Vasilij V. Kandinskij (1866 -1944) – L’arte che è solo figlia del suo tempo non ha avvenire, non diventerà mai madre del futuro, è un’arte sterile. La vita spirituale è movimento della conoscenza e senza il pane metaforico l’arte non ha più anima. In queste epoche cieche gli uomini danno importanza solo al successo esteriore, si preoccupano unicamente dei beni materiali.

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«Si è detto che l’arte è figlia del suo tempo. Un’arte simile può solo riprodurre ciò che è già nettamente nell’aria. L’arte che non ha avvenire, che è solo figlia del suo tempo ma non diventerà mai madre del futuro, è un’arte sterile. Ha vita breve e muore moralmente nell’attimo in cui cambia l’atmosfera che l’ha prodotta.
Anche l’altra arte, suscettibile di nuovi sviluppi, è radicata nella propria epoca, ma non si limita ad esserne un’eco e un riflesso; possiede invece una stimolante forza profetica , capace di esercitare un’influenza ampia e profonda.
La vita spirituale, di cui l’arte è una componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo, tanto complesso quanto chiaro e preciso. È il movimento della conoscenza. Può assumere varie forme, ma conserva sempre lo stesso significato interiore, lo stesso fine. […] Allora però arriva un uomo, che ci assomiglia, ma ha in sé una misteriosa forza “visionaria”. Egli vede e fa vedere» (pp. 20-21).

«I periodi in cui […]  manca il pane metaforico, sono periodi di decadenza spirituale. Le anime continuano a cadere dalle sezioni superiori a quelle inferiori […]. In queste epoche silenziose e cieche gli uomini danno importanza solo al successo esteriore, si preoccupano unicamente dei beni materiali, e salutano come una grande impresa il progresso tecnico, che giova e può giovare solo al corpo. Le energie spirituali vengono sottovalutate, se non ignorate. I pochi che hanno ideali e senso critico sono scherniti o considerati anormali. Le rare anime che non sanno restare avvolte nel sonno e sentono un oscuro desiderio di spiritualità, di conoscenza e di progresso, infondono una nota di tristezza e di rimpianto nel grossolano coro materiale. La notte diventa sempre più fitta. Il grigiore si addensa intorno a queste anime tormentate e sfibrate dai dubbi e dalle paure, che spesso preferiscono un salto improvviso e violento nel buio piuttosto che una lenta oscurità.
L’arte, che in tempi come quelli ha vita misera, serve solo a scopi materiali. E poiché non conosce materia delicata cerca un contenuto nella materia dura. Deve sempre riprodurre gli stessi oggetti. Il “che cosa” viene eo ipso meno; rimane solo il problema di “come” l’oggetto materiale debba essere riprodotto dall’artista. Questo problema diventa un dogma. L’arte non ha più anima.
Su questa via del “come”, l’arte procede. Si specializza e diventa comprensibile solo agli artisti, che cominciano a lamentarsi dell’indifferenza del pubblico. Poiché in tempi simili l’artista medio non ha bisogno di dire molto e gli basta un minimo di “diversità” per farsi notare e osannare da certi gruppetti di mecenati e conoscitori (il che può comportare grandi vantaggi materiali), una gran massa di persone superficialmente dotate si butta sull’arte, che sembra cosi facile. In ogni “entro artistico” vivono migliaia e migliaia di artisti, la maggior parte dei quali cerca solo una maniera nuova, e crea milioni di opere d’arte col cuore freddo e l’anima addormentata.
La “concorrenza” cresce. La caccia spietata al successo rende la ricerca sempre più superficiale. I piccoli gruppi, che casualmente si sono sottratti a questo caos di artisti e di immagini si trincerano nelle posizioni conquistate. Il pubblico, che è rimasto arretrato, guarda senza capire, non ha interesse per un’arte simile e le volta tranquillamente le spalle» (pp. 24-25).

«In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima. li colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. È chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore» p. 46).

Vasilij Vasil’evič Kandinskij, La vita spirituale nell’arte, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano 1989.


Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 -1944) – Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra. Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.
Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 -1944) – Migliaia e migliaia di artisti creano oggi milioni di “opere d’arte” col cuore freddo e l’anima addormentata.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Le mani di Rodin hanno vissuto come cento, una vita in cui tutto è vivo e presente nello stesso istante e nulla è perduto. Cercava la grazia delle grandi cose e una pacatezza radicata dentro di lui gli mostrò il saggio cammino. Diceva: «Non bisogna avere fretta».

Rainer Maria Rilke-Rodin

Prima di essere celebre, Rodin era solo. E la celebrità, una volta sopraggiunta, lo ha reso forse ancora più solo. […] L’opera di cui mi accingo a parlare è andata crescendo attraverso gli anni e cresce ogni giorno. come una foresta, incessantemente. Ci si aggira tra i suoi mille oggetti sopraffatti dalla ricchezza dei reperti e delle invenzioni che la compongono, e istintivamente si cercano le mani che hanno dato forma a questo mondo. Ci si rammènta quanto piccole siano le mani dell’uomo, come si stanchino presto e quanto sia breve il tempo loro concesso per agire. E nasce il desiderio di vedere le due mani che hanno vissuto come cento, come un popolo di mani destatosi prima dell’alba per incamminarsi sulla lunga via che conduce a quest’opera. Ci si chiede chi sia il dominatore di quelle mani. Che uomo è mai? La sua vita è una vita che non si lascia narrare. Ha avuto un inizio e procede, procede addentrandosi sempre più profondamente in una grande vecchiaia, e per noi è come se fosse trascorsa da molte centinaia di anni. Non ne sappiamo nulla. Avrà avuto un’infanzia, comune, un’infanzia povera, oscura, indagatrice e incerta. E forse ha ancora quest’infanzia, perché -come dice sant’ Agostino -dove mai potrebbe essersi persa? Forse ha ancora tutte le ore trascorse, le ore del dubbio e le lunghe ore dell’indigenza, è una vita che non ha perduto né dimenticato nulla, una vita che si è raccolta attorno al proprio fluire. Forse non ne sappiamo nulla. Ma solo da una simile vita, pensiamo, sono potute scaturire l’opulenza e la sovrabbondanza di questo operare, solo una simile vita, in cui tutto è vivo e presente nello stesso istante e nulla si è perduto, può conservarsi giovane e forte ed ergersi ripetutamente in opere somme. Forse verrà un tempo in cui per questa vita si inventerà una storia, con i suoi intrecci, con i suoi episodi, con i suoi dettagli. E saranno frutto di invenzione. Si racconterà di un bambino che spesso trascurava il cibo ritenendo più importante intagliare oggetti in un povero legno con un coltello spuntato, e nei giorni del giovane si vorrà inserire un qualche incontro implicante la promessa di una futura grandezza, una di quelle profezie a posteriori tanto popolari e commoventi. Potrebbero prestarsi adeguatamente le parole che, quasi cinquecento anni fa, si dice un monaco abbia rivolto al giovane Miche! Colombe: «Travaille, petit, regarde tout ton saoul et le clocher à jour de Saint-PoI, et les belles oeuvres des compaignons, regarde, aime le bon Dieu, et tu auras la grace des grandes choses». «E avrai la grazia delle grandi cose». Forse un sentimento interiore ha parlato così al giovane Rodin, ma con un tono infinitamente più sommesso delle parole del monaco, ad uno dei primi bivi della sua vita. Perché egli cercava proprio questo: la grazia delle grandi cose. […]
Ecco dunque un compito, grande quanto il mondo. E colui che lo affrontò fissandolo con lo sguardo era uno sconosciuto dalle mani che cercavano pane, nell’oscurità. Era totalmente solo, e se fosse stato un vero sognatore avrebbe potuto sognare un sogno bello e profondo, un sogno che nessuno avrebbe compreso, uno di quei sogni interminabili sui quali una vita può scorrere con la rapidità di un giorno. Ma questo giovane uomo che si guadagnava da vivere nella manifattura di Sèvres era un sognatore il cui sogno saliva lungo le mani, e subito iniziò a dargli una forma. Sapeva da dove fosse necessario cominciare: una pacatezza radicata dentro di lui gli mostrò il saggio cammino. Già qui si rivela il profondo accordo di Rodin con la natura, e su questo il poeta Georges Rodenbach, che lo definisce apertamente una forza naturale, ha saputo dire parole così belle. E in realtà c’è in Rodin una misteriosa pazienza che lo rende pressoché anonimo, una silenziosa, superiore longanimità, come un riflesso della grande pazienza e bontà della natura che si origina dal quasi invisibile per procedere, assorta e severa, nel suo lungo cammino verso la profusione. Anche Rodin non si misurò subito con l’albero. Iniziò dal seme, per così dire sottoterra. E questo seme crebbe verso il basso, affondò le radici sempre più nel profondo, si insediò prima di iniziare la lenta salita verso l’alto. Ci volle tempo, un lungo tempo. «Non bisogna avere fretta», diceva Rodin ai pochi amici a lui vicini, quando lo incitavano.

Rainer Maria Rilke, Rodin, trad. di C. Groff, SE, Milano 2004, pp. 13-19.



Rainer M. Rilke (1875-1926) – Non dimenticare mai di formulare un desiderio: i desideri durano a lungo, tutta la vita, tanto che non potremmo aspettarne l’adempimento.
Rainer Maria Rilke (1875 – 1926) – La pazienza è tutto
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – E queste cose, che passano ma ci credono capaci di salvarle, noi che passiamo più di tutto, vogliono essere trasmutate, entro il nostro invisibile cuore in – oh Infinito – in noi! Quale che sia quel che siamo alla fine.
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Occorre raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita. Anche i ricordi di per se stessi ancora “non sono”. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.
Rainer M. Rilke (1875-1926) – Sicurezza significa non sospettare di nulla, non tenere nulla a distanza, non considerare nulla come un Altro irriducibile, significa spingersi oltre ogni concetto di proprietà e vivere di acquisizioni spirituali e mai di possessi reali.
Rainer M. Rilke (1875-1926) – On voudrait avoir les yeux toujours ouverts, pour avoir vu, avant le terme, tout ce que l’on perd.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Hans-Georg Gadamer (1900-2002) – Sulla via della cultura l’uomo comincia a superare la propria naturalità e si innalza dal suo essere propriamente naturale all’esistenza spirituale.

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«Ogni singolo individuo che si innalza dal suo essere propriamente naturale all’esistenza spirituale trova nella lingua, nei costumi e nelle istituzioni del suo popolo una sostanza preesistente che, come accade nell’apprendimento della lingua, deve far propria. Perciò l’individuo singolo è già sempre sulla via della cultura, ha già sempre cominciato a superare la propria naturalità proprio in quanto il mondo in cui si sviluppa è un mondo formato nella lingua e nei costumi».

Hans-Georg GadamerVerità e metodo, Bompiani, Milano 1997, pag 37.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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William Shakespeare (1564-1616) – L’uomo che non ha musica in se stesso, che l’armonia dei suoni non commuove, sa il tradimento e la perfida frode. Le sue emozioni sono una notte cupa. I suoi pensieri un Erebo nero. Alla musica credi, non a lui.

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L’uomo
che non ha musica in se stesso,
che l’armonia dei suoni non commuove
sa il tradimento, e la perfida frode.
Le sue emozioni sono una notte cupa.
I suoi pensieri un Erebo nero.

Alla musica credi, non a lui.

William Shakespeare, Il mercante di Venezia [1594-1598], Atto V.



William Shakespeare (1564-1616) – «Cesare non potrebbe fare il lupo se non fossero pecore, e nient’altro che pecore, i romani».
William Shakespeare (1564-1616) – La sua lezione di regia: «Tenetevi misurati, dovete ottenere e conservare quella sobrietà che consente morbidezza di toni. Accordate l’azione alla parola, la parola al gesto: lo strafare è contrario alla vocazione dell’arte teatrale. Il gigioneggiare quanto il recitarsi addosso non può che disgustare l’intenditore».
William Shakespeare (1564-1616) – Date parole al dolore. La sofferenza interiore che non parla, sussurra al cuore troppo gonfio fino a quando si spezza.
William Shakespeare (1564-1616) – Se la musica è l’alimento dell’amore, seguitate a suonare, datemene senza risparmio. Oh, spirito d’amore, quanto sei vivo e fresco! Così multiforme si presenta amore, da esser, lui solo, il trionfo della fantasia.
William Shakespeare (1564-1616) – Beati son coloro i cui impulsi e il cui giudizio non assomigliano per nulla a una zampogna su cui le dita della Fortuna possan suonare il tasto che le aggrada.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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