Matteo Vegetti – Heidegger, con il saggio «Das Ding», muovendo per cerchi concentrici, avvia la riflessione genealogica sul nichilismo europeo, e sulla sua intima complicità con il tema della tecnica.

Matteo Vegetti - Heidegger

Nonostante la sua brevità, il saggio sulla “cosa” (Das Ding) occupa una posizione cruciale nella produzione del cosiddetto “secondo Heidegger”. Qualcosa in merito lo si può già dedurre dalla circostanza che ha occasionato la stesura dei testo: si tratta di una conferenza tenuta, il 6 giugno 1950, presso l’Accademia di Belle Arti bavarese. Di fronte agli studenti dell’Accademia Heidegger voleva proporre una riflessione sul fare artistico inteso nel senso più profondo del termine, quello che rinvia in ultima istanza alla poiesis, e di qui all’accezione più fondamentale sul modo d’essere delle cose. In questa prospettiva, lo vedremo, il saggio si inserisce nella medesima linea critiea dischiusa dalla più antica questione de L’origine dell’opera d’arte (1935), e più in generale, dall’itinerario ermeneutico che risale alla Lettera sull”‘umanismo” (1947). Per altro verso però, esso appare, anche alla luce del suo stesso titolo, strettamente intrecciato con il corso del 1935/36, che aveva appunto quale oggetto La questione della cosa. Nell’insieme, è il periodo in cui Heidegger, muovendo per cerchi concentrici, avvia la riflessione genealogica sul nichilismo europeo, e sulla sua intima complicità con il tema della tecnica (La questione della tecnica, 1954). Il saggio Das Ding si colloca perciò al crocevia di un insieme di direttrici di ricerca intrecciate in un unico Denkweg, quel “cammino di pensiero” nel quale, per tentativi, si fa strada la straordinaria avventura intellettuale intrapresa da Heidegger in concomitanza con la cosiddetta “svolta”. Si tratta della lunga fase di pensiero nella quale Heidegger, rileggendo la storia della metafisica come la vicenda unitaria del progressivo oblio dell’essere, tenta in pari tempo di attingere a una verità più originaria di quella che ha preso forma, in modi sempre diversi, ma rispondenti a un piano di coerenza “destinale”, nella logica e nell’ontologia occidentale. Proprio in questo senso l’evidente complessità del testo deriva innanzitutto dal fatto di essere un “precipitato teorico”: invece di discutere le enormi questioni implicate dalla “svolta”, Heidegger sperimenta la possibilità di oltrepassare la storia del nichilismo in direzione di un nuovo inizio, di un pensiero capace di inaugurare, o quanto meno di preparare, l’avvento un nuovo rapporto tra l’uomo e la verità. Di qui procede la ragione di un’ulteriore difficoltà: tra gli scritti heideggeriani Das Ding è indubbiamente celebre per la complessità del suo linguaggio, spesso considerato “poetico”, evocativo, o ancora ermetico ed esoterico.

Ma occorre considerare che sebbene questa cifra stilistica risenta della profonda influenza della poetica di Hölderlin (cui Heidegger dedica, in questi stessi anni, alcuni dei suoi scritti più importanti), essa si giustifica in realtà in base a un’urgenza strettamente teorica: il tentativo di attingere a una nuova vicinanza all’essere, rimontando la storia di una millenaria rimozione, richiede la messa in opera di un nuovo linguaggio, la riscoperta di una parola “originaria”, cioè originariamente estranea alla grammatica del pensiero che ha dato inizio alla storia della metafisica e al portato “reificante” delle sue categorie. […]

 

Matteo Vegetti, La brocca di Heidegger, in: La questione della brocca, a cura di Andrea Pinotti, Mimesis, Milano 2007, pp. 69-85.

 


Quarta di copertina
Che cosa è una cosa? Circondati, talvolta assediati dalle cose, usiamo volentieri il termine “cosa” per parlare d’altro, dimenticando proprio quel che fa di una cosa una cosa (ad esempio, di una brocca una brocca). Quattro grandi filosofi del Novecento provano qui a ricordarcelo. Ragionando di vasi, di brocche, di manici, Simmel e Bloch, Heidegger e Adorno ci offrono quattro casi esemplari di quel ritorno alle cose stesse che è stato non solo la parola d’ordine di un movimento filosofico particolare, la fenomenologia, ma anche un complessivo orientamento del pensiero contemporaneo verso l’esperienza nella sua vivente corporeità: un’esigenza urgente di concretezza che non significa cedimento all’empirismo, ma piuttosto delicata empiria, scrupolosa dedizione agli oggetti, infaticabile svelamento dei loro infiniti strati di senso. Il lettore può sperimentare qui quattro diversi stili, profondamente affini ma anche irriducibili nelle loro peculiarità, con cui la filosofia è tornata ad accostarsi ai molteplici sensi delle cose: a partire dal senso estetico, quello che in primo luogo e originariamente ci dischiude l’oggetto in quanto cosa della percezione e dell’immaginazione, aprendoci al mondo.

Sommario
Georg Simmel, L’ansa del vaso (introduzione di Andrea Pinotti)
Ernst Bloch, Una vecchia brocca; Il rovescio delle cose (introduzione di Maurizio Guerri)
Martin Heidegger, La cosa (introduzione di Matteo Vegetti)
Theodor W. Adorno, Manico, brocca e prima esperienza (introduzione di Markus Ophälders)


Matteo Vegetti, laureato in Filosofia e in Psicologia, ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università di Torino. Professore ordinario di Teorie dello spazio alla Supsi (DACD), insegna all’Accademia di Mendrisio. Ha inoltre insegnato per otto anni Estetica al Politecnico di Milano, e ha tenuto corsi all”Istituto Suor Orsola di Napoli e all’Università degli Studi dell’Insubria. Tra le sue più importanti pubblicazioni: La fine della storia (Milano 2000), Hegel e i confini dell’Occidente (Napoli 2005), Lessico socio-filosofico della città (curatela, con P. Perulli, Varese 2006), Filosofie della metropoli (curatela, Roma 2009), L’invenzione del globo (Torino 2017).


Curriculum Vitae di Matteo Vegetti

Interventi su YouTube

Deglobalizzare o accettare la sfida della complessità? Intervista a Matteo Vegetti a cura di Paolo Bartolini.
Matteo Vegetti presenta “L’invenzione del globo”

FILOSOFIA DA COVID”: il professor Matteo Vegetti commenta le posizioni espresse da Giorgio Agamben sulla gestione dell’emergenza prodottasi a seguito della diffusione del coronavirus SARS-CoV-2

Emidio Spinelli, Matteo Vegetti: SUPPLICI (Eschilo) / MIGRAZIONI E PROBLEMI DI ACCOGLIENZA
M.Vegetti, G.Della Morte, G. Marramao, M.Ricciardi, M.Bonazzi: L’INVENZIONE DEL GLOBO
Matteo Vegetti. Le neo-plebi e lo spazio post-metropolitano
M. Vegetti – Comunicare in tempo di emergenza

Identità e territorio – Fisionomie lariane
Conferenza a cura di Matteo Vegetti

Sono onorato del vostro invito a inaugurare il ciclo di studi inerente alla città di Como. Si tratta tra l’altro, a mio avviso, di un’iniziativa necessaria, poiché si inserisce con tempismo in un momento particolare della storia della città. Un momento difficile che investe la “vocazione” di Como, la sua identità urbana e forse la sua stessa collocazione in un contesto territoriale ed economico in rapida trasformazione. Occorre provare ad avere una chiara consapevolezza di questo passaggio critico. Si tratta a mio avviso di ripensare il senso, e dunque l’identità del territorio [… clicca qui per continuare a leggere]


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Matteo Vegetti …


La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Jaca Book, 1999


Hegel e i confini dell’Occidente.
La fenomenologia nelle interpretazioni di Heidegger, Marcuse, Löwith, Kojeve, Schmitt,
Bibliopolis, 2005

Questo libro ricostruisce un momento cruciale della filosofia europea: il ritorno a Hegel, negli anni ’30, come paradigma per pensare la svolta che inaugura il mondo contemporaneo.
In questa prospettiva La Fenomenologia dello spirito rivela un’inquietante ambiguità: da un lato sembra compiere la storia della metafisica avviata da Aristotele; dall’altro preannuncia i segni della sua dissoluzione, l’emergenza di un’istanza teorica che eccede la sfera riflessiva del sapere, rinviando agli scenari “anti-idealistici” aperti da Nietzsche, Marx, Heidegger.
Le categorie di “movimento”, “forza”, “vita” si configurano allora come i vettori della crisi che investe i fondamenti ontologici della realtà, ponendo Hegel in dissidio con se stesso e con l’intera tradizione che nella mediazione del sapere assoluto avrebbe dovuto trovare conclusione autocosciente.
Rintracciare questa soglia significa rimettere in questione il pensiero della fine della storia nei suoi stessi effetti, ovvero nelle forme dell’ontologia, dell’antropologia e della politica.
L’elaborazione di questi temi viene qui condotta in discussione critica con quattro figure ermeneutiche strettamente intrecciate tra loro: Heidegger, Löwith, Kojève e Schmitt. Ne deriva un’apertura genealogica sui confini storici e concettuali dell’occidente.


Il libro La città. Note per un lessico socio-filosofico, a cura di Paolo Perulli e Matteo Vegetti con prefazione di Massimo Cacciari, edito dall’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana nel 2004, ha vinto l’Annerkennungspreis del concorso ZIPBau Award 2006. Il concorso premia ogni anno esercitazioni universitarie di tema architettonico, urbanistico e sociologico.

La pubblicazione raccoglie alcuni testi d’esame elaborati dagli studenti dell’Accademia di architettura per il corso La città. Storie, struttura, filosofia dell’anno accademico 2002-3 tenuto a due voci da Paolo Perulli e Massimo Cacciari. Scopo del corso era quello di favorire una discussione complessiva circa il significato filosofico e sociologico delle città alla luce delle profonde trasformazioni che ne hanno mutato la morfologia e il concetto.

Gli studenti (ormai diplomati) hanno scelto uno dei termini discussi durante le lezioni per sviluppare poi autonomamente una propria ricerca. Nei loro interventi hanno prestato particolare attenzione alle metamorfosi della città e alla sua espansione, alla relazione con il sacro, al fenomeno del nomadismo, ai luoghi di confine, al caos, all’informazione e alla comunicazione che nella città si sviluppano. L’esercitazione ha così permesso di comporre una sorta di “lessico della città”.


Filosofie della metropoli. Spazio, potere, architettura nel pensiero del Novecento (a cura di), Carocci, 2009, 2013

Che cos’è la città? Questa domanda risuona in Europa quando, dalle travolgenti trasformazioni della modernità, emergono i contorni inquietanti e misteriosi della metropoli. Per rispondere alla sua sfida i principali autori discussi in questo libro – Weber, Spengler, Simmel, Benjamin, Kracauer, Jünger, Foucault, Deleuze, Derrida – sondano un campo di analisi rimosso dalla filosofia politica classica, che ha scelto lo Stato come suo oggetto privilegiato. Del resto, proprio quando la metropoli sembra realizzare il destino dell’Occidente, lo sfaldamento dei criteri politici e sociali della modernità pone una nuova questione: come interpretare il ruolo e il senso della città nel contesto geopolitico della globalizzazione? Ripensare l’avvento e le trasformazioni della metropoli diventa allora una mossa necessaria per riconoscere il presente e prefigurare il futuro.


L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, Einaudi, 2017

Risvolto di copertina
Sviluppando la riflessione di Carl Schmitt circa il potere degli elementi (terra, mare, fuoco, aria), Vegetti indica nell’avvento della spazialità aerea l’esordio di una seconda fase globale, che attraverso l’aviazione, le onde elettromagnetiche, i sistemi della telecomunicazione satellitare, i viaggi spaziali e la tecnologia informatica ha plasmato un nuovo spazio e una nuova coscienza spaziale. L’autore studia in chiave genealogica gli effetti riconducibili a questa profonda transizione storica: effetti di ordine politico e sociale, ma anche antropologici, dato che la metamorfosi dello spazio esige un riorientamento complessivo del rapporto tra il soggetto e il mondo cui appartiene. In questa prospettiva il volume interroga la crisi della statualità, ovvero del nomos della terra quale la modernità l’ha conosciuto, e la nascita di un nuovo ordine globale ancora in cerca di se stesso.


Indice
Introduzione. I. L’unità del mondo. Leviathan, Behemoth, Ziz. II. One World: l’impero dell’aria. III. Planetarizzazioni della Terra. IV. Mondi globali. La terra e i flussi. – Appendici. – Note. Indice dei nomi.


Paul Gauguin (1848-1903), “Brocca a forma di testa, Autoritratto” / “Jug in the Form of a Head, Self-portrait”, 1889, Porcellana dura vetrificata in verde oliva, grigio e rosso / Stoneware glazed in olive green, gray and red, Altezza / Height 19.3 cm, Museum of Decorative Art, Copenhagen.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Un percorso veritativo per uscire dal pessimismo heideggeriano del consumo dell’Essere e dal suo uso ideologico in funzione antiumanistica. Il presente invoca un cambiamento di rotta.

Costanzo Preve e Heidegger

Salvatore Bravo

Un percorso veritativo per uscire dal pessimismo del consumo dell’Essere
e dal suo uso ideologico in funzione antiumanistica.
Il presente invoca un cambiamento di rotta.

G. Klimt, Morte e Vita.

Interpretazione adattiva
L’interpretazione di Heidegger di Costanzo Preve decostruisce l’uso antimetafisico e “la trasmissione” adattiva al capitalismo assoluto del filosofo di Meßkirch. Heidegger è decodificato, e presentato dalle Accademie e dal circo mediatico, come l’autore del requiem alla metafisica, pertanto non resta che il nichilismo e il trionfo degli enti. La critica di Heidegger alla società inautentica del capitale si arena nello svelamento, nella verità che resta inattingibile (ἀλήθεια), quindi sono gli enti a regnare. L’inautentico non è trascendibile, al presente non vi è alternativa, è negata la temporalità politico-progettuale per devenire gestione economico-amministrativa dell’eterno presente. Heidegger da critico del trionfo della tecnica e della categoria della quantità nel suo imperio e dominio assoluto è trasformato in filosofo organico al potere.

Costanzo Preve, invece, interpreta Heidegger quale filosofo che legge la storia della metafisica capovolgendo la ricostruzione hegeliana: per Hegel la storia della metafisica è il progressivo svelamento della verità nella storia, per Heidegger vi è il progressivo rivelarsi della metafisica come abbandono dell’Essere e della verità. Il comunismo reale e il capitalismo sono il momento apicale del disvelamento che invoca una svolta, un ritorno sui «sentieri interrotti»:

«La connotazione heideggeriana della lunga storia del pensiero filosofico occidentale come storia universale delle avventure della metafisica, e solo nella metafisica, rappresenta la prosecuzione tematica e metodologica della concezione hegeliana della storia della filosofia non come disordinata filastrocca di opinioni casuali, ma come manifestazione storica di oggettività logiche ed ontologiche. Una simile opinione può sembrare bizzarra, se si pensa che ciò che in Hegel appare come problema un progredire temporale della consapevolezza teorica, appare in modo rovesciato in Heidegger come progressivo allontanamento da una situazione originaria migliore, e non peggiore».[1]

 

L’Essere consumato
L’Essere non si è consumato, come vorrebbero i paladini del nichilismo del capitale. Non può consumarsi l’Essere, perché la verità-fondamento è altro rispetto agli enti. Si applica volutamente la categoria del consumo all’Essere per poter escludere dalla visuale la verità e sostituirla con gli enti. Se l’Essere si è consumato nella storia come qualsiasi merce, non resta che il nulla, pertanto gli enti non incontrano limite e senso alcuno. La tecnica abita l’essere umano che agisce manipolando ”ente tra gli enti”. Con il consumo dell’Essere la storia si ritira, perché ogni progetto politico necessita di un fondamento veritativo:

«La consumazione della lunga storia occidentale in tecnica planetaria non è ovviamente una consumazione dell’Essere in quanto tale, per il fatto che la metafisica non potrebbe mai “consumare” l’orizzonte trascendentale dell’Essere stesso. Ciò che viene “consumata”, piuttosto, è la lunga serie di illusioni storiche legate all’assolutizzazione indebita degli enti via via assolutizzati».[2]

 

La “diagnosi” di Heidegger è inserita all’interno di categorie estranee alla filosofia: ottimismo/pessimismo. Heidegger sarebbe un pessimista. Il pessimismo consolida il capitalismo assoluto con la sua “filosofica disperazione”. Ogni critica che riporti il calco della disperazione e del pessimismo è un mezzo per confermare il presente. La filosofia, in quanto prassi veritativa, dovrebbe usare la categoria di vero/falso, per cui l’analisi heideggeriana svela il trionfo del falso e dell’antiumanesimo col dominio degli enti sull’umano, e indica la necessità di un cambiamento di rotta. Essa invoca e ci invoca alla ricerca della verità, ad uscire dal falso per andare incontro alla radura (Lichtung), ad orientarci verso la verità. La radura è l’immagine di uno spazio improvviso nel bosco nel quale la verità si svela in un abbaglio, la si intravede, ma non si lascia catturare, perché essa non è un ente, ma il fondamento degli stessi. La radura è una forma di “riorientamento gestaltico” per uscire dalla trappola dell’assolutizzazione degli enti e della manipolazione:

“Ma la nozione heideggeriana di Tecnica non è assolutamente avvicinabile in termini di pessimismo verso le possibilità immediate di trasformazione positiva delle cose. Si tratta di una diagnosi storica di un evento della storia dell’Essere, e le diagnosi si interrogano in base alla dicotomia vero/falso, e non in base alla dicotomia ottimismo/pessimismo».[3]

 

Compensazioni narcisistiche
L’imperio degli enti e della crematistica conducono ed inducono alla vita inautentica, essa è segnata dall’inautenticità. In assenza di un fondamento veritativo, le esistenze sono preda del caos e dell’economicismo. Il pensiero è solo calcolo quantitativo acquisitivo; pertanto l’omologazione genera forme parossistiche di identità narcisistiche, prede dell’onnipotenza mediatica dietro cui si cela il nulla: il narcisismo compensa il vuoto quotidiano:

«Mano a mano che il mondo sociale esterno non appare più come la realizzazione voluta di un cosciente progetto umano, ma come la risultante imprevedibile di meccanismi anonimi incontrollabili, il soggetto per conservare la sua identità, sia pure largamente illusoria deve autopotenziarsi e “centralizzare” il senso delle cose su se stesso e la sua attività di creazione semantica dei significati vitali».[4]

 

Prassi contro l’Evento
Costanzo Preve condivide la critica e l’appello alla verità di Heidegger, ma non può seguirne il sentiero che porta all’Evento (Ereignis). L’Evento è improvviso, viene a noi, se si abbandona il calcolo e il fare tecnico; implica l’attesa destinale. Costanzo Preve, invece, fonda il suo Umanesimo comunitario rielaborando filosofi della prassi e della responsabilità dell’agire (Aristotele, Marx, Hegel). La natura generica dell’essere umano (Gattungswesen) consente in circostanze storiche determinate di scegliere per progettare nuovi modi di vivere sul fondamento comunitario della natura umana. Nella relazione comunità individuo, vi è la prassi della verità, poiché il soggetto umano pensante sviluppa, discerne e valuta le sue potenzialità sul fondamento della verità. La politica diviene, in tal maniera, prassi e consapevolezza condivisa del limite: le libere individualità possono attualizzarsi solo nel limite. Sono i soggetti che “calcolano” con il logos la presenza ed il senso degli enti. Il soggetto umano diviene l’autore della sua storia senza titanismi:

«La comprensione di questo punto è teoricamente decisiva. Se infatti si parla di “essenza umana generica” (Gattungswesen), ciò significa che Marx pensava che l’essenza umana generica esistesse, e fosse addirittura la verità dell’uomo, più o meno come nel pensiero greco classico l’anima umana (psyché) era considerata il fondamento della verità. Per Marx, dunque, l’essenza umana generica è la verità dell’uomo. La piena comprensione di questo punto permette di escludere qualsiasi interpretazione di Marx di tipo “storicistico assoluto” in chiave di “relativismo temporale”. Se l’essenza umana generica fosse infatti soltanto l’insieme dei rapporti sociali di produzione (come Marx confusamente e contraddittoriamente fa capire in altri passi sparsi della sua opera mai rivista e tantomeno risistemata), se ne avrebbe la conseguenza che essa non esiste, e si avrebbero tante essenze umane generiche quante sono e sono state le formazioni economico – sociali umane (e cioè migliaia), il che equivale appunto a dire che essa non esiste. Lo storicismo – relativismo, ovviamente, è sempre una forma di nichilismo. Se allora io rifiuto ogni interpretazione storicistico – relativistica di Marx (la presunta essenza umana è al 100% l’insieme storicamente determinato e sempre mutevole dei rapporti sociali di produzione e di classe), devo tener ferma la posizione per cui dicendo “essenza umana generica” (Gattungswesen) Marx intendeva alludere a qualcosa di logicamente ed ontologicamente reale, e non ad una sorta di sociologismo eracliteo. Ed io penso allora che se si tiene ferma questa interpretazione si coglie il nucleo metafisico profondo del pensiero di Marx, che in caso contrario resta un evanescente fantasma».[5]

 

Impegno comune
Costanzo Preve ha aperto un campo d’azione storico, in cui tutti siamo chiamati all’impegno per uscire dalla reificazione del mercato: il primo passo è sostituire nel giudizio la categoria ottimismo/pessimismo, con vero/falso. Solo la visione argomentata e logica della verità può essere elemento motivante per uscire dall’anomia del pessimismo indotto e dalla trappola del falso:

«Accettare tale ontologia significa rifiutare l’inevitabilità del passaggio al socialismo o al comunismo in quanto l’essere sociale, a differenza della natura, ha la possibilità di scegliere e quindi non ci può essere alcuna ineluttabilità nelle trasformazioni sociali, la scelta è sempre fondamentalmente non deterministica. Questa rinuncia è gigantesca e non mi stupisce che i comunisti l’abbiano ignorata quando Lukács era in vita e poi l’hanno completamente rifiutata. Egli chiedeva al movimento comunista una conversione totale e cioè la rinuncia al presupposto religioso che il comunismo è qualcosa di ineluttabile che nasce dalle ceneri della società capitalistica e che è possibile prevedere come se si trattasse di una legge di natura. Egli ha impostato giustamente il problema anche se poi è rimasto a metà strada; non perché fosse vile ma perché era un uomo totalmente inserito nella Terza Internazionale, diceva di sé di esser un vecchio cominternista. Se devo parlare di un mio profilo filosofico posso dire che secondo me la via individuata da Lukács era giusta, ma che bisogna andare avanti, ammettendo, per esempio che, mentre la teoria della storia di Marx è strutturalista, la filosofia in cui Marx incorpora questa teoria è idealista[6]”.

Bisogna riprendere il percorso veritativo per uscire dal pessimismo del consumo dell’Essere e dal suo uso ideologico in funzione antiumanistica. I tempi per il riorientamento non sono profetizzabili, ma il presente invoca un cambiamento di rotta non più procrastinabile. Non ci sono sentieri sicuri su cui inerpicarsi, ma dinanzi a noi sono compresenti più sentieri. Sta a noi “scegliere” quale attraversare: la storia è il luogo della scelta contro il fatalismo messianico e pessimistico.

Salvatore Bravo


[1] Costanzo Preve, Hegel Marx Heidegger, Petite Plaisance, Pistoia, pag. 52.

[2] Ibidem, pag. 54.

[3] Ibidem, pag. 57.

[4] Ibidem, pag. 58.

[5] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia, pag. 16.

[6] Costanzo Preve, Apriamo i sigilli, Intervista a cura di Franco Romanò, Petite Plaisance, 2010, pag. 8.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Democrito (460 – 370 a.C. circa) – La parola è l’ombra dell’azione. Sono falsi e ipocriti coloro che fanno tutto a parole e nulla con i fatti. Si devono emulare le opere e le azioni virtuose, non i discorsi sulla virtù.

Democrito parole e opere

Democrito (460 – 370 a.C. circa) – Si deve essere veraci, non loquaci. Chi si compiace nel contraddire e chiacchiera molto non ha attitudine ad apprendere ciò che è necessario. Né arte né scienza si può conseguire da chi non apprende.
Democrito (460 – 370 a.C. circa) – Bisogna difendere nei limiti delle proprie forze coloro che patiscono ingiustizia, e non lasciar correre: giacché un tale atteggiamento è giusto e coraggioso, l’atteggiamento contrario è ingiusto e vile.
Democrito (460 a.C. – 370 a.C.) – Ogni paese della terra è aperto all’uomo saggio: perché la patria dell’anima virtuosa è l’intero universo.
Democrito (460– 370 a.C.) – La tranquillità dell’animo nasce dalla misura e dalla armonia di vita.
Democrito (460 – 370 a.C. circa) – I ragazzi abbandonati a se stessi non apprenderebbero né il leggere e scrivere né la musica né il vero fondamento della virtù, il senso dell’onore. L’istruzione produce le belle azioni imponendoci sforzi, mentre le azioni basse vengono da sé senza fatica.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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