György Lukács (1885-1971)  – L’uomo  che diviene solitario può trovare il senso e la sostanza della propria anima, che in nessun luogo trova una patria.

György Lukács 016

L’uomo  che diviene solitario

può trovare il senso e la sostanza

della propria anima,

che in nessun luogo trova una patria.

György Lukács, Teoria del romanzo, Garzanti, Milano 1984.


György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.
György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
György Lukács (1885-1971) – Una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’«oggettualità spettrale». Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce.
György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.
György Lukács (1885-1971) – Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire.
György Lukács (1885-1971) – Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto ad essa.
György Lukács (1885-1971) – Nei giovani la dedizione entusiastica ad una causa può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio ad un diverso campo, oppure ancora nella perdita di capacità di dedizione in genere. Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo ad innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che a dar luogo ad una passione durevole.
György Lukács (1885-1971) – Il metodo e il contenuto della filosofia di Heidegger esprimono il sentimento della vita proprio dell’intellettuale filisteo in un’epoca di grave crisi: stornare il pericolo che minaccia la propria ‘esistenza’ in maniera che non ne risulti alcun obbligo di modificare le proprie condizioni esteriori di vita o anche solo di collaborare al cambiamento dell’obiettiva realtà sociale.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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György Lukács (1885-1971) – Il metodo e il contenuto della filosofia di Heidegger esprimono il sentimento della vita proprio dell’intellettuale filisteo in un’epoca di grave crisi: stornare il pericolo che minaccia la propria ‘esistenza’ in maniera che non ne risulti alcun obbligo di modificare le proprie condizioni esteriori di vita o anche solo di collaborare al cambiamento dell’obiettiva realtà sociale.

György Lukács - La distruzione della ragione

«Ciò che Heidegger chiama fenomenologia e ontologia non è in realtà che un’astratta e mistica descrizione antropologica dell’esistenza umana, descrizione che nel suo concreto attuarsi fenomenologico insensibilmente si converte in una disamina – spesso interessantissima –dell’esistenza del filisteismo intellettuale durante la crisi del periodo imperialistico » (p. 506).

«Il metodo e il contenuto della filosofia di Heidegger esprimono qui, in una terminologia estremamente complicata (ma soprattutto affettata), il sentimento della vita proprio dell’intellettuale filisteo in un’epoca di grave crisi: stornare il pericolo che minaccia la propria ‘esistenza’ in maniera che non ne risulti alcun obbligo di modificare le proprie condizioni esteriori di vita o anche solo di collaborare al cambiamento dell’obiettiva realtà sociale. Per quanto Heidegger sia difficile da capire, queste conseguenze sono state tratte giustamente dalla sua filosofia» (pp. 515-516).

«Il fascismo deve non poco alla filosofia di Heidegger e di Jaspers se poté educare gran parte dell’intellettualità tedesca a una neutralità più che benevola. A questo riguardo rimane cosa piuttosto indifferente la posizione personale che essi hanno assunto nei confronti dell’hitlerismo, poiché nessuno dei due ha mancato fede ai presupposti e alle conseguenze della propria filosofia fino al punto da schierarsi realmente contro Hitler. Il fatto poi che Heidegger abbia aderito apertamente al fascismo, mentre Jaspers, per ragioni di carattere privato, non sia potuto giungere a tanto, e dopo la caduta di Hitler, quando il vento sembrava soffiare da sinistra, abbia utilizzato l’otium cum dignitate mantenuto sotto il nazismo per atteggiarsi ad antifascista, non cambia nulla a questo fondamentale stato di cose. Resta il fatto che con il contenuto obiettivo della loro filosofia hanno entrambi spianato la via all’irrazionalismo fascista» (531-532).

György Lukács, Die Zerstõrung der Vernunft (1954); trad. it. La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959.


György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.
György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
György Lukács (1885-1971) – Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce.
György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.
György Lukács (1885-1971) – Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire.
György Lukács (1885-1971) – Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto ad essa.
György Lukács (1885-1971) – Nei giovani la dedizione entusiastica ad una causa può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio ad un diverso campo, oppure ancora nella perdita di capacità di dedizione in genere. Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo ad innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che a dar luogo ad una passione durevole.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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György Lukács (1885-1971) – Nei giovani la dedizione entusiastica ad una causa può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio ad un diverso campo, oppure ancora nella perdita di capacità di dedizione in genere. Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo ad innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che a dar luogo ad una passione durevole.

György Lukács - passione durevole

«Nei giovani la frequente dedizione entusiastica ad una causa può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio ad un diverso campo, oppure ancora nella perdita di capacità di dedizione in genere […]. I movimenti giovanili così frequenti nell’ultimo mezzo secolo lo mostrano con la massima evidenza, e tanto più quanto più danno valore centrale alla giovinezza stessa […]. Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo ad innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che a dar luogo ad una passione durevole».

György Lukács, Ontologia dell’essere sociale. Vol. I, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Pgrego, Roma 2012.


«[…] qui nessuno ha bisogno del loro ardore e della loro passione […] qui le loro raffinatezze non troverebbero risonanza da nessuna parte; anche se scrivessero le loro poesie, non ci sarebbe nessuno che le amerebbe, se poi volessero realizzare nella vita i loro sogni, non ci sarebbe materia da cui potrebbero formare qualche cosa. Sono uomini spenti e delusi, guerrieri stancati prima della lotta, guerrieri feriti a morte prima dei combattimenti […]. E allora l’uno cade in basso anche esteriormente, l’altro diventa forse anche uno per bene, ma sarà spento, senza canto, senza ebbrezze, uno caduto dai sogni e dai desideri, un uomo qualunque, un uomo morto».

György Lukács, Jób novellái (Le novelle di Job), pubblicato prima in «Ventesimo secolo» e poi in Esztétikai kultúra (Cultura estetica), tr. it Roma, 1977, pp. 56-58. Cfr. György Lukács, Sulla filosofia romantica dell’esistenza: Novalis, e A lelki szegénységről (Sulla povertà di spirito).


György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.
György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
György Lukács (1885-1971) – Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce.
György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.
György Lukács (1885-1971) – Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire.
György Lukács (1885-1971) – Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto ad essa.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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György Lukács (1885-1971) – Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto ad essa.

György Lukács -Nuovi argomenti

«Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto ad essa. La serietà, lo scrupolo e l’approfondimento con cui egli si dedica a questo problema ci indica se ed in quale misura egli voglia, consciamente o inconsciamente, sottrarsi ad una chiara presa di posizione nelle lotte della storia attuale».

György Lukács, Mein Weg zu Marx, in «Internationale Literatur» (Mosca), n. 2 1933; La mia via al marxismo (con un post-scriptum del 1957),  trad. di Ugo Gimmelli, «Nuovi Argomenti», n. 33, luglio-agosto 1958].


György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.
György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
György Lukács (1885-1971) – Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce.
György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.
György Lukács (1885-1971) – Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Leo Löwenthal – In una società terroristica, dove tutto è pianificato nel dettaglio, il progetto per gli individui consiste in questo:per loro non c’è, né può esserci un progetto.

Leo Löwenthal 01

«Quando i libri vengono bruciati,
alla fine verranno bruciate anche le persone
»
                      Heinrich Heine, Almansor, dramma, 1823.

Le cosiddette Bücherverbrennungen (in italiano “roghi di libri“) sono stati dei roghi organizzati nel 1933 dalle autorità della Germania nazista, durante i quali vennero bruciati tutti i libri non corrispondenti all’ideologia nazista.

Bücherverbrennungen è ricordato da un’opera di Micha Ullman, in Piazza Bebelplatz a Berlino, consistente in un pannello luminoso inserito sulla superficie della strada, che lascia intravedere una camera piena di scaffali vuoti. Accanto è posta una targa che riporta una citazione di Heinrich Heine:

«Quando i libri vengono bruciati, alla fine verranno bruciate anche le persone» (Heinrich Heine, Almansor, dramma 1823))

La creazione artistica di Hullman è intitolata  Library (Biblioteca): asi intravedono scaffali completamente vuoti, ma capaci di contenere 20.000 volumi, quanti ne furono bruciati nella notte del 10 maggio 1933.

«In una società terroristica, dove tutto è pianificato nel dettaglio,

il progetto per gli individui consiste in questo:

per loro non c’è, né può esserci un progetto».

Leo Löwenthal, I roghi dei libri, Treccani, Roma 2019, pp. 45-46.

Accatastare libri scaraventandoli dagli scaffali di una biblioteca, poi giù in strada per dare loro fuoco, tra le urla scomposte di un entusiasmo delirante. Ma cosa significa davvero bruciare i libri. È solo il gesto violento di una censura o nasconde di più? Testimone diretto del rogo nazista del maggio 1933, Löwenthal traccia in questo saggio, scritto dopo il suo ritorno in Germania alla fine della seconda guerra mondiale, un percorso che dalla Cina del III secolo a.C. arriva fino ai giorni nostri. Come ricorda Giuseppe Montesano nel suo saggio che accompagna le pagine di Löwenthal, dare fuoco alla cultura, alla conoscenza e alla memoria (anche sotto forma di piccoli atti quotidiani di rimozione, scintilla apparentemente innocua ma facilmente infiammabile) si rivela più che mai come il gesto simbolico di un’autodistruzione. Punta di un iceberg che dalle pagine dei libri arriva dritta al corpo vivo dell’umanità.


 

Letteratura, cultura popolare e società, Liguori 1977.


 

A margine. Teoria critica e sociologica della letteratura, Solfanelli 2009.

Come può essere ricordato Leo Löwenthal? Come il maestro misconosciuto della sociologia della letteratura? Come uno dei fondatori della Scuola di Francoforte, assieme ad Adorno e Horkheimer? Come il più acuto anticipatore dei problemi della cultura di massa? Rari e sporadici i suoi interventi teorici sulla sociologia della letteratura, prodotti a una distanza quasi ventennale l’uno dall’altro. In questo volume sono raccolti, in prima traduzione italiana, i testi teorici più recenti; un omaggio e un atto dovuto per riconoscergli quei meriti di studioso della disciplina di cui è stato, assieme a György Lukács e a Raymond Williams, tra i più significativi e acuti interpreti del Novecento. In particolare, “Sociology of Literature in Retrospect” del 1987, vero e proprio “testamento culturale”, può essere considerato il suo ultimo scritto in assoluto sull’argomento. Tutti testi di grande valore metodologico ed etico di uno dei maggiori intellettuali del XX secolo che considerava, a torto, il suo contributo “a margine” della Teoria critica, sviluppata dai suoi colleghi della Scuola di Francoforte.


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ernst Bloch (1885 – 1977) – «Vita brevis, ars longa», i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata. Nasce un’«ars longa», adornata dal nome della loro «vita brevis».

Ernst Bloch 07

«Vita brevis, ars longa, i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata.

[…] Per i così favoriti nasce un’ars longa, adornata dal nome della loro vita brevis […]. Heinrich Mann parlava degli onori che in modo estremamente lusinghiero allontanano tale vecchiaia dalla gioventù, per cui vi si deve ascendere come a un trono. In modo simile Gottfried Keller guardava al settantenne F.Th. Vischer e ancor più a personaggi maggiori, e di loro scriveva che stavano nella luce crepuscolare della vita sotto la travatura delle loro opere con sentimento indubbiamente sicuro.

Schiller aveva questo senso di salvezza addirittura all’inizio della malattia: “Difficilmente avrò tempo di compiere in me una grande e generale rivoluzione dello spirito, ma farò quel che potrò; e se alla fine l’edificio crolla, avrò almeno salvato dall’incendio quel che valeva la pena di conservare” (Lettera a Goethe, 31 agosto 1794).

Goethe, essendoglisi trasformata tutta la vita a poco a poco in una specie di entità statale sovrapersonale, immaginò non soltanto un proseguimento cosmico del suo essere, ma anche esattamente un’immortalità nell’opera storicamente divenuta e storicamente sopravvivente. Ciò neanche quattro mesi prima della sua morte in una lettera a Wilhelm von Humboldt, usando se stesso come categoria storicamente sperimentata e incasellata: “Se mi è lecito esprimermi secondo un’antica confidenza, confesso volentieri che nei miei anni avanzati tutto mi diventa sempre più storico; se qualcosa avviene in tempi passati, in terre lontane oppure a me vicinissime nello spazio e in questo momento, è perfettamente lo stesso, anzi io appaio a me stesso sempre più in modo storico; e poiché la mia buona figlia la sera mi legge Plutarco, mi trovo spesso ridicolo se dovessi raccontare la mia biografia in questo modo e in questo senso”.

Tale oggettivazione ha di fatto allontanato la propria esistenza dalla caducità; anche la vita appare allora come opera e l’opera appare come scampo, anzi come assenza stampata di situazione di una vita divenuta essenziale».

 

Ernst Bloch, Il principio speranza, vol. III, Capitolo 52: Sé e lampada funebre ovvero immagini di speranza contro la forza della più potente non-utopia: la morte, Garzanti, Milano 1994, p. 1343.


 
Ernst Bloch (1885 – 1977) – Chi è scialbo si colora come se ardesse. La via esteriore è la più facile. Apparire più che essere: questo il suo motto.
Ernst Bloch (1885-1977) – Tutto ciò che vive ha un orizzonte. Dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.
Ernst Bloch (1885-1977) – È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. La filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La filosofia sta sul fronte.
Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà. L’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione.

Salvatore Bravo – La libertà è solo nella verità. L’alternativa è l’eristica, l’argomentare/battagliare sofistico e liberticida. La libertà è l’armonia dialettica tra soggetto e comunità. Libertà è relazione tra teoria e prassi. Senza la verità non vi è libertà.

György Lukács 020
Salvatore Bravo

La libertà è solo nella verità.
L’alternativa è l’eristica, l’argomentare/battagliare sofistico e liberticida.

La libertà è l’armonia dialettica tra soggetto e comunità.
Libertà è relazione tra teoria e prassi.

Senza la verità non vi è libertà.

 

 

Democrazia e capitalismo assoluto
I processi di dominio ed alienazione sono la verità del capitalismo assoluto. La pratica del capitalismo assoluto agisce secondo due direzioni convergenti: la struttura e la sovrastruttura speculari l’una all’altra. Il fine è non lasciare tempo e spazio per il pensiero e sostituirlo con il calcolo. La fase del rispecchiamento del capitalismo diviene così totalitaria. In assenza di discrepanze tra struttura e sovrastruttura non resta che il pensiero omologato e la necrosi della democrazia. Se la democrazia sopravvive perché è usata come mezzo ideologico contro i sovvertitori dell’ordine mondiale, la motivazione è da riscontrarsi nella sua riduzione a forma giuridica privata di ogni partecipazione sostanziale.
La “democrazia del capitale” rende sostanziale i diritti delle merci ed il loro feticismo, infatti possono circolare senza limiti nello spazio concreto e virtuale, attraversano l’etere per colonizzare le menti mediante le tecnologie. L’atmosfera al tempo del capitalismo assoluto è inquinata dall’invisibile circolazione di frequenze che trasportano messaggi commerciali; il capitalismo non lascia nessuno spazio libero: visibile ed invisibile si ritrovano accumunati nella densità quantitativa e calcolante.
Nel Timeo il Demiurgo soffiava nel corpo del cosmo per vivificarlo, donandogli un’anima unica che tutti accomuna; il capitalismo assoluto soffia nello spazio e nel tempo per dividere, per frammentare e lasciare dietro di sé un mondo fatto unicamente di cose. L’effetto di tale pratica non è solo la divisione e la formazione di individui anti-comunitari, ma una miriade di specializzazioni che consentono di acquisire un numero notevole di informazioni tecniche, ma inibiscono ogni pensiero della totalità.
Democrazia senza verità e senza prassi.
Pertanto, non resta che il calcolo nichilistico delle tecniche di produzione e controllo, a cui si è passivamente sussunti.
György Lukács coglie la profondità della crisi della democrazia occidentale, e nel contempo analizza nell’Unione Sovietica l’altro volto della stessa crisi: il neopositivismo imperante della burocrazia di Stato che, mentre controlla, nega la libertà consapevole della prassi, il farsi della libertà nelle circostanze storiche in cui gli esseri umani vengono a trovarsi. Il comunismo avrebbe dovuto fondare il regno della libertà, ma al suo posto non vi è che il potere sovietico speculare, seppure in in modo differente, al potere del capitalismo.

Verità e democrazia sostanziale
L’arsura della libertà è globale. G. Lukács ne analizza il suo realizzarsi per riflettere sulla grande possibilità della Rivoluzione russa di fondare una democrazia sostanziale trascendendo i limiti della democrazia borghese. La scomposizione del mondo in settori tecnici riafferma un mondo in cui non solo i settori della conoscenza, ma anche l’essere umano è disperso in funzioni, le quali alimentano il pensiero calcolante incompatibile con la partecipazione politica, la quale presuppone la capacità di intendere la totalità-verità, in modo da mettere in pratica processi collettivi trasformativi. Il pensiero calcolante e positivista è profondamente conservatore, poiché consente – al capitale come al comunismo burocratizzato – di ipostatizzarsi:

«Il processo si trasforma in una riunione obbiettiva di sistemi razionalizzati parziali, la cui unità è determinata soltanto calcolisticamente e che debbono quindi presentarsi in una reciproca accidentalità. La scomposizione razional-calcolistica del processo lavorativo annienta la necessità organica delle operazioni parziali che sono reciprocamente collegate e che arrivano ad unificarsi nel prodotto. L’unità del prodotto come merce non coincide più con la sua unità come valore d’uso: l’autonomizzazione tecnica delle manipolazioni parziali nelle quali essa sorge, mentre la società si trasforma da parte a parte in senso capitalistico, si esprime anche sul terreno economico come autonomizzazione delle operazioni parziali, come relativizzazione crescente del carattere di merce di un prodotto ai diversi gradi della sua produzione. Ed a questa possibilità di operare una scissione spazio-temporale nella produzione di un valore d’uso è di solito associata la connessione spazio-temporale di manipolazioni parziali che si riferiscono a loro volta a valori d’uso del tutto eterogenei».[1]

 

Rivoluzione russa: Trockij
La Rivoluzione russa è stata il luogo politico in cui le scissioni potevano risolversi per ricostituire l’unità aprendo alla libertà. Le condizioni storiche terribili in cui la Rivoluzione al suo esordio ha dovuto operare non ha impedito la discussione interna e il confronto tra modelli politici diversi di sviluppo della democrazia. Trockij proponeva non solo l’industrializzazione veloce – in quanto l’Unione Sovietica era in fortissimo ritardo rispetto all’Occidente aggressore – ma sosteneva specialmente la burocratizzazione dei sindacati, poiché la classe operaia non necessitava di corpi medi di discussione, in quanto Stato comunista.
Il comunismo era, in realtà, soltanto formale, perché l’uomo comunista doveva ancora delinearsi. Il potere politico formale non corrispondeva alla realizzazione effettiva dell’uomo e della donna comunisti, in quanto solo un lungo processo storico di crescita collettiva può formare ad una nuova prassi delle relazioni umane. Anche in questo caso le circostanze storiche ostili inducono ad una scelta che deve rispondere ai bisogni immediati degli uomini e delle donne e specialmente alla difesa dello Stato comunista:

«Poiché Trockij aveva divulgato un progetto d’una sorta di statalizzazione dei sindacati, così da poterne utilizzare le possibilità organizzative per elevare la produzione, cosa che a lui sembrava fattibile in quanto riteneva che in uno Stato operaio fosse superfluo proteggere specificatamente i lavoratori dal proprio Stato, Lenin precisò che in realtà quello era “uno Stato operaio con una deformazione burocratica”».

 

Lenin
Lenin dinanzi alla proposta politica di Trockij dimostra una maggiore consapevolezza. Il comunismo può sopravvivere solo se tiene fede al progetto politico in cui uomini e donne credono e sperano nel regno della libertà. Se tradirà le sue premesse, se non sarà capace di mediare le condizioni storiche con la teleologia ideale comunista, il fallimento sarà probabile. Lo sguardo politico di Lenin si volge dal presente verso il futuro. Il comunismo può diventare un’opportunità di riscatto universale solo se conserva, malgrado gli arretramenti e le contraddizioni, la chiarezza degli obiettivi. Se ricade in forme di dominio dell’uomo sull’uomo, non è che una diversa versione del capitalismo che si connota per lo sfruttamento. Nel comunismo e nell’estinzione dello Stato si addensano le speranze di millenni di storia umana:

«Nella sua opera principale in tema di democratizzazione socialista, Stato e rivoluzione, agli a un certo punto si trova a parlare del concetto di “estinzione” dello Stato: questa può luogo solo perché, “liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute, ripetute da millenni in tutti i cambiamenti, a osservarle senza violenza in tutti i cambiamenti, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato”». [2]

La prassi non può che concretizzarsi con un lungo processo, in cui le difficoltà necessitano di soluzioni che spesso possono contraddire apparentemente gli obiettivi. La grande sfida del comunismo, l’azzardo dialettico che esso ha tentato di mettere in opera, esigono energie immense, sacrifici titanici e specialmente un grandioso senso storico. Le difficoltà storiche e il sistema produttivo industriale inadatto ai grandi obiettivi del comunismo necessitano di grandezza ideologica e politica per portare l’Unione Sovietica verso il “nuovo mondo”.

Il possibile
Emerge la categoria del possibile, in cui si confrontano una serie di soluzioni alle circostanze storiche in cui l’Unione Sovietica si è trovata ad operare. Le soluzioni dallo sguardo corto o gli estremismi sono perniciose alla stessa Rivoluzione che per avanzare deve vivere su piani diversi e rispondere all’immediato storico senza privarsi dei grandi orizzonti, senza i quali la Rivoluzione è messa in pericolo, poiché il congelamento della Rivoluzione, la burocratizzazione del potere, inevitabilmente procurerebbe uno scollamento tra il vertice e la base. L’educazione, la formazione e la sconfitta dell’anafalbetismo sono la corrente calda che deve vivificare il popolo, prepararlo alla partecipazione, a neutralizzare i rischi dello statalismo. L’uomo e la donna comunista devono formarsi mediante nuove abitudini educandosi collettivamente a superare categorie del vecchio sistema zarista e capitalista che non sono scomparse con la Rivoluzione, anzi rischiano di riemergere velocemente.
L’abitudine ad una nuovo consapevolezza, non è meccanico automatismo, ma educazione graduale ad una nuova emotività, ad un lento riorientamento gestaltico emotivo e razionale che gradualmente devono coincidere, superando la scissione, sempre foriera di processi di reazione ed alienazione:

«Qui restiamo alla questione per noi centrale: come la democrazia socialista possa affermarsi nella vita quotidiana degli uomini. Lenin parla dell’abitudine come del motore più importante della estinzione dello Stato, in quanto essa rende gli uomini capace di andare avanti convivendo con il prossimo “senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione”. Ora l’abitudine è indubbiamente una categoria “sociologica” generalissima che non può non avere una parte rilevante in una società, e tuttavia, considerato così in generale è del tutto neutrale nei confronti di ciò cui ci si abitua e del modo in cui essa, per conseguenza, agisce sulla prassi della quotidiana degli uomini. Quel che Lenin ha in mente va, perciò, molto oltre una tale generalità sociologica “astratta”. Egli allude a un processo socio-teleologico nel quale tutte le azioni, le istituzioni, ecc. dello Stato e della società mirano ad abituare gli uomini a comportamenti da lui descritti».[3]

 

Nuove abitudini
Le nuove abitudini dell’uomo nuovo sono il motore della democrazia, devono esplicarsi nelle istituzioni come nelle banali azioni della vita. Le scissioni della vita borghese tra vita privata e vita pubblica devono saltare per unificarsi in una visione dell’esistenza e della politica. Il pericolo della Rivoluzione è di collassare sotto la pressione delle tragiche contingenze della storia, è il ritorno del passato nella forma della burocratizzazione. Il timore sempre vivo per un vero rivoluzionario dev’essere l’attenzione a scrutare il presente per cogliere le metamorfosi del passato, la democrazia socialista non è mai definitiva ed anche le buone abitudini possono perdersi sotto la pressione degli automatismi. L’abitudine di Lenin non è mai meccanica, ma sempre mediata dalla razionalità, è un lavoro continuo su se stessi, è interiorità che prende forma nella libertà e si estrinseca in prassi istituzionale:

«La sua battaglia appassionata contro le tendenze democratiche si fonda non solamente sulla sua precocissima percezione, estremamente critica, dell’impotenza ultima della manipolazione burocratica, ma anche in termini soggettivi, forse soprattutto sulla consapevolezza che, a causa della routine che scaturisce da una prassi tanto programmata, ogni burocratizzazione cela in sé per forza di cose la tendenza a rinsaldare il dominio del passato sul presente. Per questo nel movimento che dà vita ai cosiddetti sabati comunisti egli vede l’intenzione di andare verso l’autogestione dell’agire sociale delle persone che conduce oltre il dominio del passato, un’intenzione che può a suo volta condurre alla democrazia socialista, alla preparazione del “regno della libertà” e, attraverso un processo necessariamente lungo, ricco di contraddizioni e ritorni indietro, alla sua realizzazione».[4]

 

Sabati comunisti
Il 1 Maggio 1920 il partito comunista annunciava il primo sabato comunista. I sabati comunisti erano la premessa del mondo che verrà, del regno della libertà. In essi il lavoro è liberato dal valore di scambio, per diventare espressione dello spirito comunitario degli esseri umani. È lavoro che umanizza, in cui il soggetto si riconosce, ed in cui scopre che la prassi è servizio per gli altri, è gioia del dono:

«Ecco perché Lenin, a proposito della sostanza sociale dei sabati comunisti, dice: “Ma nel nostro regime economico non vi è ancora nulla di comunista. L’elemento ‘comunista’ incomincia soltanto quando appaiono i sabati comunisti, cioè il lavoro gratuito, che non è regolato da alcun potere, da alcuno Stato, il lavoro su larga scala di singole persone a vantaggio della società”».[5]

 

Il sabato comunista rientra nella strategia pedagogica e rivoluzionaria di Lenin, era finalizzato a destrutturare le incrostazioni della sovrastruttura capitalistica che sopravvivono alla caduta del capitalismo. Il regno della libertà non è l’effetto meccanico delle leggi della storia, ma necessita della libera mediazione razionale che si concretizza nell’azione educativa ed istituzionale. Il sabato comunista è la manifestazione aurorale dell’essere umano liberato dalle anguste categorie della valorizzazione. Ai sabati comunisti partecipavano lavoratori di ogni classe sociale accumunati da un unico fine: il bene della collettività. In modo simbolico anche i capi erano presenti, l’intento era di superare la scissione tra vertice e base. Il sabato comunista era parte di una pedagogia rivoluzionaria senza la quale la Rivoluzione rischiava di diventare patrimonio culturale e politico dei soli intellettuali e dei gruppi che in modo attivo avevano fondato l’Unione Sovietica. La cittadinanza attiva doveva essere parte imprescindibile dell’iter rivoluzionario, la strategia in tal modo non cadeva nel tatticismo.

 

Tatticismo staliniano
La strategia della libertà, non cade mai nel tatticismo, il quale è ideologico, ha lo scopo di difendere il potere e rispondere in modo semplicistico alle problematiche politiche. Stalin è abile nella tattica, esprime una diversa soluzione rispetto alle precedenti simili situazioni storiche: la difesa dell’ideologia comunista diventa un mezzo per eliminare l’opposizione e solidificare posizioni di potere e scelte indiscutibili:

«Così, quando Stalin nella seconda metà degli anni Venti ebbe tatticamente bisogno di dire che i suoi rivali, anche nel caso di minime differenze di principio, erano da smascherare come nemici della rivoluzione socialista, nacque la “teoria” secondo cui le divergenze d’opinione apparentemente piccole costituivano il pericolo massimo, essendo in realtà un raffinato mascherarsi del nemico Questo bisogno tattico ebbe poi l’incarnazione teorica di maggior rilievo nel movimento operaio internazionale, dove i socialdemocratici vennero dichiarati “fratelli gemelli” dei fascisti e l’ala sinistra della socialdemocrazia venne considerata la corrente ideologica più pericolosa all’interno del movimento operaio. (La critica di questo metodo è molto importante e attuale. Infatti esso compare oggi con la stessa frequenza che ai tempi di Stalin)». [6]

Il tatticismo è manipolazione, si disarciona la dialettica per sostituirla con il determinismo del materialismo dialettico, i margini del possibile sono cancellati a favore di un neopositivismo in cui costringere la vitalità storica. Nuovamente i soggetti diventano sudditi del potere, ogni partecipazione è negata in nome della teoria non solo indiscutibile, ma scientifica e pertanto la storia è predeterminata, ogni oppositore p inodore di follia, in quanto non intende l’inevitabile. Il passato ritorna ed il sogno sfuma, ogni corpo medio è sciolto, ogni discussione è oggetto di sospetto ed indagine. Il tatticismo burocratico ed economicistico toglie alla Rivoluzione l’anima per renderla struttura di potere in competizione con le democrazie manipolatrici:

«Per Stalin invece l’ideologia viene “liquidata” e basta, cioè è semplicemente oggetto di una dinamica sociale: per l’appunto la manipolazione staliniana. La spinta intrinseca alla manipolazione ci si rileva nella maniera più evidente davanti alla questione vitale dello smantellamento staliniano della struttura consiliare dello Stato socialista In precedenza abbiamo tentato di mettere in luce come un connotato fortemente innovativo del sistema consiliare fosse proprio il superamento sociale dell’idealismo del citoyen, caratteristico della società borghese. Il cittadino attivizzato secondo l’essenza del socialismo dalla pratica burocratica dei problemi generali della società non doveva più essere una entità “ideale” separata dall’uomo reale (l’homme delle costituzioni democratiche), alla quale entità corrispondeva nella vita quotidiana, come sua fondazione, l’uomo materiale, egoista, della società civile, ma al contrario doveva essere un uomo teso a realizzare materialmente, fattualmente, in cooperazione collettiva con i suoi consimili la propria socialità nella vita quotidiana, dalle immediate questioni quotidiane agli affari di Stato. […] La soluzione tattica dei problemi del tempo fu lo smantellamento radicale, burocratico, di ogni propensione che potesse trasformarsi in atto preparatorio di una democrazia socialista. Il sistema dei Consigli cessò in pratica di esistere».[7]

 

Sistemi a confronto
Lukács trova nel regime sovietico e nel “capitalismo democratico” la stessa verità, ovvero la manipolazione. Con Levinas potremmo utilizzare l’espressione il y a: la libertà è l’armonia dialettica tra soggetto e comunità; nei totalitarismi – riconosciuti e non –, il popolo diventa massa, un corpo indifferenziato pronto ad essere utilizzato per fini eteronomi. La denuncia del pensatore ungherese è ad ampio orizzonte. La storia dell’Unione Sovietica serve per leggere la storia del sistema che si dichiara democratico, ma che in realtà nasconde tra le sue pieghe problemi e limiti simili, ma espressi con mezzi tecnici e ideologici differenti. Pertanto la semplice contrapposizione, ha permesso la sopravvivenza dei due sistemi, e non di rielaborare criticamente il superamento dialettico di entrambi. Perché si possano riallacciare i sentieri interrotti della democrazia sostanziale e socialista, è necessario rileggere il pensiero marxiano e riattivare la categoria della prassi e della logica della modalità, le quali introducono nella storia la libertà, il possibile decisionale storico contro le forme di positivismo che naturalizzano il capitalismo ed in passato sono servite per congelare la storia dei paesi comunisti.

 

Prassi e libertà
La filosofia della prassi è già politica, in quanto la consapevolezza che la storia non segue le leggi naturali, ma è lo spazio ed il tempo in cui gli esseri umani decidono responsabilmente e rispondono dei loro errori, libera dai ceppi ideologici del positivismo. Bisogna rimettere al centro la libertà, la qualità della libertà contro il liberticidio dell’edonismo tecnocratico; libertà è relazione tra teoria e prassi senza la quale l’essere umano non è che un suddito dei poteri trascendenti, a cui deve obbedire negando la sua essenza (Gattungswessen).
Il tatticismo è la negazione della verità della politica, poiché non ha finalità universali da mediare nelle contingenze, ma si limita alla difesa ideologica del particolare, di interessi immediati. Non vi è conseguentemente un progetto comune, ma solo razionalità strumentale senza razionalità oggettiva. Il tatticismo prepara la gabbia d’acciaio, in quanto è l’eternizzarsi del presente, mentre la libertà è il movimento della storia. La storia senza dialettica è la negazione dell’essere umano e prepara la disperazione del presente:

«Proprio questo legame del regno della libertà con la sua base socio-materiale, con il regno economico della necessità, mostra come la libertà del genere umano sia il risultato della propria attività. La libertà, e anche la possibilità di essa, non è qualcosa che sia dato per natura, né un dono dall’ “alto”, e neppure parte integrante – d’origine misteriosa – dell’essere umano».[8]

Se nella storia si forma il nuovo, e si riconosce la verità, nessuna teoria può profetizzare il nuovo con esattezza. Ma senza la teorizzazione politica la storia è consegnata al caos; la teoria in contatto con la prassi mette in atto la libertà e la responsabilità dell’essere umano, in quanto la libertà è l’attività che deve fare interagire teoria e prassi.

La libertà è solo nella verità. L’alternativa è l’eristica (dal greco ἐριστική τέχνη), l’argomentare/battagliare sofistico e liberticida. Senza la verità non vi è libertà, poiché la verità pone il limite, permette alle pluralità di riconoscersi sul comune confine. La verità è nella storia, è metafisica del quotidiano senza il quale non vi è che la violenza dell’alienazione.

Salvatore Bravo

[1] György Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973, p. 115.

[2] Ibidem, p. 64.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem, p. 66.

[5] Ibidem, pp. 66-67.

[6] Ibidem, pp. 96-97.

[7] Ibidem, pp. 98-99.

[8] György Lukács, L’uomo e la rivoluzione, Punto rosso, Milano 2013, p. 22.




György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.
György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
György Lukács (1885-1971) – Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce.
György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.
György Lukács (1885-1971) – Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire.

Salvatore A. Bravo – L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve.

L'albero filosofico del Ténéré

323 ISBN

Salvatore A. Bravo

L’albero filosofico del Ténéré.

Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve

Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt)
al fondamento veritativo
in Costanzo Preve

 

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il convitato di pietraL’ospite inquietante, il nichilismo, è fra di noi.

Perché possa esserci vita degna d’essere vissuta è necessario riportare il fondamento veritativo nella vita degli esseri umani. Costanzo Preve ha fatto dell’esodo dal nichilismo economicistico il telos del suo filosofare. Dalla periferia in cui si è posto ha guardato la complessità del problema e il suo volto meduseo, senza distogliere lo sguardo. Ha testimoniato con la vita e le opere che il nichilismo non è un destino, ma una condizione trasmutabile. Sentiamo l’assenza di uomini dalla passione durevole.

Questo testo è dedicato a Costanzo Preve e a coloro che vogliono accostarsi al problema avendo deciso di non distogliere lo sguardo, di non voler più vivere nell’indifferenza, in un mondo di sole merci.

 

convitato di pietra cop

Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo

 


 

Nel pensiero di Costanzo
che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, e…
Venturi non immemor aevi.

 

Il cartiglio sullo stemma di uno dei protagonisti della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:

Venturi non immemor aevi*

Parole che ci ricordano quanto forte fosse in Costanzo Preve l’esigenza di saldare il passato al futuro, di leggere il presente con gli occhi del futuro, un presente che non dimentica il passato e sa trarne insegnamenti. Il futuro che trova dunque riverberi di senso in un passato e che – transitando per il presente – sembra attendere la sua ventura rammemorazione, orientando così il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo aspettative e speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. Noi siamo storia e siamo la nostra storia nella storia. Siamo una trama di significati. La storia è soprattutto trama di significati universali. E per ogni essere umano è trama di significati di quel che la persona è stata ed è, le scelte che ha compiuto e che ha in animo di compiere, le azioni che ha messo in atto per concretizzare la propria progettualità sociale e il proprio cammino di conoscenza, come pure le azioni che non ha messo in atto per preservare la propria identità in questo cammino. La storia di chi ha cercato (e cerca) di vivere con profondità di senso e di valori ogni esperienza di comunicazione è costituita dalla traccia di significato di quei fatti che continuano ad essere in lui vitali e, preservati in spirito, ad illuminare il proprio presente nella progettazione di ponti verso il futuro. Siamo storia e siamo la nostra storia nella storia. Dobbiamo sempre cercare una possibile strada per liberarci dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno che ci avvolge da ogni lato cercando di convincerci che sia possibile vivere solo “al presente”, senza bisogno di storia, senza bisogno di passato, senza bisogno di futuro. Le nostre tracce di significato sono ponti, sono ciò che unisce “quel che è stato” a “quel che sarà”. Perché i ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero che pongono in comunicazione.Attraverso questi ponti eidetici noi consentiamo, e ci consentiamo, un passaggio, un attraversamento, non solo da un luogo ad un altro, ma soprattutto dal passato al presente, dall’oggi al futuro, dalla vita alla vita. L’antropologia capitalistica ci riserva solo distopia: offre “in dono” il “presente assoluto” obliando che il senso profondo della cultura e della storia, anche della nostra storia, lo dobbiamo trovare progettando quei ponti su cui si sedimentano tracce di significato. Ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello, promuovendoli nella relazione con tutti coloro che incontriamo nell’attraversamento della quotidianità, generando ciò che davvero vale e che ci sopravvive, ponti generazionali.
E dunque, caro Costanzo, ad multos annos per i semi che hai lasciato: questo l’augurio, per una sempre nuova “avventura” che occorre però desiderare (avventura, andare verso le cose future, ad ventura), impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita, proiettandola nell’altrove della buona utopia, che è negazione dell’indeterminato capitalistico, una concreta utopia comunitaria perseguita con itinerari da progettare insieme, non immemor aevi venturi. Ecco la sostanza della passione durevole che, a partire da Lukács, hai trasmesso a molti.

Carmine Fiorillo, 2019

*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].


Introduzione

«Una prospettiva di lunga durata. Dal momento che la storia non è caratterizzata dalla prevedibilità, ma dall’aleatorietà, non possia­mo sapere se il profilo culturale che proponiamo avrà successo o meno, resterà a lungo minoritario e marginale oppure si diffonderà in tempi non biblici. Non lo sappiamo. Teniamo però la barra del timone diritta, se siamo convinti di quello che pensiamo e soprattutto non giudichiamo i successi e/o i fallimenti con il parametro errato ed illusorio del cosiddetto “breve periodo”. La commedia del ciclo di illusioni e di successivi pentimenti ha già caratterizzato la generazione del sessantotto. Direi che ne basta ed avanza una».1

 

Costanzo Preve

 

Questo saggio è dedicato a Costanzo Preve
Non è stato un facitore di parole, ma un pensatore libero.

Mi sono dedicato alla lettura della sua produzione filosofica per una semplice ragione: leggendo i suoi testi ed ascoltando i suoi interventi, non poche volte ho sentito da lui pronunciare una frase, la quale è l’essenza del suo pensiero, e racchiude il telos2 del suo filosofare:

«Capire è molto più importante che appartenere».3

Per poter capire è necessario rimettere in moto con il pensiero la catena dei perché. La passione durevole per la Filosofia si struttura nella perenne domanda: “Perché?”. Si abbattono le abitudini, gli stereotipi di un sapere burocratizzato e parte del dispositivo di riproduzione sociale. Con la catena dei perché Costanzo Preve porta il lettore verso il riorientamento gestaltico. La domanda profonda è libertà nella mediazione concettuale domandante e senza di essa non vi è che l’animalizzazione dell’essere umano, il suo farsi ente ideologico negli automatismi della riproduzione sociale dei poteri e della produzione: il nostro è un mondo senza domande in cui regna la distopia dell’esattezza.

Preve ha scelto la Filosofia, non l’ideologia, la libertà, non il conformismo del “politicamente corretto”.

La disposizione alla libertà ha affinato la metodologia di indagine, per emancipare le domande dalle sovrastrutture ideologiche.

Se prevale l’appartenenza non si può filosofare: il filosofo è un cercatore peren­ne di concetti e superamenti.

Ci sono tanti modi di donarsi.

Costanzo Preve ha testimoniato la libertas philosophandi, ancora possibile, malgrado le burocrazie plutocratiche e mediatiche del sapere.

La postura periferica scelta da Preve, rispetto ai contesti strutturati delle accademie, ha consentito alla sua indagine di solidificarsi con il tempo senza chiusure. Pertanto, la sua priorità è stata: “Capire”. Ha sentito fortemente la vocazione politica e filosofica e, dato che filosofare è capire e vivere il proprio tempo, ha posto il problema del fondamento veritativo.

Trasgressivo – in un’epoca di nichilismo, nella quale la libertà è dimenticanza di sé e della propria identità umana – egli ha teorizzato l’uscita dal deserto del nichilismo, dell’alienazione, osando ricondurre la Filosofia nell’alveo della sua storia.

Contro la dispersione dei nichilismi, ha riportato in luce la verità quale fon­damento della pratica filosofica.

L’integralismo economicistico ha indotto a teorizzare il consumo dell’essere.4

Nella dipintura della Scienza Nova Vico utilizza un’immagine metaforica per rappresentare il suo progetto: il globo poggia di lato sull’altare e su di esso una donna simbolizza la metafisica. Il globo non occupa tutto lo spazio, ma lascia un ampio spazio libero, simbolo di libertà creativa.

La Storia è il campo del possibile che si coniuga con l’eterno (la luce). Nella contemporaneità la dipintura dovrebbe essere notevolmente diversa: l’economicismo potrebbe essere il globo che regge la nuova metafisica che a sua volta guida il mondo, ma che occupa tutto lo spazio dell’altare.

Nell’epoca dell’intemperanza, degli orci bucati,5 Costanzo Preve ha posto l’urgenza del problema: l’illimitato sta divorando la nostra natura umana ed il nichilismo di conseguenza va giudicato e compreso nei suoi effetti, per ipotizzare una collettiva via d’uscita dall’ospite inquietante.

In generale coloro che oggi si occupano di filosofia hanno legittimato il pensiero debole finendo in tal maniera per sclerotizzare il presente contribuendo alla sua riproduzione.

Costanzo Preve, dinanzi al bivio dóxa (opinione)/“lÉqeia (verità), ha scelto il percorso più difficile: si è assunto il rischio del nuovo e della verità.

Non si tratta di santificarne il pensiero e la testimonianza, operazione che ri­sulterebbe fortemente antifilosofica, ma di riconoscere un percorso, la cui onestà è di tutta evidenza.

Non oso propormi come esperto del pensiero di Costanzo Preve: l’abbondanza di fonti cartacee, digitali, mediatiche rende non semplice la genetica del suo pensiero.

Ho solo tentato di rintracciare – attraverso l’immagine del deserto in Nietzsche e nella Arendt – il processo genealogico di uscita dal nichilismo indicatoci da Costanzo Preve.

Nel deserto attuale, la Filosofia di Costanzo Preve è come l’Albero del Ténéré nel deserto del Niger: un punto di riferimento in quel nulla in cui tutti i grani di sabbia sembrano uguali. Per attraversarlo, per uscirne, occorre una bussola.

 

Salvatore A. Bravo

***
*

Note

1 Costanzo Preve, Torino, ottobre 2007.

2 Dal termine greco τέλος, “fine”.

3 «Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido» (C. Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 6).

4 «Nel mondo filosofico italiano è stata dominante per almeno due decenni l’interpretazione di Heidegger data da Gianni Vattimo, un pensatore con cui sono in disaccordo radicale e nello stes­so tempo stimo come un produttore di proposte minimamente originali. Secondo Vattimo, Heidegger non avrebbe soltanto sostenuto che la lunga storia della metafisica occidentale si risolve in tecnica planetaria, ma addirittura che l’Essere si è consumato come fondamento ontologico ed è rimasto solo come prospettiva linguistica ed ermeneutica. Questo “consumo”, tuttavia, non deve essere vissuto come perdita da piangere in modo inconsolabile, ma come risorsa da valorizzare per un mondo post-metafisico. E sull’inesorabile avvento di un mondo post-metafisico da salutare come un destino e come una risorsa insieme sono d’accordo due fra i filosofi più conosciuti oggi al mondo, il tedesco Jürgen Habermas e l’americano Richard Rorty. Vorrei terminare questo terzo capitolo con una riflessione su questo punto. Io ritengo la teoria di Vattimo del cosiddetto “consumo” dell’Essere una formulazione spontanea (certamente inconsapevole e non avvertita come tale dal suo incauto formulatore) del segreto del momento storico che si sta aprendo, e cui accennerò nel prossimo capitolo. Non si tratta più del fatto, già noto agli antichi greci, che il tempo (chronos) ci consuma e ci divora e dunque ci trasforma in polvere» (ibidem, pp. 45-46).

5 «Socrate – Allora voglio riportarti un’altra similitudine, che proviene dalla stessa scuola da cui viene quella di cui ti ho appena parlato. Considera la vita dell’uno e dell’altro, la vita cioè dell’uomo temperante e quella dell’uomo senza freni, se si può dire che è come se, di due uomini, ciascuno di essi possedesse molti orci, e l’uno avesse i suoi sani e pieni, uno di vino, un altro di miele, un altro ancora di latte, e molti altri orci pieni di molti altri liquidi, e i liquidi contenuti in ciascuno di essi siano rari e ottenibili a prezzo di molte e dure fatiche: costui, dopo averli riempiti, non dovrebbe più portarvi altro liquido né darsene alcun pensiero, ma riguardo ai suoi orci potrebbe stare tranquillo. Anche per l’altro, come per il primo, è possibile procurarsi quei liquidi, sebbene siano difficili da ottenere, ma i suoi orci sono forati e logori: costui sarebbe costretto a riempirli continuamente, notte e giorno, perché, se così non facesse, patirebbe i dolori più grandi. Ebbene, supponendo che sia tale la vita di ciascuno di costoro, puoi dire che la vita dell’uomo dissoluto è più felice di quella dell’uomo ben regolato? Con questo mio ragionamento ti persuado ad ammettere che la vita ben regolata è migliore di quella sfrenata, o non ti persuado?» (Platone, Gorgia, Acrobat in Internet, p. 26).

 


Indice

 

Venturi non immemor aevi
Introduzione
Il problema
Deserto e oasi
Nichilismo e macchinismo
Crescere senza nascere
La tecnoeconomia del nichilismo
Il nichilismo dello scambio interiorizzato
La categoria del possibile contro i nichilismi
L’oasi
La Filosofia come eterotopia
L’irrilevanza, paradigma del nichilismo
La megalopoli
La smart city
Intensità, estensione, automatismo
Behemoth
Il nulla nulleggia ancora
Guardare negli occhi il nichilismo/deserto
Nichilismo e riorientamento gestaltico
Misura, isonomia, isogoria, isorropia
Intermezzo
Oltre il nichilismo
Fuori dal deserto
Laico ma non ateo
Quale Rivoluzione?
La Filosofia: una difficile definizione
Conclusione
Indice dei nomi

 


Lalbero-del-Ténéré-1

L’albero del Ténéré (in francese arbre du Ténéré),

esemplare di Acacia tortilis (Acacia a ombrello), pianta che si ergeva solitaria nel deserto del Ténéré, una regione desertica nella parte centromeridionale del Sahara, nordovest del Niger. Costituiva un punto di riferimento per le carovane di cammelli che attraversavano questo deserto, in quanto non ve n’erano altri nel raggio di alcune centinaia di chilometri tutt’intorno.

 



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Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.

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Coperta 300

Costanzo Preve

L’alba del Sessantotto. Una interpretazione filosofica

[Nuova edizione riveduta e corretta]

indicepresentazioneautoresintesi

l Sessantotto è diventato un evento simbolico della storia del Novecento, e per comprenderlo adeguatamente bisogna unirne nel pensiero i suoi due aspetti contraddittori. Da un lato, un estremo tentativo di ringiovanimento delle rivoluzioni anticapitalistiche ottocentesche e novecentesche. Dall’altro, una riuscita modernizzazione del costume e delle forme di dominio sociali, rese più flessibili ed informali. Chi si limita ad evidenziare un solo aspetto del problema non coglie la duplicità del fenomeno.

Come estremo tentativo di ringiovanimento delle rivoluzioni sociali della modernità, il Sessantotto ha dato luogo a filosofie di ottimo livello (da Louis Althusser a György Lukàcs), a pratiche politiche specifiche (dall’antifascismo all’operaismo), ed è stato il momento spartiacque fra la conclusione di un lungo dopoguerra e l’inizio di un’irresistibile mutamento di fase storica. Come momento di modernizzazione capitalistico, il Sessantotto è divenuto un mito di fondazione ideologica di una nuova classe dirigente “flessibile”, allora ancora indistinguibile.

L’interpretazione proposta è quella del Sessantotto come passaggio (cioè come condensazione temporale esemplare) di un processo di modernizzazione capitalistica che ha assunto la forma di una rivolta antiborghese, sulla base di una falsa coscienza necessaria basata su di una ideologia del ritorno alle sorgenti rivoluzionarie originali dell’utopia comunista. Il Sessantotto non fu dunque un “gioco”, ma un evento legittimo e per molti aspetti tragico della storia del Novecento.


Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.
Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante
Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione
Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.
Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.
Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.


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György Lukács (1885-1971) – Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire.

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Questo volumetto è un puro prodotto della metà degli anni Venti. Perciò non è certo privo d’interesse come documento sul modo in cui uno strato di marxisti allora non insignificante considerava la personalità, la missione di Lenin. […]
Se però ofgfgi si vuole respingere in tutti i campi il livellamento dogmatico, le esperienze degli anni Venti possono dare impulsi fecondi solo per vie indirette […].
Lenin possiede, fino nelle reazioni nervose spontanee, la fedeltà ai principi propria dei precedenti grandi asceti della rivoluzione, mentre nel carattere non è neppure sfiorato da un’ombra di ascetismo. […]
Se Che fare? è un titolo simbolico per tutta la sua attività di scrittore, l’idea teorica centrale di questa opera è una sintesi anticipata di tutta la sua visione del mondo. […]
Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire. […]
Se oggi, quando la manipolazione divora la prassi e la deideologizzazione divora la teoria, questo ideale non è tenuto in grande onore dalla maggioranza degli “specialisti”. Al di là dell’importanza dei suoi atti e delle sue opere, la figura di Lenin, come incarnazione del continuo “esser preparati”, rappresenta un valore incancellabile come tipo nuovo di atteggiamento esemplare di fronte alla realtà.

György Lukács, Postilla all’edizione italiana, Budapest, gennaio 1967.

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György Lukács, Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, Einaudi, 1976.

È interessante rileggere oggi, a distanza di 41 anni, la quarta di copertina di questo libro, scritto nel 1924, pubblicato da Einaudi in seconda edizione nel 1976. Il lettore attento saprà cogliere da sé il significato di questa npostra sottolineatura … altri tempi!

Questo saggio di György Lukács su Lenin appare in Italia a più di mezzo secolo dalla sua prima edizione tedesca: ma l’odierno dibattito intellettuale gli conferisce un’inattesa attualità ed efficacia. Sia Lenin che Lukács, in modi diversi, sono al centro di una riflessione critica nuova, che ne ripercorre il pensiero e l’opera in funzione di un’esperienza etico-storica quanto mai aperta e inquieta. Perciò riesce particolarmente vivo e appassionante questo Lenin visto come espressione dell’intima forza motrice di un’età rivoluzionaria da un Lukács immerso nell’atmosfera tempestosa dell’Ottobre e fiducioso nelle sorti del rivolgimento mondiale.

Se il Lenin di Lukács è una figura centrale dello sviluppo della coscienza universale, il Lukács di Lenin è un momento-chiave dell’itinerario speculativo del grande pensatore. Dal loro incontro è nato un libro d’eccezione, che ancor oggi vale a interpretare problematicamente tanto il rivoluzionario russo quanto il filosofo ungherese.


Per chi volesse leggere il testo, sula rete potrà trovare la scansione integrale del libro:

György Lukács, Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario


Salvatore Bravo, Una recensione al libro di G.Lukács


György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.
György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
György Lukács (1885-1971) – Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce.
György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.


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