovvero cosa ci suggerisce l’ontologia platonica a riguardo? È come se Platone volesse indicarci un’estensione significativa all’interno della misurazione. La misurazione esige una forma significativa che rimandi al di là della misurazione stessa, ovvero rimandi a una figurazione geometrica al fine di un’attuazione pragmatica di essa. Quale pensiero poté inquietare i pitagorici quando estromisero dalla loro cerchia il tale Ippaso di Metaponto? L’irrapportabilità all’interno della numerazione può intaccare fino a squalificare la valenza universale dei numero nella gerarchia dei livelli di realtà? Eppure numero è misura e la misura è il meglio (metron ariston). Forse i pitagorici temevano che si confondesse la criticità all’interno della mera misurazione con la vera finalità della scuola pitagorica che probabilmente era la stessa di tutta quanta la grecità nel suo complesso. La stessa dedizione dei greci allo studio della proporzione denota un interesse che va al di là della mera metodologia, che si poteva invece osservare in popoli ad essi coevi[16]. Il loro interesse era di ordine etico-religioso, oltre che gnoseologico e ontologico. Ma qual è la via per giungere a tale obbiettivo? Una umile ricerca, come quella che intraprendono coloro che non sanno (ὄμοιος εἶ οὐκ εἰδότι, simile a uno che non sa)[17], come Socrate stesso usa autodefinirsi. Egli dopo aver domandato maieuticamente a Menone intorno alla virtù, che cosa essa sia nella sua totalità, dopo aver accompagnato l’interlocutore sulla via diairetica, e averlo indotto nell’aporia, e dopo averlo intorpidito, come una “piatta torpedine marina” , conviene che occorre ancora una volta una comune indagine (ἐθέλω μετὰ σοῦ σκέψασθαι καὶ συζητῆσαι ὄτι ποτέ ἐστιν, voglio cercare e indagare con te cosa essa sia), sempre e di nuovo (πάλιν ἐξ ἀρχῆς, di nuovo , dall’inizio) su ciò che fino a ora si era maieuticamente domandato. Ma il dire di Socrate diventa opportunità per delle trovate eristiche da parte del suo interlocutore. Se ignori qualcosa, come farai a cercarla? Chiede Menone. E se la trovassi, come la riconosceresti? Il filosofo ateniese comprende l’antinomia sottesa a tale discorso. Egli intendeva sicuramente giungere a dire, che sia nel caso si affermi di sapere, sia nel caso contrario, l’indagine non possa avere alcun utile risultato. L’eristica, infatti, è il domandare fine a se stesso. ἐριστικὸν λόγον è quell’argomento secondo il quale non si ritiene possibile ricercare sia ciò che si sa, sia ciò che non si sa, perché nella prima istanza è inutile, già conoscendo l’oggetto della ricerca, nella seconda si ignora persino ciò che si dovrebbe cercare. Qui c’è un uso improprio della logica, e ciò può essere valutato solo a partire da un’apertura protologica dei principi supremi. Quale risvolto pragmatico può avere il gusto della confutazione senza via possibile di risoluzione argomentativa? Lo zelo socratico per il bene della città degli uomini non può trovare soddisfazione vitale nella mera argomentazione di ordine descrittivo. Egli allora si rivolge al mythos, per trovare la base ideale adeguata a fondare un’argomentazione che soddisfi i criteri di quei principi ai quali abbiamo accennato. Ai sacerdoti, alle sacerdotesse e ai poeti preme dare ragione (logon didonai) del loro ministero che pratica col divino. Essi dicono che occorre trascorrere la vita più santamente possibile (ὡς ὁσιώτατα διαβιῶναι τὸν βἰον·)[18]. Essi parlano di un’anima immortale sottoposta a processi di purificazione nel mondo dell’Ade, che gli fa guadagnare lo status di sapienza e di eroicità nel bene quando rinasce fra i mortali. Ma soprattutto di ciò che l’anima apprende in tutte le vite, e nei mondi nei quali è vissuta, e che può ricordare. Perché “ cercare e apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi]”, (τὸ γὰρ ζητεῖν ἄρα καὶ τὸ μανθάνειν ἀνάμνησις ὅλον ἐστίν). Occorre infatti un ragionamento che renda operosi e non pigri[19]. Esso riguarda la questione della postulazione necessaria al darsi della conoscenza autentica e dell’epistemologia. Quando nel “dioti” si possono includere la questione dell’incommensurabilità numerica e della commensurabilità geometrica, ci si può incamminarsi sul sentiero dell’epistemologia. Dal “che è”, luogo del discreto e della descrizione, al “perché”, procedurale, istorico, causale, continuo, archetipico. Occorre postulare un continuo sulla infinitudine del discreto: l’unità della primigenia apertura generatrice della possibilità duale. L’uno, come il punto, che si estende ai molti, si continua, offrendosi alla propria negazione come discreto, generando la linea. Ecco il geometrico. La questione dell’incommensurabilità è quel “salto” protologico verso l’intero assiologico che valorizza l’ontologico e lo gnoseologico: la conoscenza in libertà, ovvero di un libero pensiero “ex autou”, dall’interiorità di sé, ciò che è l’anima (cfr. 85 d): libertà da libertà, come affermazione iniziale. È possibile, con Erich Przywara, che scorge una “presenza fondativa della dimensione religiosa nella conoscenza filosofica”, rimanendo però sempre al di fuori di ogni assolutizzazione del “dato creaturale”, accostare la postulazione “anipotetica” che si evince dai dialoghi in generale ma rappresenta un implicito rimando soprattutto nel tessuto dialogante e pensante del Menone stesso con la questione della dimensione della fede religiosa, e della necessità in relazione a essa di un assenso iniziale del soggetto[20]; cosicché risulta possibile rintracciare tale esigenza, inerente a una postulazione iniziale, effettuando uno studio sulla metodologia della ricerca umana e veritativa, oltre che teologica, all’interno del testo biblico, il quale, seppur appartenente alla tradizione ebraico-cristiana, rimane una delle grandi radici, sia nella recezione positiva sia negativa del suo messaggio, che ha inciso maggiormente nella configurazione della civiltà occidentale. Anche il testo biblico è scritto in mythologein, proprio come tentativo fondazionale e come sapere kerigmatico, ovvero prefigurativo di un mondo, a partire dalla grande cosmogenesi del primo capitolo del suo primo libro, come racconto fondazionale cosmogonico; cosicché risulta possibile scorgere un intento analogo, (proprio come analogia nel senso di discorso sulla somiglianza e sulla proporzionalità di Erich Przywara), nel mythos descritto nel Menone. Il mythos esprime il limite di una conoscenza intellettiva in senso hegeliano, che diventa, descrivendo puramente il metodo, senza utilizzarlo consapevolmente in relazione a un intero speculativo, mera gnoseologia, “Il difetto fondamentale del conoscere finito”[21]. Esso non è consapevole del suo metodo: a orientarlo è la “necessità” delle determinazioni concettuali (der Notwendigkeit der Begriffsbestimmungen). Per Hegel la geometria possiede il perfetto metodo sintetico del conoscere finito (die Geometrie hat deswegen allein die synthetische Methode des endlichen Erkennens in ihrer Vollkommenheit). Essa ha a che fare con l’intuizione sensibile, ma astratta. Nel suo procedimento si scontra con entità incommensurabili e dunque irrazionali che esigono che essa si spinga oltre il principio meramente intellettivo, cosicché tale “irrazionale” divenga “inizio” o prima traccia di Razionalità (concettuale e ideale)[22]. Laddove la necessità del mero intelletto (casualità seriale ed efficiente) è esteriore e “deve” essere considerata in vista di una “intellezione soggettiva” (subjektive Einsicht). Tale necessità esteriore, come mero intelletto gnoseologico, esige un soggetto che gli restituisca senso ulteriore e metaintellettuale, pensante ed essenziale. Hegel in questo passo dell’ Enzyklopädie rivela la sua vicinanza al dinamismo del pensare platonico. Ecco che l’ermeneutica può cogliere dei segnavia, all’interno del pensiero di alcuni autori della Wirkungsgeschichte, per andare oltre il mero posizionamento della contrapposizione manualistica, che esprime una mentalità, come usava dire Giovanni Reale, da “deuteragonista”, e la quale, come Platone insegna, è propria della sofistica, e così entrare finalmente e in modo “autoriale” a un convito del pensiero che costruisca il nuovo e una prassi possibile e concreta.
Stefania Massari
[1] V. “Essenzializzazione” in Erich Przywara, come atto formale della filosofia dell’essenza, nel mondo antico; Id., Analogia entis, La struttura originaria e il ritmo cosmico, introd. e trad. di Paolo Volonté, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 210. In tale concetto, a partire dalla sua trattazione della metafisica come “essenza dentro–fuori l’esistenza”, Przywara trova l’apertura necessaria per accostare la metafisica dell’essenza dell’essere, nel triplice irradiamento “vero-buono-bello” in relazione al problema dell’uno e del molteplice, in Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Kant ed Hegel; cfr. pp. 24. 33-34-35, e infine in Husserl, distinguendo il criterio metaontico degli antichi da quello metanoetico dei moderni.
[2] Per sguardo filosofico-storico si vuole intendere, proprio nel senso filosofico canonico, una valorizzazione dei canoni storiografici mediante un uso pensante della Wirkungsgeschichte, alla maniera del dinamismo speculativo presente all’interno del sistema storico-filosofico in Hegel.
[3] Per concettualizzazione di temi platonici s’intende l’evidenziazione della dinamica “essenzializzante” degli stessi, oltre che la loro pensabilità dalla parte del lettore e dell’interprete.
[4] Cfr. Maurizio Migliori, Il recupero della trascendenza platonica e il nuovo paradigma, Rivista di Filosofia Neo-scolastica, Vol. 79, No. 3 (luglio-settembre 1987), p. 363 – v. nota n. 59, nella quale Migliori cita K. Gaiser. La paideia platonica, destinata ai filosofi, che è di tipo matematico-dialettico, e di lunga durata, è tesa a un’assimilazione interiore che culmina con la pura “intellezione” del Bene stesso, ma l’elaborazione dialettica, sostiene Gaiser, «doveva essere accompagnata e verificata da un’esperienza di certezza immediata ed evidente, da una dischiusura della verità tramite intuizione intellettuale (noesis)». Per un confronto col senso comune di tale concetto, e ai fini di una più proficua attualizzazione, si potrebbe considerare il significato della parola “intellezione”, presente in uno dei dizionari in uso più diffuso (es. v. la voce “intellezione” in vocabolario Treccani: – Il processo dell’intendere mediante la facoltà dell’intelletto, concepito in filosofia come sintesi di due elementi opposti: quello intelligente o «soggetto» [principio attivo dell’intendere] e quello che è inteso o «oggetto» [termine dell’azione del soggetto]).
[5] Cfr. Erich Przywara, Analogia entis, La struttura originaria e il ritmo cosmico, op. cit., II, Il ritmo cosmico.
[6] Cfr. Edmund Husserl , Aufsätze und Vorträge (1911-1921), Martinus Nijhoff Publishers, 1987, pp. 3-62: Id. Philosophie als strenge Wissenschaft, Traduzione italiana di Corrado Sinigaglia. Filosofia come scienza rigorosa, con prefazione di Giuseppe Semeraro, Economica Laterza, Bari 2010, p. 55: “Fin dove arriva l’intuizione, l’aver coscienza intuitivo, giunge anche la possibilità della corrispondente ideazione”.
[7] Si possono vedere, sul senso essenziale della “protologia”: Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2002; M. I. Parente, Platone e il problema degli agrapha, in “Méthexis“, 6, 1993.
[8] Cfr. Richard Kraut, The Cambridge Companion to Plato, Cambridge University Press, Chicago 1992, p. 221.
[9] Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia della Spirito, Introduzione, Traduzione, note e apparati di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 2013, p. 1005: “Lo Spirito, rappresentato inizialmente come sostanza dell’elemento del pensiero puro, è con ciò immediatamente l’essenza semplice, uguale a se stessa ed eterna, la quale però non ha questo significato astratto dell’assenza, bensì il significato dello Spirito assoluto. Lo Spirito però non è semplicemente un significato, non è l’interno, ma è il reale. L’essenza semplice ed eterna, perciò se restasse nell’ambito della rappresentazione e dell’enunciazione di tale semplicità ed eternità, sarebbe Spirito solo nella vacuità di questa parola. Per il fatto di essere l’astrazione, invece, l’essenza semplice è di fatto il negativo in se stesso, e precisamente la negatività del pensiero, la negatività così com’è, in sé, nell’essenza: è la differenza assoluta da sé, cioè il suo puro divenire-altro.”
[10] Cfr. ciò che riferisce Cristina Ionescu, in The mythical introduction of recollection in the Meno (81 a 5 – e 1), Journal of philosophical research, Volume 31, 2006, sulla valenza pedagogica e comunicativa del mito in riferimento ai destinatari del messaggio “The main reason why recollection is introduced by appeal to myth is to facilitate our access to truth in direct correspondence to our specific pedagogical needs, and in this sense the myth has a substantial role complementing logical arguments. At one level, Socrates’ appeal to myth is motivated by his intention to persuade Meno to continue the investigation of virtue. Since Meno’s intellectual resources are scarce, introducing recollection by means of a story which appeals to his emotions and whose content is, even if only at the superficial level, attractive to him has the desired effect.”
[11] Cfr. Platone, Menone 81c9-d5 : ἅτε γὰρ τῆς φύσεος ἁπάσης συγγενοῦς οὐσης, καὶ μεμαθηκυίας τῆς ψυχῆς ἅπαντα οὐδὲν κωλύλει ἓν μόνον ἀναμνησθέντα ὃ δὴ μὰθησιν καλοῦσιν ἄνθρωποι τἆλλα πάντα αὐτὸν ἀνευρεῖν, ἐάν τις ἀνδρεῖος ἦ καὶ μὴ ἀποκάμνη ζητῶν· (Dal momento che tutta quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di qualcuno coraggioso e che non resiste dal conoscere). “Syngeneia” è il termine che usano i Greci, da Omero in poi per definire l’affinità nei rapporti fra Dio e la natura dell’uomo e che solo in Platone (presente prevalentemente nel Timeo) viene giustificato. Cfr. Giovanni Reale, Storia della Filosofia greca e romana, a c. di Vincenzo Cicero, premessa di Maria Bettetini, Bompiani, Milano 2018, p. 2366.
[12] Cfr. Platone, Menone, a c. di Franco Ferrari, Rizzoli, Milano 2016, pag. 47.
[13] “Protologia” ed “henologia” sono, com’è noto, termini introdotti dalla speculazione della scuola interpretativa di Tubinga e di Milano. Essi sono, all’interno di tale scuola, considerati condizione essenziale nel dinamismo del pensare. Sull’henologia come attributo preminente e imprescindibile del “Principio” in Platone, Plotino, Porfirio e Proclo, in una dialettica con l’ontologia aristotelica e nella sua recezione tomista, e ancora, come criterio imprescindibile per l’intelligibilità della storia della filosofia antica e moderna, si può vedere: Giuseppe Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio, Mediazione fra henologia platonica e ontologia aristotelica, Vita e Pensiero, Milano 1996. Si veda inoltre, Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2002
[14] Άρχή Άνυπόθετον è, per Hans Krämer, quel bene (άγαθόν) che è al di sopra delle idee e dell’ούσία , e che, come principio che non è più solo postulato, costituisce il fine della dialettica. Cfr. H. Krämer, Dialettica è definizione del bene in Platone, introduzione di G. Reale e traduzione di Enrico Peroli, Vita e Pensiero, Milano 1996, pag. 37.
[16] Simone Weil, nelle lettere che scrive al fratello André sulla matematica dei greci, distingue tra la metodologia dei calcoli babilonesi, per i quali non si presentava la preoccupazione dell’approssimazione numerica, applicandosi a risolvere problemi a partire da risoluzioni note, facendo dunque intendere di prediligere l’analisi delle metodologie, piuttosto che altri interessi, e l’interesse dei greci di ordine religioso ed estetico. Non fu un dramma, secondo la Weil, il dover distinguere la geometria dalla misurazione numerica da parte dei pitagorici, a motivo dell’incommensurabilità di alcune grandezze matematiche, anzi il fatto che avessero assunto come simbolo dei loro circoli il pentagono stellato, figura significativa riguardo al rapporto fra incommensurabili, denota quanto la loro preoccupazione fosse altra. Propriamente, dai circoli pitagorici scaturiscono l’estensione degli insiemi numerici (Eudosso, allievo di Archita) e le nozioni di limite ed integrazione. È noto che Platone apponeva sulla porta dell’Accademia la frase: “Non entri chi non sia geometra”, e che diceva frequentemente: “Dio è un perpetuo geometra”, frase attribuitagli da Plutarco (Questiones Conviviales). La preoccupazione unica di tutti i greci, continua la Weil, era la purezza dell’anima, e il loro segreto, imitare Dio. La matematica era per loro un’arte, per esplicitare l’affinità fra la mente umana e l’universo”. Cfr. Simone Weil e André Weil, Correspondance familiale, a c. di Robert Chenavier e André Devaux, Éditions Gallimard, Paris 2012. Ed. italiana: “L’arte della matematica”, a c. di Maria Concetta Sala, Adelphi Edizioni, Milano, 2018.
[20] Cfr. Erich Przywara, Analogia entis, La struttura originaria e il ritmo cosmico, op. cit., Introduzione, xxxiii
[21] Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Dritte Ausgabe, Heidelberg 1830, Verwaltung des Oswaldschen Verlags, trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a c. di Vincenzo Cicero, Introduzione, traduzione, note e apparati di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 2017., Sottotitolo del par. 23.
[22] Cfr. Ibidem, p. 407: “Altre scienze se la cavano facilmente quando giungono al limite del loro procedimento intellettivo. Esse infrangono la coerenza di quel procedimento e prendono dall’esterno tutto quanto serve loro. Lo prendono dalla rappresentazione, dall’opinione, dalla percezione o altri ambiti ancora”.
La scuola facile non libera, ipostatizza il presente, necrotizza la prassi e la trasformazione. La scuola difficileeduca alla domanda. La scuola facile non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola dell’impegno è la scuola che forma alla costanza, ai tempi del concetto. Non vi è sapere critico se non nella gradualità dell’apprendimento dei contenuti. Il sapere critico deve conoscere la temporalità distesa e densa di contenuti Nell’antiumanesimo programmato il fine è cancellare ogni disponibilità all’umana comprensione.
Populismo pedagogico Il populismo pedagogico è il volto operativo della cattiva politica. Per populismo pedagogico si intende l’esemplificazione fine a se stessa: il semplicismo privo di concetto. In nome dell’esemplificazione si educa alla formazione del suddito, si forgiano le catene dorate dell’ignoranza con la pedagogia del disimpegno, della promozione sociale con contenuti minimi. Ma ciò che maggiormente rende nefasta tale struttura operativa è la formazione di caratteri dalla fragile resistenza alla frustrazione, pronti a rinunciare, a demordere, a svicolare dalle difficoltà. Si rafforza solo l’atomismo narcisistico da cui il mercato attingerà per promuovere i consumi. La comunità è dissolta nell’individualismo. Le azioni pedagogiche personalizzate – in nome della cosiddetta inclusione – sono finalizzate ad assottigliare, fino a divenire programmi e contenuti inconsistenti. In tal modo si ottiene il successo formativo da utilizzare nella campagna acquisti alunni della scuola azienda: la deprivazione culturale è presentata come un’eccellenza della didattica. Tutto dev’essere liscio quanto il desktop di uno smartphone:
«La vera contrapposizione è oggi tra “saperi difficili” e “saperi facili” o, meglio, saperi apparenti, fatti di scorciatoie, semplificazioni, impoverimenti linguistici ed argomentativi, saperi di superficie, saperi di formule. Questa è la vera alternativa per una scuola del futuro, una scuola che insegni a padroneggiare realmente Internet, non solo a saper battere i tasti e a essere schiavi di tutto ciò che passa per questa via».[1]
Il sapere apparente diventa parte fondante dell’industria del falso e del dominio globale. Il populismo pedagogico ha inventato «il docente facilitatore dell’apprendimento». Ovvero, il docente deve essere il regista silenzioso dell’apprendimento, non più educatore, non più punto di riferimento per i contenuti, ma solo un mediatore del lavoro dei discenti, i quali indirettamente stabiliscono contenuti, obiettivi, competenze che naturalmente sono minimi, semplici. Si vuol indurre, così, la percezione che l’alunno sia autonomo. In verità l’insegnante ha abdicato al suo ruolo, mentre l’alunno è abbandonato al suo destino: il mercato. Si omologa verso il basso, si forma alla mediocrità e si rappresentano – nella narrazione pedagogica – le catene dell’ignoranza come successo formativo. L’esemplificazione degrada ogni gerarchia del sapere: non vi è più altezza, ma solo la bassezza. La mediocrità è il fine ultimo dell’organizzazione globale e finanziaria.
Scuola senza concetto
Il numero sempre più vicino allo zero di bocciature e di “debiti” è utilizzato per dimostrare che l’istituzione risponde prontamente ai bisogni-desideri del cliente. “Il cliente ha sempre ragione”! Pertanto, dinanzi ad una difficoltà, alla minima frustrazione, dev’essere immediatamente soddisfatto con la pedagogia del pronto intervento, del successo immediato, della rimozione della difficoltà. Populismo pedagogico, dunque, in cui si ostenta – con linguaggio orwelliano – di essere dalla parte dell’alunno, delle famiglie, della comunità. In verità si risponde al bisogno del mercato che desidera soggetti fragili, «liquidi», sempre pronti all’uso, semianalfabeti senza consapevolezza di sé, pronti a dire sempre di “sì”, in quanto la loro esperienza formativa non è passata per il concetto, per la contraddizione, per la conoscenza di sé, per l’urto formativo. Senza contenuti e chiarezza di sé, la persona è solo un ente-atomo esposto alle tempeste dell’economia. La complessità, la scuola difficile, la scuola dell’impegno, è la scuola che forma alla costanza, ai tempi del concetto, i quali si formano sedimentandosi mediante configurazioni che permettono – nel tempo, appunto – l’atto creativo. Non vi è creazione, non vi è sapere critico se non nella gradualità dell’apprendimento dei contenuti. La tecnocrazia è il regno del saper fare tecnologico senza il saper fare.
A scuola di uomini “di fatto“ Il sapere critico deve conoscere la temporalità distesa e densa di contenuti da riordinare nel tempo. Alla scuola critica è succeduta la scuola delle competenze, ovvero l’alunno deve operare in modo flessibile con il minimo, deve mostrare di essere l’imprenditore del suo sapere. Ogni valenza etica è neutralizzata. La competenza – con i suoi saperi ossificati – è solo preparazione al mercato, adattamento ai desideri del mercato globale che esige e prescrive tecnici che debbono operare su dati di fatto e dunque l’ordine del mercato è formare uomini “di fatto” come direbbe Husserl:
«Attuando questo mutamento ci renderemo conto ben presto che alla problematicità che è propria della psicologia, non soltanto ai giorni nostri ma da secoli, – alla “crisi” che le è peculiare – occorre riconoscere un significato centrale; essa rivela le enigmatiche e a prima vista inestricabili oscurità delle scienze moderne, persino di quelle matematiche, essa rivela un enigma del mondo di un genere che era completamente estraneo alle epoche passate. Tutti questi enigmi riconducono all’enigma della soggettività e sono quindi inseparabilmente connessi all’enigma della tematica e del metodo della psicologia. Tutto ciò non costituisce che una prima indicazione del senso profondo di ciò che queste conferenze si propongono.
Adottiamo come punto di partenza il rivolgimento, avvenuto allo scadere del secolo scorso, nella valutazione generale delle scienze. Esso non investe la loro scientificità bensì ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l’esistenza umana. L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla “prosperity” che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica».[2]
Gli esseri umani “fatti” di soli fatti sono il pericolo globale che Husserl ha profetizzato con la forza visionaria del concetto. Ogni senso del bene e del male è smarrito, il “particulare” diventa la legge a cui obbedire. Ecco le personalità flessibili per un mondo destrutturato: ed in questo mondo non vi è la totalità-verità, ma solo l’economicismo individualista manovrato dalla finanza. Le istituzioni scolastiche sono nel pieno del nichilismo, lo attuano, lo accolgono, lo esaltano: ed il male si radica e si diffonde.
I resistenti vivono la notte del mondo. Resistenti non sono solo i professori, ma anche dirigenti scolastici ed alunni che difendono la passione per l’umano, per i quali ancora risuona il detto di Terenzio nella commedia Heautontimorùmenos:[3] «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» ( Niente che è umano mi è estraneo).
Antiumanesimo programmato Il fine dell’esemplificazione è cancellare ogni disponibilità all’umana comprensione, la quale esige non solo un’indole dotata di sensibilità, ma la formazione alla complessità-difficoltà, perché conoscere se stessi non solo è difficile, ma anche complesso. La riflessione su se stessi non può che avvenire nell’accogliere la presenza del prossimo, nell’imparare a riconoscere nell’altro se stessi, ma anche ad intuirne le differenze, ad avere il senso della misura, senza il quale non vi è conoscenza dell’altro. Tutto questo crolla in nome dell’uomo imprenditore che percepisce la presenza dell’altro solo come mezzo per un facile arricchimento, spesso illusorio, in un mondo di stranieri, in cui si estranei a se stessi ed ogni prassi è negata. La scuola diviene formazione alla caverna collettiva. Carnefici e vittime si accalcano per essere competenti e competitori delle televendite con un inglese schiacciato sull’empirico, con un italiano umiliato dall’inglesizzazione e accettato come normale mutazione della lingua. Si smantellano le culture nazionali, si osanna la nuova nonlingua utilizzandola in ogni contesto. La caverna platonica avanza fino a diventare gabbia d’acciaio, nella quale le vittime perpetuano il sistema, amplificandone gli effetti: notoriamente i servi sono più realisti del re.
Formazione alla complessità-difficoltà La scuola che forma è difficile, esige impegno da parte della collettività tutta: dirigenti, docenti, genitori, alunni. Ed è naturalmente comunitaria. Deve accettare il conflitto come occasione per chiarire finalità e modalità operative, rammentando che i valori di fondo devono essere vissuti nell’attività educativa con gli opportuni interventi. La scuola facile non libera, ma chiude nella caverna, ipostatizza il presente, e necrotizza la prassi, la trasformazione: gli esseri umani sono così enti e non punti ottici in cui risplende la verità. Vorrei ricordare le parole di Gianni Rodari (rapidamente dimenticato dalla scuola primaria, in nome del coding e delle tecnologie), in Parole per giocare esprime – con la semplicità del vero pensatore e del vero educatore – l’importanza del fare cose difficili:
«È difficile fare le cose difficili: parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco. Bambini, imparate a fare le cose difficili: dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi».
La scuola difficile, e del complesso, deve educare alla domanda. Ma senza formazione al concetto, al linguaggio complesso, all’ordine logico che le discipline devono insegnare, le domande che naturali scaturiscono da ogni essere umano sono monche, e dunque non colgono la profondità del problema. La scuola difficile è scuola dove si impara a fare domande con parole precise e con logica chiarezza, a confrontarsi dialetticamente, a disporsi verso la verità. La scuola facile, con i contenuti veloci e poveri, non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera, in pseudo-concetto illogicamente espresso, e dunque il punto ottico diventa opaco, incapace di trasmettere messaggi: la povertà culturale diventa sistematica. Senza la capacità di porre le domande con parole precise, di ritornare fenomenologicamente alle cose stesse non vi è pensiero, ma solo calcolo. Si finisce, così, per porre domande in modo sbagliato, ed il soggetto si isola dal mondo, perché le domande profonde sono ponti che uniscono, mentre le domande mal dette e di superficie frammentano. Rodari ancora una volta chiarifica l’importanza del saper porre le domande:
«Tante domande C’era una volta un bambino che faceva tante domande, e questo non è certamente un male, anzi è un bene. Ma alle domande di quel bambino era difficile dare risposta. Per esempio, egli domandava: – Perché i cassetti hanno i tavoli? La gente lo guardava, e magari rispondeva: – I cassetti servono per metterci le posate. – Lo so a che cosa servono i cassetti, ma non so perché i cassetti hanno i tavoli. La gente crollava il capo e tirava via. Un’altra volta lui domandava: – Perché le code hanno i pesci? Oppure: – Perché i baffi hanno i gatti? La gente crollava il capo e se ne andava per i fatti suoi. Il bambino, crescendo non cessava mai di fare domande. Anche quando diventò un uomo andava intorno a chiedere questo e quello. Siccome nessuno gli rispondeva, si ritirò in una casetta in cima a una montagna e tutto il tempo pensava delle domande e le scriveva in un quaderno, poi ci rifletteva per trovare la risposta, ma non la trovava. Per esempio scriveva: “Perché l’ombra ha un pino?”. “Perché le nuvole non scrivono lettere?”. “Perché i francobolli non bevono birra?”. A scrivere tante domande gli veniva il mal di testa, ma lui non ci badava. Gli venne anche la barba, ma lui non se la tagliò. Anzi si domandava: “Perché la barba ha la faccia?”. Insomma era un fenomeno. Quando morì, uno studioso fece delle indagini e scoprì che quel tale fin da piccolo si era abituato a mettere le calze a rovescio e non era mai riuscito una volta a infilarsele dalla parte giusta, e così non aveva mai potuto imparare a fare le domande giuste. A tanta gente succede come a lui».[4]
Democrazia e formazione La democrazia rischia di morire nel ridicolo dell’ignoranza, nell’arroganza dei piccoli leader abituati a non ricevere domande che smascherano, ma solo elogi che sono in realtà lamenti funebri per la democrazia. La democrazia esige formazione difficile senza complicare inutilmente i concetti, vuole che si rispettino responsabilmente i ruoli, senza autoritarismo, ma per servizio. Se invece i ruoli vengono trascesi in nome di un’uguaglianza ideologica, si vuole solo legittimare l’ignoranza organizzata e finalizzata ed il privilegio. Platone, nel libro ottavo della Repubblica, ha ben descritto la fine della democrazia nell’anarchia dei ruoli, e su di essa dovremmo riflettere. I classici sono eterni, perché hanno concettualizzato l’umano:
«In un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e si confonde; in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze nelle reciproche tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo delle gambe su chi le ha più corte; in cui l’unico rimedio contro il favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori; in cui tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici; in un ambiente siffatto, quando raggiunge il culmine dell’anarchia e nessuno è più sicuro di nulla e nessuno è più padrone di qualcosa perché tutti lo sono, anche del suo letto e della sua madia a parità di diritti con lui e i rifiuti si ammonticchiano per le strade perché nessuno può comandare a nessuno di sgombrarli; in un ambiente siffatto, dico, pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?».[5]
La formazione in pericolo è l’altro volto della democrazia minacciata; la partecipazione alla vita comunitaria è materialmente possibile solo in presenza di una comunità capace di praticare la cittadinanza mediante il concetto, ed educata a confrontarsi con i concetti per crearli e ricrearli nel pensiero consapevole, nell’attività pensante.
«Bisogna aprire i chiostri della verità», come direbbe Giordano Bruno. Non vi è democrazia senza domanda di verità che rompe i chiavistelli dei pregiudizi e dell’individualismo. Il futuro della democrazia si gioca nella scuola.
La domanda a cui ciascun educatore e cittadino dovrebbe rispondere, in primis, è se vuole formare sudditi o cittadini.
Salvatore Bravo
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[1] Giuseppe Cambiano, Sette ragioni per amare la filosofia, il Mulino, Bologna 2019, p. 153.
[2] Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1983, p. 34.
[3] In greco: Ἑαυτὸν τιμωρούμενος, Il punitore di sé stesso.
[4] Gianni Rodari, Favole al telefono. 1993, Edizioni EL, S. Dorligo della Valle (Trieste), pp. 92-93.
L’indagine filosofica pone domande radicali. In ogni filosofare vi è l’atto dell’uscire dalle posizioni ordinarie, dall’ovvio, per interrogarlo. La domanda filosofica non vive nel chiuso delle accademie, delle istituzioni o nelle parole paludate degli specialisti: abita ovunque vi siano esseri umani che pongano l’esigenza del senso, del riportare il quotidiano alla sua razionalità. Si procede per scissione e ricomposizione. La domanda filosofica vive socraticamente nella strada. È nei luoghi della vita routinaria che possono emergere domande su dettagli che rivelano la sostanza, la verità del proprio tempo. Domandare nel filosofare è sempre pratica dell’epochè, sospensione dell’atteggiamento naturale, porre le sovrastrutture culturali ed ideologiche in uno stato limbico, per guardare con occhi nuovi, per imparare a guardare il mondo in carne e d’ossa, come affermava Husserl.[1] La parola teoria deriva dal greco θεωρέω theoréo, “guardo, osservo”, composto da θέα, thèa, “spettacolo” e ὁράω, horào, “vedo,” dunque senza il guardare profondamente non vi è la domanda filosofica.
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SUV carro armato
Prodotto negli Stati Uniti arriva il carro armato di lusso:
si chiama Ripsaw Ev2 Extreme Luxury Tank. Dotato di un motore Diesel da 6.6 litri è prodotto dalla Howe Technologies. Tra i super ricchi americani sta già diventando un oggetto di culto.
Fenomenologia del SUV
Muoviamo un passo con un esempio: l’analisi del SUV. La mastodontica auto sovrana delle nostre strade. Il SUV tradisce le contraddizioni del nostro reale “molto virtuale.” In primis, la sua storia è inquietante, in quanto tale modello ha un’origine militare. L’acronimo di SUV è Sport Utility Vehicle, un’automobile corazzata derivata dai modelli corazzati della prima guerra del Golfo.
Se la propaganda politica presenta il turbocapitalismo quale diffusore di pace e diritti universali, le guerre, si propugna “seraficamente”, sono un incidente necessario nel cammino della pace. La guerra ispira tecniche di conquista adattandole all’ambiente, utilizzandole in svariati settori industriali ed anche per il mercato dell’auto. Si tratta dunque di un unico mercato. Sicuramente solo un numero sparuto di compratori ne conosce la storia e le tragedie di cui è segno. La guerra è tra di noi, non solo nel caso vi sia un’implicazione diretta o indiretta nelle scelte governative, ma anche quando si adotta un mezzo che si è ispirato ad essa. Il compratore non si domanda certo il Perché della mastodontica presenza, semplicemente la usa. La ragione strumentale trionfa sulla razionalità oggettiva. Lo spirito con cui ci si approccia al mercato cambia, se semplicemente si obbedisce alla propaganda, o se si interpone la domanda tra essa e se stessi. La Filosofia si situa in quello spazio di elaborazione: sentire/guardare con lo scandaglio, per capire, per non essere fruitore passivo delle contingenze.
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La falsa cultura capitalistica della cosiddetta ecologia “sostenibile”
Più palese – rispetto alla precedente – è la contraddizione che si manifesta nel continuo salmodiare del circolo mediatico sullo sviluppo sostenibile da parte della falsa cultura capitalistica. Non una contraddizione si apre, ma una voragine che mostra e denuncia l’ipocrisia dell’attuale modello economico. Il SUV consuma notevoli quantità di carburante con il conseguente inquinamento da benzene, sostanze alifatiche, polveri sottili, nanoparticelle. Ecco la verità del capitalismo assoluto: dell’ambiente come della vita non gli importa nulla, il plusvalore resta l’unico fine, al punto da infischiarsene dell’inquinamento e della febbre della Terra con i suoi eventi estremi. Giunge un’altra domanda: “A quale bisogno risponde il SUV?”.
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Bisogni radicali, bisogni alienanti
I bisogni – se seguiamo la linea di Agnes Heller – si distinguono in bisogni radicali e bisogni alienanti. I primi sono i bisogni autentici che favoriscono la formazione dell’essere umano, permettendogli di fiorire secondo la famosa metafora di Aristotele. L’essere umano è possibilità che si attua nella convivialità, nella cultura etica del disinteresse. I bisogni autentici sono i bisogni della comunità. Nella parola comunità è presente uno scrigno di significati dimenticati: comunità deriva da cum-munus: nel mondo antico munus è il dono disinteressato che reca in sé la reciprocità del gesto. La società dei SUV non è una comunità, ma solo un mercato, in cui è assolutamente estranea l’esperienza del dono. Il guidatore – trincerato nell’abitacolo del SUV – con la sua ombra minaccia i pedoni, e fa della distanza la cifra del suo successo nel mercato delle quantità: ingerisce sempre più massicce dosi del “farmaco” della quantità pensando di “curare” così la propria paura dell’altro attraverso il suo nascondimento corazzato.
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La paura curata con il “farmaco” della quantità
L’altra verità del SUV è la paura curata con il “farmaco” della quantità, con l’espandersi del proprio fragile io nell’esoscheletro della corazza dell’auto. Il sistema del lavoro astratto, aumenta il timore dell’altro: la competizione diventa esperienza darwiniana di selezione: si è ciò che si produce. Se la capacità poietica non è altamente performativa, si cade nella disistima generale fino alla marginalità sociale. La quantità è la cifra del turbocapitalismo e si concretizza nel plusvalore come nell’espansione della res extensa: naturalmente l’estensione della quantità è direttamente proporzionale alla presenza dell’io. La qualità scompare dietro il gigantismo del SUV, come delle sue innumerevoli copie. La quantità invade le strade, gli spazi come la coscienza dei servi del capitale. I bisogni alienanti sono dunque bisogni indotti e compensativi dell’assenza della qualità. La comunità è il luogo della qualità: convivialità, amicizia, reciprocità, progettualità condivisa. Nei bisogni radicali si iscrive la verità della natura umana, ogni comunità con un tasso di convivialità sviluppata conosce la malattia mentale come eccezione. Le società che tale più non sono – perché potere e plusvalore sono i suoi fondamenti – non conoscono che la malattia, l’inquietudine giornaliera del vivere. Il bisogno alienante non conosce la presenza dell’altro e la reciprocità, poiché è un bisogno incontenibile: è stato introiettato al fine di espandersi con funzione geometrica, e non raggiunge mai la gratificazione, che è spostata in avanti in un tempo indefinito, con il risultato che il soggetto desiderante è dominato e asservito. Il bisogno radicale conosce il senso del limite in quanto vive l’esperienza della qualità, della profondità, della gioia.
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La mancanza d’essere
Nell’epoca in cui domina il lavoro astratto, ridotto a sola energia poietica senza qualità, per riportare i bisogni radicali ed il lavoro concreto quale tema centrale del dibattito culturale e politico, è necessaria la domanda filosofica supportata dalla postura filosofica:
«La filosofia può fare solo una cosa: può dare al mondo una norma e può volere che gli uomini siano in grado di dare alla norma un mondo. […] il filosofo non opera una mediazione filosofica fra essere e dovere, la compie solo in quanto uomo: come un uomo tra milioni, un uomo tra coloro che vogliono sapere la verità, uno di quelli che vogliono che il mondo possa diventare la patria dell’umanità».[2]
La Filosofia deve riportare l’umano nella comunità umana. Sin dalla catabasi di Platone, ed ancor prima, sa bene che l’essere umano è mancanza d’essere, non gli è sufficiente la semplice vita, la sola quantità, ma ha bisogno di senso. Privato del senso l’uomo soggiace all’esperienza del disastro: vive fuori da ogni riferimento, fatticità heideggeriana. In assenza della domanda del senso non resta che un mondo minacciato dalle cose, dai SUV nelle multiformi manifestazioni. Mondo della paura, nel quale l’essere è solo un estraneo. In assenza di orientamento, dello spazio di una patria, i bisogni alienanti assalgono l’essere umano. La Filosofia nella contemporaneità è sostenuta da Filosofi deboli: in assenza di esperienze storiche profonde, radicali (nell’accezione marxiana) e dirette, sembra che anche le domande abbiano perso la loro energia critica. Solo la consapevolezza che viviamo l’esperienza estrema di un totalitarismo non riconosciuto potrà, forse, ridare vigore alla domanda. Per riportare l’umano nel mondo è necessario il logos, il dubbio che investa la vita nella sua totalità come nella risposta.
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L’utopia come problema
Il logos è domanda che si prende cura della vita giorno dopo giorno. La domanda elabora utopie, ma affinché non diventino distopie, incubi, esse hanno un valore puramente regolativo, è un tendere verso, con la consapevolezza dell’impossibilità di realizzazioni assolutamente perfette. L’utopia la si può coltivare nella cura del quotidiano, vivendo l’esperienza della qualità, della convivialità, nel concreto. Perché la vita diventi umana vi deve essere una stratificazione temporale dell’utopia: la perfezione è un tendere verso che si radica nella cura del presente. La convivialità diviene anticipazione di un tempo impossibile, perfetto, definitivo, ma che trasforma il presente in possibilità creativa nel nome della reciprocità:
«La normalità ci impone di giudicare il nostro mondo né migliore né peggiore di qualunque altro mondo umano di cui abbiamo conoscenza. In ogni caso, tutto ciò che conosciamo del passato lo sappiamo attraverso le utopie. Perché cosa altro sono le opere artistiche e storiche se non frammenti di una realtà utopica? Abbiamo bisogno di utopie per il futuro, ma non di credere alla loro realizzazione. Le utopie, infatti, non si realizzano mai; non ne hanno bisogno, dato che esistono già. La cosa migliore delle donne e degli uomini di un dato mondo sono le utopie che essi creano nei confini del loro universo. […] Normalità significa prenderci cura del nostro mondo. La cosa migliore che possiamo fare è agire in modo utopistico, mettendo in luce le possibilità positive della nostra epoca moderna».[3]
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La Filosofia come nostalgia dell’umano
La domanda ci riconduce alla nostalgia di un mondo degli esseri umani e per gli esseri umani. In ogni domanda filosofica la radicalità è nella richiesta di un mondo umano, e nel contempo è un “no” verso l’ordine vigente: nella domanda vive la fiducia di un mondo perfettibile. Il presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. L’esodo è nel presente: l’esperienza del passaggio, della prassi filosofica vive già nella domanda. La domanda è già utopia concreta. La domanda trasforma la posizione dell’alterità: si compie il transito dalla prospettiva strumentale alla prospettiva tra soggetti in relazione. In questa attività risiede la forza rivoluzionaria della Filosofia. Dove il silenzio regna sovrano, dove la critica filosofica è solo esperienza di un passato glorioso, si assiste al dominio, al potere come destino, al mondo delle cose che signoreggiano sull’essere umano offrendogli soltanto la penuria del non-essere, schiacciandolo in un’esistenza puramente biologica.
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L’immaginazione
Si vive senza immaginazione: la quantificazione opera un taglio sull’immaginazione. Ogni totalitarismo fa la guerra all’immaginazione. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita.
La domanda filosofia trova il suo humus nell’immaginazione, della capacità tutta umana di trascendere il presente.
L’arte come la religione può favorire l’immaginazione filosofica:
«Quale ruolo gioca il riferimento alla tradizione biblica? Per rispondere occorre riflettere, almeno per un momento, sulla natura dell’immaginazione, questa straordinaria facoltà mentale che deriva dalla fusione tra ragione ed emozione. Ogni momento della nostra giornata è segnato dalla presenza dell’immaginazione anche dal punto di vista psicologico, ma questa facoltà è addirittura decisiva quando si tratta di innovare: di immaginare, appunto, un futuro che sia diverso dal presente. Questa dimensione creativa dell’immaginazione, caratteristica in particolare dell’arte, è determinante per il formarsi delle utopie e ha trovato espressione in molte pagine della Bibbia. Personalmente trovo molto convincente la tesi dell’egittologo Jan Assmann, che riconosce nel Libro dell’Esodo uno dei capisaldi dell’utopia di ogni tempo. Attraverso la promessa ricevuta da Mosè, il popolo di Israele riesce a concepire la liberazione dalla schiavitù e l’avvento di un mondo completamente nuovo. Si verifica così salto di scala nel percorso immaginativo che avrà conseguenze formidabili per tutta l’umanità».[4]
Per giungere alla convivialità, ai bisogni autentici, la domanda filosofica deve essere sostenuta dall’immaginazione senza la quale il pensiero è solo calcolo, dominio dell’ente uomo sugli altri enti. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia, un incubo realizzato. Per riprenderci la Storia, per un nuovo inizio, abbiamo bisogno del pensiero e delle sue strutture senza le quali si è schiacciati tra le cose.
Salvatore Bravo
[1] Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Vol. 1, Einaudi, 2002. Nella prima parte del I libro delle Ideen, Essenza e conoscenza di essenza, viene sviluppata la critica al naturalismo positivistico. Essa si basa sulla distinzione tra dato di fatto ed essenza, quindi sui possibili fraintendimenti naturalistici dei dati di fatto.
L’empirismo viene considerato come scetticismo e il carattere dell’essenza vien chiarito in modo tale da superare ogni sua interpretazione in chiave di realismo platonico. Il fatto costituisce l’essenziale, in esso si vede l’essenziale. L’essenzialità è colta nell’intuizione. Ogni fatto rivela così l’eidos. La riduzione eidetica strettamente legata alla riduzione al soggetto. Possiamo cogliere l’essenza solo se ci liberiamo da ogni pregiudizio e se descriviamo quello che vediamo come lo vediamo. Husserl formula, muovendo da qui, il principio dei principi:«Nessuna immaginabile teoria può cogliere in errore nel principio di tutti i principi: cioè, che ogni visione originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si da originalmente nell’intuizione, per così dire in carne ed ossa (leibhaft) è da assumere come essa si da.» Questo principio dei principi è ciò che rimane dopo la critica scettica, anzi, è il risultato stesso dell’accettazione della critica scettica. Si possono negare tutte le teorie e le scienze, ma resta sempre quello che si vede e si sente nei limiti di ciò che si percepisce. Si possono verificare discordanze con gli altri sul percepito reale, ma queste possono essere chiarite per mezzo della costituzione intersoggettiva, cioè del dialogo tra i soggetti della conoscenza e dell’esperienza.
[2] Á. Heller, La filosofia radicale, il Saggiatore, Milano 1979, p. 154.
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«Chi può rispondere in modo soddisfacente alla domanda se il conflitto di Socrate sia solo un conflitto dei tempi, determinato da una specifica situazione storica relativa, oppure se si tratti di uno scontro fondamentale irriducibile ed eterno?». Jan Patočka, Socrate.
«Socrate non ha una risposta a portata di mano, ma solo una domanda. E poi cerca di destare negli altri la stessa domanda. Con questo risveglio della domanda negli altri, però, Socrate cambia gli altri. La domanda sul bene ultimo opera nell’anima una conversione totale. La costringe a tornare in se stessa, a cercare ciò che è il suo fine ultimo e la sua propria vocazione». Jan Patočka, Socrate.
«La specificità di Socrate consiste nel fatto che ha compreso e ha sempre sottolineato che il mero immediato superamento irriflesso dell’individualismo non è ancora un integrale atteggiamento morale, bensì dev’essere preceduto dalla domanda. Perciò la risposta propria di Socrate all’incertezza morale del suo tempo è la domanda morale. Essa è la sua scoperta propria. La domanda, però, esprime sempre il non sapere, i dubbi. Socrate reagisce contro la sicurezza ingenua dell’uomo non desto moralmente. A Socrate, quindi, per questo risveglio dalla certezza alla domanda serve la dialettica raffinata, spesso vertiginosa ed ingannevole. Ciò che, quindi, per Socrate è più importante è il risveglio alla domanda, non la risposta». Jan Patočka, Socrate.
Quarta di copertina
Jan Patočka (1907-1977), allievo di Edmund Husserl e considerato il più importante filosofo ceco, ha mediato la fenomenologia appresa dal maestro con la tradizione classica del socratismo e del platonismo, elaborando un pensiero originale che si sta diffondendo con grande successo in Europa. La sua idea di “vivere nella verità”, pur nella problematicità, lo ha condotto a schierarsi durante gli anni oscuri del regime comunista cecoslovacco a favore degli uomini ingiustamente perseguitati e ad essere il primo firmatario di “Charta 77”, la vivace protesta in difesa dei diritti umani. Per questa ragione fu arrestato e condotto alla morte durante un violento interrogatorio da parte della milizia di stato. Giustamente è stato definito il “Socrate di Praga”. Il suo studio su Socrate, risalente al 1947 e tradotto per la prima volta in una lingua occidentale, è quindi assai significativo per comprendere la radici teoriche del suo operato. Il conflitto di Socrate con l’Atene del tempo, per Patočka, diviene il modello di un conflitto fondamentale eterno. L’idea socratica del non-sapere assume per lui il significato di una presa di coscienza della finitezza dell’uomo, che è fonte di umiltà intellettuale; in questo modo, la problematicità diventa anche il primo passo per la “cura dell’anima”, vale a dire per un’esistenza umana in prossimità e in vista del bene. Secondo Patočka, la cura dell’anima costituisce altresì la base spirituale sulla quale l’Europa è nata e si è sviluppata, e in base alla quale potrebbe anche rigenerarsi in futuro. Il testo è stato curato da Martin Cajthaml e Giuseppe Girgenti, ricercatori del “Platoninstitut” presso l’Accademia Internazionale di Filosofia nel Principato del Liechtenstein, che insieme hanno già tradotto di Patočka Platone e L’Europa (Vita e Pensiero, Milano 1997). Il testo ceco riprodotto a fronte è tratto dalla seguente edizione: Sokratés, Praga 1947, seconda edizione a cura di I. Chvatik e P. Kouba, Praga (SPN) 1991.
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