«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
La serata è più silenziosa del solito, mi preparo con la radio spenta e la fantasia accesa. Prendo un vestito sobrio e particolare al tempo stesso, mi immagino indossarlo bevendo un prosecco al bar del teatro. Che anche questo fa parte della serata in fondo, penso, quasi a giustificare questa immagine. Un prosecco, il bar, le persone … stasera stranamente mi soffermo su questo tipo di dettagli, quando penso alle ore che mi aspettano. Ho un tuffo al cuore e mi manca quasi il respiro quando immagino la fila all’ingresso, quel cauto camminare cercando di controllare la voglia di entrare nella hall calda e liberarsi del peso della giacca, quel cercare di mantenere un’elegante distanza dall’ospite che ci precede, pur riuscendo ad annusare distintamente il profumo emanato dalla sua sciarpa.
Il saluto alla maschera che controlla i biglietti: gli chiederò da che parte debba dirigermi per trovare il mio posto, anche se lo so benissimo, tanta è la voglia di parlare. Di vedere mani che indicano, gesticolano, che prendono il mio biglietto tra le dita e me lo restituiscono e per spiegare ancora una cosa me lo sottraggono nuovamente per poi consegnarmelo un’ultima volta, sfiorandomi perfino il dorso della mano. Immagino poi la fila al bar, immagino di guardare con benevolenza il cameriere mentre tocca i contanti e poi tocca la mia brezel e poi di nuovo le banconote e poi ancora il cibo altrui, senza guanti e senza rimedio, con allegria e noncuranza. Qualcuno mi pesta un piede per sbaglio, tanto ci tiene al vassoio con le quattro birre che deve ritirare, si gira e si scusa, con una risata di cui sento il vento sulla guancia. Gli sorrido, inalando il suo buonumore.
Quando trovo il mio posto le luci della sala sono ancora accese. Dopo pochi secondi che mi sono seduta arrivano quattro persone che desiderano raggiungere le loro poltrone più avanti nella stessa fila. Mi sorridono, come si sorride a teatro quando si desidera raggiungere una poltrona più avanti nella stessa fila. Sorrido anche io e mi alzo, mi schiaccio contro la mia poltrona chiusa, loro si schiacciano contro la fila davanti, ma il loro fondoschiena struscia contro le mie cosce e il mio addome. Questa stessa scena avrà luogo ancora quattro, cinque volte. Poi potrò stare seduta un po’ più a lungo, prima di dovermi alzare l’ultima volta per far passare la signora che siede alla mia destra. Quella davanti a me indossa un vestito azzurro spento con uno scollo sulla schiena. Il collier argento e i capelli biondi raccolti si gonfiano e sgonfiano con ogni suo respiro, la pelle è dorata e mi sembra di percepirne la tiepida aura profumata.
Poi le luci si spegneranno, e succede che si sentono più forti i respiri, le parole, le risate, quando è buio e sta per cominciare la magia. Si sente la vicinanza, si sente l’energia della folla pronta al miracolo, si sente la sintonia dell’attesa.
Ma intanto attendo, attendo che il tassista raggiunga il teatro. Gli biascico qualche battuta ma non mi sente, la mia voce non riesce a superare la barriera di plexiglass posta tra i sedili posteriori e quelli anteriori. Allora mi ricordo di quell’altra sera, che forse dovrei chiamare mattina, erano le 4 circa, dopo la serata di tango. Salgo sul taxi e il tassista turco mi fa mille domande sulla serata, ha sentito parlare della folle milonga berlinese di Kreuzberg e vuole sentire che ne penso. Gli piace la danza, ma se ne occupa indirettamente dice lui, lui suona il saz e gli altri ballano. Se suona bene, ballano di gusto. Tu hai ballato di gusto, osserva, chiudendo il finestrino “perché sennò ti ammali, sei tutta bagnata”. E sì, ero tutta bagnata, del mio sudore e di quello delle decine e decine di persone che avevano ballato dentro l’aria tropicale della stanza dal pavimento rosso. Abbiamo riso, con quel tassista, mi ha concesso di fumare nella sua macchina, mi ha offerto una birra, ne aveva diverse lì, gli ho detto va bene, ma accosta che ce la fumiamo insieme questa sigaretta, in onore della musica e del ballo.
Contatto, promiscuità dell’anima, Berlino è la città perfetta, anche per quella del corpo, ma quella sera è stata così, ore di danze sfrenate, una sigaretta col tassista, poi ancora quattro chiacchiere con una che, povera anima, anche lei con il cane che doveva pisciare alle 5 del mattino. Il tassista frena e accosta, siamo arrivati davanti al teatro. Sono contenta, pago e scendo, lui riparte.
La piazza è deserta, il teatro è chiuso. Ci sono dei cartelli davanti, non descrivono la prossima produzione, bensì il funzionamento dei tamponi. Il teatro è diventato un grande mercato di tamponi rapidi. Ma a quest’ora no purtroppo, quasi penso che sarei entrata comunque, pur di entrare.
Mi sento chiusa fuori dal calore che ho immaginato. Penso alle persone che non vedrò, penso all’arte di cui non farò esperienza. Sono impalata davanti al portone chiuso, quando avverto come un alito di vento alle mie spalle. Non oso girarmi. Lo sento di nuovo, e insieme individuo come un sussurrio. Le voci si fanno gradualmente più forti. Declamano, piangono, ridono, urlano, sussurrano, scherzano. Virtuosamente modulano toni e modi dei mille personaggi che sono rimasti chiusi fuori dal teatro. Anche il vento è aumentato nel frattempo, e nella piazza deserta distinguo il frullio di piroette, salti, attese e rincorse. Alzo gli occhi e davanti dietro e intorno al teatro scopro centinaia di frammenti di scenografia, tele e pezzi dei panorami più esotici che camuffano l’edificio dentro al quale dorme il palcoscenico.
«Questo mare, questi monti, queste isole, questo cielo – che qui e soltanto qui dovesse sbocciare l’A-lètheia, e gli dèi potessero, anzi dovessero proprio qui rientrare nella sua luce salvifica, che qui l’essere dominasse come presenza e istituisse l’abitare umano, è per me oggi più degno di stupore e più impossibile che mai da pensare fino in fondo (…). Dobbiamo portare con noi in Grecia molte cose da meditare, molte cose già poetate in precedenza, per poi ricevere quel qualcosa di più che è incomparabile: la sorpresa della pura presenza».
FRANCO CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari, p. 36.
Franco Cassano, già ordinario di Sociologia dei processi culturali, è professore emerito presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari. Tra le sue pubblicazioni: Approssimazione (il Mulino 1989); Partita doppia (il Mulino 1993); Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo (il Mulino 2001); Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni (Dedalo 2004); Tre modi di vedere il Sud (il Mulino 2009); Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (con Andrea Riccardi, Lindau 2013). Ha curato con Danilo Zolo L’alternativa mediterranea (Feltrinelli 2007); Tre modi di vedere il Sud (il Mulino 2009).
«Gli uomini che hanno potere dovrebbero scendere dalle auto blindate e iniziare a passeggiare. Una passeggiata vuol dire essere restituiti alla strada e alla nudità casuale delle persone, guardare gli alberi, i palazzi o il mare, inseguire pensieri spesso splendidamente banali. Passeggiare vuol dire avere un cane per amico, oppure un amico libero come un cane, con cui parlare di tutto, uno che ti ascolta e ha voglia di perdere tempo con te. Passeggiare è […] assaggiare l’aria […] con la pelle, d’estate cercare l’ombra e d’inverno il sole. Passeggiare è commentare i titoli dei giornali con uno che non conosci, indicare una strada a un passante, ricordarsi di comprare qualcosa prima di tornare. Passeggiare è imbattersi in chi non t’aspetti, […] è fermarsi al bar e guardare la gente che passa, parlare con chiunque dell’ultima partita, tanto per scambiarsi calore. Passeggiare è giocare dolcemente con la giornata, decidere che ne puoi perdere un pezzo perché lo vuoi guadagnare. Passeggiare è il piacere dell’anonimato e quello della compagnia, incrociare gente che non conosci e facce note, salutare o non salutare […]. Passeggiare è evadere dalla corsa feroce, da quell’assedio che chiude le porte da cui potrebbe entrare la vita, da quelle giornate murate che fanno del telefono cellulare un cellulare di polizia. Passeggiare è mettere la punteggiatura ai giorni, andare a capo, voltare pagina, creare intervalli, parentesi o punti interrogativi. Passeggiare vuol dire infiltrare un po’ di vacanza in ogni giornata, lasciare aperta una fessura nel quotidiano, sapendo che la sorpresa può entrare anche dalle porte strette. Passeggiare […] vuol dire […] mettere le virgolette a ciò che pretende di essere assoluto, resistere a tutte le militarizzazioni. […] Passeggiare è un’arte povera, un far niente pieno di cose […]. Passeggiare è abbandonare la linea retta, […] girare a vuoto nella penombra, non aver paura di ascoltarsi. […] Passeggiare è ritornare a se stessi e a quella parte di noi che è la premessa di tutto […]. Passeggiare è il desiderio del ragazzo e dell’anziano, un’arte che l’adulto ha rimosso e sostituito con l’agonismo del jogging e della fitness. Passeggiare non serva a tenersi in forma, ma a dare forma alla vita» (Franco Cassano, Modernizzare stanca, pp. 149-150).
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