Daniele Orlandi
Disegni di Sara Prebottoni
La decisione era stata presa. La richiesta fu talmente accorata che non mi parve responsabile rifiutare né indagare oltre con imbarazzanti domande, del tipo: “Perché proprio a me?”. Una ragione esiste, ovviamente, ma è bene che resti privata.
Ho conosciuto Daniele alle materne e insieme abbiamo frequentato anche le scuole elementari. Avevamo entrambi il nitido ricordo del primissimo giorno, quando, attendendo timorosi e spaesati l’appello per la suddivisione delle classi, ci incontrammo nel cortile lanciandoci in uno di quei goffi abbracci tipici dei bambini. Ora che eravamo capitati nella stessa sezione, avevamo meno paura di abbandonare le mani delle nostre protettive mamme. All’inizio fummo molto uniti (siamo stati due competitivi consumatori di One O One e Kinder Cioccolato davanti a una balia di televisione). Successivamente, com’è naturale, questo legame tese a diluirsi nelle maggiori combinazioni di amicizie di una classe numerosa ma non si annacquò mai del tutto. Se parto da così lontano è anche per testimoniare della grazia di quella bambina che è qui indicata solo con la sua iniziale: per quanto non la conoscessi che di vista, T. era davvero bellissima.
Tuttavia, sebbene io abbia di quel periodo un ricordo felice, le mie memorie degli anni ’80 non raggiungono la precisione quasi patologica dell’amico Ferri (il cognome è fittizio). Lo chiamo amico, in senso lato. Come si evince da queste pagine, la nostra frequentazione era divenuta insieme occasionale e continuativa. In sostanza, il tempo ci avrebbe resi più che conoscenti e un po’ meno che amici. Ma sapevo abbastanza della sua storia familiare. Ricordo che la Pastorella ci ammoniva spesso sulla necessità di non prendere in giro i rispettivi parenti: “Non scherzate con le famiglie altrui, è un comportamento odioso! Daniele, ad esempio, ha il fratellino morto”. Conoscevo la madre, molto meno il padre ed ero al corrente anche dei suoi attacchi di panico, per quanto non così in dettaglio. Inoltre, ci legavano i medesimi studi che rappresentavano la base delle nostre chiacchierate, improvvisando lungo la via, davanti a un caffè o ai “giardinetti” di Via Giovanni Maggi, recensioni di libri amati o odiati, letti o da leggere. Magari chissà, da scrivere…
È il motivo per cui nel testo compaiono molti nomi di autori e di opere: per Ferri non erano soltanto libri ma veri e propri personaggi, avversari, bussole che lo avevano accompagnato fin da piccolo. Per agevolare il lettore, se ne dà notizia in nota esclusivamente laddove mi è parso opportuno. Questo poiché, sebbene il mio nome campeggi in copertina, l’autore di questa storia è in realtà Daniele Ferri di cui raccolsi le confidenze e una moleskine rossa a quadretti durante un tardo pomeriggio autunnale. “Non voglio farlo diventare un romanzo per due ragioni:”, diceva, “perché non ne sarei in grado e perché, come puoi immaginare, non lo è. È una lettera. In un doppio senso, se vuoi… Resta il fatto che come a scuola c’insegnavano che per un punto passano infinte rette, attraverso queste mie righe passa una e una sola lettera. Oltretutto, non sopporterei di figurare quale autore di una storia così sfacciatamente personale. Sarebbe ridicolo. Se proprio ci tieni, fammi tu da prestanome!”. E giù una secca risata ma con gli occhi che non sorridevano, com’era abitudine di Daniele. Finì che la condizione del prezioso regalo appena ricevuto fosse che avrei dovuto distruggerlo. Prima o dopo averlo letto, per lui non faceva differenza. Voleva vivere senza più l’assillo di quelle parole esistenti da qualche parte. Eppure, proprio lui che le aveva scritte per impellenza memorialistica, per terapia, per disperazione o che so io (si scrive per una spessa nube di motivi), non ne sarebbe stato capace. Non lo biasimo. Per un autore consapevole, ogni libro è un figlio destinato al ripudio e un rimorso senza termine. Ferri sapeva bene chi riesce davvero a lasciare dietro sé terra bruciata di solito agisce immediatamente o solo in punto di morte. Per questo la storia della letteratura è ingombra di agende, quaderni, fogli ritrovati per caso in cassetti, bauli, scaffali che il tempo ha custodito a tradimento. “D’accordo, Daniele, così sia”, dissi.
Ma non più tardi di un mese dopo l’impensabile era già accaduto e l’impegno di conservare quel taccuino senza aprirlo sfociò immantinente in una lettura tutta d’un fiato. Se taccio della sorpresa, dei rammarichi e di ogni altro sentimentalismo è perché non aggiungerebbero nulla al progetto di una pubblicazione senza scopo di lucro ma unicamente quale dono ai pochi intimi che, sapevo, avrebbero apprezzato con triste gioia. “Le due donne per cui ho estratto queste pagine dalla cava di marmo della memoria non le leggeranno mai”, scrive Ferri sul finale del libro. Mi rimorde, Daniele, non aver potuto nulla in tal senso. L’editore si disse favorevole, del resto, non temevamo nulla. Daniele stesso ci era venuto in soccorso: se si escludono gli elementi storico-geografici che fanno da cornice ai fatti narrati, questa – come si usa dire – è un’opera di fantasia dove ogni riferimento a persone realmente esistite è da considerarsi puro frutto del caso.
Io, dunque, sono soltanto il curatore di un manoscritto che si presentava datato 16 luglio 2016 e non più aggiornato ma i punti di discontinuità fra i temi trattati, l’incostanza grafica e stilistica, e le alternanze di biro blu e nera denunciavano una stesura rapsodica, bisognosa di assemblaggi, raccordi e fusioni. Finché ho potuto, non ho modificato una virgola del testo originale. Quando con frecce rimandanti al margine, Ferri appunta multiple opzioni lessicali o grammaticali si è proceduto cercando di snellire il più possibile ridondanze e indigeste ripetizioni. Laddove è stato opportuno intervenire per collegare due parti o dirimere un nodo della narrazione, ho fatto del mio meglio per mimare lo stile non invitante dell’autore. Redazionale è anche il sottotitolo: Lettera a una madre sul primo amore. Comprendo che non brilli in originalità ma l’ho scelto in quanto mi sembrava che realizzasse le intenzioni dell’autore: una lettera nella sua doppia accezione di missiva e d’iniziale, oltretutto inserendo quella di Ferri nel novero delle epistole che affollano la letteratura di ogni tempo e paese. Nondimeno confesso che non mi sarebbe affatto dispiaciuto chiamare questo libro Controsaggio sugli attacchi di panico o qualcosa di simile. L’impasto di saggistica e narrativa dello stile usato da Ferri mi ha infatti spesso ricordato l’ibridismo di alcune pagine di Jean Améry, di Primo Levi o di José Saramago, tra gli autori preferiti di Daniele e miei.
Nella tasca interna della moleskine ho rinvenuto un foglio a quadretti contenente un’annotazione autografa di Ferri. Ho ritenuto di riprodurla a mo’ di appendice fotografica in quanto suppongo che Daniele non avesse intenzione di inserirla nell’ambito narrativo eppure è proprio avulsa dal contesto che acquista il suo peso. Questo è stato, dunque, il mio lavoro nell’ultimo anno e mezzo. Se il lettore pensasse ad un’appropriazione indebita, avrebbe in parte ragione. Tuttavia, con i dovuti distinguo, daremmo del ladro a Max Brod che, contrariamente alle ultime volontà dell’amico Franz Kafka, nel 1925 curò l’edizione postuma di Il processo, regalando all’umanità uno dei capolavori della letteratura mondiale?
Vorrei infine aggiungere che se questo volume non fosse stato pubblicato la promessa fatta a T. dal protagonista nelle ultime righe del racconto non potrebbe dirsi del tutto onorata.
Adesso sì.
Questo “taccuino di un vecchio” non fa sconti al lettore. Non si lascia avvicinare facilmente e presuppone una minima conoscenza pregressa dei problemi che affronta. Ferri lo sapeva molto bene e aveva ragione a definirla una “scrittura privata”, come del resto può esserlo una lettera indirizzata a un interlocutore che ci conosce e che quindi avrà gli strumenti per farsene interprete (A quelli che sanno, avrebbe potuto essere una terza dedica all’inizio del volume). Per questo, laddove mi è parso che il testo avesse bisogno di un po’ di respiro ho comunque preferito non intervenire.
Il lavoro è stato lento ma estremamente istruttivo. Durante l’intera trascrizione ho molto ragionato su questioni che conoscevo solo marginalmente. Come il tema dell’agorafobia, ad esempio, le sue molteplici sfumature e complicanze, e della paura contraria ma sorella: la claustrofobia. Più volte mi sono chiesto dove mai l’agorafobico Ferri avesse trovato la forza di resistere nella ressa dei personaggi da lui evocati e come sia potuto accadere che una persona in grado di salire sull’ermetico montacarichi del passato per scendere a -1, -2, -3 e via via fino ai più bui sotterranei del dolore, possa portarsi dietro per così tanto tempo il terrore di prendere un comune ascensore. Resta per me un insopportabile paradosso.
Carissimo Daniele, dolce omonimo compagno, se solo tu avessi avuto nel vivere la vita il dieci per cento della determinazione mostrata nel raccontarla, oggi saresti un uomo risolto ed io non dovrei fare a meno delle nostre casuali e stimolanti passeggiate. Con quest’amarezza insolubile congedo la tua storia e il mio rimpianto.
Questo libro esiste grazie a tutti coloro che ne hanno supportato e sopportato il pigro parto. Concludo quindi ringraziando in particolare Sara Prebottoni, Sante Notarnicola, Carmine Fiorillo, Andrea Grottini, Sara Bolletta, Simone Nebbia, Paola Randazzo, Katia Gibertini e Elio Feliciani. Grazie a Luigi Orlandi, mio padre, che ha accettato di verificare i suoi ricordi sulle mie pressanti domande.
DANIELE ORLANDI
Roma, 25 novembre 2017
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