Diego Lanza, Gherardo Ugolini – «Storia della filologia classica». Si è cercato di illustrare tutta la problematicità della filologia, mostrando al contempo quanto lo studio dell’antico abbia sempre interferito con i dibattiti che hanno via via segnato lo svolgersi della cultura europea negli ultimi due secoli.
Introduzione
di Diego Lanza e Gherardo Ugolini
L’aneddoto è certamente falso, tuttavia ben inventato, perché atto a suggerire uno scenario simbolicamente significativo: nelle terre orientali – in Persia, in Armenia – si narrava che il conquistatore Alessandro, giunto in Assiria e condotto ad ammirare la grande biblioteca di Assurbanipal a Ninive, fosse rimasto affascinato dal grandioso progetto di riunire in un solo edificio tutto lo scibile del mondo e avesse deciso di costruire egli pure nella sua nuova capitale una grande biblioteca per raccogliervi tutti i libri esistenti e creare il nuovo tempio del sapere universale.
Sappiamo che in realtà la biblioteca di Alessandria fu fondata dal suo successore Tolomeo di Lago, anche se non mancano testimonianze che fu proprio Alessandro a richiedere le prime traduzioni in greco degli antichi testi caldei (Canfora, 1993). Dietro la costituzione della grande biblioteca s’intrecciavano due desideri: da una parte di eguagliare e di superare le grandi biblioteche del Vicino Oriente antico – Ninive, Edfu, Sippar –, dall’ altra di raccogliere e conservare il patrimonio dei libri greci, divenuti nel nuovo mondo ellenistico lo strumento primario della comunicazione culturale.
La biblioteca sorse nel contesto architettonico del palazzo, perché chi vi lavorava faceva parte integrante della corte, anche se la sua posizione e le sue funzioni erano assai diverse da quelle dello scriba orientale. La grande raccolta fu realizzata in tempi relativamente brevi e si ricorse a ogni mezzo per entrare in possesso di un patrimonio vario e disperso; ma raccogliere, schedare ed eventualmente copiare non era sufficiente. I testi con i quali ebbero a che fare i primi dotti bibliotecari alessandrini potevano spesso essere trascrizioni di esecuzioni orali, alcune con non piccole varianti tra le diverse copie, perché fissati sì nella scrittura, ma sostanzialmente estranee alla sua logica.
Talvolta la traduzione in veri e propri libri delle trascrizioni dei canti comportava una serie di questioni, la prima delle quali era la riorganizzazione del materiale. Ogni produzione poetica era funzionale a una specifica circostanza della vita dell’individuo e della città: l’invocazione alla divinità, la celebrazione delle vittorie adetiche, i cori tragici, i canti simposiaci. A questa classificazione, per così dire implicita, dei modi del poetare, si sovrappone, nell’ordinamento della biblioteca, una classificazione esplicita dei generi poetici, che trovano per lo più nel dialetto e nel metro i propri criteri definitori. Il metro tuttavia, anche per l’inesistenza di una notazione musicale, è misurato sulla parola scritta non più modulata dalla melodia, e soltanto sullo scritto era anche considerata ogni variante dialettale. A chi considerava attentamente i testi non potevano perciò non risultare evidenti le numerose irregolarità epiche e liriche che i rapsodi e i cantori oscuravano nell’esecuzione, come pure le incongruità fonetiche dissimulate dalla lingua d’arte dei poeti.
I nuovi generi sono letterari, atti cioè a essere definiti da leggi scritte, ma, proprio per questo, più esposti alla volontaria infrazione soggettiva, in una sperimentazione che non deve più rispondere a nessuna specifica esigenza sociale, ma che anzi è volta a dimostrare l’autonoma originalità dello scrittore (Rossi, 1971; Fantuzzi, 1980). Certo, la conservazione di testi poetici scritti esisteva già nella Grecia classica e gli archivi di Atene conservavano i testi delle tragedie e delle commedie rappresentate nei concorsi dionisiaci; un buon numero di libri dovette possedere Euripide – seppur non si tratta di una leggenda per rafforzarne simbolicamente la fama di poeta difficile e allusivo – e una biblioteca sicuramente organizzò Aristotele nel suo Liceo, ma l’operato degli Alessandrini concorse a mutare radicalmente, in armonia con i nuovi orizzonti e la nuova configurazione del potere, il carattere stesso della poesia e i modi della sua fruizione (Fraser, 197 2., I, pp. 303-812.; Pfeiffer, 1973).
Fu un lavoro imponente di raccolta, scelta, confronto, classificazione, attribuzione di un materiale multiforme, un lavoro che seppe trasformare una tradizione affidata alla precari età della memoria sociale in patrimonio stabilmente fruibile pur nella discontinuità delle mode, che concorse in modo rilevante a costruire una letteratura nel senso che oggi noi diamo alla parola.
Al nuovo modello di cultura corrispondono nuovi modelli di produttore e di destinatario. il poeta letterato e il pubblico letterato, che non di rado s’identificano, vivono un rapporto tale con la società cui appartengono che si è potuto giustamente parlare di uno spiccato carattere elitario della cultura ellenistica, di un sostanziale distacco di questa dalle quotidiane pratiche sociali, dalla vita degli uomini comuni (Cavallo, 1998). I bibliotecari di Alessandria tuttavia, raccogliendo i testi degli antichi, compirono una straordinaria opera di omogeneizzazione e, correggendoli e classificandoli, avviarono anche quel lavoro di riflessione che fu poi definito filologia. Si può dire che il letterato e il filologo nacquero dal bibliotecario e che furono al principio la stessa persona; così almeno ci appare Callimaco, il maggior poeta della prima stagione alessandrina. Soltanto nel secolo successivo lo studio dei testi antichi si rese autonomo dalla produzione dei nuovi e cominciò a esistere il filologo, il grammatikos; philólogos mantenne infatti in greco diverso significato, designando l’uomo propenso al dialogo o addirittura alla vuota chiacchiera.
I grammatikoi sviluppano un intenso lavoro di revisione formale dei testi introducendo l’interpunzione e l’accentuazione e stabilendo la colometria dei versi lirici; essi forniscono anche un ricco corredo informativo e strumentale di cataloghi, lessici, grammatiche, biografie, ed elaborano veri e propri trattati specialistici e preziosi commenti interpretativi. A questa intensa attività si deve non solo la costituzione dei testi e gran parte delle informazioni di cui sugli stessi testi e sui loro autori dispongono i moderni filologi, ma spesso anche l’ottica secondo la quale noi conosciamo e valutiamo l’ingente patrimonio che essi hanno saputo salvare e scrupolosamente indagare. Spesso dunque risalgono ai grammatikoi ellenistici le regole di lettura dei grandi poeti classici ancor oggi considerate valide.
È un’attività che, attraverso varie vicende, si protrae per tutto il Medioevo; pur se differentemente a causa delle diverse circostanze storiche in Occidente e in Oriente, le biblioteche rimasero il luogo, spesso l’unico, nel quale si esercitasse lo studio e la copiatura dei testi antichi. La fabbricazione della carta, diffusasi in Europa nel corso del XIII secolo, favorisce dapprima l’intenso sviluppo degli scriptoria e porta poi, nel XV, all’invenzione della stampa con caratteri mobili. Con l’affermarsi della stampa al filologo bibliotecario subentra il filologo editore e diffusore. La nuova tecnologia porta fin dai suoi inizi a un approccio assai più vasto e agevole ai testi antichi: Cicerone è, subito dopo la Bibbia, uno dei primi autori ad apparire in volumi stampati. Né occorre aspettare molto tempo per avere a stampa i testi degli autori greci che l’arrivo di illustri letterati fuggiti da Bisanzio dopo la caduta dell’ impero aveva contribuito a far conoscere.
L’antico appare ora come la migliore arma contro il vecchio, rappresentato dalla persistenza dell’eredità medievale. La stampa ne moltiplica una più diretta conoscenza, ma richiede agli studiosi nuove necessarie competenze professionali, perché alla correttezza della costituzione dei testi editi si aggiunge quella della loro resa tipografica. Alcuni grandi stampatori come Aldo Manuzio, Robert e Henri Estienne sono particolarmente importanti per la storia della filologia, e i loro nomi si aggiungono e si confondono con quelli dei più illustri traduttori e commentatori di testi classici, avendo contribuito in modo determinante alla riscoperta degli antichi, se riscoperta si può definire la diversità di approccio degli umanisti nei riguardi della classicità.
Un esempio significativo di tale diversità ce lo offre il nuovo uso del latino: gli umanisti rifiutano una lingua comunemente praticata, ma ormai logorata dal consumo, per ripristinare il classico dettato ciceroniano. Questa operazione di restauro ci induce a una necessaria considerazione: se da una parte essa evidenzia la distanza dell’ antico in ragione della radicale differenza dall’ imbarbarimento dell’uso medievale, dall’altra indica la volontà di un’imitazione che, scavalcando i secoli, riporti l’uomo rinascimentale al modello originario. Erasmo da Rotterdam intende scrivere come Cicerone, rifarsi ai remoti maestri senza l’ingombro di mediazioni fuorvianti. Su questa ambiguità – consapevolezza di una profondità temporale e immediatezza mimetica dell’oggetto – si sviluppa anche tutto il percorso successivo della filologia, disciplina di indagine storica dell’antico e insieme pretesa di appropriazione immediata indotta dal ripristinato possesso della lingua, fondamento di ogni indagine. Robert e Henri Estienne producono così gli strumenti indispensabili a questa conoscenza che va progressivamente estendendosi e affermandosi come l’ausilio principale della pedagogia.
La conoscenza delle opere degli antichi diventa il fondamento del nuovo sistema educativo e al filologo editore si affianca il filologo pedagogo che trova nell’insegnamento il proprio specifico habitat. Nell’Europa moderna la storia della filologia s’intreccia perciò sempre più strettamente con la storia della scuola, dei modelli d’istruzione, ne subisce gli orientamenti, risentendo, seppur per lo più indirettamente, del mutare delle esigenze della società.
Ma l’ambiguità erasmiana permane, anche quando il diverso quadro culturale alla fine del XVIII secolo porta alla costituzione di una vera e propria scienza dell’antichità classica, nella quale la conoscenza della lingua mantiene un indiscusso primato. Della scienza la filologia ritiene di possedere la sicurezza del metodo e l’insieme di conoscenze storiche necessarie, e tuttavia il filologo, nell’esercizio del suo mestiere, non sa rinunciare all’intuito mimetico che lo porta ad annullare le distanze e a porsi in diretto, familiare dialogo con l’autore studiato, a conoscerlo cosi intimamente da riuscire a ripristinarne il dettato corroso dal tempo e guastato dagli amanuensi. La congettura pretende allora di essere la più alta espressione dell’arte filologica.
Molti tra i più illustri maestri della filologia tra Otto e Novecento si sono misurati con i problemi dell’insegnamento, considerando la loro disciplina struttura portante del sistema educativo, e non è difficile notare come nelle loro riflessioni pedagogiche prevalga un atteggiamento per cosi dire difensivo, di chi vede progressivamente eroso il proprio dominio culturale e vuole arginare l’invadenza dei nuovi saperi, la causa di tale erosione. Di qui spesso la diffidenza per l’affermarsi delle scienze umane, il sospetto per ciò che appare nuovo, la collocazione politica conservatrice di gran parte della corporazione. Eppure delle nuove scienze nate e sviluppatesi nel clima dell’ottimismo positivista l’antichistica condivide l’entusiasmo; anch’essa si pretende scienza positiva, fondata sull’acquisizione di dati esatti e verificabili, su una conoscenza sempre più precisa del proprio oggetto.
Ma è un oggetto, o meglio una pluralità di oggetti, che comporta una pluralità di approcci. Di tale pluralità si mostra ben consapevole, ma non disorientato, Giorgio Pasquali, il maggiore dei filologi italiani della prima metà del Novecento, quando scrive:
lo non mi soglio commuovere, quando mi si dimostra a fil di logica (ed è assunto facile) che la disciplina della quale fo professione, la filologia classica, è, se non un’accozzaglia, un’accolta di studi vari tenuti insieme solo da una relativa unità dell’oggetto, l’antichità classica (Pasquali, 1929, p. 751).
Ma un periodo storico, sia pur geograficamente determinato, può essere veramente considerato un oggetto unitario di studio? La questione teorica è stata prudentemente accantonata nella seconda metà del Novecento, nella quale non pochi antichisti si sono mostrati utilmente curiosi alle molte e forti sollecitazioni che giungevano loro da altre discipline antiche e nuove – la psicoanalisi, l’antropologia, la semiotica, la storia delle religioni –, restituendo al mondo antico quella vivacità talvolta contraddittoria che il filologismo aveva spesso oscurato.
Eredi di tale vivacità di approcci, gli autori di questo libro non hanno inteso descrivere la storia specialistica di una disciplina che ha pure amato per molto tempo presentarsi come scienza positiva, né pretendono di offrirne una soddisfacente compiuta definizione. Si è cercato piuttosto di illustrarne tutta la problematicità, mostrando al contempo quanto lo studio dell’antico abbia sempre interferito con i dibattiti che hanno via via segnato lo svolgersi della cultura europea negli ultimi due secoli, quanto ne abbia rispecchiato esigenze e mode, quanto abbia, non di rado, concorso a determinarle. A sottolineare la partecipazione dei più importanti antichisti al dibattito culturale del loro tempo stanno le polemiche anche aspre che hanno fin dall’inizio diviso la corporazione. Sono proprio i diversi modi di come intendere la filologia e di quale ruolo assegnarle – i contrasti tra Heyne e Wolf, tra Hermann e Boeckh, tra Nietzsche e Wilamowitz, tra Pasquali e Romagnoli – che, ciascuno nella propria specificità, segnano un percorso straordinariamente vivace, sempre attento a cogliere i termini essenziali di ciò che va svolgendosi nel quadro culturale del tempo.
Diego Lanza, Gherardo Ugolini (a cura di), Storia della filologia classica, Carocci editore – Aulamagna, Roma 2020, pp. 13-18.
Quarta di copertina
Il volume traccia un profilo storico della filologia classica negli ultimi due secoli e mezzo, da quando cioè si è venuta definendo come disciplina autonoma, focalizzando l’attenzione sugli snodi teorici e metodologici attraverso cui si è sviluppata, sulle figure degli studiosi più significativi, sulle discussioni e le polemiche che ne hanno segnato il procedere, sui nessi con lo sfondo istituzionale e il contesto storico in cui ha operato. Il percorso diacronico è scandito in tre parti. Nella prima si parte dal modello della filologia anglosassone di Richard Bentley per arrivare all’istituzionalizzazione della disciplina nel mondo accademico tedesco (Heyne e soprattutto Wolf) e nella realtà scolastica (Wilhelm von Humboldt). Nella seconda si analizzano i contributi teorici e le principali dispute metodologiche che hanno avuto come protagonisti, tra gli altri, Lachmann, Hermann, Boeckh, Nietzsche e Wilamowitz. La terza e ultima parte è dedicata alla ridefinizione degli studi classici in Germania (Jaeger) e in Italia (Pasquali), all’apporto della papirologia, alle nuove immagini dell’antichità venute a delinearsi nelle opere di scrittori, narratori, registi e traduttori del nostro tempo, e infine ai personaggi più significativi degli ultimi decenni: Snell, Dodds, Vernant, Gentili, Loraux.
Indice del volume
Introduzione di Diego Lanza e Gherardo Ugolini
Riferimenti bibliografici
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Parte prima
Verso una scienza dell’antichità
1. Richard Bentley e la filologia come arte della congettura di Francesco Lupi
Bentley e i suoi predecessori/L’Epistola ad Joannem Millium/La Dissertazione sulle Lettere di Falaride/Tradizione e congettura: dagli studi greci alle grandi edizioni latine/Tra Omero e Nuovo Testamento/Filologia tra ratio e ingenium/Riferimenti bibliografici
2. Christian Gottlob Heyne: le nuove vie dello studio degli antichi di Sotera Fornaro
Da bibliotecario a professore/Sull’importanza del “bello” antico/Lo studio degli antichi e i suoi strumenti/L’immaginario delle società antiche: il mito/I Greci senza miracolo/Inattualità di Heyne/Confronti ineguali e la questione omerica/Heyne e Wilhelm von Humboldt/Heyne e Friedrich Schlegel/Uno schizzo di storia degli studi classici tra Settecento e Ottocento/Un maestro della Germania/Riferimenti bibliografici
3. Friedrich August Wolf e la nascita dell’Altertumswissenschaft di Gherardo Ugolini
Eroe eponimo della filologia classica/L’università di Halle e il Seminario filologico/La questione omerica e i Prolegomena/Gli anni berlinesi e la dedica del “Museum der Althertums-Wissenschaft” a Goethe/I presupposti culturali del modello wolfiano/Il primato dei Greci sugli altri popoli antichi/L’enciclopedia wolfiana e le sue discipline/Il primato della lingua e il potenziale formativo del classico/Riferimenti bibliografici
4. Humboldt, il Ginnasio umanistico e l’università di Berlino di Gherardo Ugolini
Lo studio dei Greci/La fondazione dell’università di Berlino/La riforma del sistema educativo e il Ginnasio umanistico/Centralità delle lingue classiche/Il Ginnasio umanistico dopo Humboldt/Riferimenti bibliografici
Parte seconda
L’illusione dell’archetipo. Gli studi classici nella Germania dell’Ottocento
5. Karl Lachmann: il metodo e la scienza di Sotera Fornaro
Il metodo del Lachmann/Ciò che davvero appartiene al Lachmann/Heyne, Wolf, Hermann/Alla ricerca del vero Omero/Costruire una scienza/Le parole e le cose/Inchinarsi a Lachmann/Riferimenti bibliografici
6. Hermann contra Boeckh: filologia formale e filologia storica di Gherardo Ugolini
Gottfried Hermann e la filologia formale/August Boeckh e la filologia storica/La polemica sulla metrica di Pindaro/La polemica sull’edizione delle epigrafi greche/L’Enciclopedia delle scienze filologiche/Hermann contra Müller: la polemica sulle Eumenidi di Eschilo/Riferimenti bibliografici
7. Nietzsche e la polemica sul tragico di Gherardo Ugolini
Nietzsche e la filologia classica/La polemica sul tragico: il giudizio di Ritschl e la recensionedi Rohde/Filologia dell’avvenire! La stroncatura di Wilamowitz/La lettera aperta di Wagner/Filologia deretana. La replica di Rohde/Il secondo intervento di Wilamowitz/L’influsso della Nascita della tragedia sugli studi di antichistica/Riferimenti bibliografici
8. Wilamowitz: la filologia come totalità di Gherardo Ugolini
Filologia classica come “totalità”/Il commento all’Eracle di Euripide/Tragedia greca e filologia storica/Wilamowitz e la traduzione dei testi tragici/Riferimenti bibliografici
Parte terza
La filologia classica del Novecento
9. Werner Jaeger e il Terzo umanesimo di Gherardo Ugolini
Da Lobberich alla cattedra di Berlino/Gli anni berlinesi e il programma del Terzo umanesimo/Il rapporto col nazismo/Paideia e la nuova immagine di Platone/Gli anni americani e la paideia cristiana/Riferimenti bibliografici
10. Giorgio Pasquali e la filologia come scienza storica di Luciano Bossina
Italia, Germania e ritorno/Guerra di Stati e guerra di filologi/Orazio lirico ed ellenismo/Dell’uso di Schwartz contro Maas/Roma arcaica e “arte allusiva”/Riferimenti bibliografici
11. Nuove antichità: i papiri di Pasquale Massimo Pinto
Il papiro come supporto di scrittura/Gli esordi/Grandi recuperi e nascita di un nuovo sapere/Scavi, edizioni e scuole nazionali/La papirologia tra le scienze dell’antichità/Il contributo dei papiri/Riferimenti bibliografici
12. Rinarrare l’antico: parole e immagini di Andrea Rodighiero
La tradizione classica/Filologia e ideologia: il caso Medea/Dal testo all’immagine/Tradizione e traduzione/Riferimenti bibliografici
13. La filologia dopo la guerra: nuove prospettive di Diego Lanza
Che significa scoprire?/Il cavaliere e il cavallo/Il piacere dell’ambiguità/A viva voce/I giochi dell’identità/Intorno allo stagno/Riferimenti bibliografici
Opere della filologia classica: un percorso bibliografico