Raúl Zurita – Leviamo il nostro grido di dolore per i desaparecidos inabissati dai golpisti di Pinochet tra le onde del Pacifico e per gli africani lasciati affogare nel Mediterraneo dall’indifferenza degli europei.

Raúl Zurita

Leggiamo nella sezione Las cataratas del Pacifico, con chiari rimandi ai desaparecidos:

«mostrando migliaia di immagini dl Cile frantumato sotto le cateratte
con fotogrammi di convogli militari di spiagge affollate di gente
di prigionieri inabissati tra le onde».

E sella sezione I barcaioli della notte:

«Sopra […] la sagoma del quarto barcaiolo aveva il colore del desero. […]
Quando ho aperto gli occhi la spinta feroce del suo remo
che mi respingeva mi aveva spaccato il cuore».

Raúl Zurita, Quattro poemi, a cura di Lorenzo Mari, Valige rosse, Livorno, 2020.


I quattro poemi raccolti in questa antologia sono stati scelti direttamente dell’autore, con l’intento di rimarcare, all’interno della sua vasta e multiforme opera poetica, alcuni punti di snodo decisivi nella sua storia di artista e di intellettuale. Per questo motivo, più che di un’autoantologia nel senso più comune del termine (quello di una crestomazia dei singoli testi giudicati più rilevanti), questo libro acquista una fisionomia di raccolta autonoma e si propone piuttosto come una sorta di catabasi nella storia del Cile al tempo della dittatura di Augusto Pinochet.

Il libro si apre con LVB, acronimo di Ludwig van Beethoven, soprannome affibbiato a un internato dei campi di prigionia del quale Zurita offre un’alta testimonianza poetica. A seguire si aprono Le cateratte del Pacifico, visione sublime della Natura che, al tempo stesso, resta indissolubilmente legata alla tragedia dei desaparecidos. I barcaioli della notte svolgono le funzioni del Caronte dantesco, portando il lettore verso la visione finale del Canto al suo amore scomparso, l’immenso cimitero latinoamericano e mondiale nel quale Zurita stesso si confronta, a tutti i livelli, con l’ingiunzione etica, politica e letteraria, a dar conto delle migliaia di vite desaparecidas.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Luigi Pareyson (1918-1991) – L’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell’esecuzione, che è vita e possesso dell’opera.

Luigi Pareyson 01

«L’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell’esecuzione, la quale tuttavia, per il suo carattere necessariamente personale e quindi meramente interpretativo, è sempre nuova e diversa, cioè molteplice. Ma la sua molteplicità non pregiudica per nulla l’unicità dell’opera musicale. L’esecuzione non è una copia o riflesso, ma vita e possesso dell’opera».

Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, 1971.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Immanuel Kant (1724-1804)  – Ho imparato che la scienza è inutile, se non serve a mettere in valore l’umanità. Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo. Agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare un ricordo.

Immanuel Kant 025

«Io sono uno studioso e sento tutta la sete di conoscere che può sentire un uomo. Vi fu un tempo nel quale io credetti che questo costituisse tutto il valore dell’umanità; allora io sprezzavo il popolo che è ignorante. E’ Rousseau che mi ha disingannato. Quella superiorità illusoria è svanita, ho imparato che la scienza è inutile, se non serve a mettere in valore l’umanità»

 

«Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo»

«Agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare un ricordo».

Immanuel Kant, Critica della ragion pratica.


Immanuel Kant (1724-1804)  – Nell’uomo esiste un tribunale interno: è la coscienza. Egli può magari cadere in un grado tale d’abbiezione da non prestare più alcuna attenzione a questa voce, ma non può evitare di udirla
Immanuel Kant (1724-1804) – Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a “pensare”. Non lo si deve “portare” ma “guidare”, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato “l’intelletto” e s’appropria d’una “scienza” posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata.
Immanuel Kant (1724-1804) – Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
Immanuel Kant (1724-1804)  – Lettera di Kant a Marcus Herz. «Parlo dell’obiettivo di diffondere disposizioni d’animo buone, basate su princìpi solidi, e di salvaguardare queste disposizioni assicurandole fermamente nelle anime ricettive, indirizzando gli altri a coltivare i propri talenti solo in direzioni utili».
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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William Morris (1834-1896) – Qual è lo scopo della Rivoluzione? Certamente quello di rendere felici gli uomini.

William Morris, Notizie da nessun luogo

«“Qual è lo scopo della Rivoluzione? Certamente quello di rendere felici gli uomini. […] In breve, con l’assenza di coercizioni artificiali e con la libertà per chiunque di fare quello che sa fare meglio, unita alla conoscenza di ciò che vogliamo che il lavoro produca. Devo ammettere che a quest’ultima siamo arrivati lentamente e faticosamente. […] Da tutto ciò che sentiamo dire e leggiamo, appare chiaro che nell’ultimo stadio della civiltà, gli uomini si erano cacciati in un giro vizioso in materia di produzione di beni. Avevano raggiunto una straordinaria facilità di produzione, e per sfruttarla al massimo avevano gradualmente creato (o, piuttosto, lasciato sviluppare) un sistema assai complesso di compravendita, chiamato mercato mondiale; questo mercato mondiale, una volta entrato in funzione, li costrinse a continuare a produrre una quantità sempre maggiore di beni, ne avessero bisogno o no. Cosicché mentre, com’è naturale, non potevano sottrarsi alla fatica di produrre ciò che realmente era necessario, crearono una serie senza fine di bisogni falsi o inutili, che divennero, secondo la ferrea legge del suddetto mercato mondiale, di importanza pari a quella dei beni veramente indispensabili alla vita umana. Facendo questo, si accollarono un’enorme mole di lavoro, con l’unico scopo di mantenere in funzione il loro sciagurato sistema. […] Poiché si erano messi nella condizione di rimaner schiacciati sotto il terribile peso della produzione superflua divenne loro impossibile considerare il lavoro e i suoi prodotti da un punto di vista che non fosse l’incessante sforzo di impiegare la minor quantità possibile di lavoro per ogni articolo prodotto, e nello stesso tempo di produrre la maggiore quantità possibile di articoli. A questa ‘riduzione dei costi di produzione’, come era chiamata, tutto veniva sacrificato. La soddisfazione del lavoratore nel suo lavoro, anzi, i suoi bisogni fondamentali e la sua stessa salute, l’alimentazione, i vestiti, l’abitazione, il tempo libero, gli svaghi, l’istruzione – in breve, la sua vita – pesavano sulla bilancia meno di un granello di sabbia contro la crudele necessità di ‘ridurre i costi di produzione’ di merci che in gran parte non valeva nemmeno la pena di produrre. Si racconta anzi, e le prove sono tanto evidenti che, per quanto difficile, bisogna crederlo, che persino gli uomini ricchi e potenti, i padroni di quei poveri diavoli di cui vi ho parlato, si adattavano a vivere fra vedute, rumori e odori che la natura stessa dell’uomo detesta e cerca di sfuggire, pur di impiegare le loro ricchezze nel portare all’esasperazione questa suprema follia. L’intera comunità veniva gettata tra le fauci di quel mostro vorace che era la ‘riduzione dei costi di produzione’, imposta dal mercato mondiale”.
[…]
“Ma le macchine, per ridurre il lavoro?”.
“Che state dicendo? Le macchine per ridurre il lavoro? Sì, erano fatte per ‘risparmiare manodopera’ (o, per esser più precisi, energie umane) su certi prodotti perché potesse essere impiegata meglio – io direi sprecata – nella fabbricazione di altri prodotti probabilmente inutili. […] L’appetito del mercato mondiale cresceva man mano che questo ingoiava ricchezza: i paesi appartenenti alla cerchia della civiltà, cioè della miseria organizzata, venivano saturati di merci inutili e si ricorreva senza pietà alla forza e all’inganno per ‘aprire al commercio’ i paesi che si trovavano fuori di quell’area. Questo processo di ‘apertura’ appare strano a chi conosca le convinzioni degli uomini di quel periodo e non comprenda il loro modo di agire; e forse ci mostra nel suo aspetto peggiore la grande piaga del XIX secolo: l’uso dell’ipocrisia e dell’inganno per eludere la responsabilità di una ferocia praticata indirettamente. Quando il mercato mondiale dei paesi civili aveva delle mire su un paese che non fosse ancora nelle sue grinfie, si trovava qualche sfacciato pretesto […] insomma, ogni possibile trappola per catturare la preda. Poi si trovava un avventuriero audace, senza scrupoli […] e lo si pagava perché ‘creasse un mercato’ […].
Le merci che noi qui produciamo vengono prodotte perché ce n’è bisogno: lavoriamo per i nostri vicini come se lavorassimo per noi stessi, non per un astratto mercato di cui ignoriamo tutto e sul quale non abbiamo alcun controllo; poiché non c’è compravendita, sarebbe pura follia produrre merci basandosi soltanto sulla possibilità che ce ne sia richiesta: non c’è più nessuno che possa essere costretto a comprarle. Perciò tutto quello che si produce è di buona qualità e adatto all’impiego che bisogna farne. Non si può produrre nulla che non sia utile, e quindi non si produce nulla di scadente. Inoltre, come ho già detto, oggi sappiamo di che cosa abbiamo bisogno, e non produciamo più del necessario; e poiché nulla ci spinge a produrre una gran quantità di oggetti futili, abbiamo tempo e risorse a sufficienza per considerare la fabbricazione delle merci un piacere.
Tutti i lavori che sarebbe troppo noioso eseguire a mano, vengono fatti da macchine altamente perfezionate; mentre per tutti i lavori che danno piacere si fa a meno delle macchine. Non c’è difficoltà a trovare un genere di attività che corrisponda alle inclinazioni di ognuno, così nessuno è sacrificato alla volontà di un altro. A poco a poco, quando ci rendevamo conto che fabbricare qualcosa era sgradevole o presentava dei problemi, abbiamo rinunciato a fabbricarlo facendone a meno. Ora potete certamente capire che in queste condizioni ogni genere di attività che svolgiamo è un esercizio più o meno piacevole della mente e del corpo […]”».

«Sarebbe molto difficile, se non impossibile, raccontarvi tutta la storia: presa di coscienza, scontento, tradimento, defezioni, disastri, miseria, disperazione. Tutti quelli che hanno cooperato al cambiamento, perché vedevano più in là degli altri, hanno percorso queste tappe dolorose. E durante tutto quel tempo, la maggior parte della gente ha assistito, senza capire, agli avvenimenti credendoli naturali come l’alba ed il tramonto; il che in realtà era anche vero […]. Guardando il passato, ci accorgiamo che la forza che ha spinto le masse verso il grande cambiamento è stata l’aspirazione alla libertà ed all’eguaglianza».

«Guardate […] come intorno a voi degli uomini obblighino altri uomini a condurre un’esistenza che non è la loro, mentre essi stessi non hanno cura della propria […] addolcite la vostra lotta con un po’ di speranza […] sforzandovi di edificare a poco a poco, nonostante le pene e le sofferenze necessarie, questa nuova epoca di amicizia, di riposo, di felicità».

William Morris, Notizie da nessun luogo, Garzanti, Milano 1984, pp. 103 ss.

William Morris, ritratto da George Frederic Watts, 1870.

William Morris (1834-1896) – Impegnamoci a custodire il giusto ordinamento del paesaggio terrestre, per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciatoci dai nostri padri. Non rendiamo la terra un deserto di speranze (quale essa era una volta), ma anche una prigione disperata.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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