«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Una non vile educazione comporta il pudore e l’uomo addestrato al bene si vergogna di comportarsi da vile. La virilità si può insegnare, se a un bimbo si può insegnare a dire e ad ascoltare ciò che non sa. E quel che s’impara suole serbarsi fino alla vecchiezza. Educate perciò bene i vostri figli».
di Ivan Illich, Lee Hoinacki, Sigmar Groeneveld traduzione di Antonio Airoldi (da: www.lostraniero.net)
Questo appello è stato presentato il 6 dicembre 1990, in occasione del meeting organizzato a Oldenburg in onore di Robert Rodale, pioniere del movimento per l’agricoltura biologica negli Usa. Il testo originale è reperibile sul sito del Pudel Circle di Brema (www.pudel.uni-bremen.de).
Il discorso ecologico sul pianeta terra, la fame globale, le minacce alla vita ci sollecitano, come filosofi, a volgere umilmente lo sguardo al suolo. Noi poggiamo i piedi sul suolo, non sul pianeta. Proveniamo dal suolo e al suolo consegnamo i nostri escrementi e le nostre spoglie. Eppure il suolo – la sua coltivazione e il nostro legame con esso – è significativamente trascurato dall’indagine filosofica della nostra tradizione occidentale.
Come filosofi, ci dedichiamo a ciò che sta sotto i nostri piedi perché la nostra generazione ha perso il suo radicamento al suolo e alla virtù. Per virtù intendiamo la forma, l’ordine e la direzione dell’azione plasmata dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte effettuate entro l’ambito abituale di esperienza di ciascuno; intendiamo quella pratica reciprocamente riconosciuta come il bene in una cultura locale condivisa che rinforza la memoria di un luogo.
Noi constatiamo che la virtù così intesa è tradizionalmente associata al lavoro faticoso, all’abilità artigianale, all’arte di abitare e di soffrire, attività sostenute non da astrazioni quali il pianeta terra, l’ambiente o il sistema energetico, ma dai suoli particolari che esse hanno arricchito con le loro tracce. Ma nonostante questo legame fondamentale tra il suolo e l’essere umano, tra il suolo e il bene, la filosofia non ha messo a punto i concetti che ci permetterebbero di porre in relazione la virtù con il suolo comune, qualcosa di radicalmente differente dal controllo pianificato del comportamento su un pianeta condiviso.
I nostri legami col suolo – le relazioni che limitavano l’azione rendendo possibile la virtù pratica – sono stati recisi allorché il processo di modernizzazione ci ha isolati dalla semplice sporcizia, dalla fatica, dalla carne, dal suolo e dalle tombe. La sfera economica dentro cui, volenti o nolenti, talvolta a caro prezzo, siamo stati assorbiti, ha trasformato le persone in unità intercambiabili di popolazione, governate dalle leggi della scarsità.
Gli usi civici e l’arte di abitare sono a mala pena immaginabili da chi è schiavo dei servizi pubblici e alloggia in garage ammobiliati. In questo contesto il pane è stato ridotto a mero genere alimentare, se non a calorie o a fibre. Dopo che il suolo è stato avvelenato e cementificato, parlare di amicizia, religione e sofferenza partecipata come stile della convivialità appare come una fantasia accademica a persone disseminate in modo del tutto casuale tra veicoli, uffici, prigioni e hotel.
Come filosofi, rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non lo è più. Il suolo su cui la cultura può crescere e il grano essere coltivato svanisce alla nostra vista allorché viene definito nei termini di sottosistema complesso, settore, risorsa, problema o “impresa agricola”, come per lo più accade nelle scienze agrarie.
Come filosofi, proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti di quegli esperti di ecologia che predicano il rispetto della scienza ma promuovono il disinteresse per la tradizione storica, le attitudini locali e la virtù terrestre dell’autolimitazione.
Con tristezza, ma senza nostalgia, riconosciamo che il passato è passato. Sia pur con esitazione, cerchiamo allora di condividere ciò che vediamo: alcune conseguenze derivanti dal fatto che la terra ha perduto il suo suolo. Di fronte all’indifferenza per il suolo mostrata dagli ecologisti dei consigli di amministrazione proviamo fastidio, ma siamo altrettanto critici nei confronti di quei numerosi romantici, luddisti e mistici benintenzionati che esaltano il suolo facendone la matrice della vita anziché della virtù. Lanciamo perciò un appello a favore della filosofia del suolo: un’analisi chiara e disciplinata di quella esperienza e memoria del suolo senza le quali non vi può essere né la virtù, né alcuna nuova forma di sussistenza.
Per Mircea Eliade costruire una casa, una dimora, è una decisione vitale per l’intera comunità quanto per l’individuo, poiché si tratta «di assumere la creazione del mondo che si è scelto di abitare». La casa costituisce una imago mundi, un’immagine del mondo. «Nella stessa struttura della casa si registra il simbolismo cosmico». Ancora oggi «insediarsi da qualche parte, costruire un villaggio o semplicemente una casa rappresenta una decisione di peso poiché l’esistenza stessa dell’uomo ne è coinvolta: si tratta insomma di creare il proprio mondo e di assumersi la responsabilità di mantenerlo e di rinnovarlo. Non si cambia casa a cuor leggero, perché non è facile abbandonare il proprio “mondo”». Eliade nota in maniera molto interessante che «ogni dimora si situa presso l’axis mundi». La molteplicità o addirittura l’infinità dei Centri del Mondo non crea «alcuna difficoltà» in tali società: non si tratta in verità del centro di uno spazio geometrico, ma del centro di uno spazio esistenziale.
Mircea Eliade, Le sacré et le profane, Gallimard, Paris 2001, pp. 50-55.
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