Maria Rita Prette – «La guerra che fingiamo non ci sia». Il capitalismo, meglio se bianco e ricco, può impunemente compiere atti di guerra: sono semplicemente crimini e se guardiamo fra le pieghe della nostra sonnolenta coscienza potremmo scoprire di esserci anche noi fra quei criminali.

Maria Rita Prette–Renato Curcio

La guerra che fingiamo non ci sia

Maria Rita Prette

La guerra che fingiamo non ci sia

Sensibili alle foglie, 2018

 

Sommario

INTRODUZIONE

UN EVENTO QUALSIASI

LA SCOMPARSA DEI CORPI
I soldati potenziati
I Kamikaze
La spettacolarizzazione dei corpi

LA PRIVATIZZAZIONE DELLA GUERRA
I contractors

L’ITALIA IN GUERRA
La NATO e gli I USA in Italia

PALESTINA DOCET

ARMI LECITE E NON LECITE:
DIPENDE DA CHI LE USA
Armi chimiche
Le armi, merci per eccellenza
Armi leggere
Armi pesanti

ARMI NUCLEARI
L’uranio impoverito

LA GUERRA VIRTUALE
I Caccia F-35
I Droni armati
I Droni sul campo di battaglia

“LA GUERRA STA ARRIVANDO”

LA GUERRA CIBERNETICA
Guerre stellari

LA PROPAGANDA
La cultura della guerra

L’OPINIONE PUBBLICA

 

 

Introduzione

Quando il nemico diventa un mero materiale pericoloso
e lo si elimina da lontano, guardandolo morire sullo
schermo dal caldo bozzolo di una safe zone [zona sicura]
climatizzata, la guerra asimmetrica si radicalizza fino a
diventare unilaterale. Perché certo, si muore ancora, ma
da una parte sola. Grégoire Chamayou

***

Il progresso dell’Occidente non sarebbe stato possibile
senza la schiavitù, il genocidio e il colonialismo. Kelinfe Andrews

 

Siamo in guerra ma facciamo finta di non saperlo. Su di noi non cadono bombe. La contraerea delle postazioni militari italiane non è attiva, non dobbiamo correre nei rifugi durante il giorno o nelle notti in cui dal cielo non piovono stelle. Ma siamo in guerra. Ci siamo da così tanto tempo e con così tanta indifferenza da non rendercene neanche più conto.
Alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e all’esaurimento della Guerra Fredda non ha fatto seguito una conferenza di pace, come era accaduto alla fine di ogni conflitto tra Stati negli ultimi secoli. Un accordo che formalizzasse un nuovo ordine internazionale, e stabilisse nuove regole, prendendo atto del passaggio epocale segnato dalla cessazione del conflitto Est-Ovest. Il nuovo ordine è stato stabilito da nuovi Regolamenti del tutto interni agli organi istituzionali deputati alla Difesa[1] e dall’esercizio della forza, vale a dire dall’inizio di questa guerra che fingiamo non ci sia. Una guerra che si combatte su diversi piani, non soltanto propriamente militari, ma sarà attraverso questi ultimi che cercheremo di far emergere i non-detti (anche politici) che la sottendono.
Quando nel 1991 trentasei Paesi si coalizzarono per andare a bombardare l’Iraq e assicurarsi in quel modo il controllo dei ricchi giacimenti di petrolio situati in quel territorio, fu subito chiaro che era iniziata una nuova epoca. Milioni di persone scesero in piazza e manifestarono il loro dissenso verso una guerra decisa dagli Stati Uniti e dagli europei, benedetta dal Consiglio di sicurezza dell’Onu,[2] che ha portato morte e devastazione agli iracheni e ricchezze smisurate ai petrolieri e alle multinazionali che nel 2003 sono tornate sui loro passi per finire il lavoro iniziato allora. Lì si è sancito con chiarezza che gli equilibri mondiali sono questione di rapporti di forza, e dunque, che quei milioni di persone, allo stato, non significavano proprio niente e potevano manifestare come e quanto volevano: le decisioni sulle sorti dei (loro) Paesi erano del tutto indipendenti dai loro voleri.
Inaugurando un’epoca di guerre ormai gestite, anche pubblicamente, come necessarie alla difesa degli interessi dei Paesi a guida occidentale. D’altra parte nel rapporto del Nuovo modello di Difesa italiano, pubblicato nell’ottobre 1991 si poteva leggere:

«[…] I rischi per le nazioni occidentali, tra cui in particolare l’Italia, il cui sviluppo economico dipende sensibilmente dalla disponibilità degli approvvigionamenti energetici, risultano palesi e rilevanti. Allo stato attuale, il Medio Oriente, e, in misura minore, alcuni Paesi del litorale nord-africano rivestono una valenza strategica particolare per la presenza delle materie prime energetiche necessarie alle economie dei Paesi industrializzati, la cui carenza o indisponibilità costituirebbe elemento di grave turbativa degli equilibri strategici in fieri. […] Le misure da adottare […] devono prevedere anche l’eventualità di interventi politico-militari tendenti alla gestione internazionale delle crisi, nonché azioni […] intese ad assicurare la tutela degli interessi vitali, delle fonti energetiche, delle linee di rifornimento, e la salvaguardia dei beni e delle comunità nazionali operanti in quei Paesi».[3]

Guerre necessarie, dunque, al sistema in vigore, e alla sua continuità. Un sistema che ha caratteristiche neo-coloniali, razziste,[4] ma soprattutto capitalistiche, e mette quindi al centro i suoi profitti (economici e di potere), per realizzare i quali ricorre all’uso della violenza.
I rapporti di forza sono, da allora, sbilanciati in maniera sproporzionata a favore delle borghesie bianche, ricche, del Nord del mondo, che devasta e depreda il Sud, suo malgrado dotato di materie prime.
Anche i cittadini più cinici – che possono attribuire un valore superiore alla loro vita, rispetto a quella di milioni di altri umani, e possono ritenere che il loro benessere economico vada conquistato anche compiendo stragi – si rendono conto che queste guerre portano nelle loro tasche soltanto briciole, persino un po’ ammuffite, mentre le imprese che producono armi e le multinazionali petrolifere intascano miliardi che verranno investiti non per il loro benessere (lo stato sociale non esiste più da alcuni decenni) ma per generare altro profitto e riprodurre altre guerre.
Anche i cittadini più spaventati dalla vastità del mondo e della sua straordinaria varietà – che possono aver paura della loro ombra e chiedono allo Stato di garantire loro più “sicurezza” – si rendono conto che questa nuova guerra non conosce confini, non ha regole, e si riverbera anche su quel suolo che ritengono di loro proprietà. Un riverbero grigio, come un riflesso indistinto intravisto attraverso un vetro rigato di pioggia, quando non è possibile identificare con chiarezza ciò che si vede. Si vedono attentati nelle città europee, atti di quella che è stata dichiarata, in nome degli “occidentali”, “guerra al fondamentalismo islamico”, quando non “guerra all’Islam” tout court, o “guerra al terrorismo”. Che a compiere questi atti siano fondamentalisti islamici, terroristi, gruppi ideologizzati o al soldo di qualche potenza, uno dei cinque milioni di orfani lasciati in Iraq oppure i servizi segreti di qualche Paese,[5] il risultato non cambia: è quella la guerra che è stata dichiarata e che si vuole alimentare, per giustificarla quando ancora ce ne fosse bisogno.
Al test del 1991 in Iraq, infatti, hanno fatto seguito centinaia di migliaia di altre vittime, in carne ed ossa e anche simboliche, nella ex-Iugoslavia, in Libia, nei pressi di casa nostra e con la nostra attiva partecipazione. Vittime non bianche,[6] che quindi interessano poco ai cittadini europei, non suscitano né empatia né solidarietà.
Vittime di quella che è stata variamente nominata, di volta in volta, con diversi ossimori (guerra umanitaria, imposizione della pace, missione militare di pace) o con locuzioni incongruenti (operazioni di polizia internazionale), e nell’arco di pochi anni si è attestata sull’espressione “guerra al terrorismo”. Il passaggio di paradigma è epocale: se nel Novecento la guerra di classe, la resistenza, la rivoluzione e la controrivoluzione avevano un nesso stretto con i rapporti di forza in campo e un immaginario sociale che le comprendeva, oggi anche i movimenti di resistenza, di opposizione – siano essi interni ai loro Paesi, siano rivolti al dominio occidentale – sono definiti tout court terrorismo. La controrivoluzione si è trasformata in antiterrorismo. Un passaggio non di poco conto, dal momento che la controrivoluzione prevedeva la costruzione del consenso nella società, mentre l’antiterrorismo prevede soltanto l’annientamento dell’altro.
Nel frattempo le spese militari mondiali sono salite, nel 2017, a 1739 miliardi di dollari, di cui il 52% a carico dei Paesi membri della Nato. L’Italia ha una spesa militare superiore ai sessanta milioni di euro al giorno; una media di ventiquattro miliardi e due milioni di euro all’anno,[7] che non comprende le opere di adeguamento delle basi Nato e statunitensi sul nostro territorio, e alla quale quindi vanno sommate altre vertiginose cifre.[8]
Ciascuno di questi spiccioli va a ferire, invalidare, uccidere qualche corpo in carne ed ossa in diverse parti del mondo, dal momento che l’Italia, al luglio 2017, era già impegnata in trentuno missioni, dislocate in ventuno Paesi (tra i quali l’Afghanistan, il Kosovo, la Somalia, il Mali, Israele, la Lettonia, la Bulgaria, il Libano, la Libia).[9] Con il 2018 la presenza militare italiana si è ulteriormente allargata in Africa. Il caffé, il cacao e il cotone, per non parlare dell’oro, i diamanti, l’uranio, il coltan, il petrolio, il manganese, il rame, sono risorse preziose, ma si trovano, geograficamente, in quella terra. Rapinarle è una pratica a cui l’Europa è avvezza da secoli. Perciò i soldati italiani sono andati, a nome dei cittadini, a «riportare la speranza nelle aree del globo particolarmente martoriate».[10]
Sono andati, pur tra molte difficoltà di carattere internazionale, i primi cinquanta in Niger, dove, tra l’altro, la presenza delle multinazionali è minacciata dal movimento armato dei “Niger Delta Avengers” che dal 2016 attacca le infrastrutture petrolifere rivendicando una redistribuzione dei proventi.[11] Sono andati, insomma, a «sconfiggere il traffico di esseri umani e il terrorismo»,[12] ma anche a «difendere i nostri interessi nazionali».[13] Altri sono in Tunisia e a rafforzare i contingenti in Libia.
Qui non si può né si vuole dare conto di dati e dettagli, soltanto sollecitare l’immaginario e invitare chi lo desideri ad approfondire. Si vuole invece portare l’attenzione su come l’istituzione della guerra sia cambiata profondamente nel corso degli ultimi decenni, come siano cambiati i suoi strumenti e come, da un lato privatizzandosi e dall’altro virtualizzandosi, sia potuta entrare nella nostra quotidianità travestita da misuradi sicurezza.
Ci si chiede, infatti, se siamo in guerra. Si dirà che se lo fossimo veramente dovremmo accorgercene. Faremmo fatica a trovare alcuni generi di prima necessità. Il nostro giardino non sarebbe protetto dal prossimo raid. Potremmo non svegliarci più una mattina, la nostra casa polverizzata e i nostri brandelli da qualche parte, polverizzati anch’essi. I nostri parenti e amici, a seconda della zona in cui vivono, potrebbero lasciarci poco alla volta, qualcuno magari sopravvivrebbe invalidato da ferite gravi, qualche altro morirebbe nel giro di pochi anni per effetto dell’uranio impoverito che ormai da tempo usiamo nella costruzione delle nostre armi, più che “convenzionali”.
Se fossimo veramente in guerra, non avremmo bisogno di diete né del laser per spianare le rughe. Evidentemente questa scia di morti che lasciamo sul nostro cammino ogni giorno, ormai da quasi una trentina d’anni, non può essere chiamata guerra.
In effetti, è probabilmente qualcosa di diverso, che ha a che fare con paradigmi che non conosciamo e che perciò non rimandano, nel nostro immaginario, alle carneficine di cui siamo responsabili. Non abbiamo parametri sui quali misurare gli atti dei governi, quelli che i cittadini eleggono e che dunque li rappresentano, e operano in loro nome. Tutti i parametri azzerati ad uno: un Paese capitalista, meglio se bianco e ricco, può fare quello che vuole. Il resto viene di conseguenza.
Ma una delle conseguenze dirette è quella di affamare intere popolazioni, destabilizzare i territori in cui si interviene, rompendone gli equilibri e fomentando i conflitti interni. Da qui, la migrazione di quei sopravvissuti alle stragi che intraprendono lunghi viaggi attraverso deserti che provvedono a decimarne il numero e che quando giungono alle soglie dell’Occidente trovano ad attenderli carcerieri e sfruttatori, pagati per non farli arrivare alla loro destinazione. Chi riesce a prendere il mare troverà solo porti chiusi, e quella piccolissima parte che arriverà a destinazione finirà nel mercato schiavistico del lavoro, retto da regole non scritte, dove la sua vita varrà meno di un centesimo. Si capisce bene dunque come non sia questione di essere pacifisti o guerrafondai.
È questione del punto di vista da cui si guardano le cose. Chiamare guerra l’aggressione armata di eserciti forti e ricchi contro le popolazioni di altri Paesi, meno armati e meno potenti, chiamare guerra gli interventi aerei che scaricano tonnellate di bombe su territori che resteranno devastati per i secoli a venire sembra, in effetti, un po’ forzato. Forse dovremmo cominciare a chiamarli semplicemente crimini e cercare di capire chi li sta commettendo e perché. Da qualche parte, fra le pieghe della nostra sonnolenta coscienza, potremmo scoprire di esserci anche noi, fra quei criminali.

Maria Rita Prette

Note

[1] Si vedano, per “Il nuovo concetto strategico dell’Alleanza”, scritto il 7 novembre 1991 a Roma: Manlio Dinucci, L’arte della guerra, Zambon, 2015; per il Ministero della difesa italiano anche: Leonardo Brogioni, Angelo Miotto, Matteo Scanni, L’Italia chiamò. Uranio impoverito: i soldati denunciano, Edizioni Ambiente, 2009.

[2] Il Consiglio di sicurezza che il 30 novembre 1990 votò la risoluzione 678, relativa all’uso della forza contro l’Iraq, era composto da: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Unione Sovietica, Canada, Colombia, Costa d’ Avorio, Etiopia, Finlandia, Malaysia, Romania e Zaire, che votarono sì; Yemen e Cuba che votarono no, e la Cina, che si astenne.

[3] Ministero della Difesa italiano, “Modello Difesa/Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni ’90”, rapporto pubblicato nell’ottobre 1991, in: Manlio Dinucci, L’arte della guerra, Zambon, 2015. Si vedano anche dichiarazioni più recenti: «Il 15 gennaio 2018 il ministro della Difesa, parlando alle commissioni riunite Difesa ed Esteri di Senato e Camera ha presentato il progetto del governo spiegando che si è deciso di “rimodulare l’impegno nelle aree di crisi geograficamente più vicine e che hanno impatti più immediati rispetto ai nostri interessi strategici” e in questo senso il Sahel, ha aggiunto, rappresenta “una regione di preminente valore strategico per l’Italia”». Repubblica Tv, 15 gennaio 2018.

[4] Il tema del razzismo richiede lavori e approfondimenti specifici. Sensibili alle foglie gli ha dedicato attenzione con diverse pubblicazioni: Nicoletta Poidimani, Difendere la ‘razza’, 2009; Alessandro Bono, Da sud a nord, 2009; Renato Curcio, Razzismo e indifferenza, 2010; Michele Bonmassar, Razza e diritto, 2012; Vania Mancini, Dannate esclusioni, 2014; Adriana Benvenuto, La voce delle donne, 2015; Andrea Pizzorno, Clandestino italiano, 2016; Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi, 2017, oltre a un numero consistente di lavori sull’immigrazione. Lo si richiama qui soltanto per portare l’attenzione sul fatto che gli aggrediti dagli eserciti occidentali (arabi, africani, asiatici, mediorientali, slavi) sono accomunati dal fatto di non appartenere alla categoria politica della “razza bianca”.

[5] Sono reperibili fonti e documentazioni su alcuni (fino al 2015) degli attentati compiuti su suolo europeo e sulla loro ambigua matrice nei capitoli “La guerra globale al terrorismo” e “Guerre coperte” in: Manlio Dinucci, L’arte della guerra, op. cit.

[6] Si fa riferimento qui a quel concetto di razza creato, costruito e nutrito dagli interessi delle borghesie europee e poi atlantiche, con lo scopo di costruire una divisione all’interno delle classi più fragili, e utilizzarlo per dominare. “Bianco” non si riferisce quindi al colore della pelle tout court, ma designa una categoria politica e sociale. Si veda in proposito Houria Bouteldja, I Bianchi, gli Ebrei e noi, op. cit.

[7] Sipri, Istituto di ricerca internazionale di pace di Stoccolma; dati diffusi il 2 maggio 2018 e poi pubblicati: Sipri yearbook 2018. Armaments, Disarmament and International Security, Oxford University Press, luglio 2018.

[8] Scrive Manlio Dinucci su il manifesto del 4 dicembre 2017: «All’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) parte il progetto di oltre sessanta milioni di euro a carico dell’Italia per la costruzione di infrastrutture per trenta caccia Usa F-35, acquistati dall’Italia, e per sessanta bombe nucleari B61-12. […] A Vicenza vengono spesi otto milioni di euro, a carico dell’Italia, per la riqualificazione delle caserme Ederle e Del Din. […] A Largo Patria (Napoli) il nuovo quartier generale della Nato, costato circa 200 milioni di euro, di cui circa un quarto a spese dell’Italia, comporta ulteriori costi […] di dieci milioni di euro per la nuova viabilità intorno al quartier generale Nato». A solo titolo di esempio.

[9] Fonte: Ministero della Difesa.

[10] http://www.esercito.difesa.it/Operazioni/Operazioni_oltremare

[11] https://www.rivistaeuropae.eu/esteri/sicurezza-2/nigeriale-rivendicazioni-dei-niger-delta-avengers/

[12] L’allora Presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni, in: Il Messaggero, 24 dicembre 2017.

[13] Idem.


Altri libri di Maria Rita Prette
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Questo lavoro nasce dall’incontro con 119 disegni di bambini tra i sei e i dodici anni che vivono a Betlemme, città della Palestina, in Cisgiordania, uno dei Territori occupati da Israele. Disegni che, per le loro caratteristiche, così dissimili da quelle dei loro coetanei che vivono nelle nostre città, ci hanno indotto a cercare dati e informazioni sul contesto nel quale sono stati tracciati. Guidati dalle loro rappresentazioni, abbiamo incontrato le informazioni che accompagnano, in questo album, 40 dei 119 disegni dell’omonima mostra. Un piccolo strumento per accostare una realtà che, per la sua collocazione geografica e storica è sovraccarica di tensioni. I disegni di questi bimbi, portandoci nel vivo di queste tensioni, riescono a comunicare in profondità la loro estrema condizione di reclusione e sofferenza. Lo sguardo di un bambino è sempre, infatti, prima di ogni altra cosa, lo sguardo di un umano che ha visto, ha sentito, ha toccato, prima della politica, prima dell’ideologia, prima di ogni appartenenza. E’ dunque uno sguardo capace di vedere e far vedere. Proponiamo i disegni di questi bambini quali documenti di un’esperienza umana che va guardata anche “con i loro occhi”, accogliendo l’urgenza della loro comunicazione, che è nello stesso tempo una risorsa  di sopravvivenza e una domanda di attenzione.

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Questo libro propone i materiali di una ricerca avviata da Sensibili alle foglie nel mondo delle MAG (Mutua Auto Gestione), sigla che designa un’esperienza di finanza critica precedente e contigua alla nascita di Banca Etica. Due i suoi obiettivi: informare sull’esistenza del “mondo Mag” quanti ancora non lo conoscono, aprire una riflessione sulla qualità e problematicità di questa esperienza, guardando a fondo nelle due cooperative con le quali si è sviluppata la ricerca: Mag4 di Torino e Mag6 di Reggio Emila. Il lavoro intende aprire una discussione e un approfondimento intorno a due aree tematiche sulle quali ci si è confrontati nel corso della ricerca: il denaro e le relazioni, che hanno consentito di guardare anche alle implicazioni dell’ideologia e del potere. Le aree tematiche vengono percorse dal filo d’Arianna che ha intessuto il lavoro fatto sin qui: lo scarto tra l’enunciato e la pratica. Questa “problematizzazione” è infatti fondamentale affinché lo sguardo su di sé (e che si rimanda all’esterno) non si chiuda dentro uno schema, mortificando la ricchezza esperienziale e ci preme venga accolta non come una critica al mondo Mag, ma come un metodo di lavoro, un contributo “dall’esterno” a guardare all’interno, sospendendo il giudizio, per meglio comprendere l’esperienza di cui si sta parlando o che si sta vivendo. Infine, una domanda: se l’esperienza Mag non fosse mai nata, non sarebbero il mondo finanziario ed economico, ma dunque anche la società attuale, semplicemente appiattiti sull’unico dio rimasto a questa civiltà?

 

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La socioanalisi narrativa

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Questo libro illustra la socioanalisi narrativa nei suoi fondamenti. Esso si articola in tre parti. Nella prima sono esposti i territori entro i quali la socioanalisi opera e le principali nozioni cui ricorre. Sono esaminati i gruppi sociali e le dinamiche che ne regolano all’interno l’obbedienza, l’autorizzazione e la responsabilità personale. Sono presentati i concetti di organizzazione e di istituzione, mostrando i processi mediante i quali esse si propongono alla società – con particolare attenzione all’istituzione del carcere, usata qui come analizzatore – e i dispositivi che ne regolano la riproduzione. Nella seconda si esamina la questione identitaria, decisiva per connettere la dimensione singolare dell’individuo con quella più ampia, collettiva e sociale. In particolare viene portata l’attenzione sulla dissociazione identitaria come risposta normale alle tensioni e sofferenze che l’adattamento alle relazioni gruppali, istituzionali e organizzative, comporta. La terza parte, utilizzando gli strumenti forniti nelle prime due, espone la genesi e le modalità di intervento della socioanalisi narrativa. Al fine di contestualizzarla in correnti sociali più ampie, si propone un capitolo sulla narrazione come modalità di conoscenza e uno sulla socioanalisi come metodo di intervento sociale, prima di esporre le tecniche e i riferimenti propri dei cantieri di socioanalisi narrativa.

 

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41bis. Il carcere di cui non si parla

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Gli anni nei quali è stato scritto il testo dell’art. 41 bis dell’Ordina-mento penitenziario sono quelli di confine tra l’“emergenza terrorismo” e l’“emergenza mafia, criminalità organizzata”.  Non si vuole qui dare giudizi sui fenomeni sociali e politici richiamati. Si vuole invece portare l’attenzione sugli interrogativi suscitati dalle misure “emergenziali” adottate in relazione ad essi, in un Paese che si definisce democratico e che disattende la propria Legge fondamentale.  In questo libro percorriamo la storia recente del carcere e dei suoi dispositivi punitivi, seguendo la traccia delle emergenze che di volta in volta ne hanno determinato – o pretestuosamente consentito – l’evoluzione.  Prendendo l’esperienza armata degli anni settanta come analizzatore, si presenta la nascita del 41 bis e del corollario di articoli di legge che, dal 1986 ad oggi, sono in uso per privare di ogni diritto quei detenuti dei quali si vuole, con la forza, cancellare l’identità per sostituirla con un’altra.

 

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Il carcere speciale

Il carcere speciale

 

L’esperienza degli inquisiti per banda armata dentro il carcere speciale, le loro  lotte, le risposte alla detenzione e l’apporto teorico alla discussione sul carcere e   sulle sue trasformazioni dal 1969 al 1989. 186 documenti d’epoca, presentati in ordine cronologico, danno vita ad una narrazione che attraversa i cambiamenti della prigionia nelle diverse fasi, le dinamiche interne alle formazioni armate e le politiche statali relative al carcere.   Dal 1990 ad oggi sono proposti inoltre 26 documenti atti a mostrare l’evoluzione degli istituti che hanno regolato la vita in carcere negli ultimi 16 anni, non soltanto per i detenuti politici.

 

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Tortura. Una pratica indicibile

Tortura. Una pratica indicibile

Questo libro porta l’attenzione sulla tortura come pratica politica attraverso la quale anche gli Stati democratici, Italia compresa, esercitano il loro potere affermando il monopolio della violenza nella loro relazione con i cittadini. Una rapida ricognizione degli eventi di tortura accertati in Italia in diversi contesti (fra i quali quelli sui militanti di formazioni armate negli anni ottanta, sui detenuti per associazione mafiosa nel 1992, sui manifestanti contro il G8 a Genova all’inizio del nuovo millennio) fa emergere come il ricorso a questa pratica sia diventato possibile, accettabile, ordinario. Sono alcuni soggetti sociali, ritenuti torturabili senza suscitare indignazione – dopo essere stati de-umanizzati con alcune etichette (terrorista, mafioso, criminale, tossico, clandestino, camorrista…) – a divenire di volta in volta bersaglio di questa violenza specifica che soltanto agenti addestrati e autorizzati possono esercitare. L’istituzione di corpi speciali in patria come la partecipazione alle aggressioni belliche all’estero consentirà agli Stati di diritto di spettacolarizzare in questo modo il loro potere e garantirlo, esattamente come facevano i sovrani di un tempo e come fanno le dittature nostre contemporanee.

 


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Renato Curcio – L’algoritmo sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale. Occorre riportare la barra della nostra vita sociale anzitutto sui legami, sulle comunità istituenti e sulle relazioni faccia-a-faccia. La critica va portata direttamente alla radice del modo di produzione capitalistico.

Renato Curcio 015

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Domenica 30 Settembre 2018 – ore 18

Horti Lamiani – Via Giolitti 163, Roma

Presentazione del libro
L'algoritmo sovrano
Renato Curcio

L’algoritmo sovrano

Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale

ISBN 978-88-32043-01-3 – formato 14×21 cm – p. 128

Potremmo immaginare quella parte di Internet che ci è permesso frequentare come un giovane continente – non ha più di trent’anni – già ampiamente colonizzato. In esso, i coloni che si sono aggiudicati le posizioni migliori, pur continuando a essere in conflitto tra loro, come nelle migliori tradizioni capitalistiche, innalzano i vessilli dei marchi più noti dell’oligarchia digitale planetaria. In questo continente, algoritmi “intelligenti” col volto nascosto ma con grandi ambizioni classificatorie, predittive e giudicanti, si mimetizzano dentro i più diversi strumenti e negli immancabili smartphone, al servizio di piattaforme variamente specializzate nella costruzione di nuove dipendenze in molti campi: dalle comunicazioni, ai consumi, alle competizioni online, non disdegnando affatto esperimenti psico-sociali o politici di ampia portata.

Ripercorrendo le tappe salienti della colonizzazione della rete e delle identità virtuali dei suoi frequentatori, nella prima parte del libro si porta l’attenzione su alcuni dei dispositivi nascosti che stanno velocemente dissodando il terreno di una nuova e inedita deriva totalitaria. Nella seconda parte, si spinge lo sguardo sulle frontiere opache in cui gli Stati a più alta propensione digitale, provano a difendere da questa sfida transumanista il loro stesso futuro, ma in una prospettiva cieca, “al rialzo”. Come in un incubo – documentato e niente affatto distopico – si profilano così i contorni di simil-democrazie dalle libertà sostanziali vacillanti in cui i cittadini, assoggettati biometricamente a un codice unico personale, si dispongono a riprodursi come cloni volontari di un algoritmo sovrano. Naturalmente, un’alternativa c’è ancora: prendere atto della nostra incompiutezza come specie e riportare la barra della nostra vita sociale anzitutto sui legami, sulle comunità istituenti e sulle relazioni faccia-a-faccia. Non “contro le tecnologie digitali” ma portando la critica direttamente alla radice del modo di produzione capitalistico che esse riproducono. L’homo sapiens dopotutto può e sa fare di meglio che lasciarsi guidare da un algoritmo.

Renato Curcio, socio fondatore di Sensibili alle foglie e socioanalista, ha pubblicato per queste edizioni numerosi titoli. Su questo tema, ricordiamo: L’impero virtuale, 2015; L’egemonia digitale, 2016;La società artificiale, 2017.


 

La società artificiale

 

RENATO CURCIO

LA SOCIETÀ ARTIFICIALE

MITI E DERIVE DELL’IMPERO VIRTUALE

È esperienza comune che le nostre relazioni di qualsiasi tipo vengano sempre più frequentemente intermediate da dispositivi digitali. I legami interumani diretti lasciano il posto a mille forme di connessioni indirette e artificiali. Il marketing delle ‘internet company’ accompagna questa mutazione tecno-sociale con nuovi miti. La potenza degli smartphone, le meraviglie dell’intelligenza artificiale, la panacea dei robot per alleviare le fatiche del lavoro, la rivoluzione dei big data e il paradiso terrestre dell’internet delle cose. Un’assuefazione acritica maschera la nostra ignoranza sulle reali implicazioni di questa ulteriore evoluzione del capitalismo. Facendo leva su narrazioni d’esperienza che non indulgono all’anestetizzazione del malessere, questo libro s’interessa delle implicazioni sociali dei nuovi strumenti digitali e del significato concreto che nella vita di relazione quotidiana, nella politica, negli stati di coscienza e nel mondo del lavoro espressioni come big data, profilazione predittiva, intelligenza artificiale, cloud, robot umanoidi, internet delle cose, vengono realmente a configurare. Più in generale questa esplorazione cerca di mostrare come “progresso sociale” e “tecnologie digitali” non siano affatto sinonimi. E anzi, come queste ultime innervino l’architettura di classe capitalistica invadendo e aggredendo dall’interno lo spazio vitale essenziale delle relazioni umane.

Ben oltre la società industriale, la società dello spettacolo e la modernità liquida, la società artificiale ci mette dunque di fronte al germe accattivante e vorace di un nuovo totalitarismo. Un totalitarismo tecnologico che, a differenza di quelli ideologici del Novecento, invade e colonizza il luogo più “sacro” e fondamentale della libertà. D’altra parte, una matura consapevolezza di questa estrema deriva può essere anche il punto di partenza per un’ulteriore rimessa in discussione delle classi sociali e del destino di specie. Sapremo scegliere o ci accontenteremo di essere scelti?


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Renato Curcio (a cura di)

L’EGEMONIA DIGITALE. 
L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro

Sensibili alle foglie, Roma 2016

 

Due cantieri di socioanalisi narrativa svolti a Milano e a Roma hanno permesso di saggiare le tesi espresse con grande chiarezza in L’impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale (Sensibili alle foglie, Roma 2015) dentro gli ambiti professionali e di vita costituiti dal lavoro subordinato; dagli studi professionali; dalle banche -dove i venditori finanziari devono «dire al cliente solo una mezza verità, imparare a tacere ciò che può insospettirlo» (p. 42)-; dalle scuole -nelle quali registri elettronici e altri strumenti non hanno in realtà una funzione didattica ma trasformano «l’istituto scolastico in un dispositivo panottico digitale. Da quando si entra a quando si esce, tutto, lì dentro, viene messo sotto controllo. Monitorato, registrato, tracciato, ripreso, trasmesso e memorizzato» (52); da ospedali e studi medici ormai al servizio di un «processo che vede sempre più la salute ridotta a pacchetti di prestazioni che sono vendibili, quindi ridotta a merce» (84); ai trasporti pubblici e privati.
Lo squilibrio tra tecnologie di controllo dallo sviluppo velocissimo e la consapevolezza sociale del loro significato e dei loro effetti, che procede invece molto lentamente, genera relazioni e strutture collettive caratterizzate da un dominio della quantità di marca fortemente riduzionistica e ossessionato da parametri numerici, che «non sa che farsene del pensiero critico, della soggettività inventiva, dell’epistemologia indisciplinata e dell’immaginario creativo, beni assai più rilevanti per la nostra specie di quello in realtà più modesto, anche se attualmente idolatrato, dell’innovazione capitalistica» (125). Si tratta di un vero e proprio Dataismo, come lo ha chiamato Byung-Chul Han, per il quale «tutto deve diventare dato e informazione» (136), una vera e propria ideologia della misurabilità.
La dissoluzione del non misurabile, della qualità, delle sfumature, delle relazioni, induce chi insegna a diventare voce narrante di supporti audiovisivi e conduce l’intero corpo sociale alla distanziazione tra gli individui anche quando essi sono fisicamente vicini, al «chiacchiericcio informe e anaffettivo di WhatsApp o di Facebook» (60), alla «sterilizzazione anaffettiva, ben rappresentata dai ‘Mi piace’ di Facebook e raccontata dal successo delle emoticon, alle quali non può corrispondere, come tutti sappiamo, alcun reale piacere corporeo ed emozionale», smarrito in una «algida indifferenza» data dalla «maledizione degli algoritmi» che chiude le persone in un infinito e compulsivo smanettamento nel quale i gesti corporei perdono ogni calore, non provando più «alcun piacere, come nessun dolore, né per ciò che fanno, né per le implicazioni ‘esterne’ all’ambito operazionale del loro agire», esattamente come se si fosse degli algoritmi (127).
L’obesità tecnologica sprofonda nella hybris, nello smarrimento della «scelta umana condivisa» che fonda il limite (131), nella schiavitù trasparente generata in Italia dal cosiddetto Jobs Act che cancellando l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori ha invaso ogni attività professionale di «strumenti mobili o fissi (bracciali, cellulari, badge, smartphone aziendali, tom tom traccianti, etc.)» (14), talmente onnipresenti da imporre un dominio sulle persone che mai è stato «più invasivo e pervasivo; mai come negli attuali luoghi di lavoro la sfera personale dei lavoratori è stata assoggettata a una trasparenza ‘quasi totale’» (15).
La colonizzazione dell’immaginario scandisce «un progresso tecnologico inesorabilmente avverso ad ogni anelito di progresso sociale» (122), confermando in questo modo l’ambiguità originaria di ogni progressismo, che sin dal XIX secolo ha accomunato padroni e lavoratori nell’illusione di un avvenire inevitabilmente migliore di ogni passato.
La complessità di tali dinamiche rende insufficiente ogni tecnofobia o tecnofilia, ogni uso buono o cattivo delle tecnologie digitali poiché, ancora una volta, «non sono le ‘tecnologie’ in quanto tali a costituire la minaccia bensì la loro determinazione proprietaria» (122).
Come ogni forma di dominio, anche l’algocrazia – il dominio degli algoritmi che osservano, controllano, determinano le vite – non è una questione in primo luogo tecnologica ma sempre e profondamente politica.

Alberto Giovanni Biuso

www.biuso.eu

Una versione leggermente più sintetica della recensione è stata pubblicata su il manifesto del 14 aprile 2017.


Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, l’intervento di Renato Curcio


Renato Curcio lo scorso aprile ha incontrato la Comunità di base delle Piagge per ragionare sui temi del suo ultimo libro “L’impero virtuale, colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale” (Edizioni Sensibili alle Foglie). Sullo stesso tema è intervenuto sulla rivista Pagina Uno. Bimestrale di cultura, politica e letteratura.


«[È emersa] una nuova oligarchia economica esperta nell’esercizio del potere digitale […] Uno sviluppo del capitalismo globale, una tecnologia innovatrice, un nuovo panottico di sorveglianza, una possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, una produzione di identità virtuali, un’opportunità per mille operazioni di hackeraggio benefiche e malefiche, una possibilità di velocizzare e ampliare le nostre comunicazioni orizzontali e tante, tantissime altre cose ancora» (pp. 8-9).

«L’iperconnessione, la schiavitù mentale, l’app-dipendenza, l’alienazione della memoria, il furto dell’oblio, e il deterioramento della sensibilità relazionale» (p. 10).

«La materia più preziosa al mondo non è il petrolio, né l’oro e neppure l’energia. No, più prezioso di ogni altra cosa, come aveva già intuito il Papato ai tempi delle prime Crociate, è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di questa appropriazione, di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario» (p. 16).

«[Dobbiamo] raffigurarci l’utilizzatore della piattaforma come un lavoratore-consumatore che opera volontariamente per un’azienda produttiva senza percepire alcun salario; che produce con il suo lavoro valore, ma lo fa gratuitamente, volontariamente, e nella maggior parte dei casi senza esserne neppure consapevole; e che, infine, riceve nei suoi strumenti digitali inviti mirati all’acquisto di prodotti ai quali in qualche modo si è interessato (un volo, un libro, un tablet, un’auto, un appartamento). Ricordando che il popolo irretito nell’impero virtuale raggiunge attualmente circa tre miliardi di persone non stupisce che il gruzzolo finale raggiunga cifre astronomiche» (p. 36).

«Mentre i legami in presenza si generano, si consolidano e si sciolgono attraverso parole e messaggi non verbali che i corpi si scambiano reciprocamente, le connessioni elettroniche si affidano alle immagini morte, ai filmati, ai simboli e alla scrittura, vale a dire ai tipici sistemi di segni ai quali, da sempre, ricorrono i linguaggi dell’assenza» (pp. 63-64).

«Un ‘tweet’ qui e un ‘mi piace’ là. Un messaggino e uno scambio di fotografie. Esorcismi contro la solitudine, ma anche angoscianti domande. […] Il numero e non la qualità. Questo è lo specchio di qualunque Narciso virtuale. […] Nell’ordine di realtà virtuale a cui Narciso si consegna, la sua gloria e il suo destino dipendono dall’aritmetica» (70).

«Affidando i nostri ricordi alle implacabili memorie esterne, queste memorie ricorderanno di noi anche quello che noi non ricordiamo più o di cui ci siamo liberati. Figlie del pensiero quantitativo esse ignorano l’arte sottile e benefica dello scarto e dell’abbandono: esse ricorderanno per sempre anche quanto noi non vorremmo più ricordare. Ricorderanno nonostante noi e la nostra volontà, e saranno soltanto esse, infine, a costruire, giudicare e decidere quale debba essere il significato dei nostri trascorsi dimenticati.
Va detto ancora che la memoria senza oblio è anche una memoria senza storia, una memoria ‘morta’, rigida come un cadavere e patologicamente dissociata. È una memoria ‘cattiva’ che genera malessere. Tutto ciò che essa conserva ‘dorme’ fino a che l’oligarchia non ritenga di doverlo risvegliare per una sua qualsiasi ragione; dimora in un obitorio dell’impero in attesa di essere un giorno oscenamente scrutata da algoritmi curiosi in cerca di sempre nuove e imprevedibili associazioni» (77).

«[…] parole finte, contatti virtuali spacciati per legami amicali, maschere intercambiabili e ologrammi in marcia nelle piazze vuote» (99).

Si tratta della «schiavitù mentale» della quale parla Chomsky, «la schiavitù di cui sono vittime gli entusiastici abitanti dell’impero» (68), il quale si presenta «come una società della trasparenza identitaria; una società degli alias digitali accreditati e domiciliati in account, con-vinti e attivi, ma sempre trasversalmente monitorati senza alcuna pausa» (pp. 100-101).

«[Internet è] dentro il mondo, ma il mondo non si riduce a Internet. Il futuro passa anche dall’esterno di questa ragnatela e fuori dalle sue ossessioni» (p. 98).

«Stando all’evidenza storica tutti gli imperi esistiti sono anche crollati. Non vedo perché proprio questo dovrebbe fare eccezione» (p. 101).

Quarta di copertina

Alcune aziende che quindici anni fa non esistevano, come Google e Facebook, oggi costituiscono la nuova e potente oligarchia planetaria del capitalismo digitale. Internet ne rappresenta l’intelaiatura, e i suoi utenti, vale a dire circa tre miliardi di persone, la forza lavoro utilizzata. Le nuove tecnologie digitali fanno ormai parte della nostra vita quotidiana, le portiamo addosso e controllano tutti gli ambienti della vita sociale, dai luoghi di lavoro ai templi del consumo. Questo libro propone una riflessione sui dispositivi attraverso i quali questa oligarchia e queste tecnologie catturano e colonizzano il nostro immaginario a fini di profitto economico e di controllo sociale. E mette in luce il risvolto di tutto ciò, ovvero l’emergere di una nuova e impercepita sudditanza di quel popolo virtuale che, riversando ingenuamente messaggi, fotografie, selfie, ansie e desideri su piattaforme e social-network, contribuisce con le sue stesse pratiche a rafforzare il dominio del nuovo impero. Non conosciamo ancora le conseguenze sui tempi lunghi di questo ulteriore passaggio del modo di produzione capitalistico. Chiara invece appare la necessità di immaginare pratiche di decolonizzazione personale e collettiva per istituire nei luoghi ordinari della vita varchi di liberazione.

 

 

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Vedi:

L’IMPERO VIRTUALE
LA SOCIETA’ ARTIFICIALE
L’EGEMONIA DIGITALE

Renato Curcio – Introduzione al libro di Franco Del Moro, «Il dubbio necessario»: “Le persone che si adattano ad attività di pura sopravvivenza non raggiungono mai una piena realizzazione dei propri desideri, delle proprie capacità e aspirazioni: la vastità identitaria è la vera dimensione dell’esperienza umana nella creazione di nuovi mondi di senso”.
Renato Curcio – La materia più preziosa al mondo è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario.
Renato Curcio – Ben oltre la società industriale, la società dello spettacolo e la modernità liquida, la società artificiale ci mette dunque di fronte al germe accattivante e vorace di un nuovo totalitarismo. Sapremo scegliere o ci accontenteremo di essere scelti?

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Sensibili alle foglie / Spin Time Labs – Il dono delle lingue. Domenica 29 Maggio 2016

il dono delle lingue

sensibili_alle_foglie X

logoScrittaSENSIBILI ALLE FOGLIE e SPIN TIME LABS


Propongono

 Domenica 29 Maggio – dalle ore 10 alle ore 20

presso

SPIN TIME LABS

Via Santa Croce in Gerusalemme, 59  – Roma

 

Il dono delle lingue

lingue u.v.xxx

Poesie, canzoni e messaggi in

amarico
amazigh
arabo classico
farsi
giapponese
hassaniya
igbo
lingala
mandinga
pashto
peul
portoghese
romanes
rumeno
russo
soninke
tigre
urdu
wolof

 

 

momenti di riflessione sulle migrazioni con

Marcella Guidoni, Fiabe del Marocco.
Andrea Pizzorno, Clandestino italiano,
Giusi Sammartino, L’interpretazione del dolore

Monologo sulla colonizzazione tratto da Clandestino italiano,
recitato da Caterina Venturini

***

Nella pausa pranzo sarà aperta l’osteria di Spin Time Labs, per momenti conviviali


Una giornata in cui tutti possono parlare la loro lingua, per aiutarci a sentire e riconoscere le diverse sonorità delle lingue del pianeta, perché la lingua è cultura, è ricchezza. Un incontro contro il razzismo, per l’accoglienza delle culture che giungono con i migranti. L’organizzazione dell’incontro è in progressione, saranno presenti anche altre lingue

SCALETTA PROVVISORIA (ELASTICA)

DOMENICA 29 MAGGIO – DALLE ORE 10:00 ALLE 20:00 –
AUDITORIUM DI SPIN TIME LABS.
VIA SANTA CROCE IN GERUSALEMME 59. ROMA

 

h. 10 Presentazione dell’incontro a cura di Spin Time Labs e Sensibili alle foglie

Introduzione ai gruppi linguistici del Nordafrica e dell’Asia
Said, Bashir e altri (poesie e messaggi in arabo classico)
Omran Algallal e altri (messaggio sulla fratellanza universale e messaggi in amazigh)
Marcella Guidoni, Fiabe del Marocco
Jamil Awan Ahamede, (poesia del poeta Iqbal in urdu, poesia di Faiz in farsi)
Shah Hussain (messaggio in pashto)
Giusi Sammartino, L’interpretazione del dolore
Miki Hirashima (intervento pacifista – art. 9 Costituzione del Giappone – in giapponese)
Edilson Araujo dos Santos (recita il testo di una canzone di Renato Manfredini – Renato
Russo, cantautore brasiliano – in portoghese)
***
Pausa durante la quale nell’Osteria di Spin Time si potrà mangiare qualcosa a prezzi modici
***
h. 15 Introduzione ai gruppi linguistici centroafricani

Yacoub Diarra (messaggio sulla schiavitù in Mauritania in hassaniya e soninke)
Leone (messaggio in amarico – si potrà ammirare l’alfabeto amarico esposto nell’atrio)
Bah Fallo (canzone in mandinga)
Hope (messaggio poetico in igbo)
Diop (la favola di Esopo La volpe e l’uva in wolof)
Omar Diamanka (messaggio contro il razzismo in peul)
Djby Ka (favola senegalese in wolof)
Alain Alphonse (canzone d’amore in lingala)
Hummed Mohammednur (messaggio in tigre)

Andrea Pizzorno Clandestino italiano
(connessione con la colonizzazione italiana in Africa)

Caterina Venturini recita monologhi tratti da Clandestino italiano
Intervento in romanes di una donna rom di origine rumena

Introduzione alle lingue slave
Valentina (messaggio in ucraino o russo)
Anna (poesia di Octavian Goga in rumeno)
Altre persone porteranno messaggi in lingua (russo, urobo e altre)
non ancora in scaletta.


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