Salvatore Bravo – Che tipo di umanità è l’umanità incapace di donare il proprio tempo? Parliamo del libro di Simone Lanza: «Perdere tempo per educare. Educare all’utopia nell’epoca del digitale».

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Ricorre, tra le pagine di questo intenso scritto, la domanda rousseauiana, se sia ancora possibile perdere tempo per educare le nuove generazioni. Come si può uscire dallo schiacciamento sul presente dando futuro con il passato? Partendo dalla quotidiana esperienza pratica di docente e formatore, l’autore sviluppa una riflessione teorica sulle difficoltà dell’educazione odierna segnata sempre più dalla velocizzazione, dalla perdita di autorità delle figure educanti, dalla perdita di mediazione umana dovuta all’espansione del tempo-schermo, del démariage e della crisi del matrimonio, tutti aspetti che mostrano le conseguenze sulla salute psico-fisica dei più giovani. Il saggio propone di risemantizzare parole quali autorità, testimonianza, limite, mediazione, ordine, disciplina, regole in una pedagogia dell’utopia. Pensate lontano dall’accademia e dalla formazione come scienza, ma scritte con spirito divulgativo e rigore scientifico, le riflessioni si rivolgono a insegnanti, genitori, nonne, educatori, animatrici, logopedisti, catechisti, e allenatrici, a chiunque, nella comunità educante, abbia ancora a cuore la questione politica della relazione tra generazioni

Simone Lanza, Perdere tempo per educare. Educare all’utopia nell’epoca del digitale. Prefazone di Serge Latouche, Editore Writeup, 2020, pp. 170.


Presentazione Streaming del 11 dicembre 2020. Discute con l’autore Piero Flecchia.


 

Intervista Radio Popolare, 1D2 del 9 dicembre 2020:

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Simone Lanza – Perdere tempo per educare. Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più. Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci.

Simone Lanza

Perdere tempo per educare

Frontespizio della prima edizione dell'Émile ou de l'éducation (1762) copia

Frontespizio della prima edizione dell’Émile ou de l’éducation (1762).

«Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione? Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Jean Jacques Rousseau, Emile, 1762


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comrpessionespaziotemporaleLa compressione spazio-temporale, in base alla quale «lo spazio sembra rimpicciolire fino a diventare un villaggio globale […] mentre gli orizzonti temporali si accorciano al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è» (Harvey).

compressionespaziotemporaleViviamo in un mondo difficile, soprattutto un mondo veloce. La velocità è caratteristica della modernità e ancor più della postmodernità, che Harvey ha eccellentemente descritto con la categoria di compressione spazio-temporale.[1] Nella nostra epoca tutto sembra schiacciarsi sul presente. Il futuro, anziché essere portatore di Progresso, come fu almeno dall’Illuminismo, è per la prima volta vissuto dalle nuove generazioni come minaccia. Viviamo in un’epoca di passioni tristi che al futuro promessa ha sostituto il futuro minaccia – ci spiega Benasayag.[2] La questione del tempo, la percezione soggettiva del tempo, è importante per capire la crisi dell’educazione oggi: mi chiedo infatti se alla luce della nuova percezione del tempo sia ancora valido l’ideale di Decroly e di tanti pedagogisti?

La crisi della modernità

La crisi della modernità

«Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre […] i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue».[3]

L' epoca delle passioni tristi

Il futuro minaccia sta investendo anche l’educazione? Quali sono i principali ostacoli e problemi nel tempo della globalizzazione in cui sono ingabbiate le sfide pedagogiche? Parlerò della questione del tempo affrontando la questione delle nuove tecnologie e della crisi dell’autorità.

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Una scuola per la vita attraverso la vita

Una scuola per la vita attraverso la vita

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La velocità delle bolle di sapone nell’epoca del tasto play

La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazionViviamo nell’epoca della pedagogia del tasto play.[4] Gli oggetti educano e le cose hanno da sempre avuto un potere educativo. Le bambole educano, le macchinine educano. I giocattoli di legno educano. È attraverso gli oggetti, i giocattoli, che si differenziano i generi. Adesso hanno persino inventato il Lego per bambine. Purtroppo non posso affrontare il tema di come ancora oggi gli oggetti servano a differenziare i generi. «Se gli oggetti educano – si chiede Laffi – qual è la pedagogia messa in atto da un ambiente materiale governato dal tasto play?». Si «indebolisce l’idea di una mediazione riflessiva come premessa dell’agire» e si rischia di formare al delirio di onnipotenza e al cinismo.

Ecco i rischi maggiori:

«A fare play non è il bambino ma il giocattolo, letteralmente è il giocattolo che gioca, suona e recita, chi è di fronte schiaccia e assiste, come davanti a un televisore. […] Quale idea del mondo, quindi: la realtà come spettacolo, noi come pubblico, l’eliminazione della fatica o dell’apprendimento, la promessa implicita che tutto ci è dato, ed è qui per noi, non per intrinseca necessità o autonoma esistenza, l’impossibilità di incontro e casualità, sotto il nostro primato di spettatori a cui il mondo deve la sua recita».

E ancora:

«Il consumo tecnologico disattiva la ricerca informativa: se le cose devono funzionare, non importa nemmeno il come e il perché, l’approfondimento è inutile, la curiosità non si esercita su ciò che ci precede – Chi l’ha inventato? Chi l’ha costruito? Da dove viene? Di che materiale è? – perché tutte quelle voci del sapere le archiviamo, delegando ai marchi di sicurezza una generica garanzia sull’utilizzo. Tutta la tensione dell’utilizzatore tecnologico è invece su ciò che segue da qui a poco, sull’incantesimo del funzionamento, sulla magia dello scatto. È anche così che si forma un rapporto con il mondo disinteressato alle origini, indifferente alla natura delle cose, che non interroga ma aspetta, che non chiede ma guarda ciò che arriva».

Senza pensarci mi sono imbattuto nel tasto play quando mi sono posto la domanda se regalare o meno una pistola elettrica che spara bolle di sapone. L’effetto è eccezionale: in pochi secondi uno spazio enorme si riempie di migliaia di bolle. Immaginatevi un bambino che con la sua pistola riempie una sala enorme come questa, immaginatevi gli sguardi di bimbe e bimbe spettatori che guardano in alto e ovunque le migliaia di bolle. Ma quale fatica, quali capacità sviluppa rispetto alle tradizionali bolle che con fatica e insuccessi uscivano due o tre alla volta e che bisognava rincorrere una a una? Si schiaccia un tasto e si guarda l’effetto. Quelle tradizionali sono un gioco, anche faticoso. Inutile dire che la durata del barattolo della pistola elettrica è dieci volte inferiore e che quindi spenderai dieci volte tanto: velocità e consumo.

La questione qui è però un’altra ancora: a quale idea di mondo ci educa questo oggetto elettronico che non è più un gioco ma uno spettacolo? La velocità degli oggetti della cameretta del tasto play cosa modifica a livello antropologico? Laffi ci chiede: che ruolo gioca nella capacità di aspettare e che tipo di concentrazione sviluppa?

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Tempo-schermo

Il dispositivo pedagogico che educa al mondo dello spettacolo è lo schermo. Con schermo bisogna intendere la TV, ma anche la console di gioco, gli smartphone, i computer, i tablet. Mentre il fascino degli schermi aumenta, il danno si estende: al tempo davanti alla TV si somma quello di fronte ad altri schermi. Lo schermo è l’oggetto davanti a cui adulti (e quindi anche minori) stanno la più parte del tempo. La questione diviene problematica non tanto perché lo schermo in quanto tale abbia caratteristiche negative ma perché un eccesso di tempo-schermo in età evolutiva è dannoso. Non perché lo schermo sia in sé neutrale e quel che conta sia l’uso (individuale) che se ne fa, come se ci fosse un uso buono e un uso cattivo delle tecnologie. Esiste un uso sociale delle tecnologie e le tecnologie riflettono e proiettano un modo concreto di stare al mondo: in questo caso educano a stare al mondo come spettatori e spettatrici. Lo schermo inoltre sviluppa, nell’età dello sviluppo, un tipo di concentrazione e di attenzione che inibisce lo sviluppo di altre capacità tra cui l’empatia e le capacità relazionali, la riflessione, il senso critico.

Al di là del fatto che la pubblicità (che è la condizione e il fine dello schermo) è stata giustamente definita da Latouche «inquinamento spirituale»,[5] quando si considera la questione dello schermo-educatore ci chiediamo quali sono gli aspetti pedagogici che l’esposizione a schermi pone in un’epoca in cui sembra – dalla ideologia dominante – che i nativi digitali abbiano propensioni quasi naturali a padroneggiare le tecnologie?

Miseria umanaLa più parte di pediatri e psicologi dello sviluppo, ritiene che in età prescolare non si debbano esporre a schermi prima di 3 anni e che fino ai 10 occorra parlare comunque di minuti al giorno. L’Associazione pediatri del Canada e degli Usa sconsigliano assolutamente l’esposizione di bambini/e prima di 2 o 3 anni. Siamo quindi di fronte a studi condivisi dalla comunità scientifica internazionale e non da opinioni di sette luddiste anti-capitalistiche. Nella sua pratica una ricercatrice che lavora nei servizi sociali francesi ha riscontrato due motivazioni molto radicate nelle famiglie che per la grande maggioranza non seguono queste indicazioni: 1) lo schermo è un buon baby-sitter che riduce conflitti in famiglia; 2) lo schermo rende più intelligenti i bambini (per es. imparano persino le lingue).

Le conseguenze sono abbastanza note ma è utile riepilogarle.

  1. a) La sedentarietà. Tutti i programmi di lotta all’obesità segnalano la TV e gli schermi come un elemento negativo; lo schermo è un guinzaglio alla mobilità infantile.
  2. b) La mancanza di tempo per la conversazione: le stime parlano di un raddoppiamento dagli anni Ottanta del Novecento all’inizio del secolo XXI – da 15-20 ore settimanali alle 40 ore settimanali a cui corrisponde un dimezzamento del tempo di conversazione in famiglia in nord America e Europa.
  3. c) Forti limiti allo sviluppo psicomotorio. Per i bambini e bambine prima di 10 anni esposti a un tempo-schermo superiore a 1 ora la giorno c’è un impatto globalmente negativo a livello emozionale e intellettuale che – a seconda dei casi individuali e delle ore di eccesso – comportano: problemi di attenzione, problemi di lettura, problemi di sonno, di aggressività, incapacità di giocare da solo/a, ridotte capacità di immaginazione. In particolare, in età prescolare è essenziale lo sviluppo di capacità manipolatorie per le quali si rende importante usare quanti più materiali e supporti diversi: è la fase della scoperta senso-motoria in cui lo sviluppo di un solo senso (quello visivo) è limitante e anche inibente perché il tipo di attenzione richiesta è diversa e minima. L’attenzione è infatti capacità che si articola in due livelli: primaria e secondaria. È la capacità attentiva secondaria e volontaria quella prettamente umana intorno a cui si sviluppa, tra l’altro, la capacità di attenzione congiunta, la capacità di cooperazione e di empatia. Finora si sono segnalati i danni a prescindere dal contenuto a cui sono esposti/e.
  4. d) Problemi maggiori intervengono quando il tempo-schermo si riempie (come spesso succede) di pubblicità e contenuti violenti e machisti. I danni comprendono, in particolare, sviluppo di comportamenti quali:

– Disconnessione dalla realtà, intossicazione da internet.
– Bullismo, inciviltà, verbale e abusi fisici, criminali e non.
– Rischi di dipendenza, caso limite il gioco d’azzardo on-line.
– Ossessione dell’apparenza, disturbi alimentari, anoressia.
– Omofobia e misoginia.
– Ipersessualizzazione della vita, pornografia, esibizionismo, atteggiamenti sessuali a rischio.
– Lesioni dell’autostima, isolamento, depressione, suicidio.

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Invisibilità della gerarchia

Le meraviglie del possibile

Le meraviglie del possibile

Se deleghiamo il tempo per educare a macchine elettroniche e schermi, come possiamo pretendere il riconoscimento di autorità? L’analisi di Laffi si conclude con una splendida e tragica novella di fantascienza – Il Veldt – di Ray Bradbury,[6] che ci disegna un quadro preoccupante del destino dell’autorità quando molto tempo educativo viene affidato alla tecnica sostituendo alla relazione umana quella bambino/a – schermo o tasto play. La splendida cameretta computerizzata comprata apposta per i figli, in cui ogni desiderio si concretizza come vero spettacolo, finisce per inghiottire i genitori. I figli riconoscono come genitori solo la tecnica. Un 2001 Odissea nello spazio in versione pedagogica.

Siamo oggi di fronte a un fattore nuovo e assolutamente inedito. Educati in un mondo di pari, trattati come prìncipi e principesse, trattati da amici dai genitori, trattati da piccoli adulti capaci di scegliere i propri acquisti dal marketing e dalla pubblicità, enfatizzando smisuratamente la loro volontà, i bambini e le bambine di oggi non vedono la gerarchia. A me è capitato che una bambina di dieci anni mi chiedesse perché dovesse dare del Lei agli adulti se gli adulti continuavano a darle del tu. Ci sono un’infinità di aneddoti che si potrebbero raccontare al riguardo. Quel che conta è che siamo di fronte a quella che Marco Vinicio Masoni ha definito l’invisibilità della gerarchia. Consapevoli del proprio diritto al rispetto, sono anche consapevoli di essere individui e si percepiscono – perché vengono fatti percepire come tali – come individui alla pari con gli adulti. Consapevolezza strana che stride con quanto di più caratteristico ha l’essere dei nuovi venuti al mondo. Nella venuta al mondo si disvela la dipendenza e la socialità dell’essere umano, che invece oggi viene negato in nome del primato ontologico dell’individuo (mito su cui si fonda la pseudo-scienza economia; qualcuno non a torto parla di invenzione tutta moderna dell’individuo). Ovviamente non è solo la pedagogia del tasto play e il rapporto con le tecnologie che ha spinto il processo di individualizzazione e l’interiorizzazione del neoliberismo fin nella più tenera infanzia. Possiamo nominare almeno: la riduzione della mortalità infantile, l’idealizzazione dell’infanzia, le metamorfosi contemporanee della coppia e dei ruoli genitoriali. Questioni che qui non tocco.

Quella che dal punto di vista del bambino e della bambina è l’invisibilità della gerarchia è – per gli adulti – la crisi dell’autorità.

Tra passato e futuroPer Arendt[7] il secolo dell’infanzia avrebbe dovuto emancipare il bambino liberandolo dall’imposizione del mondo adulto. E Arendt si chiede quindi come è stato possibile che il fanciullo fosse esposto alla pubblicità. Anziché essere protetto e cresciuto in un mondo a misura di bambino, il bambino del XX secolo è stato infatti ridotto a piccolo individuo. La questione è così posta:

«[…] la crisi dell’autorità che educa ha un nesso strettissimo con la crisi della tradizione, ossia del nostro modo di considerare il passato. Sotto questo aspetto la crisi pesa soprattutto sull’educatore, il quale ha il preciso compito di mediare tra il nuovo e il vecchio, per cui il massimo rispetto del passato viene richiesto dalla sua stessa professione».

Perché, in realtà, il problema che ci pone Arendt è non solo che l’autorità dei genitori è in crisi, così come l’autorità religiosa, ma che questa autorità genitoriale viene meno quando i genitori non si sentono più responsabili del mondo in cui vivono, quando i valori del passato non servono a spiegare il presente. L’essere umano del XX secolo

«non poteva trovare altro modo più chiaro di esprimere il proprio scontento rispetto al mondo, il proprio disgusto di fronte alle cose come sono, del rifiuto di assumersi la responsabilità di tutto questo di fronte ai figli. Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo non siete autorizzati chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”».

In questo processo di deresponsabilizzazione, l’adulto/a perde autorità. Il bambino e la bambina vengono quindi in realtà esposti al pubblico. Arendt, parlando della crisi dell’istruzione della società statunitense degli anni Cinquanta del Novecento, coglie in realtà alcune questioni essenziali della crisi dell’educazione nella società di massa. Oggi, per me, l’esposizione al pubblico è soprattutto (ma non solo) esposizione allo schermo. In particolare, per Arendt questa esposizione al pubblico è il nuovo problema che a sua volta ne genera di nuovi. Perché, in realtà: «Emancipandosi dall’autorità degli adulti il bambino non si è trovato libero, bensì soggetto a un’autorità ben più terrificante e realmente tirannica: alla tirannia della maggioranza». Ne sa qualcosa il Mercato e, ancor meglio, il Marketing.

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L’antiautoritarismo del mercato

Ne trae infatti vantaggio chi ha capito che psicologia e pedagogia possono servire anche al Marketing. Si chiama Kids Marketing. Il bambino viene infine incoronato dal mercato che «ha capito quanto vale la sua quota e come può influenzare le decisioni anche degli altri consumi famigliari».[8] Il Kids Marketing, senza alcuna remora etica, con la consulenza di psicologi e pediatri dello sviluppo, ha l’obiettivo di forgiare i desideri dei bambini. Sempre più spots pubblicitari sono infatti rivolti a loro nel tentativo di fidelizzare fin dalla più tenera infanzia e utilizzare i bambini e le bambine per influenzare i consumi familiari: si è calcolato che arrivano a modificare fino al 33% dei bilanci familiari. Il Mercato è quindi un agente “anti-autoritario” che fa leva su quella dittatura della maggioranza dei pari di cui parlava Arendt (salvo poi avere la sua autorità Suprema, il Dio, che per dirla con Marx, non ne tollera altri: il Denaro). La dittatura della maggioranza genera infatti conformismo sociale: il conformismo è usato dai Brand per promuovere prodotti e i prodotti sostengono il conformismo. Insomma anche se non guardi la pubblicità rischi di essere un “looser” se non hai l’ultimo paio di scarpe di marca, e senza che te lo chieda alcun marchio rischi l’emarginazione sociale.

Ci sono poi veri e propri stratagemmi usati dal Mercato che entrano nella relazione genitore/trice-figlia/o. Il potere esercitato per guadagnare l’acquisto di un bene che poi i piccoli consumeranno in prima persona, è conosciuto come Nag Factor. Il nag (brontolio e tormento) factor è quell’insieme di azioni assillanti che bambini/e mettono in atto durante l’infanzia (e anche nella prima adolescenza) per convincere/costringere i parenti ad acquistare uno specifico bene di consumo (dal famoso ovetto Kinder posizionato alla cassa all’altezza giusta nel momento giusto alla consolle di giochi).

Nati per comprareC’è poi il ricatto per chi non ha tempo da perdere in conflitti con i propri figli. È il Guilt Money, quella disponibilità a spendere ed essere vulnerabile ai capricci del bambino che è inversamente proporzionale al tempo. Secondo Judith Shor,[9] è ormai dimostrato da dati empirici che i genitori che passano più tempo al lavoro si sentono in colpa e comprano più giochi dei genitori che trascorrono più tempo con i loro figli.

Se confrontiamo il tempo-schermo con il tempo di dialogo in famiglia ci possiamo rendere conto di chi sta educando le nuove generazioni.[10] La tirannia della maggioranza di cui ci parlava Arendt è quindi rafforzata da un potere della società attraverso il conformismo e la pubblicità (che ha un ruolo chiave perché si serve del senso comune per promuovere un logo e rinforza il luogo comune). Un potere esercitato fortemente fin dalla tenera età sui bambini per indurli al consumo. Manca il tempo per esercitare il conflitto, manca il tempo per stare in relazione. Questo tempo viene riempito da oggetti che divertono e intrattengono nello spettacolo. Educano spettatori/trici e non cittadini/e.

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Vie di uscita

Il gioco libero oggi deve essere programmato. Anche se può sembrare un paradosso, lo è soltanto in apparenza. Purtroppo, vivendo in una società che programma tutto, bisogna pensare a lasciare tempo libero. Questo vale per la scuola, per le famiglie, per ogni istituzione educativa. Il gioco libero permette l’apprendimento. In primo luogo del saper giocare. Lasciateli liberi di giocare, di sbagliare, di cadere, di farsi male, di autogestirsi almeno i giochi! Nel gioco si impara a stare nelle regole, a divertirsi, a vincere, a perdere, a stare nelle regole del gioco, a inventare giochi, a fantasticare. Nel gioco libero si sta in relazione. Oggi manca il tempo libero. È tempo di ricrearlo almeno per loro! Meglio la noia, piuttosto che tante attività strutturate. Insegna di più a stare al mondo.

Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e feliciNel gioco e nelle attività senza adulti i bambini e le bambine imparano a litigare e gestire i propri conflitti. Per Daniele Novara la proposta contenuta nel libro Litigare fa bene, insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e più felici,[11] riassume tutto il suo lavoro ormai più che ventennale. Il conflitto è il principale antidoto alla violenza (e non l’origine):

«[…] l’educazione alla socialità passa piuttosto attraverso l’educazione al litigio: è fondamentale insegnare a stare insieme anche quando è difficile; a gestire i problemi e le prepotenze senza utilizzare la violenza; a reagire ai comportamenti vessatori trasformando la relazione e il gruppo in occasioni di apprendimento e creatività piuttosto che in ambiti di paura e conformismo».

La proposta metodologica è molto interessante per genitori e insegnanti. Lasciate che i bambini litighino fra loro! Il litigio tra bambini sviluppa le capacità di mediazione, relazione e rinuncia che saranno necessarie da adulto/a. Per aiutare i nostri figli a gestire i conflitti e per crescere adulti più competenti nelle relazioni interpersonali occorre lasciare litigare i bambini, non cercare il colpevole, non imporre né fornire la soluzione, ascoltare e legittimare tutti i punti di vista, favorire l’accordo creato dai bambini stessi. Al primo accenno di litigio infantile la maggior parte degli adulti tende a intromettersi e reprimere il conflitto, nella convinzione che sia necessario imporre immediatamente una rappacificazione. Se lasciati liberi di agire, i più piccoli imparano a gestire le relazioni. Del resto il vissuto dei bambini è spesso diverso: «non stavamo litigando, stavamo solo giocando…».

Spesso i bambini trovano da soli l’accordo o comunque la soluzione. È quanto emerge da diverse ricerche sul campo: si è scoperto che lasciandoli litigare si sono ridotti i litigi e gli interventi degli insegnanti. Sono aumentati gli accordi spontanei e le rinunce. Lasciare litigare liberamente presenta quindi notevoli vantaggi: i bambini si autoregolano, i maschi usano più le parole della fisicità, tutti/e imparano a confrontarsi con altri punti di vista e sviluppano l’empatia, imparano a trovare un’alternativa e a lasciare perdere se necessario, sviluppando in compenso autostima e creatività.

La scuola e l'arte di ascoltare. Gli ingredienti delle scuole felici

La regolazione del conflitto può anche essere facilitata e insegnata. Per questo bisogna perdere molto più tempo. L’ascolto, benché sia la capacità basilare per ogni materia, non è insegnato in nessun livello scolastico. Solo pochi insegnanti perdono tempo e non concludono il programma per ascoltare i/le propri/e alunni/e. La proposta di Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli[12] prevede di insegnare l’ascolto attivo che è molto importante e si distingue dall’ascolto normale perché presuppone una relazione e la volontà di stare in relazione, di riconoscere che la persona che abbiamo di fronte è intelligente e ha le sue ragioni. È importante pensare che il conflitto sia inevitabile perché siamo diversi e non ne dobbiamo avere paura. Così il conflitto si può trasformare in risorsa e il punto di vista diverso può aiutare a dare maggiore profondità, come la visione binoculare. Per questo bisogna intendere il conflitto come qualcosa di creativo ed entrare in conflitto senza prefigurarsi l’esito ma prestando ascolto. C’è anche bisogno di una autoconsapevolezza emozionale, capace di cambiare l’idea comune di emozione. Solitamente infatti siamo soliti concepire le emozioni come qualcosa da controllare per evitare di perdere il controllo. Oggi sappiamo che le emozioni non sono nulla di naturale, tanto meno di istintuale: come il linguaggio le emozioni vengono apprese. Quindi, per ascoltare, occorre abbandonare il mito della spontaneità delle emozioni e incontrare qualcuno/a che pratichi l’arte di ascoltare. Si perde molto tempo, ma i risultati sono importanti.

Su come il corpo delle donne sia rappresentato dagli schermi televisivi italiani sta svolgendo un eccellente lavoro educativo Lorella Zanardo. Prima ha girato il documentario Il corpo delle donne. Ora sta girando per le scuole con il suo staff. Un esperimento molto interessante è quello promosso da Brodeur, che ormai si è diffuso in quattro paesi. Nel convegno Maitrise des écrans – Parigi il 30 aprile 2014 – insegnanti, alunni, genitori, studiosi hanno confrontato le loro esperienze di spegnimento degli schermi sperimentate in Francia dal 2006 e in Canada dal 2003. I tre risultati maggiori sono l’aumento del tempo della conversazione in famiglia, l’aumento del tempo dedicato allo sport (bicicletta soprattutto), l’aumento del tempo dedicato alla lettura. Sono i risultati sul lungo periodo, quando gli alunni tornano ad accendere gli schermi con maggiore senso critico. In questi esperimenti la settimana è vissuta come una partita sportiva. Nessuno è obbligato a spegnere la TV. Sono i bambini il vero motore, i giocatori entusiasti. Molto spesso è la prima volta che hanno questa possibilità di scelta. Nella testimonianza dei genitori mi ha colpito moltissimo sentire che molte famiglie avevano proprio il desiderio che ci fosse una istituzione pubblica e dei professionisti che offrissero finalmente ai propri bambini delle alternative agli schermi. Insegnanti e istituzioni danno invece la colpa alle famiglie come se il tempo-schermo fosse una questione individuale. Dobbiamo parlare di corresponsabilità educativa? La sociologa Sophie Jehel è per una regolazione pubblica e un intervento dei poteri pubblici, almeno per le pubblicità e le trasmissioni per bambini/e. In tale prospettiva gli attori del controllo dovrebbero essere tre: le famiglie, l’autoregolazione dei canali con codici etici, il controllo pubblico.[13]

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Per concludere

Non mancano educatori ed educatrici che danno importanza al rallentare il tempo: alla pedagogia della lumaca, alla pedagogia della lentezza, alla pedagogia slow, genitori e scuole slow.[14] Pedagogie che sono l’opposto del tasto play e degli schermi. Rallentare il tempo come esperienza di felicità. Pedagogie che banalmente ci ricordano che prima viene l’obiettivo, poi l’attività e poi il tempo (mentre oggi prima viene il tempo, che si riempie con attività di cui poi forse si esplicita l’obiettivo, se qualcuno proprio lo richiede).

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta


Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

Elogio dell’educazione lenta

Elogio dell’educazione lenta


Slow school. Pedagogia del quotidiano

Slow school. Pedagogia del quotidiano

Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita

Pedagogia della decrescita

Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più.[15] Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci: «Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione?

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Oggi forse è importantissimo educare contro corrente con lentezza, perdendo tempo. Non si tratta di una pedagogia rivoluzionaria ma conservatrice ancorata ad antichi valori etici. Per parafrasare la Arendt si tratta oggi di educare in modo da conservare nei nuovi venuti la capacità di amare il mondo, di rinnovarlo e mettere in ordine il mondo.

Possiamo forse ancora credere nell’ideale dell’educazione di Decroly osando una pedagogia orientata dall’autorità della testimonianza? Non si può essere autoritari. Questa è la sfida. Le nuove generazioni fuggono questa autorità. Immediatamente. La fiutano da lontano, la riconoscono, la deridono. Di questo non possiamo dolerci e per fortuna non possiamo ricorrere a forza e violenza. Rimane invece per fortuna la possibilità bella e difficile di richiamarci alla autorità della testimonianza. Seguire le testimoni illuminate. Bell Hooks e Alice Miller[16] propongono proprio la figura del testimone illuminato capace di educare all’amore e trasmettere speranza rompendo le catene della pedagogia nera e di contesti familiari disfunzionali.

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Solo nella misura in cui in cui vediamo i nostri limiti e i limiti di questo mondo, la resurrezione (intesa non come il prolungamento della vita dopo la morte ma come la pienezza della vita e la dilatazione del presente) ci dà l’autorità di educare. È come se ci fosse un’altra realtà, noi sappiamo che c’è e la desideriamo perché ci è stata testimoniata e sentiamo che abbiamo un destino ulteriore. Quando mettiamo al mondo il mondo, quando scegliamo una relazione educativa lo facciamo per amore non tanto di questo mondo (né per avere un figlio, né per prolungare noi stessi) ma per amore della vita che è oltre questo mondo. Qualunque bambino/a ci rallegra perché cogliamo la figura di un futuro in cui riporre il meglio che ci è stato tramandato. La crisi dell’autorità disvela quindi anche il carattere religioso (spirituale o esistenziale, a seconda delle visioni) dell’atto educativo. Abbiamo fede/fiducia che le generazioni nuove venute potranno fare meglio, potranno migliorare il mondo – secondo la testimonianza dell’amore. E quindi nell’educazione amiamo la vita e non il mondo, o quel mondo che è oltre (prima? dopo?). L’educazione, così intesa, sarà una guida alla coscienza, alla coscienza (ma non di un qualcosa – questa sarebbe ideologia) bensì alla consapevolezza dello scarto tra il mondo così come è e il mondo di amore per cui educhiamo. L’educazione, quando faticosamente cerchiamo di seguire i maestri e le maestre testimoni illuminati d’amore – altro non è che un perdere tempo nel cercare (spesso errando) di dare una mano o di passare il testimone.

Simone Lanza

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Intervento di Simone Lanza alla giornata teologica Giovani Miegge, Pratiche di resurrezione tra speranza e predicazione, 21/8/2015 Torre Pellice, aula sinodale. Testo già pubblicato sul blog 400 colpi alla pagina: https://400colpi.net/2015/11/08/perdere-tempo-per-educare/

[1] Davide Harvey, La crisi della modernità [1990], il Saggiatore, Milano1993.

[2] Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi [2003], Feltrinelli, Milano 2004.

[3] Ovide Decroly, Una scuola per la vita attraverso la vita [1921], Loescher, Torino 1971: «Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre la cause di malintesi, i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue, i conflitti inutili. Questo è l’ideale dell’educazione. Senza di esso, la ragione stessa dell’uomo svanisce. Se non ci fosse un bambino da allevare, da proteggere da istruire e da trasformare nell’uomo di domani, l’uomo di oggi diventerebbe un non senso e potrebbe scomparire».

[4] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni, Feltrinelli, Milano 2014.

[5] È nota la dichiarazione di un direttore della televisione francese che spiegò molto chiaramente il ruolo della TV e il suo rapporto con al pubblicità: «Per fare sì che un messaggio pubblicitario sia percepito, è necessario che il cervello del telespettatore sia disponibile. La vocazione delle nostre trasmissioni è proprio quella di creare tale disponibilità: facendo divertire il telespettatore […] ciò che vendiamo alla CocaCola è tempo di cervello umano disponibile»; citato in: Gruppo Marcuse, Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo [2004], Elèuthera, Milano 2006.

[6] Ray Bradbury, Veldt, in Meraviglie del possibile [1950], Torino: Einaudi, 1959.

[7] Hannah Arendt, Crisi dell’educazione [1961], in Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze 1970.

[8] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[9] Juliet Schor, Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità [2004], Apogeo Editore, Milano 2005.

[10] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[11] Daniele Novara, Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e felici, Rizzoli, Milano 2013.

[12] Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli, La scuola e l’arte di ascoltare: gli ingredienti delle scuole felici, Feltrinelli, Milano2014.

[13] Convegno Les enfants face aux écrans, Paris, 30 aprile 2014 (video completo su youtube).

[14] Ecco alcuni tra più interessanti studi sull’importanza di una educazione lenta: Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna 2008; Carl Honoré, Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza, Rizzoli, Milano 2009; Joan Domenéch Francesch, Elogio dell’educazione lenta, La Scuola, Brescia 2011; Penny Ritscher, Slow school. Pedagogia del quotidiano, Giunti, Firenze 2011; Valerio Pignatta & Paolo Ermani, Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita, Terranuova Edizioni, Roma 2011; Fabrizio Manuel Sirignano, Pedagogia della decrescita: l’educazione sfida la globalizzazione, Franco Angeli, Milano 2012.

[15] Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, Sellerio Editore, Palermo 2014.

[16] Bell Hooks, Tutto sull’amore. Nuove visioni [2000], Feltrinelli, Milano 2003.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Silvia Vegetti Finzi – La paideia socratica, intesa come parto dell’anima, ha la capacità di rivelare la parte più autentica di noi e di liberare le facoltà creative inibite dall’indifferenza. L’attenzione è la forma più rara e più pura di generosità.



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Salvatore Bravo – La meritocrazia è il nichilismo nella forma della competizione. Non vi sono più valori universali, non resta che la forza del censo a guidare l’atomistica delle solitudini. La tirannia del merito uccide la democrazia. La meritorietà è altro rispetto alla meritocrazia.

Salvatore Bravo

La meritocrazia è il nichilismo nella forma della competizione

Non vi sono più valori universali, per cui non resta che la forza del censo a guidare l’atomistica delle solitudini. La tirannia del merito sta uccidendo la democrazia. Già nel 1958 Michael Young inventava questa parola nel suo romanzo distopico Rise of the Meritocracy [L’avvento della meritocrazia] in opposizione all’’esaltazione ideologica del principio del merito.

 

Meritocrazia

La parola “meritocrazia” è una delle parole più abusate e meno pensate nel sistema attuale. Il neoliberismo usa le parole come feticci, divengono dei catalizzatori di consenso non mediati dalla pubblica discussione. Il nuovo dogmatismo con le sue “prescrizioni religiose” è intessuto di parole che parlano attraverso gli ignari sudditi. Le parole disegnano mondi, organizzano le geometrie degli incontri e, specialmente, inscrivono confini tra inclusi ed esclusi o tra vincenti e perdenti. L’ordine del discorso costruisce gabbie invisibili nelle quali i soggetti sono gerarchizzati. Il loro consenso è strappato mediante la ripetizione continua delle parole-mantra e con l’oscuramento del pensiero critico. Le parole sono gli anelli che costruiscono e forgiano un’invisibile catena.

Il termine “meritocrazia” è uno dei termini più antidemocratici che il sistema liberista utilizza. Il merito (dal latino mereor: guadagnare) è associato al potere (crazia: kratos). Il singolo che raggiunge taluni risultati socialmente riconosciuti con la sua volontà e con il suo impegno è premiato col potere.

L’individualismo più spinto e astratto occulta che il merito dell’individuo è sempre legato alle istituzioni, al gruppo sociale di appartenenza e alla famiglia di provenienza. Il successo del singolo è il risultato di una cornice di relazioni positive, la meritocrazia è il mezzo con cui eliminare la società in nome del solo atomismo sociale. Il soggetto si autocrea al punto da meritare il potere.

La meritocrazia giustifica la gerarchia sociale, i più meritevoli ricevono l’investitura feudale, possono gestire personalmente il potere, sono i dirigenti del sistema indiscussi e indiscutibili, poiché nel campo di battaglia della competizione sono stati duri e competenti al punto da sbaragliare i contendenti.

La meritocrazia è negazione della democrazia sociale e reale.

La democrazia è potere collettivo e comunitario. Il potere, stile leader, invece, consegnato al singolo diviene antidemocratico, poiché è riposto in un singolo dal quale tutto dipende, i sudditi devono obbedire ed eseguire. Si esclude, quindi, dalla condivisione e dal controllo l’esercizio del potere che diviene dominio e gerarchia.

La linea è tracciata: nell’Empireo vi sono i nuovi signori e padroni, in basso i servi della gleba colpevoli di non essere resilienti. La gerarchizzazione si struttura con un processo linguistico non mediato dall’uso della pubblica ragione. In una democrazia un singolo non ha potere, si mette al servizio della comunità nel pubblico e nel privato come prevede la nostra Costituzione. La democrazia è una sinfonia a più voci, in cui il merito non interrompe la sinfonia, ma affina la corale musicalità, la meritorietà lavora per innalzare il livello medio della consapevolezza e della partecipazione, la meritocrazia introduce il razzismo senza razza, consegna i perdenti nel limbo della passività. La meritocrazia è cacofonica, è rottura dell’armonia, l’individuo canta a voce sola, silenzia le altre voci, è violenza legalizzata. Essa i principi costituzionali per diffondere il disprezzo e la paura per i perdenti-poveri. L’aporofobia, la paura dei poveri, e la violenza che ne consegue è il risultato della meritocrazia: potere ai meritocratici, l’abisso della precarietà ai perdenti.

L’astratto non consente di comprendere che la povertà è l’effetto della cattiva distribuzione della ricchezza, quest’ultima non è da intendersi solo in senso materiale, ma come opportunità formative sempre più legate al censo e meno al merito reale.

 

Meritorietà

La meritorietà è altro rispetto alla meritocrazia, è il premio senza il potere-dominio. È il riconoscimento sociale di una differenza, ma all’interno della cultura del servizio. I meriti personali non devono assediare le istituzioni democratiche e l’uguaglianza giuridica. Meritorietà è cultura dell’opportunità, è libertà di mettere in discussione il sistema. La meritocrazia è investitura con concorsi e selezione del personale nel quale chi vince la selezione è organicamente orientato a riprodurre il potere e il sistema sociale. Dinanzi a coloro che per “merito” sono i selezionatori sono vocati a dimostrare le loro competenze e a rassicurare di riprodurre il dominio.

La meritorietà spogliata del potere consente la libertà e l’uso pubblico della ragione: coloro che occupano posizioni di vertice, se detengono un potere minimo non possono impedire la ragione critica che innova il sistema, svela le contraddizioni e orienta verso il nuovo. L’uomo e la donna soli al comando sono l’immagine e la verità di un sistema che ha scelto il dominio e ha rinunciato alla democrazia.

Alla parola meritocrazia dobbiamo sostituire la parola meritorietà, in quanto in una democrazia il potere spetta non ai singoli, ma alle istituzioni etiche governate, vissute e pensate dalla comunità.

Il Ministero dell’istruzione ribattezzato Ministero dell’istruzione e del merito dovrebbe preoccupare tutta la comunità democratica. La meritocrazia nella scuola può tradursi, nel clima presente, in esclusione degli alunni socialmente deboli, e un’ulteriore spinta verso la verticalizzazione della scuola, la quale da istituzione etica e comunitaria rischia di diventare luogo anonimo in cui si sperimenta il neofeudalesimo e si abituano alunni e personale alla normalità del dominio dei dirigenti.

La meritocrazia è il nichilismo nella forma della competizione. Non vi sono più  valori universali, per cui non resta che la forza del censo a guidare l’atomistica delle solitudini. Il potere come dominio è ciò che resta dopo l’abbattimento violento di ogni metafisica e di ogni verità.



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Bell Hooks – Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza». L’educazione come pratica della libertà ci insegna a fare comunità perché insegniamo e viviamo immersi nella vitalità trasformativa che scaturisce dalle diverse comunità di resistenza.

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Salvatore Bravo – Pensare la scuola con Antonio Gramsci



Salvatore Bravo

Pensare la scuola con Antonio Gramsci

Pensare la scuola significa pensare il proprio tempo. Gramsci è stato critico verso la scuola del suo tempo. La critica necessita di domande profonde e la domanda che guida le osservazioni di Gramsci e pervade i suoi scritti non è un monologo celebrativo come accade normalmente nell’attuale assetto istituzionale e culturale, ma si confronta con un modello teorico di scuola e di pedagogia fondato a livello veritativo. L’essere umano è comunitario: da tale verità sorgono domande sulla scuola del suo tempo e sulla necessita di un’alternativa rispettosa della natura umana. L’istituzione scolastica non è separabile dalla realtà storica ed istituzionale, ne è parte viva, e specialmente mediante ed attraverso di essa si esplica l’egemonia culturale delle classi dirigenti. La scuola è il luogo per eccellenza nel quale la struttura economica si riproduce; l’educazione è il campo di battaglia dove l’egemonia culturale incontra resistenze e consolida il proprio dominio economico e culturale. L’integralismo del plusvalore deve necessariamente abbattere ogni attività intellettuale disinteressata per modellare un intellettuale che sia “organico” alla finanza. L’utile è il valore del capitalismo; non esistono fini, ma solo mezzi, al punto che mezzi e fini si confondono fino a fondersi. L’intellettuale “organico” al capitale è specializzato, in modo da essere utilizzabile dalla struttura. Il pensiero specializzato mutila l’essere umano della sua natura generica rendendolo utilizzabile dal potere. La visione culturale umanistica dev’essere assediata ed erosa con proposte che preparino la coscienza collettiva di stampo utilitaristico e consolidi l’egemonia capitalistica che ha il suo centro nella “merce” e nella produzione di merci. Alla scuola orientata alla specializzazione, oggi più di allora, Gramsci contrappone la scuola unitaria di base. Con la scuola unitaria l’essere umano “ritrova” la sua natura generica e comunitaria:

Oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola «disinteressata» (non immediatamente interessata) e «formativa» o di lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola élite di signori e di donne che non devono pensare a prepararsi un avvenire professionale e di diffondere sempre più le scuole professionali specializzate in cui il destino dell’allievo e la sua futura attività sono predeterminate. La crisi avrà una soluzione che razionalmente dovrebbe seguire questa linea: scuola unica iniziale di cultura generale, umanistica, formativa, che contemperi giustamente lo sviluppo della capacità di lavorare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo delle capacità del lavoro intellettuale. Da questo tipo di scuola unica, attraverso esperienze ripetute di orientamento professionale, si passerà a una delle scuole specializzate o al lavoro produttivo1”.

 

Nuova scuola per un nuovo umanesimo

La scuola unitaria di base deve formare il cittadino alla coscienza politica e sociale: disponibile a lottare per difendere i diritti sociali. Il cittadino della prassi deve imparare, prima di specializzarsi, ad osservare la realtà storica con sguardo olistico. Ciò presuppone un metodo che lo educhi alla visione delle connessioni delle parti e al giudizio qualitativo. Il cittadino della futura società comunista deve saper decodificare gli eventi in modo processuale.

Al dualismo dell’ideologia capitalistica che oppone cultura tecnica e umanistica la comunità comunista dovrà rispondere con la conciliazione delle due culture. L’antitesi inconciliabile ed eterna è il paradigma del capitalismo. Con essa si giustifica il dominio di classe, ma l’antitesi diviene un modo di pensare e di classificazione ideologica teso a consolidare il dominio di classe. La naturalizzazione dell’antitesi rende “naturale” il dominio gerarchico come l’opposizione tra lavoro manuale ed intellettuale.

Si dovrà integrare la cultura tecnica con la cultura umanistica, in modo da non lasciarsi guidare da tecnicismi, antitesi ideologiche e prescrizioni dogmatiche. La formazione specialistica e tecnica dovrà ritrovare il suo senso mediante la cultura umanistica. Alla segmentazione ideologica che priva dell’autonomia critica e politica il cittadino, bisognerà opporre l’unità di base della formazione, in modo da dotare tutti i cittadini di strumenti culturali per poter partecipare attivamente alla vita politica. La nuova scuola sarà paideutica ed umanistica:

Un punto importante nello studio dell’organizzazione pratica della scuola unitaria è quello riguardante la carriera scolastica nei suoi vari gradi conformi all’età e allo sviluppo intellettuale-morale degli allievi e ai fini che la scuola stessa vuole raggiungere. La scuola unitaria o di formazione umanistica (inteso questo termine di umanismo in senso largo e non solo nel senso tradizionale) o di cultura generale, dovrebbe proporsi di immettere nell’attività sociale i giovani dopo averli portati a un certo grado di maturità e capacità, alla creazione intellettuale e pratica e di autonomia nell’orientamento e nell’iniziativa. La fissazione dell’età scolastica obbligatoria dipende dalle condizioni economiche generali, poiché queste possono costringere a domandare ai giovani e ai ragazzi un certo apporto produttivo immediato2”.

Imparare l’attività critica necessita di disciplina e metodo che non si acquisiscono con la scuola spettacolo che mutila i contenuti in nome della demagogia pedagogica. La scuola unitaria forma all’autonomia con la disciplina del pensiero, affinando il metodo di studio si rafforzano la capacità di concentrazione e la logica dell’argomentare con le quali si riporta la realtà alla sua razionalità:

La scuola unitaria dovrebbe corrispondere al periodo rappresentato oggi dalle elementari e dalle medie, riorganizzate non solo per il contenuto e il metodo di insegnamento, ma anche per la disposizione dei vari gradi della carriera scolastica3.

Nella terza lettera a Tania Gramsci ribadisce il valore dell’autonomia nella descrizione del comportamento di due passerotti. La sua simpatia va al passerotto che mostra autonomia e non si sottomette con docilità. Simbolicamente il passerotto indipendente è l’essere umano che si sottrare alle spire del potere e che non ha paura della libertà. Si può essere liberi anche “in gabbia” se vi è l’educazione all’autonomia:

Ciò che mi piaceva di questo passero è che non voleva essere toccato. Si rivoltava ferocemente, con le ali spiegate e beccava la mano con grande energia. Si era addomesticato, ma senza permettere troppe confidenze. Il curioso era che la sua relativa familiarità non fu graduale, ma improvvisa. Si muoveva per la cella, ma sempre nell’estremo opposto a me4”.

L’autonomia non è solitudine, ma capacità di collaborare mettendo in campo esperienza e capacità. Nella settima lettera de L’albero del riccio Gramsci, nel raccontare le azioni solidali dei ricci nell’approvvigionarsi di mele, palesa l’importanza della collaborazione solidale, la quale implica il mettere in rete i talenti di ogni membro del gruppo5. Umanesimo per Gramsci è prassi solidale nella quale l’essere umano può porre in atto la differenza nel riconoscimento della comune umanità da cui non può che conseguire il comunismo democratico.

 

A scuola di uguaglianza e di creatività

Il nuovo umanesimo non dev’essere elitario ma popolare, l’essere umano è il centro dell’agire educativo, per eliminare disuguaglianze di origine ambientale ed affinare le personalità si dovrà intervenire sulle condizioni ambientali di partenza che neutralizzano lo sviluppo delle personalità. Per dissolvere le differenze culturali che impediscono la giustizia sociale e l’uguaglianza reale tra i cittadini Gramsci propone la diffusione di asili in modo da agire in età precoce e di collegi che educhino alla comunità; si è eguali e liberi solo nel riconoscimento reciproco delle differenze:

Così gli allievi della città, per il solo fatto di vivere in città, hanno assorbito già prima dei sei anni una quantità di nozioni e di attitudini che rendono più facile, più proficua e più rapida la carriera scolastica. Nell’organizzazione intima della scuola unitaria devono essere create almeno le principali di queste condizioni, oltre al fatto, che è da supporre, che parallelamente alla scuola unitaria si sviluppi una rete di asili d’infanzia e altre istituzioni in cui, anche prima dell’età scolastica, i bambini siano abituati a una certa disciplina collettiva ed acquistino nozioni e attitudini prescolastiche. Infatti, la scuola unitaria dovrebbe essere organizzata come collegio, con vita collettiva diurna e notturna, liberata dalle attuali forme di disciplina ipocrita e meccanica e lo studio dovrebbe essere fatto collettivamente, con l’assistenza dei maestri e dei migliori allievi, anche nelle ore di applicazione così detta individuale, ecc.6”.

Non ci si improvvisa creativi, il pensiero divergente è attività che dev’essere curata e sostenuta fin dall’infanzia. Il pensiero autonomo, capace di resistere alle pressioni sociali ed amico del concetto, necessita di un lungo apprendistato. Di tale finalità pedagogica ne usufruisce anche la formazione specializzata, poiché essa non diventa semplice esecuzione di compiti, ma feconda la scienza rendendola consapevole della sua finalità assiologica, essa è al servizio dei popoli, perché è posta dal popolo. Le cesure producono sterilità: segmentare i momenti formativi neutralizza il potenziale di ogni cittadino e delle discipline. Rimandare lo sviluppo della creatività all’università significa rendere impossibile una diffusa cultura divergente e ciò è un obiettivo ideologico:

Ecco dunque che nella scuola unitaria la fase ultima deve essere concepita e organata come la fase decisiva in cui si tende a creare i valori fondamentali dell’«umanesimo», l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale necessarie per l’ulteriore specializzazione sia essa di carattere scientifico (studi universitari) sia di carattere immediatamente pratico-produttivo (industria, burocrazia, organizzazione degli scambi, ecc.). Lo studio e l’apprendimento dei metodi creativi nella scienza e nella vita deve cominciare in questa ultima fase della scuola e non essere più un monopolio dell’università o essere lasciato al caso della vita pratica: questa fase scolastica deve già contribuire a sviluppare l’elemento della responsabilità autonoma negli individui, essere una scuola creativa (occorre distinguere tra scuola creativa e scuola attiva, anche nella forma data dal metodo Dalton. Tutta la scuola unitaria è scuola attiva, sebbene occorra porre dei limiti alle ideologie libertarie in questo campo e rivendicare con una certa energia il dovere delle generazioni adulte, cioè dello Stato, di «conformare» le nuove generazioni 7”.

La scuola creativa dev’essere umanistica, deve avere al centro l’essere umano. La scuola del tempo attuale ha al centro il business, ma gioca con la parola creatività desertificandola del suo valore critico, curvandola al fare puramente crematistico ed individualistico: si tratta del “fare senza pensare”. Il confronto critico con le riflessioni di Gramsci ci svelano la scuola contemporanea nel suo antiumanesimo militante:

Così scuola creativa non significa scuola di «inventori e scopritori»; si indica una fase e un metodo di ricerca e di conoscenza, e non un «programma» predeterminato con l’obbligo dell’originalità e dell’innovazione a tutti i costi. Indica che l’apprendimento avviene specialmente per uno sforzo spontaneo e autonomo del discente, e in cui il maestro esercita solo una funzione di guida amichevole come avviene o dovrebbe avvenire nell’Università. Scoprire da se stessi, senza suggerimenti e aiuti esterni, una verità è creazione, anche se la verità è vecchia, e dimostra il possesso del metodo; indica che in ogni modo si è entrati nella fase di maturità intellettuale in cui si possono scoprire verità nuove8”.

 

Territorializzare

La scuola per essere luogo che coltiva la comunità non può essere astratta e deterritorializzata, ma deve rispondere alle reali esigenze del territorio. Non si tratta della scuola al servizio dei potentati economici cosmopoliti del tempo attuale, che usano la scuola pubblica come istituzione da cui attingere manovalanza gratuita e clienti per incrementare le vendite. La scuola deve rispondere al territorio, è istituzione che tiene viva la cultura del popolo. La lingua nazionale forma cittadini consapevoli responsabili verso il territorio nella sua poliedricità significante. Ne vivono le potenzialità e progettano all’interno del solco della tradizione. I popoli non sono entità astratte, ma sono concretamente radicati, e partecipano all’universale dell’umanità nella differenza delle identità. A scuola si impara l’universale concreto e non certo l’astratta astrazione della finanza cosmopolita:

Territorialmente avrà una centralizzazione di competenze e di specializzazione: centri nazionali che si aggregheranno le grandi istituzioni esistenti, sezioni regionali e provinciali e circoli locali urbani e rurali. Si sezionerà per competenze scientifico-culturali, che saranno tutte rappresentate nei centri superiori ma solo parzialmente nei circoli locali. Unificare i vari tipi di organizzazione culturale esistenti: Accademie, Istituti di cultura, circoli filologici, ecc., integrando il lavoro accademico tradizionale, che si esplica prevalentemente nella sistemazione del sapere passato o nel cercare di fissare una media del pensiero nazionale come guida dell’attività intellettuale, con attività collegate alla vita collettiva, al mondo della produzione e del lavoro. Si controllerà le conferenze industriali, l’attività dell’organizzazione scientifica del lavoro, i gabinetti sperimentali di fabbrica, ecc.9”.

 

Lo studio come lavoro

Lo studio del latino e del greco consente non solo lo sviluppo di personalità con capacità di riflessione etica e di concentrazione, ma è capace di “donare”. Il latino e il greco formano lo studioso e una classe dirigente diffusa capace di pensare. Sono lingue etiche in quanto il loro valore pedagogico contribuisce a formare il cittadino e una diffusa classe di pensatori. Non sono lingue morte ma eterne, poiché le loro parole conservano non solo l’esperienza umana, ma sono fonte di modelli a cui ispirarsi plasticamente. La loro ricchezza espressiva e lessicale apre orizzonti osservativi e di significato insostituibili:

Nella vecchia scuola lo studio grammaticale delle lingue latina e greca, unito allo studio delle letterature e storie politiche rispettive, era un principio educativo in quanto l’ideale umanistico, che si impersona in Atene e Roma, era diffuso in tutta la società, era un elemento essenziale della vita e della cultura nazionale. Anche la meccanicità dello studio grammaticale era avviata dalla prospettiva culturale. Le singole nozioni non venivano apprese per uno scopo immediato pratico-professionale: esso appariva disinteressato, perché l’interesse era lo sviluppo interiore della personalità, la formazione del carattere attraverso l’assorbimento e l’assimilazione di tutto il passato culturale della moderna civiltà europea. Non si imparava il latino e il greco per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti commerciali. Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente. La lingua latina e greca si imparava secondo grammatica, meccanicamente; ma c’è molta ingiustizia e improprietà nell’accusa di meccanicità e di aridità. Si ha che fare con ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza anche fisica, di concentrazione psichica su determinati soggetti che non si possono acquistare senza una ripetizione meccanica di atti disciplinati e metodici10”.

La scuola unitaria è scuola nazionale che risponde alla vera politica, la quale è contatto vivo con i popoli e con i territori. L’impronta nazionale favorisce il dialogo tra i popoli, in quanto presuppone differenze identitarie che giungono in contatto, possono avere gli stessi obiettivi e le stesse finalità politiche ma nel rispetto delle differenze. La scuola gramsciana prepara l’internazionale dei popoli, poiché il dialogo è realtà vivente solo nel contatto tra le differenze. La distanza che separa il nostro presente dalla concezione gramsciana della scuola e non solo, ci permette di visualizzare l’abisso in cui siamo e che dobbiamo attraversare per riportare l’umanesimo al centro della prassi politica. L’alternativa è il veloce rovinare nel nulla e nella barbarie del politicamente corretto.

 

L’atto impuro

La scuola ha bisogno di più scuola, perché studiare è attività faticosa che coinvolge la mente, il corpo, la muscolatura e la prassi della persona in formazione. A coloro che oppongono la scuola al lavoro per destrutturarla nel suo significato etico e sociale bisogna ricordare, in fine, le parole di Gramsci tratte dai Quaderni del carcere:

Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza”.

Il rispetto verso la scuola non può che avere il suo fondamento nella chiarezza di cosa sia “studiare”, definizione che, al momento, pare persa tra PCTO, demagogia e scuola azienda asservita al solo mercato. Gramsci da materialista e storicista teorizza l’atto impuro in contrapposizione al generico Non io. L’atto impuro è la sovrastruttura sociale e classista del capitalismo, lo studio è prassi, in quanto il concetto dinamizza ciò che l’ideologia ha cristallizzato, ma il concetto resta impuro, perché è nel tempo e nello spazio. A scuola si impara a riconoscere l’atto impuro, ed ad emanciparsi senza formule astratte e definitive. Siamo nella storia, l’essere umano può tendere all’universale, l’atto di tendere è già emancipazione senza assoluti. Il terrore verso i contenuti e la disciplina del pensiero cela il timore che la scuola umanistica possa smascherare gli atti impuri su cui si fonda il liberismo illiberale capitalistico con la sua naturalizzazione astorica. La scuola nell’ottica di Gramsci è il luogo istituzionale dove prende forma la filosofia dell’atto impuro senza la quale si è inchiodati alle antitesi ideologiche conservatrici dello stato presente:

Filosofia dell’atto (prassi, svolgimento) ma non dell’atto «puro», bensì proprio dell’atto «impuro», reale nel senso più profano e mondano della parola11”.

Salvatore Bravo

1 Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Liber Liber, 2017, p. 138.

2 Ibidem, p. 141.

3 Ibidem, p. 142.

4 Antonio Gramsci, L’albero del riccio, Liber Liber, 2017, p. 13.

5 Ibidem, pp. 24-25.

6 Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Liber Liber, 2017, p. 143.

7 Ibidem, p. 144.

8 Ibidem, p. 145.

9 Ibidem, p. 146.

10 Ibidem, pp. 151-152.

11 Antonio Gramsci, Quaderno 11 (XVIII), § (64).


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Zero in condotta agli insegnanti che non si conformano alle direttive ministeriali che richiedono di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate. I docenti renitenti siano messi al bando.

Fernanda Mazzoli

Zero in condotta agli insegnanti che non si conformano alle direttive ministeriali
che richiedono di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate.
I docenti renitenti siano messi al bando.

 

A ragion veduta, il ministro Bianchi ha ricordato alle maestrine d’Italia che il loro dovere è quello di «non smettere mai di fornire il corretto esempio» ai propri allievi. Pertanto, chi tale corretto esempio non lo ha dato, rifiutando di vaccinarsi, pur essendo riammesso a scuola dal primo aprile, in classe non potrà rientrare, in quanto tale rientro «avrebbe comportato un segnale altamente diseducativo», poiché «la violazione di un obbligo non può restare priva di conseguenze».[1]

Così, circa 4000 insegnanti dalla primaria alle Superiori, cui durante il periodo di sospensione previsto fino al 15 giugno non è stato corrisposto nemmeno l’assegno alimentare,[2] sono stati richiamati a scuola da un governo alle prese con le troppe contraddizioni dei propri decreti, con i ricorsi presentati davanti ai tribunali dalle vittime dell’insolito provvedimento e con l’imbarazzante unicità in Europa e non solo della misura adottata a dicembre. Tuttavia, devono evitare il contatto con gli alunni; saranno dunque destinati a non meglio precisate attività di supporto agli altri docenti, quelli degni di stare in classe. Il loro orario viene, inoltre, portato a 36 ore settimanali, essendo equiparati ai «lavoratori fragili» del comparto scolastico, distaccati solitamente nelle biblioteche degli Istituti.

Sono stati concessi loro i mezzi di sostentamento, a riprova dello spirito umanitario di coloro che ci governano, ma a condizione che restino confinati in una sorta di riserva indiana, che stiano rintanati in sotterranei o stanzini approntati alla meglio, che vengano percepiti – dai ragazzi e dai genitori innanzitutto, ma anche dai colleghi – come degli intoccabili.

Non importa che, da gennaio, studenti, insegnanti e bidelli in stragrande maggioranza vaccinati si siano contagiati, a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che né il siero, né il green pass hanno frenato la diffusione del virus, cosa che ormai gli stessi virologi ammettono. Logica e razionalità che da tempo disertano il dibattito pubblico non conoscono miglior sorte nelle aule scolastiche e a prevalere è un criterio punitivo che, al netto di tutte le chiacchiere sulla società aperta ed inclusiva, sta a fondamento di una pedagogia della paura che ha dato buoni frutti nella recente – e non ancora estinta – campagna pandemica.

Se i docenti renitenti alla puntura e al consenso estorto tramite ricatto economico rappresentano un’incrinatura non tollerabile nella trama delle buone azioni e dei corretti comportamenti che si fila a scuola, servono comunque da esempio rovesciato di ciò che accade a chi non si piega ai diktat governativi e pertanto da utile monito ai ragazzi, qualora fossero tentati in futuro di deviare dalla retta via. Per questo, valgono bene lo sperpero di pubblico denaro che costano due insegnanti sulla stessa cattedra, di cui uno inutilizzato. La lezione è chiara anche per gli altri docenti, casomai venissero presi da un improbabile anelito di rivolta, da un impulso di anticonformismo sociale o, più modestamente, da qualche dubbio sul loro ruolo esecutivo nella catena di comando che parte dal Ministero ed arriva a loro, passando per i Dirigenti scolastici promossi datori di lavoro (e che, quindi, hanno comminato nei singoli Istituti le sospensioni).

Lo spreco più inquietante resta quello di intelligenze, competenze e professionalità sacrificate alla vendetta di una classe politica che era certa di avere neutralizzato pensiero critico e conflitto ed invece si è trovata confrontata, a scuola e fuori, con l’imprevista, per quanto variegata, resistenza di una minoranza non proprio trascurabile, alla quale si è cercato in tutti i modi di rendere la vita impossibile e che, proprio per questo, ha deciso di non chinare la testa.

Non si creda, però, che il ministro Bianchi, nella sua reprimenda, abbia voluto solamente lanciare un predicozzo moralistico, nonché umiliare ed isolare ulteriormente i reprobi. Gli va riconosciuto che il suo richiamo al corretto esempio ha centrato un aspetto essenziale del ruolo docente che oltrepassa di molto la presente contingenza: è ormai da anni che l’insegnamento è sempre più svuotato della sua dimensione culturale, a vantaggio di un generico ammaestramento ai virtuosi stili di vita, alle buone pratiche sociali che naturalmente sono quelle individuate dalle strategie europee per l’istruzione e la formazione o dall’agenda Onu 2030.

Pertanto, al titolare del Miur, assai correttamente, innanzitutto importa che maestri e professori si conformino alle direttive date, solo secondariamente che conoscano la materia che insegnano e che sappiano comunicarla ai loro allievi. Anzi, questo tipo di competenze – se non opportunamente diluito – potrebbe essere visto pure con un certo sospetto, come retaggio di una didattica obsoleta ed élitaria.

Questo Ministero, infatti, nel governo dei migliori è il migliore di tutti, il più solidaristico, il più inclusivo, avendo riscoperto una parolina magica che quarant’anni di neoliberismo tronfio e compiaciuto avevano snobbato: comunità. Però, anche la comunità deve essere corretta, deve ritrovarsi in certi parametri non soggetti a pubblica discussione o a ragionata verifica e chi non li rispetta o non vi si riconosce si mette automaticamente fuori dalla stessa e se non ci pensa lui a sloggiare in fretta, interviene il Ministero con la sua longa manus, ovvero il Dirigente Scolastico. Ed ecco che il ministro, nobilmente compreso del suo dovere etico verso la nazione tutta e la comunità scolastica in particolare, ammonisce gli inadempienti all’obbligo vaccinale che essi «disattendono il patto sociale ed educativo su cui si fondano le comunità nelle quali sono inseriti».

Chi scrive pensava ingenuamente che il loro inserimento fosse la conseguenza degli studi intrapresi, dei concorsi pubblici vinti, della passione per le discipline insegnate, non di attitudini morali e di comportamenti allineati sulle politiche governative. Tuttavia, occorre ringraziare il ministro Bianchi, che della comunità educante è un cultore, per avere fugato ogni residuo dubbio sul carattere potenzialmente totalitario della stessa, sulle sue zone d’ombra che ne fanno un potente fattore di conformismo sociale e di conseguente esclusione per eretici e ribelli.[3]

Volendo impartire una bella lezioncina di virtù civiche ai docenti refrattari all’inoculazione forzata, il ministro ha, in realtà, fatto l’apologia di una scuola che richiede agli insegnanti di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate, perfette per il nuovo totalitarismo del XXI secolo che si autolegittima su base morale, intorno ad una serie di opposizioni elementari e di sicuro impatto propagandistico: buoni/ cattivi, meritevoli/non meritevoli, degni/indegni, funzionale ad un’ulteriore contrapposizione inclusi/esclusi.

Fernanda Mazzoli

[1]https://www.orizzontescuola.it/obbligo-vaccinale-bianchi-il-rientro-in-classe-dei-docenti-non-vaccinati-sarebbe-stato-segnale-diseducativo/

[2] Gli insegnanti sospesi a gennaio erano in numero decisamente più alto di quelli reintegrati ad aprile: molti si sono ammalati di Covid durante i mesi invernali e, una volta guariti e in possesso di green pass rafforzato da guarigione, sono rientrati in classe, pur accompagnati da un certo alone sulfureo e dall’incertezza sul futuro.

[3] Su questa deriva della comunità educante mi permetto di rinviare al mio Comunità educante e adattamento sociale in AA.VV., Koiné. Ideali di comunità, Petite Plaisance, Pistoia 2021 e a Paolo Di Remigio: Educazione e istruzione (sinistrainrete.info) (https://www.sinistrainrete.info/societa/16151-paolo-di-remigio-educazione-e-istruzione.html)



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Un silenzio assordante. Un insegnante umiliato difficilmente potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

Fernanda Mazzoli

UN SILENZIO ASSORDANTE

Un insegnante umiliato difficilmente potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

Dietro la troppo facile divisione tra sì vax e no vax, vero tributo al riduzionismo del pensiero ad opera del circo mediatico, quello che si sta delineando è un fenomeno gravissimo che riguarda le stesse strutture della politica: la messa a punto di una cittadinanza condizionata.

***

Può darsi che io sia un soggetto in preda a credenze irrazionali, ma qualcosa non mi torna nelle misure messe in atto in ambito scolastico per arginare la pandemia da Covid 19.

Credevo di trovare, già a settembre, classi sdoppiate o meno affollate, mi aspettavo l’installazione in ogni aula di sanificatori d’aria, contavo su un raddoppiamento o almeno un incremento dei trasporti pubblici. È arrivata, invece, a dicembre la sospensione dall’insegnamento e dallo stipendio dei docenti e degli Ata che hanno scelto di non vaccinarsi.

Migliaia di insegnanti che in questi due difficili anni hanno contribuito, insieme ai loro colleghi, a dare continuità all’attività didattica ad Istituti chiusi, rappresentando un punto di riferimento forte per studenti spaventati e disorientati, mentre Miur e media cianciavano di DAD come nuova opportunità metodologica o di banchi a rotelle, sono considerati ora alla stregua di untori da allontanare dalla vita sociale, sino al punto di impedire loro di svolgere il loro magistero e di privarli delle fonti di sostentamento. Infatti, non trattandosi di un provvedimento disciplinare e conservando essi il rapporto di lavoro, sembra che non potranno nemmeno percepire l’assegno alimentare, né svolgere un’ altra mansione regolare.

Tutto questo avviene nel silenzio assordante dei grandi sindacati, dei difensori titolati della democrazia e dei diritti umani, nonché di molte delle voci critiche che si sono levate in questi anni contro l’aziendalizzazione della scuola, di cui questa disposizione rappresenta uno degli esiti. Toccherà, infatti, al dirigente scolastico nella sua qualità di datore di lavoro comminare la sospensione.

Dietro la troppo facile divisione tra sì vax e no vax, vero tributo al riduzionismo del pensiero ad opera del circo mediatico, quello che si sta delineando è un fenomeno gravissimo che riguarda le stesse strutture della politica: la messa a punto di una cittadinanza condizionata, in cui il diritto al lavoro è subordinato all’accettazione delle misure e delle condotte decise dal governo di turno, alle quali si assegna un carattere inconfutabile, in virtù del loro preteso coincidere con il Bene pubblico.

Chi dissente e rivendica la libertà di scelta si ritrova, come ha affermato il presidente del Consiglio nella sua conferenza stampa del 26 novembre1, fuori dalla società. E dalla scuola, dove a contare non sono più la preparazione professionale, la conoscenza dei contenuti disciplinari e la capacità di comunicarli ai ragazzi, ma l’acquiescenza e l’obbedienza, oggi al nuovo culto del vaccino (trasformato da strumento utile a contenere i danni del virus – di cui servirsi con tutte le precauzioni richieste da un farmaco sperimentale – a panacea miracolistica), domani a qualche altro credo, sempre naturalmente rivestito di opportuna aura salvifica.

Questi sono tempi in cui occorrerebbe riflettere sul serio sul sermone del teologo e pastore protestante Martin Niemöller, erroneamente attribuito a Bertold Brecht.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare“.

Non solo: un provvedimento come quello che scatterà dal 15 dicembre suona come un vergognoso ricatto economico: non si limita a discriminare pesantemente i docenti in base a un parametro che nulla ha a che vedere con la specificità della loro professione, ma introduce un’ulteriore discriminazione fra coloro che potranno concedersi il lusso di essere coerenti con le proprie idee e quelli che, tra mutuo da pagare e figli da crescere, non potranno permettersi di rinunciare allo stipendio.

Saranno, questi, insegnanti avviliti ed umiliati, costretti ad abdicare alla propria libertà in cambio dei mezzi di sussistenza, schiacciati da una violenza – quella economica – che marchia a sangue le persone tanto quanto l’aggressione fisica, se non di più. Difficilmente, un insegnante umiliato potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

A scanso di equivoci, non ci si riferisce qui a chi ha scelto liberamente di vaccinarsi, ma a chi lo ha fatto o lo farà spinto dalla necessità di continuare a percepire un salario per vivere.

A ben guardare, i conti tornano, eccome: lo svilimento dei docenti è una tessera importante di quel puzzle disegnato dalle riforme degli ultimi venticinque anni, tendenti a fare della scuola una formidabile fabbrica di consenso sociale.

Fernanda Mazzoli

1 Testualmente :

Speriamo che la pandemia si evolva in maniera tale che il prossimo Natale sia normale per tutti. […] Bisogna che anche coloro che da oggi saranno oggetto di restrizioni […] possano tornare a essere parte della società con tutti noi”, dal che si evince che per adesso non ne fanno parte.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il nuovo regime scolastico. Il fine delle riforme è la standardizzazione dell’essere umano: la scuola deve formare “il tecnico” e non la persona.

Riforma della scuola

Salvatore Bravo

Il nuovo regime scolastico

Il fine delle riforme è la standardizzazione dell’essere umano:
la scuola deve formare “il tecnico” e non la persona

***

L’anno scolastico volge al termine, le circostanze pandemiche hanno favorito i processi che erano in atto da decenni, in primis la riduzione della scuola a semplice costola del mercato. Si è trattato di un anno di passaggio, già da più parti si proclama che la nuova normalità investirà la società tutta. Per la scuola si prevede un’accelerazione sulla digitalizzazione e la trasformazione dei docenti in quantificatori, in registratori delle competenze. Docenti anonimi per una scuola al servizio della crescita economica. La persona e la comunità scompaiono dietro la cortina di ferro dell’asservimento al mercato. È il mercato de facto a stabilire fini e contenuti dei programmi e l’azione didattica, ogni fine costituzionale è ridotto ad elemento di sottofondo secondario. L’articolo tre della Costituzione per il quale la Repubblica promuove il libero sviluppo delle personalità, ed a tal scopo rimuove le disuguaglianze iniziali, è superato dalle logiche acquisitive e competitive. La scuola (articolo 33 e 34) presidio e prassi della democrazia è sostituita dalla legge del mercato. Sempre meno scuola e sempre meno contenuti comportano la contrazione della democrazia, l’homo oeconomicus è il nuovo modello antropologico a cui ci si “deve adattare”. La svolta implica il definitivo abbandono della tradizione italiana per l’imitazione dei modelli anglosassoni. L’obiettivo è l’uniformità dei sistemi d’istruzione europei, ogni tradizione patria dev’essere trascesa in nome di un’unità europea che si svela essere strumento delle oligarchie. Il liceo dev’essere superato, al suo posto si impone “il regime degli istituti tecnici” per formare non più cittadini, ma ubbidienti lavoratori: si insegna la sussunzione e non la cittadinanza. Inquieta il silenzio dei docenti e della cittadinanza. La scuola pubblica è di tutti e per tutti, se ha la chiarezza del suo fondamento costituzionale e didattico. “Il falso progressismo” è entrato nella scuola e non solo, governa con i suoi automatismi e le parole ad effetto dietro cui si nasconde il nulla che avanza. Per comprendere la decadenza ammantata di progresso dei tempi attuali è sufficiente leggere qualche pagina della pedagogia di Giovanni Gentile che nel 1923 istituì il liceo:

“L’insegnante insegna, in quanto non misura, né ricorda neppure le ore che passa nella scuola; e chi guarda a ogni minuto l’orologio, non può riuscire a concentrare il proprio pensiero, a unire l’anima propria con quella dei suoi scolari nel lavoro fecondo che è proprio dell’insegnamento, in quella comunione degli animi in cui si adempie una delle forme più pure della vita religiosa dell’uomo […] Esso consiste, a dir vero, in un bene che, diviso, non diminuisce; comunicato non si perde da chi lo produce, anzi s’accresce con suo vantaggio sempre maggiore” [1].

Il docente non è un misuratore del tempo della lezione e delle prestazioni dell’alunno, oggi diremmo delle competenze, ma è “un maestro” che ha come scopo la formazione dell’alunno: docente ed alunno, pur nell’asimmetria dei ruoli si formano reciprocamente in una relazione che non può essere quantificata.

Incontro educativo
L‘incontro educativo è una relazione in cui i tempi della crescita conoscono regressioni, stasi ed improvvise svolte, se il docente assume il comportamento di uno scienziato che in laboratorio stimola “il fenomeno alunno”, lo descrive e lo quantifica, siamo di fronte ad un nuovo autoritarismo non riconosciuto. Lo studente che deve continuamente certificare le competenze non può che percepirsi come un produttore di competenze, “è chiamato” a mostrare il suo valore con la sola documentazione. La scuola selettiva di Giovanni Gentile era meno competitiva e classista della scuola che si profila, in quanto le certificazioni sono ad uso delle classi più abbienti. Sarà il denaro a fare le competenze, e specialmente la relazione docente-alunno sarà inquinata dal più bieco positivismo che si coniuga con l’economicismo.

La pedagogia di Giovanni Gentile ha la chiarezza che la didattica è relazione umana. L’essere umano è dinamico, la coscienza ed il vissuto impongono continuamente la capacità di ascoltare “l’invisibile”, se il docente si limita a raccogliere la documentazione, la relazione sarà sostituita dalla “transazione burocratica”. L’attività scolastica è vita che si rinnova nel quotidiano e nello scorrere dei giorni e non può essere irrigidita in prestazioni da quantificare in certificazioni, crediti, debiti, attività culturali a cui l’alunno ha partecipato. La valutazione diviene di censo, i contenuti senza i quali nessuna attività critica e creativa è possibile sono sostituiti da attestati che si comprano sul mercato della formazione:

“Non c’è un sapere che insegni l’arte di fare scuola: se per fare scuola s’intende farla davvero, a certi giorni, a certe ore, via via, a certi alunni, sempre nuovi, con animo sempre nuovo, in circostanze sempre diverse, su problemi che mai non si ripetono. […] E guai al maestro che non sappia procedere se non sulle dande dei precetti! La vita è creazione eterna[2]”.


Scuola della prassi o antipositivistica
L’antipositivismo di Giovanni Gentile è oggi più attuale che mai. Se il positivismo è il principio di ogni processo di sussunzione, in quanto l’essere umano deve fatalmente piegarsi al giogo fatale dell’empirico, l’Idealismo è prassi e Spirito, ovvero l’essere umano è la fonte della storia e del suo destino. La prassi gentiliana ha fecondato anche Antonio Gramsci, perché mette in atto processi di consapevolezza che dimostrano che l’umanità è “la radice” della storia. Se il fascismo non è riuscito ad omologare totalmente la nazione italiana, forse, lo si deve anche alla Riforma Gentile, al suo antipositivismo che non ha consentito la completa omologazione fascista, ma ha contribuito a consolidare in molti soggetti il pensiero divergente e riflessivo, malgrado le finalità totalitarie del regime:

“Noi siamo la radice da cui tutto germoglia, e da noi, come appunto da propria radice, tutto torna ad attingere il succo vitale che lo mantiene in essere. Noi, dunque, siamo il principio del mondo che è il nostro mondo, noi, non già in quanto siamo o ci facciamo uno tra gli oggetti della nostra coscienza, bensì proprio in quanto siamo il soggetto attivo del conoscere[3]”.

Il neopositivismo di cui è affetta la scuola italiana ed europea è l’espressione compiuta del nuovo autoritarismo in atto. La quantificazione degli esseri umani è il nuovo razzismo da smascherare che si cela tra le parole della propaganda: inclusione, debiti, crediti, eccellenze, competizione e competenze. Il fine delle nuove riforme è la standardizzazione dell’essere umano, la scuola deve formare “il tecnico” e non la persona. Il presente con il suo linguaggio ci descrive il futuro, spetterà a noi confermarlo o trasformarlo con la nostra indifferenza o con la nostra sana partecipazione capace di filtrare il meglio della tradizione e dell’esperienza storica non per trasmetterla pedissequamente, ma per ripensarla nelle mutate condizioni storiche. Si profila una società senza significato, in cui il logos sarà sostituito dalla propaganda, siamo tutti corresponsabili del presente e del nuovo che avanza nella forma della desertificazione dell’umano.

 

[1] G. Gentile, Lavoro e cultura. Discorso prefascista ai lavoratori di Roma. In G. Gentile, Opere, XLV, Politica e cultura, Le Lettere, 1990, pag. 247.

[2] G. Gentile, Sommario di pedagogia, cit., vol. I, pp. 123 124.

[3] Ibidem, pag. 15.

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Carlo Collodi (1826-1890) – Salvatore Bravo: «Pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa per perdere il tempo a studiare!… Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne convieni?».

Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne convieni?
Emanuele Luzzati Pinocchio, il paese dei balocchi.
Salvatore Bravo
Pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa per perdere il tempo a studiare!…

***

Capitalismo e menzogna
Il simbolo-metafora veicola il processo di emancipazione, il processo dialettico necessita di figure per fendere la contingenza resa ipostasi dall’ideologia imperante.
Collodi,[1] con le avventure di Pinocchio, ci dona simboli e metafore con cui leggere il capitalismo. Collodi è stato profetico, perché ha decodificato il capitalismo che subentrava all’economia agricola nell’Italia di fine Ottocento cogliendolo nella sua sostanza: l’unica verità a cui il capitalismo risponde è il plusvalore. I mezzi per giungervi sono plurimi. Nelle avventure di Pinocchio, si descrive un mondo senza contraddizione. Gli appetiti smodati sono deregolamentati, poiché non vi è nessuna cultura critica, e specialmente, non vi è etica che contenga l’illimitato nella forma dell’entificazione di ogni esistente e vivente. Il sistema capitale è incorporato nella collettività, la quale ha smesso di essere comunità, per essere un vespaio, in cui ciascuno strumentalizza l’alterità. Collodi con il ”mondo dei balocchi” descrive l’antiumanesimo in grembo al capitalismo, e che oggi è completamente dispiegato. Nel paese del balocchi, nel paese del disimpegno edonistico, si assiste all’animalizzazione della persona.* Per poter estrarre plusvalore dai sudditi del capitale è necessario sottrarre loro la natura comunitaria e la razionalità critica. A tale operazione si giunge mediante un sistema organizzato sulla menzogna.

Menzogna e bugia
Le istituzioni che Pinocchio incontra sono mosse dalla menzogna, ovvero difendono interessi oligarchici mediante apparati che agiscono per perpetuare il capitalismo con l’inganno perenne. Pinocchio reagisce alla menzogna con la bugia. La menzogna è diversa dalla bugia, quest’ultima è la difesa del suddito dinanzi ai poteri forti, è l’espressione di una minorità sociale causata dall’autopercepirsi come plebeo e suddito di un mondo che soverchia e schiaccia senza pietà alcuna.
Pinocchio è il popolo plebeizzato e precarizzato che non può che difendersi con la bugia, perché non concepisce di essere protagonista della storia. Il plebeo mente dinanzi alla violenza di un sistema che non lascia scampo. La bugia termina quando inizia la lotta verticale: con essa il plebeo diventa cittadino che afferma diritti e doveri e si sottrae al clientelismo che dispensa favori in nome di “oligarchiche superiorità”.

Nel paese dei balocchi
Pinocchio ci racconta del presente, della plebeizzazione dei popoli mediante la società dello spettacolo. Il paese dei balocchi in cui Pinocchio rischia di perdere la sua umanità è un luogo in cui domina il chiasso. L’iperstimolazione uditiva impedisce l’ascolto e, quindi, la razionalità. L’industria del divertimento ha una doppia valenza, non solo produce plusvalore, ma specialmente struttura la sussunzione formale e materiale. I dominati si perdono nell’eccesso delle promesse edeniche con l’effetto di abdicare ad ogni attività politica per essere solo sudditi. L’intero sistema è organizzato per ridurre al silenzio intere generazioni nella violenza legalizzata del chiasso. Il circo mediatico, ed i pedagogisti all’ombra del potere, declamano la liberazione dal tempo della formazione per allungare il tempo dello sradicamento da ogni impegno, in modo da favorire le logiche di dominio. Il paese dei balocchi è il luogo di un esperimento antropologico: ridurre l’essere umano attraverso il principio di piacere ad animalità pura. Nel paese dei balocchi vi sono solo giovani, il divertimento è associato al godimento giovanile.

Nella trappola degli imbonitori
La distopia contemporanea è andata oltre: le generazioni sono equiparate in nome della giovinezza. Per essere giovani, padri e madri abdicano al ruolo genitoriale, i professori si liberano del ruolo di educatori per usare il linguaggio giovanile e diluiscono i contenuti in nome del successo formativo. L’applauso ingannatore e le parole buone per fare male sono profuse per sostenere la liberazione dai contenuti e dai valori classici. Il nichilismo avanza sulla punta della baionetta fatta di applausi e parole adulatorie. Pinocchio ci rammenta cosa accade all’umanità che cade nella trappola degli imbonitori. Il burattino dalle fattezze asinine non sa parlare, ma solo ragliare, con la perdita del linguaggio il pensiero si eclissa ed il potere si consolida:

«Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano 14 anni: i più giovani ne avevano 8 appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno: questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: viva i balocci! (invece di balocchi): non vogliamo più schole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili. Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi, che avevano fatto il viaggio coll’Omino, appena ebbero messo il piede dentro la città, si ficcarono subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti, com’è facile immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento di loro? In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le settimane passavano come tanti baleni.

— Oh! che bella vita! — diceva Pinocchio tutte le volte che per caso s’imbatteva in Lucignolo.

— Vedi, dunque, se avevo ragione? — ripigliava quest’ultimo. — E dire che tu non volevi partire! E pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa dalla tua Fata, per perdere il tempo a studiare!… Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne convieni? Non vi sono che i veri amici che sappiano rendere di questi grandi favori.

— È vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre: — Non praticare quella birba di Lucignolo, perché Lucignolo è un cattivo compagno e non può consigliarti altro che a far del male!…».[2]

 

Distopia mascherata da utopia
Presto svela la distopia: Pinocchio è venduto per la società dello spettacolo, ma un incidente gli impedisce di essere utilizzato nel circo. È venduto ad un compratore che vorrebbe farne pelle da tamburo. Il massimo del profitto deve arrivare con il minimo investimento è il sogno di ogni capitalista piccolo e grande; pertanto, per poterne estrarre la pelle si tenta di affogarlo. In una realtà dove ci sono solo compratori e venditori i deboli sono solo enti da usare. Pinocchio non è guardato da nessuno, è solo un oggetto da cui ciascuno cerca di trarre il proprio piacere e tornaconto: gli spettatori si divertivano per i numeri del ciuchino, l’omino che lo ha condotto nel paese dei balocchi soppesava il guadagno che avrebbe ricavato dalla vendita del ragazzo-ciuchino, e l’ultimo compratore non vede che la pelle del ciuchino da usare per un buon tamburo. Avvoltoi di diversa stazza si lanciano sulla vittima, ciascuno con un proprio “piano d’investimento”.
Il paese dei balocchi è la società-azienda in cui vi sono solo compratori e venditori che si muovono tra merci da capitalizzare:

«Quando si rizzò, era azzoppito, e a malapena poté ritornare alla scuderia.
— Fuori Pinocchio! Vogliamo il ciuchino! Fuori il ciuchino! — gridavano i ragazzi dalla platea, impietositi e commossi al tristissimo caso. Ma il ciuchino per quella sera non si fece più rivedere.
La mattina dopo il veterinario, ossia il medico delle bestie, quando l’ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita. Allora il Direttore disse al suo garzone di stalla:
— Che vuoi tu che mi faccia d’un somaro zoppo? Sarebbe un mangiapane a ufo. Portalo dunque in piazza e rivendilo.  Arrivati in piazza, trovarono subito il compratore, il quale domandò al garzone di stalla:
— Quanto vuoi di codesto ciuchino zoppo?
— Venti lire.
— Io ti do venti soldi. Non credere che io lo compri per servirmene: lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle molto dura, e con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del mio paese.
Lascio pensare a voi, ragazzi, il bel piacere che fu per il povero Pinocchio, quando sentì che era destinato a diventare un tamburo!
Fatto sta che il compratore, appena pagati i venti soldi, condusse il ciuchino sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente uno spintone e lo gettò nell’acqua».[3]

 

Rileggere Pinocchio è leggere il presente con le sue brutture dinanzi alle quali, non si fa che ripetere che non c’è alternativa. Collodi è ottimista, Pinocchio alla fine riuscirà ad emanciparsi dalle caverne, in cui è caduto. Sembra dirci che la storia, anche quando sembra sotto scacco di forze invisibili continua il suo carsico lavoro. Le autocoscienze non sono enti, ma conservano la possibilità della prassi. Il burattino diventerà essere umano, quando ritroverà il coraggio della prassi alimentata dalla ricerca delle sue radici: Geppetto.
Il capitale, oggi, è ostile ad ogni radicamento, poiché la motivazione alla lotta si materializza solo nell’appartenenza ad una comunità. Uomini e donne anonimi senza patria, lingua e cultura sono maggiormente esposti ai pericoli del “paese dei balocchi”. Le avventure di Pinocchio sono un monito: la motivazione alla lotta emerge dalla consapevolezza che non si è “atomi”, ma ciascuno è parte di una storia collettiva senza la quale non siamo che il nulla tra le forze invisibili della storia. Non ci saranno “fate turchine” a salvarci dalla distopia del presente, solo l’impegno individuale per la comunità può mantenere viva la speranza che indica un futuro diverso dal presente e dal recente passato.

Salvatore Bravo

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[1] Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini (Firenze, 24 novembre 1826– Firenze, 26 ottobre 1890).

[2] Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. Testo tratto dall’Edizione Critica edita dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi in occasione del Centenario di Pinocchio (1983), a cura di Ornella Castellani Pollidori con il patrocinio dell’Accademia della Crusca, pag. 72

[3] Ibidem, pag. 79.

[*] Salvatore Bravo, L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo, Petite Plaisance, Pistoia 2020.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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