Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.

Giovanna Borradori
Filosofia del terrore

Filosofia del terrore

«La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. Essa è la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere. Tutto deve vivere purché circoli e produca col movimento la ricchezza di alcuni contro la povertà di molti. Tolleranza che si insinua nelle istituzioni: lasciar vivere le persone come i modelli culturali fin quando non intaccano il potere finanziario, il modello culturale unico che per grazia concede l’esistenza. Lo splendore della gogna è sostituita dal potere che cede la possibilità del soffio vitale: la cultura classica come la religione sopravvivono per grazia otriata nel difficile mondo della globalizzazione. Ogni potere è autoidolatra, misura la propria forza con la percezione che ha di sé, solitamente si sente onnipotente. La società della tolleranza è la società inospitale. L’ospite è accolto, riconosciuto nella sua identità nella dialettica individuale-universale. Non conosciamo l’ospitalità per le persone ed i gruppi che si discostano dalla legge della globalizzazione, della finanziarizazione del presente, come dei modelli culturali che la tradizione ci ha consegnato affinché fossero accolti e ‘sentiti vivi’ per nuove avventure creative. Al posto della integrazione e dell’accoglienza dell’ospite vige il regno della tolleranza: fenomeno da baraccone, inautentica integrazione che cela nelle sue pieghe il giudizio malevolo e strisciante contro le differenze. È evidente quanto la tolleranza sia il sintomo della violenza del modello unico, che deve far emergere le differenze per svuotarle e colonizzarle. La campagna dei cento fiori è in atto e non riconosciuta nell’occidente del libero mercato. Derrida descrive il valore della tolleranza all’epoca della globalizzazione: «La tolleranza è l’inverso dell’ospitalità o perlomeno il suo limite. Se credo di essere ospitale perché sono tollerante, voglio limitare la mia accoglienza, mantenere il potere sull’altro e controllare i limiti della mia “casa”, la mia sovranità, il mio “io posso” (il mio territorio, la mia casa, la mia cultura, la mia religione)».[1]

La tolleranza sorvegliata, dai cento occhi che si allungano per ritagliare margini di spazio a ciò che è altro o vissuto come altro. La cultura della tolleranza diventa cultura del sopportare e del sopportarsi. La mosca di Wittgenstein non trovava l’uscita dalla bottiglia perché metaforicamente incapace di giochi linguistici. La prigione che si ritaglia per gli altri diventa la propria. Molti occidentali hanno tutto ma non sono capaci di seguire se stessi, la propria indole, riducono gli interessi più vivi che li attraversano a pura presenza scenica perché il potere sibila e giudica … tollera. Ogni lasciar vivere è già una distanza, una presa di posizione in cui il giudizio verticalizzato cade e riposiziona l’altro nella distanza del calcolo economico: l’unica passione da seguire è quella mercantile, fare di sé un pezzo dell’economia, un capitale per illimitati investimenti.

Che fare?

Derrida constata la fluidità del potere globale, la sua instabilità e complessità che riportano il possibile in un mondo privato della storia e dunque può tollerare le differenze perché ha vinto il modello vigente. La storia è finita per cui si può sopportare la presenza delle differenze in quanto non cambiano la condizione della fine della storia. Per Derrida la storia non è conclusa, il ventre molle della globalizzazione pone le condizioni storiche per la lotta consapevole a livello locale, internazionale ed intellettuale: «Io credo che i nostri atti di resistenza debbono essere allo stesso tempo intellettuali e politici. Dobbiamo unire le forze per fare pressione e organizzare contrattacchi; e dobbiamo farlo su scala internazionale e secondo modalità nuove, ma sempre analizzando e discutendo i fondamenti più riposti delle nostre responsabilità, le loro basi, le loro eredità e i loro assiomi».[2]

Le contraddizioni attraversano la globalizzazione. Riportarle al centro della scena offre la possibilità di scardinare il simulacro della tolleranza per svelarne i limiti e le urgenze sulle quali ogni silenzio è già complicità, zona grigia, appunto tolleranza reazionaria e conservatrice. Piuttosto bisogna reintrodurre l’idea dell’ospitalità incondizionata, vera rivoluzione copernicana, che consente una disponibilità all’accoglienza, alla sorpresa dell’altro e del nuovo.[3] Mi accorgo bene che questo concetto della pura ospitalità non ha oggi alcuno statuto giuridico o politico. Nessuno Stato lo ha iscritto tra le sue leggi. Ma senza il pensiero progettuale di quest’ospitalità  non si dà alcun concetto di ospitalità in generale, e forse non si potrebbe neppure determinare alcuna norma dell’ospitalità condizionata (con i suoi riti, il suo statuto giuridico, le sue convenzioni nazionali e internazionali)».

Salvatore Bravo

[1] Giovanna Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, 2003, p. 137.

[2] Ibidem, p. 135.

[3] Ibidem, p. 138.

 

 

 

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Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Giorgio Agamben 02
Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone

Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone

 

 

Quel che resta di Auschwitz

Giorgio Agamben, in Quel che resta di Auschwitz, mette in pratica la virtù filosofica dell’eterotopia. Il termine, coniato da M. Foucault per indicare un processo di destrutturazione dei linguaggi consolidati, consente di analizzare secondo una nuova prospettiva il significato dei campi di sterminio. Pone al centro un problema che si tende ad eludere, a non osservare, perché parla di noi, dell’occidente e della sua storia. La Gorgone è ciò che non si può guardare, è il fondo a cui ci trascina la visione dell’impossibile che diventa possibile, dopo Auschwitz l’impossibile diverrà possibilità realizzata. L’impossibile può accadere. La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo.[1] Che nel “fondo” dell’umano non vi sia altro che una impossibilità di vedere – questa è la Gorgona, la cui visione ha trasformato l’uomo in non-uomo. Ma che proprio questa non umana impossibilità di vedere sia ciò che chiama e interpella l’umano, l’apostrofe da cui l’uomo non può distrarsi – questo, e non altro è la testimonianza. La Gorgona e colui che l’ha vista, il musulmano e colui che testimonia per lui, sono un unico sguardo, una sola impossibilità di vedere.

Il movimento della domanda, l’eterotopia, inquieta ed invita a nuove domande, a nuovi livelli di coscienza a cui non ci si può sottrarre. La domanda che pone Agamben è nell’orizzonte del “nerbo” di Auschwitz; lo sguardo posato sull’impossibile vorremmo respingerlo, ma, come l’Angelus novus di Benjamin, solo se lo sguardo regge la prospettiva della Gorgone la speranza potrà dimorare tra noi. Il nerbo di Auschwitz non ha testimoni, non ci sono le parole di coloro che furono oggetto di un esperimento antropologico. In assenza di una natura umana razionalmente condivisa, il nulla, il nichilismo realizza la sua opera. Uomini senza storia, senza nomi, ridotti a pura vita biologica, sono la testimonianza priva di parole del campo di sterminio. Tra l’umano e l’inumano, vi sono uomini che non appartengono all’umanità, ma non sono cose, sono enti indefiniti ed indefinibili. Sono in una linea nella quale si dipana e compare la violenza del nichilismo. Il musulmano descritto da Levi nei suoi testi, è un uomo ripiegato su se stesso, non ha relazione con se stesso e con gli altri, è solo carne esposta alla violenza della storia. Il campo di sterminio è la realizzazione assoluta della razionalità senza logos. Per cui, sottratto il logos, non resta che un uomo minimo, un sottouomo, riconoscibile nella sua umanità dalla solo forma biologica: il musulmano. Il motivo per cui si decise di chiamarli in tal modo non è chiaro, probabilmente per la posizione che assumevano, somigliante ad un musulmano in preghiera.

Il campo di concentramento svela un’altra verità: l’abitudine allo stato di eccezione. L’intera realtà del campo era stata capace di trasformare l’eccezionale in quotidiano. La linea di confine tra diritto e stato di eccezione si era estinta nella quotidiana tragedia del nichilismo, nella irrisione ad ogni limite[2]. Auschwitz è precisamente il luogo in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano. Ma è proprio questa paradossale tendenza a ribaltarsi nel suo opposto che rende interessante la situazione-limite. Finché lo stato di eccezione e la situazione normale vengono, come avviene di solito, mantenuti separati nello spazio e nel tempo, allora essi, pur fondandosi segretamente a vicenda, restano opachi. Ma non appena mostrano apertamente la loro connivenza, come oggi avviene sempre più spesso, essi si illuminano l’un l’altro per così dire dall’interno. Ciò implica, tuttavia, che la situazione estrema non può più fungere, come in Bettelheim, da discrimine, ma che la sua lezione è piuttosto quella dell’immanenza assoluta, dell’essere “tutto in tutto”. In questo senso, la filosofia può essere definita come il mondo visto in una situazione estrema che è diventata la regola (il nome di questa situazione estrema è, secondo alcuni filosofi, Dio).

Lo stato di eccezione a cui tanto pericolosamente oggi ci stiamo abituando, assottiglia la differenza tra normale stato di diritto e sospensione degli stessi da parte di un non identificabile potere sovrano. L’economia con i suoi provvedimenti eccezionali continui, metafisica presenza, sottrae, con i diritti sociali, il logos, per restituirci un’umanità da “io minimo” sempre più china sul biologico. Il testo di Agamben si presta ad un’ulteriore eterotopia: i musulmani sono finiti con i campi, o nuove forme si stanno materializzando nell’omologazione delle voglie che sostituiscono i desideri. Generazioni schiacciate sull’utile da sistema rischiano di perdere il loro sentire consapevole che consente la relazione tra il dentro ed il fuori. L’autismo emotivo caratterizza i nuovi musulmani. La nuova caverna del capitalismo assoluto ha i suoi musulmani che non vogliamo vedere per non scoprirci uomini della zona grigia. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Salvatore Bravo

[1] Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 30.

[2] Ibidem, p. 28

 

 


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