Aleksandr Nikolaevič Radiščev (1749-1802) – Vuoi sapere chi sono? cosa faccio? dove vado?Sono colui che ero e sarò sempre nella vita: uomo! Lo scrittore può essere profeta di verità o essere al servizio della menzogna.

Aleksandr Nikolaevič Radiščev - Jurij Michajlovič Lotman

Vuoi sapere chi sono? cosa faccio? dove vado?
Sono colui che ero e sarò sempre nella vita:
non bestia, né albero, né schiavo, ma uomo!
Ad aprire una strada non calcata da piedi,
per focosi temerari sia in prosa sia in versi,
ai cuori sensibili ed alla verità, io verso la paura
e verso il carcere di IIimsk mi dirigo.

Aleksandr Nikolaevič RadiščevStichotvorenija [Poesie], Leningrad, Sovetskij pisatel’, 1953.



Il testo su Aleksandr Nikolaevič Radiščev,  tradotto dal russo per la prima volta da Alessandro Niero (su «il manifesto» del 21-02-2006, p. 12), venne scritto dal grande critico letterario Jurij Michajlovič Lotman per la Ucebnik po russkoj literature (Manuale di letteratura russa).

Jurij Michajlovič Lotman

Il primo scrittore rivoluzionario in Russia

Logica conseguenza delle idee propagandate dall’illuminismo fu l’esigenza di libertà per tutti gli uomini, esigenza portata fino a riconoscere al popolo il diritto di conquistarsi questa libertà con la forza. Colui che, nella letteratura russa del XVIII secolo, formulò nel modo più completo e coerente questo pensiero fu Aleksandr Nikolaevič Radiščev. Di antica estrazione nobiliare, ancorché di una nobiltà non ricca, Radiščev studiò all’università di Upsia e nel 1790 pubblicò il libro Viaggio da Pietroburgo a Mosca, che gli costò la condanna alla decapitazione. La pena fu poi commutata nell’esilio in Siberia, dove visse fino al 1796, data della morte di Caterina II. Nel periodo in cui regnò Paolo, dal 1796 al 1801, Radiščev visse esiliato in un villaggio. Alessandro I nel 1801 lo restituì all’attività di Stato, affidandogli un alto incarico nella «Commissione per la stesura delle leggi». Tuttavia Radiščev nel 1802 si suicidò. Le cause del suo gesto non sono chiare: i contemporanei vi lessero una sfida al governo. Viaggio da Pietroburgo a Mosca è l’opera più importante di Radiščev: il libro è redatto in forma di note di viaggio dal punto di vista di un viaggiatore che percorre in carrozza postale il tragitto che separa le due capitali dell’impero russo. Gli amici chiamavano Radiščev «colui che non vedeva tutto rosa». Guardava in faccia alla realtà russa del suo tempo e con eccezionale coraggio sottopose a giudizio sia il dispotismo politico dominante in Russia – l’arbitrio delle autorità, la mancanza di diritti dei sudditi – sia la terribile condizione dei contadini. Radiščev riconosce il diritto del popolo alla rivolta, sebbene non rigetti anche la possibilità che un governo illuminato possa compiere trasformazioni pacifiche. La serie di questioni contemplate nel suo libro è straordinariamente ampia: oltre ad essere in possesso di una formazione specifica in campo giuridico, egli era anche un insigne economista, un filosofo e uno storico. Il suo libro è una vera e propria enciclopedia dell’illuminismo del XVIII secolo.
Proprio con Radiščev ha inizio l’intreccio fra la letteratura russa e la lotta per la libertà e la felicità del popolo, che di quella letteratura divenne il tratto caratteristico. Riservando nella lotta di liberazione un posto speciale alla parola dello scrittore, Radiščev era persuaso che è efficace soltanto quella parola per cui lo scrittore è disposto a pagare con la propria vita. Lo scrittore può essere profeta di verità o essere al servizio della menzogna. Pagando con il sangue le proprie parole, egli si guadagna la fiducia dei lettori e la gratitudine dei posteri. Gli scrittori che aspiravano alla ricchezza e ai riconoscimenti, invece, erano chiamai da Radiščev «leccapiedi».
Con Radiščev ha inizio nella letteratura russa la tradizione rivoluzionaria. Egli stesso in un breve componimento [riprodotto qui sopra] disse di avere «aperto la strada» per la Siberia. Quella strada fu percorsa in seguito dai decabristi, da Fëdor Dostoevskij, da Nikolaj Gavrilovič Černyševskij e da molti altri scrittori russi.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – L’automa è l’ideale del nuovo integralismo economicista: sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. Ma dove regna la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile. Vivere è aprirsi al mondo con le nostre domande di senso.

José Ortega y Gasset - Gilles Deleuze e Félix Guattari - Zygmunt Bauman

 

Natura umana e finanza
L’insocievole socievolezza nel secolo dell’economicismo è ormai la verità entro cui leggere e comprendere l’integralismo economico contemporaneo. Vi è la pressione all’individualizzazione di ogni comportamento, dietro cui si vela la riduzione di ogni rapporto alla sola categoria dell’utile economico. La reificazione si palesa nella forma seducente dell’immagine, della microfisica del controllo e della stimolazione al desiderio consumante. Si impedisce, in tal modo, alle personalità di fiorire secondo la celebre immagine di Aristotele. Lo sfruttamento non riguarda solo la forza lavoro, ma si concretizza nella forma della negazione dell’indole individuale. Il passaggio dalla potenza all’atto (ἐνέργεια) è inficiato con il concretizzarsi di nuove forme di sfruttamento e violenza.

 

L’amicizia filosofica contro l’economicismo
Nella Repubblica (Πολιτεία, Politéia) Platone ha dimostrato che giustizia è rispetto della natura di ciascuno, per cui l’ingiustizia totalitaria contemporanea consiste nella perenne negazione della natura universale dell’essere umano e della sua espressione soggettiva.
L’assedio alla vita, dapprima con le scienze sperimentali, oggi con l’economia finanziaria, opera attaccando frontalmente la Filosofia in quanto disciplina del pensiero, dell’ordine del senso. La Filosofia umanizza, poiché è educazione (dal lat. Educĕre trarre fuori, allevare), portar fuori la natura universale con le potenzialità del soggetto: essa è formatrice di comunità. Nel regno dell’economia, ma è preferibile dire della crematistica, nel caos del mercato, deve regnare il solo rumore delle transazioni finanziarie sempre più fitte, sempre più incontrollabili. Ortega Y Gasset ha ben descritto il senso di oppressione e limitazione a cui le vite sono sottoposte, sempre meno libere, sempre meno vitali, e sempre più oggetto dell’imperio della quantificazione. La negazione della filosofia coincide con la nientificazione dell’umano:

«La Filosofia restò schiacciata, umiliata dall’imperialismo della fisica e impoverita dal terrorismo intellettuale dei laboratori. Le scienze naturali dominavano l’ambiente e l’ambiente è un ingrediente della nostra personalità, come la pressione atmosferica è uno dei fattori che compongono la nostra forma fisica».[1]

Ovunque vi è Filosofia vi è amicizia. La dialettica filosofica è confronto tra eguali, è ascolto, poiché nessuno dei dialoganti possiede il sapere, ma lo ricerca per condividerlo. L’ostilità dell’economicismo nei confronti della Filosofia trova la sua ragione più profonda nella considerazione che la Filosofia è pratica di verità e di amicizia, mentre la parola d’ordine dell’economia della finanza (della crematistica) è competizione, plusvalore e controllo, pertanto è negazione del senso di comunità insito nella prassi filosofica:

«Con il Simposio, l’etimologia della parola philosophia, “amore, desiderio di saggezza”, diventa il programma stesso della filosofia. Si può dire che con il Socrate del Simposio la filosofia assuma, definitivamente nella storia, una colorazione ironica e tragica. Ironica, perché il vero filosofo è colui che sa di non sapere, che sa di non essere saggio e che dunque non è né saggio né non-saggio, che non si sente al suo posto né nel mondo degli stolti, né nel mondo dei saggi, né totalmente nel mondo degli uomini, né totalmente in quello degli dei; che è dunque un non catalogabile, un senza fissa dimora, come Eros e come Socrate. Tragica, perché quest’essere bizzarro è torturato, straziato dal desiderio di raggiungere la saggezza che gli sfugge e che ama».[2]

L’economicismo ha, nel controllo, la sua essenza: esso deve addomesticare, ridisegnare comportamenti e gestualità. L’automa è l’ideale del nuovo integralismo: per controllare il lavoro deve sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. La Filosofia è emancipazione dalle ipostasi come dalla tradizione, si pone in un movimento opposto rispetto al potere dell’economicismo. Per Bauman la sostanza della Rivoluzione industriale è nel controllo, e tale matrice si storicizza e si trasmette fino all’attuale assetto economico:

«Così il problema cui si trovarono di fronte i primi imprenditori non era l’uomo preindustriale ostinatamente pigro, sordo all’appello della ragione economica; e la soluzione del problema da loro ricercata non consisteva nell’instillare una pia disposizione al lavoro nell’animo di gente non abituata a uno sforzo continuo. Il problema era piuttosto la necessità di costringere gente abituata a dare un significato al proprio lavoro, controllandolo, a spendere la sua forza e capacità nell’assolvere mansioni controllate da altri e pertanto prive di significato».[3]

 

Entificazione dell’umano
Se l’essere umano vive e progetta nelle comunità e nelle circostanze che gli sono date, Dasein, la pressione anomala a cui è esposto ne impedisce la progettualità autentica riducendolo ad ente tra gli enti, ed è studiato come un qualsiasi ente. La pressione alla quantificazione sviluppa il metodo della parcellizzazione, della divisione incapace di cogliere il fondamento del tutto. Le scienze, come l’economia, rinunciano in modo aprioristico alla verità per l’esattezza, per la misurazione. La superstizione scientista è il fondamento attuale del potere tecnocratico, non vi è riflessione collettiva sulla teleologia delle scienze come delle tecnologie, esse sono “il bene” senza che vi sia pubblica discussione: pertanto le si persegue con determinazione scevra da ogni dialettica. Esse producono conoscenze sicuramente utili, ma non migliorano necessariamente la qualità della vita. La Filosofia deve avere il coraggio dell’universale, dell’assoluto, non può supinamente adattarsi all’attitudine delle scienze, rinunciando a se stessa; senza la conoscenza dell’universale l’essere umano è straniero a se stesso ed al mondo, è consegnato all’atomistica delle solitudini, è potenza passiva:

«Per questa ragione propongo che, nel definire la filosofia come conoscenza dell’Universo, intendiamo un sistema integrale di attitudini, nel quale si organizza metodicamente l’aspirazione alla conoscenza assoluta».[4]

Filosofia e verità
Nessun dogmatismo, nessun integralismo. La Filosofia ha il compito di ricercare la verità, di fare appello alla sua inesauribile creatività e paziente attività filologica per ricercare il fondamento universale. La Filosofia è amica del concetto, è generazione di vita nella forma dell’universale condiviso, è processo di avvicinamento alla verità con le categoria della totalità, la rinuncia alla verità è rinuncia all’umanità. L’umanità, se abdica alla verità, si limita a vivere nella pochezza dei giorni, soddisfa desideri immediati, è travolta dalle circostanze a cui non riesce a dare il senso. In assenza di verità, tutto è possibile, tutto è ammesso.
La verità come problema è assunzione di consapevolezza e responsabilità di una sfida necessaria per umanizzarsi nella dialettica, nell’argomentare logico ed intuitivo. La verità in quanto totalità è cogliere con lo sguardo della mente. Non gli enti nella loro malinconica separazione atomistica, ma nel loro sorreggersi l’un l’altro, nel loro ritrovarsi in relazione al tutto che li accoglie per svelare l’eterno nella storia. La Filosofia unisce dove la scienza separa:

«Intendo per Universo tutto quanto è. Ciò significa che al filosofo non interessa ognuna di quelle cose che esistono per sé, nella loro esistenza particolare diciamo privata, ma invece gli interessa la totalità di quanto esiste e, conseguentemente, di ciascuna cosa che è di fronte o accanto alle altre, la sua posizione, il suo aspetto e rango nell’insieme di tutte le cose: diciamo pure la vita pubblica di ogni cosa, ciò che si rappresenta e vale nella superiore dimensione pubblica della coesistenza di tutti gli esseri».[5]

 

Verità relazione
La verità è dunque nella relazione. Ogni ente non vive la condizione dell’abbandono atomistico, ma la sua verità è la relazione con il suo contesto. Nella ricerca della verità l’essere si scopre come comunità, vive in modo consapevole la prassi della verità, il reale è razionale nella relazione veritativa, e l’essere umano è parte di tale realtà relazione, le dà voce, e dunque diviene creatore di comunità fondate nella verità dialogica con se stesso e la comunità.
La scienza circoscrive l’oggetto, lo soppesa, lo isola, lo approfondisce in una solitaria attività d’indagine, perché separata dalla relazione con la vita.
La Filosofia non nell’esattezza, ma nella vita, scopre la verità. Ogni astrazione dal tutto è astrarre linfa dalla vita, è un’esperienza che uccide per misurare. La verità della Filosofia è l’universale concreto:

«Che cos’è la vita? Non cercate lontano, non si tratta di ricordare conoscenze apprese. Le verità fondamentali devono essere sempre a portata di mano: solo in questo modo possono essere fondamentali. […] Vita è ciò che siamo e ciò che facciamo: è inoltre, fra tutte le cose, la più vicina a ciascuna».[6]

 

La Filosofia contro l’inerte
Vivere è dunque comprendersi, intuirsi, disporsi in quanto parte di un tutto, ma specialmente vivere in perenne relazione con il tutto. I nemici della Filosofia sono palesi nel loro intento: favorire l’inerte sulla vita, la separazione sulla totalità, la quantificazione sulla qualità. Senza il contatto con la vita non vi è dialettica, il logos si frantuma in scientismo integralista negando se stesso. L’epoca della negazione dell’umano è negazione del logos, dell’unità che integra le differenze ponendo le condizioni dell’incontro. Il logos come razionalità del controllo, del dividere per definire, stimolare e manipolare è solo razionalità calcolante senza la sostanza vitale della parola che approssima i dialoganti senza coincidenze, in quanto la prassi della parola senza sovrapposizione è la contraddizione vitale che permette il dialogo eterno nella comunità. I nemici della Filosofia, del logos sono i detrattori della vita, la vorrebbero chiudere in categorie, consegnarla alla fine della storia per eternizzare un presente senza futuro e senza passato.
Tra i nemici della Filosofia, vi sono i Filosofi analitici, coloro che riducono la Filosofia a pura imitazione dei metodi scientifici. Solo l’abituale relazione con la vita conduce alla domanda che scompagina le naturalizzazioni, gli stereotipi e gli universali sclerotizzati nella loro liturgia. Vivere è relazione con sé, il conoscersi per aprirsi al mondo con le nostre domande, con le nostre terribili aporie, anch’esse verità del nostro esserci:

«“Incontrarsi”, “informarsi di sé”, “essere trasparente” è la prima categoria della nostra vita, e, ancora una volta, non si dimentichi che a questo punto il non è solo il soggetto ma anche il mondo. Prendo coscienza di me nel mondo, di me e del mondo, questo è, in modo immediato, “vivere”».[7]

 

Fuga dall’agorà
Dunque siamo nel mondo, relazione con il mondo da ciò non può che conseguire il nostro impegno nel mondo. La fuga dal mondo, dal pubblico, per il privato godereccio, è “ideologicamente” voluto, organizzato. La pressione economica e scientifica sulle esistenze ha dunque una verità che la Filosofia può svelare: la separazione dell’io dal mondo, la fuga dall’agorà per consentire il trionfo scientista e finanziario. La responsabilità della Filosofia è nel testimoniare l’impegno per la qualità della vita. Vita e pensiero sono sincronici, la vita è trasformazione, prassi, solo se c’è pensiero; affinché ciò possa essere è necessario ristabilire l’universale, ovvero la relazione tra l’in sé ed il per sé:

«Né certamente il pensare è anteriore al vivere, poiché il pensare vede se stesso come parte della mia vita, come un suo atto particolare».[8]

Vivere è attività in cui il presente ed il passato sono forme plastiche per il futuro. Lo scientismo economico, il regno animale dello spirito con la logica della sola produzione è assenza della dimensione del futuro. Dove regna la separazione e la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile, nell’attimo senza prospettiva, nell’offesa alla dignità dell’essere umano divenuto sempre più mezzo, e sempre meno soggetto di relazione.

Salvatore Bravo

[1] José Ortega y Gasset, Cos’è la filosofia?, Marietti, Torino1973, p. 38.

[2] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2010, p. 48.

[3] Zygmunt Bauman, Memorie di classe, Einaudi, Torino 1987, pp. 80-81.

[4] Ibidem, p. 51.

[5] Ibidem, pp. 63-64.

[6] Ibidem, p. 184.

[7] Ibidem, p. 203.

[8] Ibidem, p. 197.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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