L’immortalità
È bene prender le mosse da un uomo come Stendhal se si vuol parlare di tal genere di immortalità privata o letteraria. Difficilmente si potrebbe trovare una persona più aliena dalle correnti immagini di fede. Stendhal fu del tutto libero dai vincoli e dalle promesse di qualsiasi religione; le sue sensazioni e i suoi pensieri furono esclusivamente rivolti alla vita terrena, che egli sperimentò e godette nel modo più preciso e profondo. Egli si aprì a tutto ciò che poteva recargli piacere, e così facendo non fu sciocco giacché conservò intatto l’elemento individuale: non ricondusse nulla entro una precaria, globale unità. Diffidò di tutto ciò che non gli fu possibile sperimentare. Pensò molto, ma in lui non vi fu alcun pensiero freddo. Ogni cosa che egli registrava, ogni cosa che egli plasmava, restava prossima all’istante ardente in cui era nata. Amò molte cose, credette a molte cose, ma tutte meravigliosamente concrete. Di qualunque cosa si trattasse, egli poteva trovarla proprio in sé senza dover ricorrere ad alcun trucco.
Quest’uomo che non diede nulla per presupposto, che volle toccare ogni cosa, che fu la vita stessa nella misura in cui la vita è senso e spirito, che visse ogni avvenimento nel cuore pur riuscendo anche ad osservarlo dall’esterno, – quest’uomo nel quale parola e contenuto coincisero con suprema naturalezza come se di sua iniziativa si fosse accinto a purificare la lingua, quest’uomo raro e veramente libero, ebbe tuttavia anch’egli una fede, della quale parlò con facilità e spontaneità come di un’amata.
Senza alcuna insofferenza egli si accontentò di scrivere per pochi: era però certissimo che entro cent’anni molti lo avrebbero letto. Nei tempi moderni non esiste una fede nell’immortalità letteraria più chiara, isolata e priva di presunzione della sua. Cosa significa tale fede? Quale è il suo contenuto? Essa significa che lo scrittore vivrà quando tutti gli altri suoi contemporanei non saranno più vivi. Ciò non vuol dire affatto che lo scrittore sia maldisposto verso i viventi in quanto tali. Egli non si sbarazza di loro, non fa nulla di ostile a loro, e tantomeno vi si pone contro in battaglia. Egli disprezza coloro che si sono procurati falsa gloria, ma altrettanto disdegna di combatterli con le loro stesse armi; non nutre rancore verso di essi, poiché sa bene quanto si ingannino. Egli si sceglie la compagnia di coloro alla cui schiera sa di appartenere: coloro che furono nei tempi trascorsi, e la cui opera ancora vive – coloro che parlano ancora a qualcuno, e delle cui opere ci si nutre. La gratitudine che si prova per essi è gratitudine per la vita stessa.
Uccidere per sopravvivere non può avere alcun valore dal punto di vista di questo modo di sentire, giacché chi lo fa proprio non vuole sopravvivere ora. Egli entra in lizza cent’anni dopo, quando ormai non vive più, né può dunque uccidere. Agendo così, egli rinuncia a contrapporre opera contro opera ed è poi troppo tardi perché possa intervenire nel confronto. La vera e propria rivalità inizia quando i rivali non sono più in vita. Essi non possono assistere alla battaglia tra le loro rispettive opere. L’opera, però, deve sopravvivere, e per sopravvivere deve contenere la maggiore e la pura quantità di vita. Lo scrittore non soltanto ha disdegnato uccidere, ma ha coinvolto tutti coloro che erano con lui in quell’immortalità, ove ogni cosa è attivamente presente, la più piccola come la più grande.
Tale quadro è esattamente l’opposto di quello fornito dai potenti che portano con sé nella morte tutto ciò che li circonda, al fine di poter ritrovare nell’aldilà ogni cosa cui erano abituati. Nulla denuncia in modo più terribile la loro profonda impotenza. Essi uccidono da vivi, uccidono da morti, un corteo di uccisi li accompagna nell’aldilà.
Ma chi apre Stendhal ritrova lui stesso insieme con tutti coloro che lo circondavano, e li ritrova in questa vita. Così i morti si offrono come il pià nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi; grazie a questo capovolgimento del sacrificio dei morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine».
Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, 1981, pp. 334-336.
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