«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Trova tempo per leggere: è il fondamento della saggezza. Trova tempo per giocare: è il segreto dell’eterna giovinezza. Trova tempo per l’amicizia: è la strada della felicità. Trova tempo per sognare: è attaccare il tuo carro ad una stella. Trova tempo per amare ed essere amato: è il privilegio degli dèi. Trova tempo per aiutare gli altri: la giornata è troppo breve per essere avari. Trova tempo per ridere: è musica per l’anima.
«Ma “noi stessi”, noi filosofi del presente […] possiamo tornare tranquillamente al lavoro che abbiamo interrotto, ai nostri “problemi filosofici”, alla costruzione della nostra propria filosofia? Possiamo seriamente farlo dopo che abbiamo scoperto con certezza che la nostra filosofia, come quelle di tutti gli altri filosofi presenti e passati, non avrà che l’effimera esistenza di una giornata nell’ambito della flora filosofica che sempre di nuovo si rinnova e che poi torna a sfiorire? Proprio in questo sta la nostra miseria, la miseria di noi tutti, noi che non siamo filosofi letterati, noi che, educati dai veri filosofi del nostro grande passato, viviamo della verità e che solo così siamo e vogliamo essere nella nostra propria verità. Ma come filosofi del presente siamo caduti in una penosa “contraddizione esistenziale”. Noi non possiamo rinunciare alla fede nella possibilità della filosofia come compito. Noi “sappiamo” di essere “chiamati” a questo compito in quanto vogliamo essere seriamente filosofi. Eppure, come tener fermo a questa fede, che ha un senso soltanto in relazione con un fine uno, unico e a tutti comune, cioè con “la” filosofia? Noi siamo riusciti a comprendere, anche se soltanto nelle linee più generali, come il filosofare umano e i suoi risultati non abbia affatto il significato puramente privato o comunque limitato di uno scopo culturale. Noi siamo dunque – e come potremmo dimenticarlo –, nel “nostro” filosofare, “funzionari dell’umanità”. La nostra responsabilità personale per il nostro vero essere filosofi, nella nostra vocazione interiore personale, include anche la responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un “telos”, e che “se può essere” realizzato, lo può soltanto attraverso la filosofia».
Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, in L’obiettivismo moderno. Riflessioni storico-critiche sul pensiero europeo dall’età di Galileo, premessa, introd. e a cura di Guido D. Neri, trad. it. Enrico Filippini, Il Saggiatore, Milano 1976, 7. “Il proposito di queste ricerche”, pp. 27-28.
Capitale e felicità sono un ossimoro. Il buon luogo, dove vivere una vita all’altezza della propria umanità, è la necessaria utopia che progetta l’uscita dalla caverna, l’esodo dalla schiavitù del dolore senza senso, esigendo in premessa una una rivoluzione culturale ed educativa di lunga durata.
«Funzionario dell’umanità»
Husserl, in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936),[1] ha definito il filosofo «funzionario dell’umanità», in quanto deve assumersi la responsabilità del destino umano, e non delle “accademie”. Affinché ciò sia possibile è necessario vivere la tragedia della condizione umana nella storia. Non vi è filosofia che nella partecipazione ai destini umani: partecipazione significa sentire/pensare fortemente la storia che collettivamente si vive. La storia personale si lega indissolubilmente alla storia collettiva. Perché e come questo accada è sovente un mistero. Non sono sufficienti l’educazione, le esperienze, il radicamento non sclerotizzato in una tradizione, ma è necessario un dono che sfugge ad ogni categoria e indagine: il filosofo “sente” il mondo della vita prima di indagarlo. Tale disposizione già rivela un tratto incontestabile della natura umana: l’essere umano è diviso nello spazio dagli altri esseri umani, ma unito mediante il tempo vissuto della coscienza. Il logos vive e si sviluppa all’interno della relazione. La sofferenza, specialmente il dolore non necessario, se vissuto, osservato e compreso muove a delle domande. La contemporaneità si dipana dinanzi a noi con il suo carico eccedente di sofferenze: dinanzi ad esse si può distogliere lo sguardo o porsi delle domande.
La domanda prima La domanda prima è: se il sistema capitale sia in armonia con l’umanità o se sia in contraddizione con la condizione umana. La domanda già svela una contraddizione: il sistema capitale decreta l’infelicità sia di coloro che vivono nell’abbondanza crematistica, sia di coloro che vivono nell’indigenza: capitale e felicità sono un ossimoro.[2] I rapporti basati sul principio di sussunzione (formale e reale) non fondano il benessere di nessuno, ma ciascuno – a seconda della posizione che occupa nel modo di vigente produzione – vive la propria personale tragedia: la separazione, l’atomistica delle solitudini nella società liquida, produce consumatori di farmaci, di ansiolitici, nel tentativo di calmierare il senso di minaccia che opprime passando attraverso l’ottundimento farmaceutico che allevia i sintomi, ma non cura. Il sistema capitale dimostra la sua disarmonica disumanità nell’incapacità di curare (nell’incapacità di “aver cura”); esso offre soltanto prodotti con cui obnubilare la paura che si trasforma in minaccia e panico a causa della precarietà e della solitudine. Il filosofo deve rispondere a tali quesiti, deve sollevare domande per mostrare con debita argomentazione che il presente non è tutto.
L’utopia, il buon luogo, dove vivere una vita all’altezza della propria umanità
L’utopia,[3] parola coniata da Thomas More, solitamente è tradotta come “luogo che non c’è”, ma la si può tradurre anche come “luogo buono”. Il comunismo è infatti il buon luogo, dove vivere una vita all’altezza della propria umanità. L’utopia indica l’uscita dalla caverna, l’esodo dalla schiavitù del dolore senza senso. L’idea del comunismo – con le sue verità e finalità – emerge dalla vita concreta, dalla storia collettiva:
«In un contesto come l’attuale, in cui regnano ingiustizia, sofferenza, povertà, alienazione, sfruttamento, l’unico motivo che spinge le persone a non voler abbandonare il capitalismo è l’incertezza del mondo che potrà esserci, una volta che quello presente sia stato sostituito. Ebbene: nei limiti del possibile, ossi nei limiti della contingenza storica che necessariamente accompagnerà l’eventuale realizzazione di questo progetto, la “buona utopia” vuole proprio ridurre questa incertezza, ritenendo di poterlo fare on descrivendo le presunte leggi scientifiche della storia che dovrebbero portare al superamento del capitalismo, bensì delineando i principi filosofici tramite cui questo progetto di superamento può e deve essere realizzato. La filosofia infatti, assai più della storia, costituisce la principale modalità culturale che può produrre una risposta politica di ampio respiro, la quale abbia come Soggetto l’intero genere umano trascendentalmente inteso. L’armonia, la comunità, la felicità o sono di tutti o di nessuno, poiché non si può essere realmente felici (ossia vivere in modo armonico e comunitario) quando una così gran parte dell’umanità soffre per cause evitabili».[4]
Natura umana e comunismo Il comunismo reale del Novecento è fallito. Abbiiamo il compito e il dovere di capire le ragioni della sconfitta per rendere l’utopia nuovamente possibile e comunicabile. Luca Grecchi e Carmine Fiorillo analizzano l’impianto filosofico marxiano per poterne scorgere limiti e possibilità da cui trarre linfa per una nuova teoretica fondativa del comunismo. In Marx si rileva una carenza teoretica, ovvero il Moro non ha concettualizzato sul piano teoretico la natura umana. La ragione di ciò è nella sfiducia verso la filosofia in un periodo storico in cui trionfava il positivismo. Marx si affida alle leggi della storia, le quali inesorabilmente “debbono” portare al comunismo. In Marx – specie nelle opere giovanili – vi è un abbozzo teorico della natura umana che però non viene sviluppato, anzi non è più esplicitato per prediligere le leggi scientifiche, benché il suo umanesimo scorra in modo carsico a dare unità all’opera del filosofo di Treviri. Si tratta di riprendere il sentiero interrotto da Marx e svilupparlo per rendere il comunismo un ideale che rispecchi la natura umana, perché non a caso dove vi è comunità ed accoglienza gli esseri umani sono più felici. Il comunismo riflette il fondamento ontologico della natura umana: l’essere umano, in quanto limitato, si completa e si conosce nella condivisione e nella comunità solidale. Sono innumerevoli le culture e le religioni che hanno giudicato la proprietà privata, in quanto divisoria, nemica dell’armonia sociale. È necessario confrontarsi con tali espressioni culturali per consolidare l’ideale del comunismo. La proprietà privata è stata ritenuta elemento perturbatore dell’armonia tra gli esseri umani da culture diverse, e ciò dovrebbe indurre a riflettere sul fatto che il comunismo è una possibilità vera e concreta della natura umana:
«Il comunismo insomma, inteso solo come “movimento antagonistico”, non ha futuro, in quanto esso risulta privo di un progetto realizzabile, e si pone pertanto come non desiderabile. Una tale concezione negativa del comunismo conduce addirittura a svilire, agli occhi delle persone, proprio il contenuto umanistico e comunitario di questo progetto ideale, che in queste pagine stiamo cercando di esporre sulla base di quelle che sono le nostre idee di riformularle. Poiché però, in questo campo, il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels rappresenta tuttora il riferimento massimo, occorrerà necessariamente analizzare alcune delle tesi in esso espresse.
Innanzitutto: il Manifesto, in conformità a quelle che abbiamo poc’anzi definito come le due tesi strutturali del marxismo, è anch’esso intriso di sfiducia nella filosofia – sfiducia che è riscontrabile in buona parte del pensiero del Marx maturo, tanto che è necessario chiedersene il perché. La risposta, a nostro avviso, può essere solo la seguente: nel tempo storico di Marx la filosofia, rispetto alla scienza, era considerata troppo fragile, ritenuta soprattutto incapace di far valere i propri principi nei confronti della realtà, ossia di trasformare il mondo, e dunque era largamente diffuso il pregiudizio scientista secondo cui ad essa non potesse essere affidata la progettualità politica».[5]
Il lungo cammino, una “lunga marcia” Il comunismo è un ideale verso cui tendere che si concilia con il materialismo storico, e dunque con l’attività trasformatrice degli esseri umani. Il comunismo è fondamento non istintivo o pulsionale, ma potenziale, per cui gli esseri umani devono trasformare la potenza (dynamis) in atto (energheia) in un lungo cammino storico. L’umanesimo è il fondamento del comunismo, in quanto è solo dell’essere umano l’essere responsabile di tale prassi:
«Occorre dunque non continuare a ripetere il medesimo errore, e compiere al contrario una operazione teoretica che si compone di due parti. La prima parte, più importante, è costituita dalla fondazione filosofico-politica umanistica del pensiero comunista, la quale riempirà il nuovo modo di produzione ideale di contenuti arricchenti, realizzabili e desiderabili, così da creare la maggiore armonia comunitaria possibile. La seconda parte di questa operazione sarà costituita dalla integrazione della tematica del materialismo storico in questo quadro, con il quale non è affatto in opposizione». [6]
Rivoluzione culturale La struttura economica con le sue contraddizioni non è sufficiente a rendere dinamica tale potenzialità, ma necessita di una rivoluzione culturale ed educativa. La transizione intermodale, se si riconosce il fondamento naturale del comunismo, non riguarda solo talune categorie o classi sociali, ma tutti gli esseri umani, poiché il sistema capitale mortifica ed aliena la natura di tutti. Naturalmente la posizione che si occupa all’interno del modo di produzione può favorire l’adesione al comunismo, ma è una condizione contingente, poiché primario è riconoscere l’innaturalità del sistema capitale:
«Si tratta dunque di unire, con un processo insieme culturale ed educativo, quindi politico, che necessariamente dovrà porsi nella lunga durata, tutti gli uomini su questa terra che condividono, pur attraverso diverse tradizioni e religioni, contenuti umanistici e crematistici. Questi uomini, che sapranno maturare tale convincimento, costituiscono il solo Soggetto intermodale (in grado, cioè, di attivare la transizione da un modo di produzione ad un altro) universale e trascendentale, capace anche di porsi, sul piano storico-filosofico, come fondamento della verità dell’essere e della sua realizzazione».[7]
La storia del comunismo non è terminata, poiché essa è ontologicamente legata alla vita ed alla speranza storica dell’umanità. Se ci si limita ad osservare il breve segmento storico attuale, si potrebbe cadere nello sconforto, ma se si affina lo sguardo storico, ci si può rendere conto che l’ideale del comunismo ha radici antiche, perché è consustanziale all’essere umano e si trasforma con l’umanità, poiché è posto da essa, è la speranza a cui ogni generazione deve tendere lo sguardo.
Salvatore Bravo
***
[1] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, in L’obiettivismo moderno. Riflessioni storico-critiche sul pensiero europeo dall’età di Galileo, premessa, introd. e a cura di G.D. Neri, trad. it. E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1976, 7 ‘ Il proposito di queste ricerche’, pp. 27-28.
[2]Ossimoro (dal greco ὀξύμωρον, composto da ὀξύς, «acuto» e μωρός, «ottuso») è una figura retorica che consiste nell’accostamento di due termini di senso. La stessa parola ossimoro è a sua volta un ossimoro («acuto»/«ottuso»; «capitalismo»/«felicità»).
[3]Utopia, parola coniata da Thomas More nel 1516 – con le voci greche ou- (‘non’) e tópos (‘luogo’), o forse eu- (‘buon’) e tópos (‘luogo’) –, quando scrisse appunto Utopia, trad. it. di U. Dotti, Feltrinelli, Milano 2016. Cfr. AA.VV., Quale progettualità? L’uomo è un essere progettuale, Petite Plaisance, Pistoia 2017
[4] C. Fiorillo – L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pp. 68-69.
«L’uomo primordiale trascese la sua condizione di bruto quando offrì la prima ghirlanda alla sua fanciulla. Elevandosi al di sopra dei bisogni naturali primitivi, egli si fece umano. Quando intuì l’uso che si poteva fare dell’inutile, l’uomo fece il suo ingresso nel regno dell’arte. […] Avete notato che i fiori selvatici diventano ogni anno più rari? Forse i loro saggi li hanno esortati ad andarsene, sin quando l’uomo non diventerà più umano. […] Ci vantiamo di aver conquistato la materia, dimenticando che è stata questa a ridurci in schiavitù».
Okakura Kakuzō, Lo zen e la cerimonia del tè, Feltrinelli.
Okakura Kakuzō
Risvolto di copertina
Opera di una personalità complessa – Okakura fu al contempo un grande a (1906) fstudioso dell’Oriente, un messia autorevole e autoritario e un poeta – The Book of Teu scritto in inglese per un pubblico occidentale. Okakura volle spiegare i caratteri dell’orientalità attraverso il simbolo del tè. Come in un romanzo ne racconta la storia, descrivendone la cerimonia, quasi religiosa, che si dispiega in un vero e proprio rito. Rito che sancisce l’inconfutabile sottomissione del presente agli avi e al passato, manifestando nella concretezza di un evento quotidiano, e insieme atavico, l’obbedienza tipicamente giapponese all’autorità degli antenati, e la rivolta morale ed estetica contro l’occidentalizzazione che minaccia le fondamenta dell’anima giapponese più profonda. “Oriente e Occidente, come due draghi scagliati in un mare agitato, lottano invano per riconquistare il gioiello della vita... Beviamo, nel frattempo, un sorso di tè. Lo splendore del meriggio illumina i bambù, le sorgenti gorgogliano lievemente, e nella nostra teiera risuona il mormorio dei pini. Abbandoniamoci al sogno dell’effimero, lasciandoci trasportare dalla meravigliosa insensatezza delle cose.”
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