Vasilij V. Kandinskij (1866 -1944) – L’arte che è solo figlia del suo tempo non ha avvenire, non diventerà mai madre del futuro, è un’arte sterile. La vita spirituale è movimento della conoscenza e senza il pane metaforico l’arte non ha più anima. In queste epoche cieche gli uomini danno importanza solo al successo esteriore, si preoccupano unicamente dei beni materiali.

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«Si è detto che l’arte è figlia del suo tempo. Un’arte simile può solo riprodurre ciò che è già nettamente nell’aria. L’arte che non ha avvenire, che è solo figlia del suo tempo ma non diventerà mai madre del futuro, è un’arte sterile. Ha vita breve e muore moralmente nell’attimo in cui cambia l’atmosfera che l’ha prodotta.
Anche l’altra arte, suscettibile di nuovi sviluppi, è radicata nella propria epoca, ma non si limita ad esserne un’eco e un riflesso; possiede invece una stimolante forza profetica , capace di esercitare un’influenza ampia e profonda.
La vita spirituale, di cui l’arte è una componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo, tanto complesso quanto chiaro e preciso. È il movimento della conoscenza. Può assumere varie forme, ma conserva sempre lo stesso significato interiore, lo stesso fine. […] Allora però arriva un uomo, che ci assomiglia, ma ha in sé una misteriosa forza “visionaria”. Egli vede e fa vedere» (pp. 20-21).

«I periodi in cui […]  manca il pane metaforico, sono periodi di decadenza spirituale. Le anime continuano a cadere dalle sezioni superiori a quelle inferiori […]. In queste epoche silenziose e cieche gli uomini danno importanza solo al successo esteriore, si preoccupano unicamente dei beni materiali, e salutano come una grande impresa il progresso tecnico, che giova e può giovare solo al corpo. Le energie spirituali vengono sottovalutate, se non ignorate. I pochi che hanno ideali e senso critico sono scherniti o considerati anormali. Le rare anime che non sanno restare avvolte nel sonno e sentono un oscuro desiderio di spiritualità, di conoscenza e di progresso, infondono una nota di tristezza e di rimpianto nel grossolano coro materiale. La notte diventa sempre più fitta. Il grigiore si addensa intorno a queste anime tormentate e sfibrate dai dubbi e dalle paure, che spesso preferiscono un salto improvviso e violento nel buio piuttosto che una lenta oscurità.
L’arte, che in tempi come quelli ha vita misera, serve solo a scopi materiali. E poiché non conosce materia delicata cerca un contenuto nella materia dura. Deve sempre riprodurre gli stessi oggetti. Il “che cosa” viene eo ipso meno; rimane solo il problema di “come” l’oggetto materiale debba essere riprodotto dall’artista. Questo problema diventa un dogma. L’arte non ha più anima.
Su questa via del “come”, l’arte procede. Si specializza e diventa comprensibile solo agli artisti, che cominciano a lamentarsi dell’indifferenza del pubblico. Poiché in tempi simili l’artista medio non ha bisogno di dire molto e gli basta un minimo di “diversità” per farsi notare e osannare da certi gruppetti di mecenati e conoscitori (il che può comportare grandi vantaggi materiali), una gran massa di persone superficialmente dotate si butta sull’arte, che sembra cosi facile. In ogni “entro artistico” vivono migliaia e migliaia di artisti, la maggior parte dei quali cerca solo una maniera nuova, e crea milioni di opere d’arte col cuore freddo e l’anima addormentata.
La “concorrenza” cresce. La caccia spietata al successo rende la ricerca sempre più superficiale. I piccoli gruppi, che casualmente si sono sottratti a questo caos di artisti e di immagini si trincerano nelle posizioni conquistate. Il pubblico, che è rimasto arretrato, guarda senza capire, non ha interesse per un’arte simile e le volta tranquillamente le spalle» (pp. 24-25).

«In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima. li colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. È chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore» p. 46).

Vasilij Vasil’evič Kandinskij, La vita spirituale nell’arte, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano 1989.


Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 -1944) – Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra. Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.
Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 -1944) – Migliaia e migliaia di artisti creano oggi milioni di “opere d’arte” col cuore freddo e l’anima addormentata.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Dino Formaggio (1914-2008) – Il destino dei buoni libri sembra essere quello di rinascere continuamente diversi nel tempo. Ogni epoca, ogni svolta di cultura, li riavvicina e penetra come cosa del tutto nuova e li riscopre.

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Il destino dei buoni libri sembra essere quello di rinascere continuamente diversi nel tempo. Ogni epoca, ogni svolta di cultura, li riavvicina e penetra come cosa del tutto nuova e li riscopre. Così, la storia delle diverse letture di un libro può costituire la storia della sua ricchezza. Ogni nuova lettura ne mette in luce qualche inatteso aspetto, ne riconquista qualche elemento insospettato ancora, e lo fa vivere accanto a ciò per cui già il libro viveva; quando, addirittura, non mette in ombra le sue stesse precedenti ragioni di vita.

Dino Formaggio, “Giudizio storico e teoria dell’arte (a proposito di una ristampa italiana dello Schlosser)”, in Id., L’idea di artisticità. Dalla «morte dell’arte» al «ricominciamento» dell’estetica filosofica, Casa Editrice Ceschina, Milano, 1962, p. 351

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Frida Kahlo (1907-1954) – Se solo i nostri occhi vedessero le anime invece dei corpi, quanto sarebbe diversa la nostra idea di bellezza. Io ancora vedo orizonti dove tu disegni confini. Non come chi vince sempre, ma come chi non si arrende mai.

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«Non far caso a me.
Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizonti dove tu disegni confini».
«Se solo i nostri occhi vedessero le anime invece dei corpi,
quanto sarebbe diversa la nostra idea di bellezza».
«Non come chi vince sempre, ma come chi non si arrende mai».
Frida Kahlo

«Ti meriti un amore che ti voglia spettinata,
con tutto e le ragioni che ti fanno alzare in fretta,
con tutto e i demoni che non ti lasciano dormire.
Ti meriti un amore che ti faccia sentire sicura,
in grado di mangiarsi il mondo quando cammina accanto a te,
che senta che i tuoi abbracci sono perfetti per la sua pelle.
Ti meriti un amore che voglia ballare con te,
che trovi il paradiso ogni volta che guarda nei tuoi occhi,
che non si annoi mai di leggere le tue espressioni.
Ti meriti un amore che ti ascolti quando canti,
che ti appoggi quando fai il ridicolo,
che rispetti il tuo essere libero,
che ti accompagni nel tuo volo,
che non abbia paura di cadere.
Ti meriti un amore che ti spazi via le bugie
che ti porti l’illusione,
il caffè
e la poesia».

Frida Kahlo

Il diario di Frida Kahlo. Un autoritratto intimo, introduzione di Carlos Fuentes, a cura di Sarah M. Lowe, Leonardo, Milano 1995

Frida Kahlo, Lettere appassionate, a cura di Martha Zamora, Abscondita, Milano 2002

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Georg W. Bertram – L’arte è prima di tutto un’esperienza che si realizza concretamente nella prassi umana. È una forma specifica di prassi riflessiva, è una prassi di libertà. È politica e si occupa dell’uomo. Anzi ne è responsabile e in quanto tale ha capacità trasformative.

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Georg W. Bertram, L’ arte come prassi umana. Un’estetica, Cortina, Milano, 2017.

Nella teoria e nella filosofia dell’arte si tende a sottolineare la differenza fra l’arte e le altre pratiche umane. In questo modo, si può perdere il senso profondo della pluralità delle arti e sottovalutare la portata dell’arte nell’ambito della forma di vita umana. Nella prospettiva teorica elaborata da Bertram, al contrario, l’arte si colloca in continuità con le altre pratiche umane, perché solo in riferimento a esse può acquisire la propria specifica potenzialità. Seguendo Bertram, saremo in grado di riconoscere in queste pagine una nuova impostazione nella definizione dell’arte: si tratta di comprendere la particolarità dell’arte nel contesto della prassi umana, ovvero di cogliere la natura essenziale del contributo che essa reca a questa prassi. L’arte, argomenta Bertram, non è semplicemente una pratica specifica, ma una forma specifica di prassi riflessiva, in quanto tale assai produttiva nell’ambito del rapporto dell’essere umano con il mondo. In ultima analisi, l’arte è una prassi di libertà.

Quarta di copertina
È dai tempi delle parole di Platone sul ruolo dei poeti che l’arte è al centro dell’attenzione dei filosofi. Questa sistematica introduzione alla filosofia dell’arte considera le riflessioni che da Platone, Kant, Hegel, giungono fino ad Adorno, Heidegger, Gadamer e Goodman e s’interroga su quale valore e funzione abbia l’esperienza artistica per l’uomo. Il volume illustra i principali temi e concetti che hanno contribuito a definire nella storia l’espressione artistica e in particolare i confini di quel peculiare processo di comunicazione che ha luogo solo grazie all’arte. Georg Bertram risponde a quesiti centrali: che cos’è l’arte? quando vi è arte? qual è il valore dell’arte per l’uomo? E invita il lettore a partecipare con lui nella riflessione.


 

«L’arte ha per noi il valore di una forma specifica di conoscenza, che può essere contraddistinta dal fatto che nel dialogo con le opere d’arte prendiamo coscienza del mondo e di noi stessi. Non vengono però in tal modo accomunati, in maniera infondata, due possibili orientamenti della presa di coscienza estetica? Se nell’arte ne va del mondo o ci occupiamo invece di noi stessi fa certo una bella differenza. È necessario precisare in che senso dev’essere intesa la presa di coscienza estetica: se essa abbia a che fare primariamente con il mondo o con il sé. Le opere d’arte rispondono anzitutto al modo in cui è strutturato il mondo intorno a noi? oppure ci interpellano in primo luogo circa le specifiche cognizioni che abbiamo di noi stessi? Potrebbe darsi naturalmente amcora una terza possibilità: che nell’arte il mondo e il sé siano interdipendenti.
Nel dibattito concernente la questione se l’arte sia rappresentazione o espressione, uno dei dibattiti paradigmatici intorno all’arte, vengono a confronto le due diverse direzioni che possono essere prese dal realizzarsi della presa di coscienza estetica. La diatriba sulla spiegazione dell’arte come rappresentazione o espressione verte sul modo in cui l’arte funziona come processo di presa di coscienza, e cioè se essa sia anzitutto orientata alla nostra realtà esteriore o alla nostra realtà interiore. Chi concepisce l’arte come rappresentazione ne associa le prestazioni cognitive al mondo esterno. Se invece l’arte è concepita come espressione, la presa di coscienza estetica è connessa con il mondo cognitivo interiore di coloro che fanno esperienze estetiche.
Sulla base del dibattito sull’arte come rappresentazione o espressione […], alla fine dei conti è più opportuno tirare in ballo un’altra distinzione, quella tra segno ed esperienza, che rende meglio comprensibile in che misura l’arte possa riferirsi al mondo o al sé. Quindi le opere d’arte devono essere comprese come segni – come segni che dànno da comprendere determinati contenuti -, oppure ci rappresentano in un modo particolare le forme della nostra esperienza. […] Il mio scopo è mostrare in generale che l’alternativa tra segno ed esperienza, in ultima istanza, non presenta affatto un’alternativa e che perciò nella presa dio coscienza estetica mondo e sé sono inseparabilmente connessi».
GEORG W. BERTRAMArte. Un’introduzione filosofica (Kunst. Eine philosophische Einführung, Philipp Reclam, Stuttgart 2005), trad. It. di A. Bertinetto, Einaudi, Torino 2008, cap. IV ‘Segno o esperienza ‘, pp. 127 – 128.


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giuseppe Ungaretti (1888-1970) – Nel dipinto di Jan Vermeer, «Merlettaia», lo sguardo che si concentra esprime l’idea dell’infinità, d’una familiarità con il silenzio.

Giuseppe Ungaretti_Jan Vermeer
G. Ungaretti e P. Bianconi
L’opera completa di Vermeer
Rizzoli, Milano1966.

«La Merlettaia è china sul suo lavoro. È sguardo che si concentra, è assenza da tutto il rimanente che non sia quel lavoro, quel moto di dita che i fili annodano in trame leggiadre? Dita e sguardo non cesseranno mai di muoversi, di quel loro moto che si muove fermo per sempre. L’idea dell’infinità, d’una familiarità con il silenzio, solita, indissolubile e infrangibile; l’idea d’un’esistenza immutabilmente, felicemente quotidiana, semplicemente semplice; l’idea d’una solitudine tutta sola, e tutto il resto muto; questa è l’idea»

Bibliografia

  • Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese
    A. K. Wheelock (a cura di), W. Liedtke (a cura di), S. Bandera (a cura di)
    246 pagine, 2012
  • Max Kozloff
    La luce di Vermeer
    Roma, Contrasto DUE, 2011.
  • Bert W. Meijer
    Vermeer. La ragazza alla spinetta e i pittori di Delft
    Giunti GAAM, 2007
  • Anthony Bailey
    Il maestro di Delft: storia di Johannes Vermeer, genio della pittura
    Milano, Rizzoli, 2003.
  • Norbert Schneider
    Vermeer: 1632–1675: i sentimenti dissimulati
    Koln, Taschen, 2001.
  • Lorenzo Renzi
    Proust e Vermeer. Apologia dell’imprecisione
    Bologna, Il Mulino, 1999
  • John Michael Montias
    Vermeer: l’artista, la famiglia, la città
    Torino: Einaudi, 1997.
  • Gilles Aillaud, John-Michael Montias and Albert Blankert
    Vermeer
    Milano, Arnaldo Mondadori Editore, 1986
  • Giuseppe Ungaretti e Piero Bianconi
    L’opera completa di Vermeer
    Milano, Rizzoli, 1966.

Consulta la pagina dedicata al dipinto di Jan Vermeer, La Merlettaia, sul sito del Musée du Louvre di Parigi.


Giuseppe Ungaretti (1888-1970) – Sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita. Volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte. Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde.


Sergio Rinaldelli – Come una foglia a primavera. Pagine di diario (2000-2018)

Sergio Rinaldelli 01

Sergio Rinaldelli

Come una foglia a primavera

Pagine di diario (2000-2018)


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Ho iniziato a tenere un diario in giovane età, parallelamente alla scoperta della pittura, che è divenuta nel tempo scelta di vita. Scrittura e pittura sono procedute da allora di pari passo: la prima, affiancando il ruolo principale di autoanalisi a quello non meno importante di supporto critico ed elemento di verifica nei confronti della seconda; questa, a sua volta, rifondendo non di rado le proprie immagini in una trama narrativa, chiudendo il cerchio in un’ideale continuità espressiva.
Il libro raccoglie una scelta di brani degli ultimi venti anni, che in pittura coincidono con l’abbandono della figurazione iniziale per una maggior semplificazione compositiva, volta alla riformulazione in chiave astratta di elementi naturalistici nell’ottica di un’ interpretazione simbolica del visibile.
 Dopo la laurea in Lingue e letterature slave, ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Come pittore ho tenuto molte mostre personali e partecipato a collettive in Italia e all’estero; ho realizzato illustrazioni per libri di poesia e riviste letterarie. Fra le opere presenti in collezioni private e pubbliche, amo ricordare una serie di chine dedicate all’opera di Cristina Campo, acquisite dalla Biblioteca Marucelliana di Firenze.
La mia attività è documentata presso il Kunsthistorisches Institut in Florenz; la Biblioteca Nazionale Centrale, la Biblioteca Marucelliana e l’Istituto Olandese di Storia dell’arte di Firenze; la Biblioteka Jagiellońska di Cracovia, Polonia.

 




Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 -1944) – Migliaia e migliaia di artisti creano oggi milioni di “opere d’arte” col cuore freddo e l’anima addormentata.

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Lo spirituale nell'arte

Lo spirituale nell’arte

 

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«Ci sono migliaia e migliaia di artisti

la maggior parte dei quali cerca solo

una maniera nuova,

e crea milioni di “opere d’arte”

col cuore freddo

e l’anima addormentata».

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Vasilij Vasil’evič Kandinskij, Lo spirituale nell’arte [1912], ed. it. a cura di Elena Pontiggia, SE, Milano 2005, p. 25.

“Nell’agosto del 1910, a Murnau in Baviera, Wassily Kandinsky termina uno degli scritti più singolari del secolo. Si intitola Lo spirituale nell’arte. Non è una dichiarazione di poetica, non è un trattato di estetica, non è un manuale di tecnica pittorica. È un libro di profezie laiche, in cui misticismo e filosofia dell’arte, meditazioni metafisiche e segreti artigianali si sovrappongono e si confondono, nel presentimento di un’arte nuova. L’aurora della pittura, che Kandinsky crede di annunciare, si riverbera anche sulle sue pagine, che ci appaiono insieme incerte e perentorie, divise tra ombra e chiarore.” (Dalla postfazione di Elena Pontiggia)


Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 -1944) – Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra. Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.



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Sergio Arecco – Fisica e metafisica del cinema. Il battle study dal muto al digitale

Sergio Arecco 002

“Ben oui si on filme pas c’est pas du cinéma.”
“Des conneries! Le cinéma c’est bien avant qu’on filme.
Là cette bouteille elle a pas besoin d’être filmée
pour être du cinéma” .

François Bégaudeau, La blessure la vraie, 14 (2011)

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317 ISBNSergio Arecco

Fisica e metafisica del cinema. Il battle study dal muto al digitale

ISBN 978-88-7588-253-2, 2019, pp. 224, Euro 20
Collana “il pensiero e il suo schermo”

indicepresentazioneautoresintesi

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«Nulla può darsi in qualunque situazione bellica senza l’esatta conoscenza dell’elemento di fondo: l’uomo e la sua morale». È quanto scrive lo stratega Ardant du Picq, morto in battaglia (Longeville-lès-Metz, guerra franco-prussiana), nell’incompiuto Études sur le combat, noto come  Battle Studies, ancora oggi testo di riferimento per chiunque intenda misurarsi con il tema del combattimento in pace o in guerra. Sì, anche in pace. Non sempre, infatti, si tratta di guerra guerreggiata, tra opposti eserciti. Leggendo, nel corso del volume, i capitoli su Napoli o Boston o Parigi, alternati con quelli sulla Grande Guerra o il Vietnam o la Cecenia, il lettore viene infatti chiamato a condividere una visuale complessiva – tipica del cinema, che del tema ha fatto uno dei suoi punti di forza – della nozione etica di conflitto in senso lato. Perché la qualità del grande cinema sta appunto nel suo innalzare, in virtù dell’immagine-movimento, un evento fisico come la battaglia a evento metafisico, a proprietà estetica, tale da esaltarne i principi della metafora e della metonimia, del latente e del manifesto, del connubio tra reale e immaginario. In Fisica e metafisica del cinema. Il battle study dal muto al digitale, l’Autore percorre, attraverso l’analisi di film di ogni epoca, da Charlot soldato a Dunkirk, l’evoluzione di un topos narrativo che ha nutrito la storia della settima arte.

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Indice

Nota di percorso

Antoine o la guerra degli ultimi
Napoli o la guerra dei vicoli
Westfront o la guerra delle ombre
Dunkirk/Dunkerque o la guerra degli idiomi
London (blitz) o la guerra dei bambini
Northern o la guerra delle identità
Vietnam o la guerra dei mondi
Boston o la guerra dei sobborghi
Caucaso o la guerra dei paesaggi
Cartoonia o la guerra dei simboli
Parigi o la guerra dei simulacri
Pier Paolo o la guerra delle figure

 Appendice:
Alain/Ingmar/Theo/Jean-Luc/Elisabetta/Marco o la guerra delle fedi

 Indice dei nomi e delle opere

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Sergio Arecco, insegnante e studioso di cinema, collaboratore delle principali riviste del settore, può vantare nel suo curriculum una decina di monografie su registi o attori tra i più diversi – da Pasolini, di cui è stato il primo esegeta, a Oshima, da Cassavetes a Lucas, da Markopoulos a Bergman, su cui ha discusso la tesi di laurea nel 1968, da Resnais e Bresson a Dietrich e Brando, per editori come Il Castoro, Le Mani o Bulzoni – e una nutrita serie di volumi a tema: da Il paesaggio del cinema, vincitore del premio “Maurizio Grande”, a Anche tempo sogna. Quando il cinema racconta la storia, vincitore del premio “Umberto Barbaro”, da Le città del cinema a Il vampiro nascosto, perlopiù pubblicati da Le Mani. Ha inoltre collaborato al Dizionario critico dei film Treccani e al Dizionario dei registi del cinema mondiale Einaudi. Da ultimo ha pubblicato, per la Cineteca di Bologna, un ampio repertorio del corto sonoro: Il cinema breve. Da Walt Disney a David Bowie. Dizionario del cortometraggio 1928-2015, con la prefazione di Goffredo Fofi.

 


 

Il cinema breve

Il cinema breve

Sergio Arecco

Il cinema breve.
Da Walt Disney a David Bowie.
Dizionario del cortometraggio (1928-2015)

Editore Cineteca di Bologna, 2016

Oltre duecento corto e mediometraggi esemplari, selezionati e analizzati dalla perizia critica di Sergio Arecco, compongono nelle pagine di questo libro un’autentica storia parallela del cinema. Una storia che parte dalle origini del sonoro e senza soluzione di continuità arriva fino a noi, una corrente continua di multiformi invenzioni che ci conduce dallo Steamboat Willie di Walt Disney al Blackstar di David Bowie. Film d’avanguardia, film narrativo, film d’animazione, autobiografia, provocazione intellettuale, opera prima e pezzo unico, esordio ed epitaffio, contaminazione estrema e cinema puro. Concentrazione, divagazione, episodio, appunto, colpo d’occhio. Truffaut e Warhol, Antonioni e Park Chan-wook, D.A. Pennebaker e Björk, Shirley Clarke e Dino Risi, Buñuel e Tex Avery, Pasolini e Justin Lin, Mishima e Scorsese, Beckett e Monicelli, Lynch e Miyazaki. Certo, il cinema breve vive spesso di vita segreta. Compaiono nel repertorio anche nomi poco frequentati, titoli misteriosi, e sta forse qui il più forte richiamo di questo dizionario: nel suo proporsi come miniera di scoperte, di film così ben raccontati che avremo voglia di cercarli e di vederli, e che entreranno a far parte del nostro bagaglio cinefilo, della nostra storia personale.


1972_Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini

 

Sergio Arecco

Pier Paolo Pasolini

Partisan Edizioni , 1972

Dedicato alle opere di Pier Paolo Pasolini. Pubblicato nel 1972 dalla casa editrice romana «Partisan» in una collana che ospitava, tra l’altro, un saggio di Bordiga su Lenin, un libello di Cabral intitolato Guerriglia: il potere delle armi, una monografia su Godard di Moscariello e Dibattito su Rossellini a cura di Gianni Menon. Il volume comprende una Conversazione con Pier Paolo Pasolini a cura di Sergio Arecco.

Indice

In limine
Staticità dei contenuti: un mondo a metà?
La cultura e la sua rivalsa estetica
Vita come pretestualità della morte: la tecnica fondante e globale
«Tutto il mio folle amore…»: l’io epico
La cronaca ideologica e quella filmica
Biofilmografia


Thodoros Anghelopulos0

Thodoros Anghelopulos

Sergio Arecco

Thodoros Anghelopulos

Il Castoro Cinema, La Nuova Italia , 1978

Storia e mitologia, metafora ed emozione si fondono nell’opera di un grande regista dallo stile rigoroso: La recita (1975), Il volo (1986) e il Leone d’argento Paesaggio nella nebbia (1988).


Nagisa Oshima

Nagisa Oshima

Sergio Arecco

Nagisa Ōshima

Il Castoro Cinema, La Nuova Italia , 1979

Regista scomodo, non solo in patria, per il radicalismo ideologico ed espressivo. Dei suoi film duri e violenti, i più noti sono La cerimonia (1971) ed Ecco l’impero dei sensi (1976).


John Cassavetes

John Cassavetes

Sergio Arecco

John Cassavetes

Il Castoro Cinema, La Nuova Italia , 1981

John Cassavetes (New York, 1929 – Los Angeles, 1989) ha “inventato” l’idea stessa di cinema indipendente. La sua produzione, così coerente e refrattaria a ogni compromesso, ha rappresentato un’inesauribile fonte d’ispirazione per cineasti di tutto il mondo. Il suo stile asciutto, diretto e nervoso gli ha permesso di scavare meglio di chiunque altro tra le emozioni e i turbamenti dei suoi personaggi.
Tra i suoi film: Ombre (1959), Volti (1968), Una moglie (1975), La sera della prima (1977), Gloria – Una notte d’estate (1980).

 

John Cassavetes

John Cassavetes

Sergio Arecco

John Cassavetes

Il Castoro Cinema, 2009

 


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George Lucas

Sergio Arecco

George Lucas

Il Castoro Cinema, 1995

Nasce a Modesto, California, nel 1944. Regista e produttore di genio. Ha dato vita a una scuola di effetti speciali, divenuta centro di produzione: la Industrial Light and Magic. Con le sue Guerre stellari (1977-1983) la fantascienza ha scoperto nuovi confini.

1995_George Lucas

George Lucas


1997_Alain Resnais

Alain Resnais

Sergio Arecco

Alain Resnais o la persistenza della memoria

Le Mani-Microart’S, 1997, 2014


1998_Rober Bresson

Robert Bresson

Sergio Arecco

Robert Bresson. L’anima e la forma

Le Mani-Microart’S, 1998


2000_Igmar Bergman. Segreti e magie

Igmar Bergman

Sergio Arecco

Igmar Bergman. Segreti e magie

Le Mani-Microart’S, 2000


2002_Il paesaggio del cinema

Il paesaggio del cinema

Sergio Arecco

Il paesaggio del cinema. Dieci studi da Ford ad Almodovar

Le Mani-Microart’S, 2002


2003_Il vampiro nascosto

Il vampiro nascosto

Sergio Arecco

Il vampiro nascosto. Suggestioni e dipendenza nel cinema

Le Mani-Microart’S, 2003, 2014


2004_Anche il tempo sogna

Anche il tempo sogna

Sergio Arecco

Anche il tempo sogna. Quando il cinema racconta la storia

ETS, 2004

Trenta film considerati esemplari del rapporto tra cinema e storia. Dai primi capolavori di Griffith – “Nascita di una nazione” – Ejzenstejn – “Ottobre” o Chaplin – “Il grande dittatore” – il volume traccia un itinerario completo, dal cinema classico al cinema contemporaneo, passando per esperienze anche eccentriche come “Hitler” di Syberberg o “Heimat” di Reitz. L’autore studia le forme e le modalità di realizzazione dei primi kolossal, le loro dinamiche interne, il loro impatto sul pubblico e le loro possibili valenze propagandistiche.


2005_Marlene Dietrich

Marlene Dietrich

Sergio Arecco

Marlene Dietrich. I piaceri dipinti

Le Mani-Microart’S, 2005


2007_Marlon Brando

Marlon Brando

Sergio Arecco

Marlon Brando. Il delitto di invecchiare

Le Mani-Microart’S, 2007


2009_Cinema e paesaggio

Cinema e paesaggio

Sergio Arecco

Cinema e paesaggio. Dizionario critico da “Accattone” a “Volver”

Le Mani-Microart’S, 2009, 2014

Dizionario critico in cento film, dalla A alla Z; dalle origini del cinema a oggi; da Il dottor Mabuse (Fritz Lang, 1922-23) a Gomorra (Matteo Garrone, 2008), passando per Via col vento (Victor Fleming, 1939) o Hiroshima, mon amour (Alain Resnais, 1959). Il filo conduttore del libro è il paesaggio del cinema che non è mai sfondo o contorno illustrativo, ma presenza viva, interlocutore privilegiato e speculare ai personaggi, complemento insostituibile alla loro articolazione narrativa e alla loro storia. Il paesaggio con i suoi punti fermi e i suoi punti di fuga, i suoi margini e i suoi sconfinamenti. Il suo filo più segreto e più intimo, è quello delle frontiere del visibile che si spostano, dei confini che non si lasciano definire, che fanno avanzare sempre un po’ di più i loro margini e le loro soglie. In una parola, è quello dello sconfinamento. Un concetto che, pur traendo ispirazione dal cinema di paesaggio, investe il cinema in sé, la sua dinamica, la sua grammatica e la sua sintassi: il paesaggio come una componente intrinseca, peculiare, del cinema, comparabile, per la sua funzione essenziale, alla recitazione degli attori o alla costruzione delle sequenze o alla dinamica del montaggio, vale a dire a quei fondamentali che fanno, materialmente e idealmente, un film. Qualcosa di più, dunque, di una nozione estetica. Quasi una filosofia (se la parola non fosse troppo grossa). Qualcosa che ha a che fare con la vita, con il suo perenne divenire.


2010_Le città del cinema

Le città del cinema

Sergio Arecco

Le città del cinema. Da Metropolis a Hong Kong

L’Epos, 2010

Metropolis e Hong Kong: due città, due icone, una vera e una immaginaria, che solo il cinema ha reso effettivamente reali; paradigmi del moderno e di sé stesse, reinventate dalla mitologia cinematografica e riplasmate come metropoli “assolute”; città virtualmente invisibili o inesistenti chiamate a vivere e a essere sé stesse solo dall’occhio della telecamera che ne legittima l’esistenza e concede loro uno statuto di visibilità.


2013_Le anatomie dell'invisibile

Le anatomie dell’invisibile

Sergio Arecco

Le anatomie dell’invisibile. Il cinema raccontato con il cinema

Città del silenzio, 2013

Sullo sfondo di un cinema che riflette su se stesso – attraverso i generi, gli interpreti o i registri espressivi – l’autore prende in esame alcuni temi, ricomposti in una struttura unitaria e omogenea: la voce fuori campo, il sogno, la favola, la dimensione urbana contrapposta a quella extraurbana, la sessualità. Con una nota di René de Ceccatty.




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Walter Benjamin (1892-1940) – La malinconia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.

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Il dramma barocco tedesco

Il dramma barocco tedesco

«La malinconia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle».

«Il pensiero riprende continuamente da capo, ritorna con minuziosità alla cosa stessa. Questo movimento metodico del respiro è il modo d’essere specifico della contemplazione. Essa infatti, seguendo i diversi gradi di senso nell’osservazione di un unico e medesimo oggetto, trae l’impulso a un sempre rinnovato avvio e giustifica nello stesso tempo la propria ritmica intermittente. Come nei mosaici la capricciosa varietà del le singole tessere non lede la maestà dell’insieme, così la considerazione filosofica non teme il frammentarsi dello slancio».

«Con la loro funzione mediatrice, i concetti permettono ai fenomeni di partecipare all’essere delle idee. E appunto questa funzione mediatrice li rende idonei all’altro e non meno originario compito della filosofia: la rappresentazione delle idee. […] Perché le idee si rappresentano non in se stesse, ma solo unicamente attraverso una coordinazione di elementi cosali nel concetto: ossia in quanto configurazione di elementi».

«È compito del filosofo restituire il suo primato, mediante la rappresentazione, al carattere simbolico della parola: quel carattere nel quale l’idea giunge all’autotrasparenza, che è il contrario di una comunicazione rivolta verso l’esterno» (p. 77).

Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, 1980.


Walter Benjamin (1892-1940) – «Esperienza» . Il giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare per raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo il suo cammino e in tutti gli uomini. Quel giovane da uomo sarà indulgente. Il filisteo è intollerante.
Walter Benjamin (1892-1940) – Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera

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Daniele Guastini – «Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità». Un’analisi storica e un confronto teorico tra due grandi nozioni della cultura antica: quella di mimesis e quella di allegoria.

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Prima dell'estetica. Poetica e filosofia nellantichità

Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità

Introduzione

L’estetica ha con la propria storia un rapporto spesso elusivo. Non sempre negli studi estetici viene data la dovuta importanza al fatto che l’estetica è una disciplina nata in un periodo storico determinato, il Settecento, e formata tra il XV e il XVIII secolo, in perfetta coincidenza con il cammino della modernità. Quando questo atto costitutivo non viene addirittura taciuto o relegato in qualche nota a piè di pagina, il suo riconoscimento raramente oltrepassa la mera constatazione di fatto. D’altronde, non basta registrare in modo impassibile la nascita storica dell’estetica. Occorre farsi carico del significato essenziale che questo dato porta con sé: che l’estetica è un evento storico. E che se la sua formazione, la sua nascita, il suo sviluppo, sono parte di un evento storico, ciò vuoi dire, molto semplicemente, che c’è stato un prima dell’estetica in cui le cose – in particolare certe cose di cui diremo tra poco – si vedevano in modo diverso, e che ci sarà un poi in cui il modo di vedere le cose che ha portato all’estetica potrebbe venir meno.

Ora, non è della questione di un possibile dopo dell’estetica – che pure appare questione cruciale e su cui, da certi segnali, si avverte sempre maggiore l’urgenza di avviare una discussione – ma della questione del prima (che può tuttavia portare non pochi elementi di riflessione e chiarimento anche alla discussione su un eventuale dopo) che questo libro intende occuparsi. Cosa c’era prima dell’estetica? Cosa ne ha preceduto la costituzione disciplinare? E cosa è dovuto accadere perché ad un certo punto se ne cominciassero a gettare le basi? Tutte domande che aiutano a ritrovare il senso di quella storicità che l’estetica porta con sé in modo affatto peculiare e che spesso, come si è detto, nella passione del dibattito estetologico, viene dimenticata a tutto vantaggio di un occhio specialistico, di un’attenzione per il singolo problema, che talvolta fanno perdere di vista il quadro complessivo. Sia chiaro: questa storicità non viene dimenticata quando resta sullo sfondo. Non è indispensabile tematizzarla per farne agire le istanze fondamentali. Si può farla trapelare anche discutendo questioni di dettaglio interne all’orizzonte estetico. Viene dimenticata davvero solo quando si pensa l’estetica sub specie aeternitatis, come se fosse una parte sempre esistita della filosofia, che ha dovuto solo attendere più delle altre per vedere riconosciuto un proprio statuto disciplinare. Qui sta la vera dimenticanza, quella che finisce per appiattire all’interno di un unico orizzonte, l’orizzonte tipico della modernità, ciò che invece dovrebbe restarne fuori e che è significativo, appunto, perché ne resta fuori. Da questo punto di vista è sintomatico sentir parlare di “estetica antica”, espressione tutt’altro che innocente o convenzionale, nella quale è sottintesa l’idea che l’unica vera differenza tra l’estetica e le altre parti di cui nell’antichità si riteneva composta la filosofia – teoretica, logica, etica e fisica – alla fine riguarderebbe l’acquisizione del nome, che le altre discipline hanno assunto subito e che invece l’estetica, per avventura, non avrebbe acquisito prima dell’età moderna. Differenza, dunque, riguardante il nome e non anche la cosa, che fin dall’antichità invece si troverebbe già disseminata all’interno di vari filoni di studio: poietike, teoria del bello, psychagogia, lexis, elocutio retorica, e via dicendo.

La ricerca di questo libro muove dalla prospettiva opposta. Dall’idea che l’estetica, nel nome come nella cosa, non sia potuta esistere prima dell’età moderna. E per un fatto molto semplice: perché ne costituisce uno degli eventi storici fondativi. Perché, cioè, la sua origine storica è conseguenza del nuovo modo di vedere le cose tipico della modernità; di una lunga e laboriosa formazione rimasta sostanzialmente estranea all’orizzonte dell’antichità. A conferma di questo fatto basta guardare all’oggetto intorno al quale l’estetica si costituisce: l’arte. Ma cos’è l’arte? Anche qui, per comprendere, occorre fare una considerazione storica. L’oggetto costitutivo dell’estetica, quello che fin dall’inizio essa ha eletto a proprio contenuto disciplinare – l’arte bella, di cui l’estetica diventa presto la filosofia, finendo per autocomprendersi come ‘filosofia dell’arte’ – non può essere in nessun modo considerato un oggetto “naturale”. Non è, infatti, un dato e non può essere trattato come tale. La gran parte degli oggetti che dal Settecento la cultura comincia ad accomunare sotto la definizione di ‘opere dell’arte bella’ e su cui inizia a esercitarsi la riflessione estetica provengono da un passato che non li aveva mai considerati tali. Fino a tutto il Seicento – benché si sia già interamente consumata, nel Rinascimento, la distinzione tra arte e religione e sia già in atto quella, forse più decisiva, tra arte e scienza – attività, come poesia, pittura e musica, che di lì a poco saranno riunite sotto l’idea del bello, ancora vengono accomunate ad attività quali meccanica e ottica, la tradizione degli studia humanitatis resiste e il cosiddetto ‘sistema delle belle arti’ è ben là da venire.

Insomma: l’estetica è un evento storico perché lo è il suo oggetto disciplinare. Ed è proprio questa radicale storicità del suo oggetto, quando l’estetica sa riconoscerla come tale, a renderla una disciplina così unica, capace di offrire come nessun’altra un punto di vista interno sulla genesi della modernità. Mentre altre discipline, anche filosofiche, hanno per oggetto dei dati, ossia enti, fenomeni, eventi, che ne precedono la costituzione e che, in certo senso, si darebbero anche se tali discipline non si fossero mai costituite, viceversa l’estetica non ha per oggetto dati, ma si costituisce insieme ai suoi dati, forma i suoi dati. Il suo oggetto è effetto e non presupposto della sua formazione storica.

Appare, quindi, per molti versi un falso dilemma chiedersi se l’estetica sia nata come una filosofia dell’arte o come una teoria della sensibilità. Questa separazione diviene decisiva – per più di un motivo che qui non sarà possibile discutere – solo a nascita avvenuta. Precisamente da Kant in poi, e non prima. Ma alla sua nascita, l’estetica si mostra portatrice di entrambe le istanze: quella di concepire una nuova idea di sensibilità e contemporaneamente quella di tenere a battesimo una nuova nozione di ‘arte’. E, del resto, non potrebbe essere altrimenti. La nuova nozione di arte come la nuova idea di sensibilità non sono che l’effetto di un fenomeno unico, che abbiamo appunto chiamato ‘un nuovo modo di vedere le cose’ e che sostanzialmente corrisponde all’esito di quel movimento di creazione del soggetto moderno che ha avuto una lunga gestazione e trova uno dei più precisi riscontri proprio nella nascita dell’estetica. Il rendersi autonomo dagli altri campi dell’attività umana di qualcosa che da un certo momento in poi prende ad essere riconosciuta come «arte bella» e il diventare, da parte di questo nuovo campo di oggetti, terreno d’elezione di una nuova facoltà, la facoltà sensibile (estetica, appunto) a sé stante, ma allo stesso tempo «inferiore» rispetto alla facoltà intellettuale da un punto di vista conoscitivo, possono anche essere fasi procedute separatamente quanto ai tempi della loro elaborazione, ma portano tuttavia lo stesso segno. Un segno di fondamentale discontinuità con un passato di cui qui cercheremo di comprendere bene principi, motivi e conseguenze. Non per spirito antiquario o per passione filologica, ma perché ciò ci consente per un momento di prendere le distanze dall’orizzonte culturale in cui ancora ci troviamo, così da comprenderne criticamente certi tratti fondamentali e coglierne da un lato tutta la contingenza storica e dall’altro le radici lontane.

Sarà allora all’insegna di questa discontinuità tra passato e presente che il libro si muoverà, facendo attenzione a cogliere alcuni, seppur remoti, momenti fondamentali della complessa vicenda che porta alla formazione dell’estetica moderna. Per farlo, occorre ripercorrere un tratto di strada così lungo e tortuoso che si può sperare di colmare soltanto riuscendo a individuarne le tappe e i punti di svolta fondamentali e mettendo in preventivo qualche svista e qualche incidente di percorso. In questo compito, ci viene comunque in aiuto chi questa strada l’ha compiuta prima e con ben maggiore autorevolezza. Hegel, ad esempio, quando nella sua estetica indicò nel cristianesimo un nuovo inizio, il punto di svolta dal quale è possibile cogliere un cambiamento essenziale nel modo di intendere la sensibilità e quegli oggetti che molti secoli dopo l’estetica definirà arte bella. O Schelling, che nella sua Filosofia della mitologia si rese conto di come il mito, considerato per tutta l’età classica greca una delle forme di rivelazione del divino e in seguito considerato dall’estetica un’invenzione poetica, avesse già subìto un sostanziale mutamento di significato entro la nuova cornice allegorica ritagliata per l’interpretazione dei poemi omerici dall’ellenismo e poi dalla tarda antichità pagana.

Per anticipare in modo più specifico i temi che tratteremo, va detto che sono proprio questi tre – antichità classica, ellenismo pagano e avvento del cristianesimo – i termini della discussione che impegnerà il libro e dalla quale si cercherà di trarre indicazioni utili a determinare gli antefatti che hanno concorso al processo di formazione dell’estetica. Discussione che verrà organizzata attorno a un’analisi storica e a un confronto teorico tra due grandi nozioni della cultura antica: quella di mimesis e quella di allegoria. Perché questa scelta? Se l’intenzione fosse stata quella di ricostruire un quadro più completo della poetica antica, avremmo certamente dovuto discutere anche altre nozioni. Ma poiché lo scopo di questo libro non è, almeno in prima istanza, fornire una panoramica su certi processi, ma cercare di risalirne le cause, allora mimesis e allegoria si prestano perfettamente al caso e possono essere in certa misura isolate nel contesto delle teorie poetiche. Dato il rapporto diretto che mimesis e allegoria stabiliscono con la dimensione extra-poetica, nessun’altra nozione elaborata nel quadro della poetica antica può probabilmente prestarsi meglio a uscire da ambiti di stretta competenza specialistica e a ricondurre le questioni poetiche alla loro più autentica e generale portata ontologica e conoscitiva.

La ricerca sarà quindi condotta discutendo nei primi tre capitoli le tesi classiche sulla mimesis – da quelle rintracciabili in ambito preplatonico, alle teorie formulate da Platone e Aristotele – e nel quarto, più in sintesi, la svolta ellenistica e tardo antica, riflessa sia nel mutamento di significato della nozione di mimesis, sia nel progressivo farsi strada, prima in ambito pagano e poi in ambito giudaico-cristiano, della nozione di allegoria. Per condurre tale ricerca ci avvarremo di testi teorici (sempre citati in traduzione italiana), ma ci avvarremo anche di opere – testi poetici e non, dall’Odissea, a Pindaro, ad Euripide, ad alcuni passi biblici – ritenute emblematiche dell’epoca presa in esame. Seguirà poi una breve conclusione, da cui si cercherà di trarre i risultati del lungo itinerario percorso e di porre la formazione dell’estetica nella sua prospettiva storica più adeguata.

Daniele Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, 2003, pp. VII-XII.


Perima dell’estetica_Indice

 

Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea

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Come si diventava uomini. Etica e poetica nella tragedia greca

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Il piacere del tragico

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Philia e amicizia. Il concetto classico di philia e le sue trasformazioni

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Parole chiave della nuova estetica

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Dizionario del pensiero ecologico. Da Pitagora ai no-global

Dizionario del pensiero ecologico. Da Pitagora ai no-global


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