Aristotele (384-322 a.C.) – Il fatto di vivere è comune anche alle piante. Ciò di cui andiamo in cerca per l’uomo è qualcosa di specifico. Il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù in una vita umana compiuta, in atto nel senso più proprio. un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno.
Che la felicità sia detta essere il sommo bene costituisce chiaramente una cosa su cui tutti sono d’accordo, ma d’altro canto occorre dire in modo ancora più chiaro in che cosa essa consista. Questo potrà avvenire, probabilmente, se si riuscirà ad individuare la funzione specifica dell’essere umano. Infatti, come per un flautista, per uno scultore, per chiunque eserciti una tecnica e, in generale, per chiunque eserciti una qualche funzione e attività, nell’esercizio della funzione sembrano risiedere il bene e la riuscita nell’azione, sembrerebbe che sia così anche per l’essere umano, se è vero che esiste una sua funzione specifica. Oppure, è forse possibile che, da un lato, vi sia una funzione specifica di un falegname e di un calzolaio, mentre, dall’altro, che dell’essere umano non ve ne sia nessuna, e che egli sia per natura inattivo? O piuttosto, come è evidente che c’è una funzione specifica dell’occhio, della mano, del piede e, più in generale, di ciascuna delle parti del corpo, così anche per l’essere umano si deve porre, oltre tutte quelle particolari, una qualche funzione specifica? E quale mai potrebbe essere, allora?
Infatti è evidente che il fatto di vivere è comune anche alle piante mentre, al contrario, ciò di cui andiamo in cerca è qualcosa di specifico. Quindi bisognerà anche escludere la vita consistente nel nutrimento e nella crescita [τήν τε θρεπτικὴν καὶ τὴν αὐξητικὴν ζωήν]. A questa segue anche un certo tipo di vita basata sulle sensazioni [αἰσθητική τις], ma è evidente che anch’essa è comune sia al cavallo sia al bue sia a ogni altro animale. Non rimane, allora, che un certo tipo di attività propria della parte razionale [πρακτική τις τοῦ λόγον ἔχοντος]. Di questa, poi, una parte è razionale in quanto obbedisce alla ragione, mentre un’altra è razionale in quanto la possiede e ragiona. Ma poiché anche questa si dice in due modi, bisogna considerare quella in atto [διττῶς δὲ καὶ ταύτης λεγομένης τὴν κατ’ ἐνέργειαν θετέον]; questa, infatti, sembra essere razionale in senso più proprio.
Se, poi, la funzione specifica dell’essere umano è l’attività dell’anima secondo ragione o non senza ragione, e se diciamo che, quanto al genere, sono identiche la funzione specifica di una certa cosa e la funzione specifica di una certa cosa realizzata alla perfezione, come ad esempio avviene nel caso di un citarista e di un citarista che suona alla perfezione, e ciò vale in generale per tutti i casi, una volta che si aggiunge all’esercizio della funzione quel di più dato dalla virtù (infatti la caratteristica del citarista è quella di suonare la cetra, mentre quella del bravo citarista è quella di suonarla bene), se è così, il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù, e, se le virtù sono molte, secondo la più eccellente e la più perfetta. E, inoltre, in una vita compiuta: infatti, come una rondine non fa primavera, né la fa un solo giorno, così un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno».
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 7, 1097 a 22 – 1098 a 19. In Aristotele, Le tre etiche e il Trattato sulle virtù e sui vizi, Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di Arianna Fermani; Presentazione di Maurizio Migliori, Bompiani, Il Pensiero occidentale, Bompiani, Milano 2018, pp. 453-455.