Andrea Tagliapietra – «La metafora dello specchio». Lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna.

Andrea Tagliapietra 01

Specchio ed auto-riconoscimento

Riflessioni di Salvatore Bravo


 I miti greci ci parlano, continuano a raccontare di noi, della eterna lotta per trascendere la soglia dalla caverna. I miti, relegati a sapere secondario, se ascoltati ci raccontano della condizione umana e della prassi, dell’agire della coscienza per uscire dal dominio dell’immagine irriflessa. Il testo di Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio, insegue il significato simbolico dello specchio – e dei miti afferenti – per rivelarci i processi di consapevolezza attraverso i significati custoditi nei simboli dei miti. Solo attraverso il processo di auto-riconoscimento allo specchio, colui che guarda può riconoscersi e riscoprirsi in una soggettività non più gettata o situata, ma pensata mediante la chiarezza del concetto e del linguaggio.
Lo specchio è metafora della verità e della necessità: si giunge al logos, alla ragione, mediante un processo concreto che parte dall’immediatezza dell’astratto ed arriva al concreto, nel quale il soggetto che si specchia si scopre implicato nel tutto, nei segni che si riflettono nel soggetto che guarda. Lo specchio è così immagine archetipica e metaforica di una crescita, di un passaggio senza il quale l’astratto prevale, annichilendo il soggetto nella trappola della doxa (δόξα). L’immagine che si mostra dev’essere interpretata, i segni devono essere correlati, la tela del mondo dev’essere ripensata e riscritta dal soggetto: senza tale attività il soggetto vive il silenzio dell’immediatezza, resta sulla soglia del logos. Lo specchio dona all’interpretante che oltrepassa la soglia dell’immagine la consapevolezza dell’illusione ed indica la via che porta alla verità, la svela (ἀλήθεια). Ciò che appare, il fenomeno (ϕαινόμενον), non è la verità, la filosofia è, dunque, attività che toglie all’immagine la sua illusione per restituire la verità. La filosofia guarda dietro l’immagine, non affonda nell’immagine, ma scopre che l’immagine riflessa è parte del soggetto; ogni feticismo cade per donare la complessità relazionale del segno:

«Lo specchio è la presenza del mondo a se stesso e, quindi, quello stesso specchio può solo mostrare la presenza, manifestarla, non dirla secondo i modi della rappresentazione, secondo il gioco dei significanti e dei significati. Lo specchio è la soglia del mondo dei segni e della mediazione, perciò è immediato e non si può significare. Lo specchio restituisce ciò che appare ma, insieme, mostra l’essere di ciò che appare, di ciò che è segno potenzialmente menzognero, indica la verità del suo essere altro da ciò che nel mondo dei segni appare. Nell’esprimere l’illusorietà della conoscenza lo specchio di Dioniso manifesta la conoscenza dell’illusione. Il mondo che appare è altro da ciò che vuole apparire: lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna».[1]

Lo specchio è anche metafora di una tragica verità, ci parla della regressione ad uno stato mitico nella contemporaneità. Ciò che appare sulla parete della caverna mediatica è accolta non solo come verità, ma specialmente come accade nel mito l’immagine riflessa reca una cesura tra il soggetto e l’oggetto, per cui non resta che il silenzio del logos, ciò che il soggetto guarda, quindi, non ha altro significato che l’immediato accadere. La fatalità ha il sopravvento sui processi di decodifica e responsabilità.

L’autoriconoscimento
L’autoriconoscimento deve passare per il doppio, ci si deve specchiare, guardarsi, riconoscersi, scindersi per arrivare alla consapevolezza di sé; senza lo sdoppiamento ed il pericolo di perdersi in esso, non è possibile attivare la consapevolezza che il soggetto pone il mondo, e dunque è implicato in esso, ne è responsabile con le sue azioni, con il suo agire, con il suo linguaggio. Il soggetto non può effettuare la sua catabasi, la sua discesa (κατάβασις), senza l’esperienza tragica ed emancipatrice del doppio. Se siamo parte del tutto, non ci si può esimere dalla responsabilità etica e politica. La morale emerge all’interno dei processi di rispecchiamento e riflessione su di esso; con la morale si delinea la politica: non siamo essere astratti, avulsi dal tutto, ma siamo all’interno di un mondo di significati che contribuiamo a formare:

«Tuttavia lo specchio di Dioniso insegna l’eccedenza: il dio che si specchia è parte di quel tutto mondo specchiato in cui, appunto, accade anche l’individuazione del dio che si specchia. Davanti allo specchio non più la violenza dell’Uno, non più la pretesa dell’Originale, bensì “tessere spezzate”, semplici metà, in una parola simboli: la metà è insieme l’unità e il doppio, se stessa come Uno e come metà dell’Uno, evocando l’unità della coppia, il maschile/femminile della bisessualità originaria che riunifica Eco la parola senza corpo al corpo del desiderio, al corpo di Narciso, ancora muto come il “segno” di un fiore».[2]

 

La medusa
Nel volto della medusa il mortale (βρότος), l’essere umano vive l’esperienza estrema, nel volto della medusa è riflessa l’alterità assoluta: il nulla. La medusa ha gli occhi cavi, nelle orbite non vi è che il buio del nulla. L’esperienza della medusa mostra al mortale la verità da cui l’essere umano fugge: il limite ontologico della morte. Solo la mediazione del logos può portare fuori il mortale dalla tragedia del nulla, il logos razionalizza il limite, lo ribalta in progetto e prassi pertanto lo trasforma, lo ricrea con il concetto, in tal modo le orbite della medusa non annichiliscono il mortale, ma il linguaggio con cui trascende il nulla gli consente di dare una forma al limite, di attribuire al tempo limitato il suo senso, strappandolo dall’angoscia del nulla che tutto fagocita e che trasforma in statua di sale:

«Il volto della Medusa cattura lo sguardo poiché lo isola dal tutto. Nello specchio di Dioniso il dio-fanciullo vedeva riflesso il mondo, qui, nella maschera della Gorgone, è il mortale che è chiamato all’esperienza più radicale di sé. Nello specchio del volto di Medusa l’uomo appare come mortale, facendo affiorare quell’arcaica esperienza del nulla a cui gli uomini ancora non danno i nomi dell’essere e del non essere».[3]

 

Narciso
Narciso si specchia nelle acque, scambia per corpo ciò che è acqua, ciò che è fugace. Narciso è il simbolo di un’autonomia impossibile, dell’atomizzazione che impedisce i processi di riconoscimento: ci si conosce nello sguardo dell’alterità, nella relazione concreta che ci rende gradualmente consapevoli della nostro sé rispetto all’altro e delle nostra potenzialità: senza l’intenzionalità concreta e reale ci si rinchiude in un vortice di autoreferenzialità che porta alla morte, all’alienazione perenne per cui si vive nell’inautentico, si vive la morte:

«Narciso scambia per un corpo ciò che è acqua (corpus putat esse quod unda est), non si accorge affatto dell’inconsistenza dell’oggetto del suo desiderio (spem sine corpore amat), né tantomeno che l’immagine della sua mira è una proiezione di quel corpo che, all’inizio del mito, si dichiarava interdetto a qualsiasi amante. Così il desiderio, per raggiungere il miraggio di una perfetta autonomia deve chiudersi in una “circolarità viziosa”, dove l’oggetto desiderato fa tutt’uno con il soggetto desiderante, e ciononostante viene simulato un andamento a spirale che impedisce il riconoscimento a vantaggio della peripezia infinita degli specchi». [4]

Il mito di Narciso è tra di noi, alla relazione con l’altro il sistema liberal sostituisce il desiderio immediato, per cui l’altro dev’essere l’eguale, dev’essere riportato al nostro desiderio. La categoria del medesimo di Levinas è il volto operativo della negazione dell’altro e dunque di noi stessi. Il narcisismo è il nulla che entra nel quotidiano e paralizza ogni prassi.

 

Marx e lo specchio
Le produzioni umane sono specchi, sono possibilità di decodificare il mondo in cui siamo, attraverso lo sguardo razionale che riflette e pensa, ciò che è separato è ricostruito nella sua genesi. In quello che produciamo c’è il segno del soggetto che opera, nell’azione produttiva il soggetto si scopre negato, alienato, costretto ad attività che non rispecchiano la sua essenza. Il passaggio è imprescindibile bisogna passare per le nostre produzioni per scoprire la rete relazionale che ci avvolge, i processi di disintegrazione ed alienazione mediante i quali il soggetto può ritrovare se stesso o perdersi:

«Troviamo questa metafora, alla lettera, nel testo marxiano, ove si legge “che le nostre produzioni sarebbero proprio come molti specchi [viele Spiegel], di cui la nostra essenza [Wesen] di rimando verrebbe illuminata [entgegenleuchtete]”. Qui l’essenza specchiata e rispecchiata sul piano degli oggetti mondani che non se ne stanno mai come “nature” isolate al di fuori della relazione teorico-pratica che istituisce il mondo conduce a un gioco tale la metafora da suggerire un oltrepassamento della parzialità che distingue cosa vera e immagine adeguata […]».[5]

Specchio in Marx sono le merci: ogni merce è specchio del plusvalore, il feticismo delle merci in cui l’umanità può alienarsi se non supera la divisione, la scissione, se non strappa la realtà in cui si muove alla naturalizzazione per scoprire che la realtà è posta dal soggetto, solo il soggetto consapevole può mettere in atto processi di liberazione.

 

Le gallerie dei passages
L’abbondanza delle merci si specchia nelle gallerie, le passeggiate non sono esperienza per ritrovarsi, nelle gallerie commerciali la merce si riflette ovunque, esse hanno un loro sguardo, mirano il passeggiatore lo avvinghiano con le luci degli specchi, lo avvolgono, gli tolgono il logos e la parola fino ad avere la potenza di ridurlo ad una appendice dell’abbondanza barocca delle merci, l’eccesso trabocca dalle vetrine e rompe ogni limite per dirigersi verso il passeggiatore:

«Le gallerie di specchi dei passages, che cominciano a disorientare il passante con la vertiginosa figa delle loro prospettive di cristallo e con l’incertezza barocca degli spazi delle strade cittadine, che si fanno interni, e degli interni che si aprono alla dimensione urbana, ospitano un doppio movimento per cui le cose, specchiandosi, sembrano possedere uno sguardo e gli sguardi degli occasionali spettatori di queste fantasmagoriche esposizioni di merci, posandosi sulle superfici riflettenti, vengono restituiti, nell’indifferenza, come oggetti accanto ad altri oggetti. Uomini e merci, esseri viventi e cose inanimate, messi in questo modo sullo stesso piano, vengono coinvolti in un movimento progressivo di dissoluzione ontologica che li trasforma, oltre l’intenzionalità degli sguardi, in una uniforme sequenza di sguardi».[6]

 Si arredano i locali pubblici in modo da farli apparire come superfici riflettenti; si è così avvinti nel bagliore, ogni distinzione tra esterno ed interno diviene labile in modo che il passeggiatore sia sempre all’interno di uno spazio fiabesco in cui l’essere ed il nulla, la verità e la menzogna siano indistinguibili.
Lo specchio nelle considerazioni di Benjamin, prepotentemente, ci parla dell’attualità: l’essere umano nella trappola delle merci rischia di essere egli stesso merce, di essere parte dell’indifferenziato, il regno delle merci è il luogo della quantità, l’essere umano in un mondo di soli merci diviene parte di un tutto da cui non si distingue, precipita tra le merci.

La metafora dello specchio nella sua vitalità significante ci svela il valore della cultura umanistica e la sua autonomia rispetto alla cultura tecno-scientifica, ma specialmente se si vuole vivere in un mondo umano la cultura umanistica è ambito culturale e formativo non contrattabile dei processi di umanizzazione. Il mito ci insegna a difenderci dagli specchi, dalla regressione, dal sonno del logos senza il quale si resta sul limitare dell’umanità.

 

Salvatore Bravo

[1] Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica [1991], Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 33.

[2] Ibidem, p. 131.

[3] Ibidem, p. 59.

[4] Ibidem, p. 90.

[5] Ibidem, p. 330.

[6] Ibidem, pp. 333-334.

Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Occorre raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita. Anche i ricordi di per se stessi ancora “non sono”. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.

Rainer Maria Rilke07
I quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti, 2014

«Oh, ma con i versi si fa ben poco, quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe poi a scrivere dieci righe che fossero buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e a separazioni che si videro venire da lungi, a giorni d’infanzia che sono ancora inesplicati, ai genitori che eravamo costretti a mortificare quando ci porgevano una gioia e non la capivamo (era una gioia per altri), a malattie dell’infanzia che cominciavano in modo così strano con tante trasformazioni così profonde e gravi, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare, a mari, a notti di viaggio che passavano alte rumoreggianti e volavano con tutte le stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto ciò. Si devono avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso».

Rainer Maria Rilke, The Notebooks of Malte Laurids Brigge [1910], I quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti, 2014


 

Silvia Gastaldi – L’uomo assennato rispetta sempre la corretta gerarchia tra il corpo e l’anima, e cura pertanto l’armonia del proprio fisico solo in funzione della symphonia che deve instaurarsi nella psyche. Il saggio è il vero musico perché sa realizzare l’accordo musicale più perfetto, quello interiore.

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«[…] l’uomo di senno non orienterà la sua vita affidando la responsabilità del nutrimento e del comportamento del suo corpo a un piacere bestiale e privo di ragione, e neppure avrà di mira la salute, né sopravvaluterà il fatto di essere vigoroso, sano e bello, se da ciò non venga anche un incremento della temperanza. Piuttosto, egli apparirà sempre nell’atto di accordare l’armonia del corpo con quella dell’anima per ottenere un’unica consonanza».

Platone, Repubblica, IX, 591 C 5-D 5.

 

«Infatti, tutta la vita dell’uomo ha bisogno di equilibrio e di armonia».

Platone, Protagora, 326 A 6-85.

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«Tra i numerosi esempi disponibili, particolarmente pregnante appare, anzitutto, il passo del IX libro della Repubblica che traccia il ritratto dell’uomo assennato […]. Egli rispetta sempre la corretta gerarchia tra il corpo e l’anima, e cura pertanto l’armonia del proprio fisico solo in funzione della symphonia che deve instaurarsi nella psyche. In tal modo un simile individuo può a buon diritto essere definito mousikos, nella doppia valenza che questo appellativo possiede nella lingua greca, esperto di musica ma anche uomo colto, sapiente: per Platone, il saggio è il vero musico perché sa realizzare l’accordo musicale più perfetto, quello interiore».

 

Silvia Gastaldi, Le immagini della virtù. Le strategie metaforiche nelle Etiche” di Aristotele, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1994, p. 80.

Silvia Gastaldi

 

Laureata nel 1972 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pavia, è stata ricercatrice presso questo Ateneo dal 1980 al 1999. Dal 1991 al 1999 ha tenuto, per affidamento, l’insegnamento di Storia del pensiero politico antico. È stata professore associato di Storia della Filosofia Antica presso l’Università di Messina dal 1999 al 2002 e presso l’Università di Pavia dal 2002 al 2005. A decorrere dal  1/10/2005 è stata nominata professore straordinario di Storia della Filosofia Antica presso l’Università di Pavia e confermata  come professore ordinario il 1/10/2008.

E’ stata presidente della Società italiana di Storia della Filosofia antica (SISFA) nel triennio 2016-2018 ed è membro del comitato direttivo della Collana “Studi di Storia della Filosofia antica”.

Fa parte della Commissione Ricerca del Dipartimento Studi Umanistici dell’Università di Pavia.

È membro del Collegio docenti del dottorato in Filosofia FINO.

È membro del comitato scientifico della Collane “Symbolon. Studi e testi di Filosofia antica e medievale” e della rivista “Lexis”.

Fa anche parte del consiglio direttivo della rivista “Il confronto letterario”.

Le sue ricerche, nell’ambito della storia del pensiero antico, riguardano anzitutto la riflessione etico-politica greca del IV secolo a. C. Ha pubblicato numerosi studi sulla “Repubblica” e sulle “Leggi” di Platone, sulle “Etiche” e sulla “Politica” di Aristotele. Si è occupata anche dei problemi del linguaggio poetico e retorico in Platone e in Aristotele, e delle teorie relative all’educazione nel mondo antico. È autrice di due storie complessive del pensiero politico antico.


Alcuni libri di Silvia Gastaldi

Bibliopolis, 2003

Bios Hairetotatos. Generi di vita e felicità in Aristotele


Laterza, 2008

Introduzione alla storia del pensiero politico antico

Il pensiero politico occupa un posto di grande rilievo nella cultura antica. Le prime elaborazioni sul tema della vita collettiva e sulle sue dinamiche di cui si abbia traccia nascono all’interno della città greca arcaica, nel VI secolo a.C. Attraverso l’opera dei primi legislatori, Solone in testa, si avvia la riflessione sulle modalità di esercizio di un buon governo e sul tema della giustizia. L’evoluzione della città greca nei secoli successivi si accompagna a un costante dibattito politico ed etico, culminante nelle grandi sintesi teoriche platonica e aristotelica. L’età ellenistica raccoglie questa importante eredità ma concede anche spazio ai movimenti di contestazione delle strutture istituzionali e sociali, come il Cinismo, l’Epicureismo e lo Stoicismo. In ambito romano, Cicerone è il primo a recepire l’insegnamento greco in materia di teoria politica.


Storia e Letteratura, 2016

Studi su Platone e il platonismo

Aldo Brancacci, Silvia Gastaldi, Stefano Maso

Secondo volume della collana “Studi di storia della filosofia antica” dopo quello dedicato ad Aristotele e l’aristotelismo, il libro si concentra su Platone e sulla tradizione platonica, privilegiando i settori oggi al centro della ricerca più avanzata: la dimensione etica e l’esegesi platonica in riferimento al mondo antico e contemporaneo.



ETS, 2017

Da Stagira a Roma. Prospettive aristoteliche tra storia e filosofia

Silvia Gastaldi, Cesare Zizza

Le manifestazioni che hanno celebrato, nel 2016, i duemilaquattrocento anni dalla nascita di Aristotele sono state veramente innumerevoli, a testimonianza del grande interesse che il filosofo di Stagira continua a suscitare. Questo volume è nato proprio nel clima di quel fervore di studi cui l’anniversario aristotelico ha dato nuovo impulso e propone una serie di contributi che, come sottolinea il titolo, intrecciano una doppia prospettiva: storica e filosofica. Al centro del dibattito sviluppato nei vari saggi che compongono il libro si pongono le riflessioni che, a partire da una molteplicità di trattati aristotelici – dalla Politica, alla Retorica, alle opere cosmologiche, alla Metafisica – ne esaminano anche gli sviluppi successivi, fino all’età imperiale romana.


Silvia Gastaldi, Una rivoluzione negli studi di antichistica


Pierre Aubenque – L’uomo non richiede di essere superato ma di essere protetto, prima di tutto da se stesso. Il sovrumano è a un passo dal disumano.

Pierre Aubenque01

«Il mondo riscopre oggi ciò che i Greci sospettavano più di duemila anni fa: che le “grandi parole” provocano “grandi dolori”; che l’uomo, questa cosa strana tra tutte, non richiede di essere superato ma di essere protetto, prima di tutto da se stesso; che il sovrumano è a un passo dal disumano; che il bene può essere nemico del meglio; che il razionale non è sempre ragionevole, e che la tentazione d’assoluto, che i greci chiamavano υβρις, è la fonte perenne delle sofferenze umane».

Pierre Aubenque, La Prudence chez Aristote, PUF, Paris 1963; tr. it. a cura di F. Fabbris, prefazione di E. Berti, La prudenza in Aristotele, Edizioni Studium, Roma 2018, pp. 19-20.

Ilaria Rabatti – il libro di John Berger è un atto di fede nel potere che ha l’amore di sconfiggere il tempo. L’opposto dell’amore non è l’odio, ma la separazione, che si può vincere lottando contro la tentazione dell’acquiescenza e dell’oblio.

Ilaria Rabatti-John Berger

John Berger

John Berger

«L’attesa appartiene al corpo, mentre la speranza appartiene all’anima».

“Dire la verità? Parole torturate finché non si arrendono al loro esatto opposto; Democrazia, Libertà, Progresso, quando vengono rimandate nelle loro celle, sono incoerenti. Poi ci sono altre parole, Imperialismo, Capitalismo, Schiavitù, alle quali è negato l’ingresso, che vengono ricacciate indietro a ogni posto di frontiera, e i cui documenti sono confiscati e consegnati a impostori come Globalizzazione, Libero Mercato, Ordine naturale.

Soluzione: la lingua notturna dei poveri. Chi la usa riesce a dire e avere qualche verità”.

“Oggi servirsi del vocabolario tradizionale, usato dai potenti e dai media, non fa che aumentare l’oscurità e la desolazione in cui siamo immersi. Il che significa essenzialmente rimanere in silenzio. Significa scegliere le voci a cui vogliamo unirci”.

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Ogni libro ha la sua voce, il suo respiro.

E quando leggo un libro avverto subito, fin dalle prime righe, se a quel respiro può unirsi anche il mio, se quella storia mi vuole o non mi vuole come lettrice. Se non mi vuole, preferisco rinunciare subito… ma se mi accoglie, sento il mio respiro intercettare quello dei protagonisti del racconto, e di colpo io sono dentro la storia è la storia è dentro di me…

Con il libro di John Berger, Da A a X, lettere di una storia, “lieve e incandescente” romanzo d’amore in forma epistolare è accaduto proprio così; e fin dalle prime pagine ho sentito subito di “essere dentro” quella palpitante vicenda esistenziale, come se il “flusso sanguigno” del racconto si congiungesse misteriosamente al flusso sanguigno della mia stessa storia di vita e ne vivificasse alcuni passaggi. Dice John Berger – critico acuto e sottile della cultura contemporanea e delle dinamiche sociali e politiche della globalizzazione, ma soprattutto scrittore militante che fa della letteratura uno dei principali strumenti per indagare e difendere i sentimenti più intimi dell’uomo – che «quando una storia ci colpisce e ci commuove, essa genera qualcosa che diventa, o può diventare, una parte essenziale di noi, e che questa parte, piccola o ampia che sia, è, per così dire, la sua discendenza o prole».

Ma per Berger, che ama definirsi storyteller – ovvero, insieme, ascoltatore e narratore di storie, dove, cioè, la capacità di ascoltare è la premessa sostanziale alla narrazione – non solo di ascolto è fatta la narrazione ma anche di sguardi, ovvero di un particolare, “inquieto” modo di guardare e di interrogarsi, che costituisce la sua cifra di scrittore, assolutamente appartato e solitario. Superati gli ottantasette anni, da sempre impegnato a denunciare lo stato di oppressione violenta in cui è tenuta la Palestina dalle truppe di occupazione israeliane, Berger è ancora uno “scrittore contro”, che reclama la disobbedienza e la lotta; probabilmente, come sottolinea Belpoliti, «l’ultimo scrittore politico europeo in circolazione, in ogni caso l’unico che sia rimasto testardamente legato a una lettura realista e insieme poetica del mondo, l’unico che somigli per passione e insistenza a PierPaolo Pasolini, di cui continua lo spirito profetico in un’età in cui gli intellettuali si sono trasformati in consulenti, opinion maker, brillanti tornitori delle viti del presente».

Ricorrendo al tradizionale espediente narrativo, quello del “ritrovamento” di carte manoscritte, nella premessa al romanzo Berger ci avverte di essere riuscito a mettere le mani su alcuni pacchi di lettere, che appartengono (o sono appartenute?) ad un prigioniero, Xavier, condannato a due ergastoli per presunte attività terroristiche. Le lettere sono state scritte dalla sua compagna A’ida, che, sfidando la sorda giustizia del più forte che lavora sull’amnesia dei sentimenti e la perdita di contatto con la realtà, colma la distanza con l’amato attraverso ponti di parole che evocano ricordi e raccontano i dettagli di una vita quotidiana a lui ormai per sempre negata: dal lavoro in farmacia, alle visite alla vecchia madre di lui, alle riunioni politiche clandestine coni “resistenti”, all’angoscia  di una precaria sopravvivenza in un villaggio occupato dall’esercito, presente con i suoi caccia ed i suoi elicotteri.

Insieme alle sue attente osservazioni sul quotidiano, che la portano di continuo ad interrogarsi su ciò che accade sotto i suoi occhi, con un atto di fede profondissimo nel potere dell’amore di sconfiggere il tempo, A’ida compone per Xavier – di cui non abbiamo le risposte, ma solo alcune riflessioni di politica internazionale appuntate sul retro delle lettere di lei – uno struggente canto dell’attesa e del desiderio: «Prima che ti prendessero, pensavo poco al futuro. I nostri genitori avrebbero detto che lottavamo per il futuro. Non noi. Noi stavamo combattendo per rimanere noi stessi. Da quando ti hanno preso, il futuro è costantemente con me, perché ti aspetto […] C’è un enorme differenza tra speranza e attesa. All’inizio credevo fosse una questione di durata, che la speranza consistesse nell’aspettare qualcosa di più lontano. Mi sbagliavo. L’attesa appartiene al corpo, mentre la speranza appartiene all’anima. La differenza è tutta qui. […] Ho scoperto qualcosa di più. L’attesa di un corpo può durare quanto qualsiasi speranza. Come la mia che aspetta il tuo».

L’opposto dell’amore infatti, sembra dirci Berger, non è l’odio, ma la separazione, che nel romanzo è rappresentata dalle mura del carcere, che A’ida cerca d’abbattere con la forza, la passione dei suoi sentimenti, resistendo e lottando, in primo luogo contro se stessa, contro la tentazione dell’acquiescenza e dell’oblio, affidando talvolta ai disegni – disegni di mani (realizzati dallo stesso Berger), che compiono azioni con movenze diverse perché «tutte le storie sono anche storie delle mani» – ciò che le parole non riescono a dire: «i disegni offrono ospitalità all’invisibile compagnia che è al nostro fianco […] non piangono la distanza, ma rispondono a una sola parola: QUI».

Ilaria Rabatti

Salvatore Natoli – Le parole, prima ancora di pronunciarle, bisognerebbe ascoltarle, ci sono state donate. La sapienza delle parole ha preceduto la filosofia.

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«Le parole […] sono sapienti di per sé e per questo, ogni volta, prima ancora di pronunciarle bisognerebbe ascoltarle, come all’inizio. Infatti, non sono nostre, ma ci sono state donate, le abbiamo apprese […]. La sapienza delle parole ha preceduto la filosofia e per molti versi l’ha preparata».

 

Salvatore Natoli, Parole della filosofia o dellarte di meditare, Feltrinelli, Milano 2004, p. 6.

Maurizio Migliori – Il pensiero classico vuol capire il mondo, la cui complessità non viene messa in dubbio, e che quindi deve essere affrontato con una pluralità molto elastica di strumenti

Maurizio Migliori 06

«Platone e Aristotele, ma credo si possa dire in genere tutta la filosofia antica, non paiono tanto interessati a produrre UN paradigma, UN sistema di pensiero, UNA visione, UNA definizione, quanto piuttosto ad elaborare, all’interno di un orizzonte concettuale ben definito, a volte anche definito in modo talmente forte da colpirci, una pluralità di schemi e di modelli, tra loro non sovrapponibili e a volte anche in contrasto, e tuttavia capaci di spiegarci aspetti della realtà che altrimenti ci sfuggirebbero. In sostanza, il pensiero classico vuol capire il mondo, la cui complessità non viene messa in dubbio, e che quindi deve essere affrontato con una pluralità molto elastica di strumenti».

 

Maurizio Migliori, Il bello e il buono della virtù, in Plato Ethicus. La Filosofia è vita, M. Migliori, L.M. Napolitano Valditara Editors, Davide Del Forno Co-editor, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 191-240, pp. 235-236.

Salvatore Bravo – L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo che recide i legami con ogni fondazione possibile della verità

Umanesimo vs umanismo
Salvatore Bravo

L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo

L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo: quest’ultimo è funzionale ai bisogni del capitalismo assoluto. L’umanismo recide i legami con ogni fondazione possibile della verità, con ogni oggettività formulata attraverso il logos, predilige l’individuo astratto rispetto all’essere umano concreto e comunitario.

Marx – nella lettura di Costanzo Preve – non può essere relegato nella nomenclatura degli umanisti, poiché non consegna l’essere umano alla contingenza della storia, non riduce il pensiero a nominalismo, ma si pone nell’ottica dell’universale, dell’umanità intera. Il materialismo storico è il mezzo attraverso il quale denuncia l’umanità offesa. Ricostruisce attraverso i modi di produzione l’alienazione (Entfremdung), i processi di negazione della natura umana, la sua riduzione ad appendice del sistema produttivo. Nel conflitto sociale che muove la storia, nelle sue contraddizioni, la condizione umana concreta si dispone al suo interno secondo prospettive e responsabilità differenti: la responsabilità di un magnate è differente rispetto alla responsabilità di un lavoratore salariato. La grandezza di Marx è aver sistematizzato le condizioni che provocano l’alienazione. Ma, nello stesso tempo, non si è limitato a costruire una narrazione ideologica, e dunque parziale: ma la sua opera è finalizzata all’emancipazione dell’umanità, perché il sistema produttivo borghese, il capitalismo, offende e nega la natura umana. Nell’operaio legato alla catena della macchina e del plusvalore si rende lapalissiana la miseria umana nella fase del capitalismo. L’operaio è negato nella sua natura individuale e comunitaria, è il portatore sano di relazioni sociali errate; la controparte, il capitalista, vive una condizione materiale privilegiata dietro cui agiscono processi di alienazione che nell’immediato non appaiono. In realtà, dietro la maschera del benessere materiale, si scopre il soggetto alienato nella sua natura. Per Preve quindi, Marx è un iperumanista, poiché la sua teoretica è finalizzata a superare le scissioni che impediscono di concettualizzare la natura umana e di valutare attraverso di essa la condizione umana. L’iperumanesimo di Marx negato dalla sinistra e non riconosciuto da molti, è concetto rimosso, in quanto investe con la sua critica all’economia, non si presta ad essere usato da posizioni ideologiche che vorrebbero ingabbiare Marx sull’economia per evirarlo del suo contenuto rivoluzionario autentico e profondo che scorre tra le pieghe del suo pensiero:

«La filosofia di Marx non è solo un umanesimo, è un iperumanesimo, in quanto si tratta del Destino dell’Uomo (la maiuscola, ovviamente, è volontaria). Una teoria di tipo sociologico sulla strutturazione sociale è di tipo descrittivo, non narrativo o prescrittivo (diventate comunisti, e così riscatterete le alienazioni dell’umanità). In quanto descrittiva, una teoria sociologica di una società particolare dovrebbe necessariamente individuare dai dieci ai venti gruppi distinti in base a parametri come la ricchezza, il potere, gli stili di vita, i consumi, la conoscenza, la cultura, eccetera. Nessuna decente descrizione sociologica di una società potrebbe limitarsi ad individuare soltanto due gruppi sociali». [1]

Al principio dell’opera di Marx vi è una valutazione etica, un’indignazione che si trasforma in prassi, in passione per la conoscenza al fine di ristabilire con il limite “katà métron”, la natura umana. L’emancipazione possibile è degli esseri umani, benché chi vive l’offesa e la sussunzione quotidiana in modo inequivocabile sia portatore di un potenziale rivoluzionario ed emancipativo maggiore rispetto a chi vive il malessere della sussunzione, in modo non diretto, ma mediato dalle maschere del privilegio sociale.

La coscienza infelice

L’iperumanesino marxiano utilizza la contraddizione tra finito ed infinito, tra reale ed ideale, tra particolare ed universale quale motivazione profonda della prassi. La scissione è causa di conflitti sul piano sociale ed individuale, essa è il paradigma che svela la distanza dall’orizzonte ideale, dunque è la sostanza che muove la prassi. Il capitalismo assoluto nella forma attuale nega “la coscienza infelice”, la contraddizione, le scissioni le quali sono rese umbratili, fino a scomparire, per eternizzare la sussunzione con il nuovo oppio dei popoli: il consumo ed i suoi eccessi. La speranza rivoluzionaria e la rabbia sociale sono veicolate verso il consumo, per cui i popoli ormai plebi e masse informi si stringono e costringono in una esiziale lotta nella speranza del consumo totale. L’antiumanesimo del capitalismo assoluto agisce per celare, per ridurre il dolore a semplice sofferenza animalesca. Sofferenza senza dolore, poiché il dolore è la sofferenza non solo pensata, ma anche immaginata e vissuta come fonte di ispirazione per la progettualità comune. Il capitalismo assoluto ottunde con il piacere smodato pronto con il disincanto a ribaltarsi in sofferenza utilizzata come introito economico: è medicalizzata, è resa condizione ontologica che si deve imparare a sopportare, in tal modo ogni ordine del discorso finalizzato a riformare struttura e sovrastruttura è rimosso, non resta che il nichilismo passivo a cui ci si deve adeguare; l’antiumanesimo non ha fantasia, perché non ha coscienza di sè:

«Se Marx si fosse limitato a dicotomizzare i dominati e i dominanti, i proletari ed i borghesi, eccetera, avrebbe aggiunto il suo nome alla lunga lista dei perfezionatori della teoria della bollitura dell’acqua calda. Ma egli fece molto di più. Trasformò la scoperta della bollitura dell’acqua calda in filosofia universalistica dell’emancipazione umana, attraverso l’originale elaborazione idealistica della coscienza infelice della borghesia. Ho insistito molto su questo punto, a mio avviso ovvio ed evidente ma del tutto ignoto sia ai liberali che ai marxisti dogmatici, per far capire che la logica del capitalismo assoluto e totalitario in cui siamo sciaguratamente immersi oggi non tende tanto ad addomesticare il proletariato, instupidendolo con il panem (il consumismo). Capitalismo senza classi e società neofeudale ed i circenses (lo sport agonistico), quanto a superare la stessa cultura borghese, nella misura in cui quest’ultima era “inquieta”. Visto nella sua globalità, il cosiddetto postmoderno (con alcune sue ridicole appendici come la cosiddetta biopolitica) non è che un gigantesco (anche se grottesco) tentativo di spegnere gli elementi di coscienza infelice della cosiddetta “modernità”. Per questo la modernità (termine accademicouniversitario-mediatico per indicare il capitalismo) viene ridotta al cosiddetto “disincanto” (con l’appendice della liberalizzazione integrale dei costumi definita “politeismo dei valori”), laddove viene da essa sottratta e cancellata la coscienza infelice, che è stata all’origine del pensiero del borghese inquieto Marx. E’ facile capire tutto questo, e cioè che l’odierno capitalismo oligarchico teme maggiormente la coscienza infelice borghese del rivendicazionismo economico proletario? Per quanto mi riguarda è facile, ma dal momento che tutto l’apparato politicosindacale di “sinistra” ed il clero universitario di filosofia e di scienze sociali rema in direzione opposta, di fatto non c’è speranza a breve termine di un vero riorientamento gestaltico».[2]

La coscienza infelice, la consapevolezza delle contraddizioni fonda l’iperumanesimo materialista di Marx, umanesimo che muove dal conflitto, ma che agisce per la libertà e l’emancipazione dell’umanità e non solo di una parte.

Materialismo storico

Il materialismo storico letto quale processo evolutivo della storia predeterminato, è negazione dell’iperumanesimo di Marx. Se la linea evolutiva della storia è già decisa a priori, l’essere umano è solo un elemento secondario nel sistema economico e produttivo per cui da destra come da sinistra si è interni all’antiumanesimo dell’attuale sistema sociale ed economico. Il materialismo di Marx per Costanzo Preve è metafora della prassi, della struttura, dell’ateismo. Il materialismo marxiano è un forma di iperumanesimo, in quanto l’umanità consapevole della contraddizione tra la sua natura ed il modo di produzione è protagonista della storia, ogni “servo arbitrio deterministico” è sostituito con la fatica del concetto e dell’agire politico:

«Mentre il materialismo dialettico è solo una escrescenza inutile e dannosa (la filosofia di Marx non è il materialismo dialettico, ma un idealismo universalistico rigorizzato e coerentizzato), il materialismo storico è invece un “pezzo” indispensabile della sua concezione. Si tratta in realtà (almeno, questa è la mia opinione del tutto eretica) non certo di un materialismo storico, quanto di un idealismo storico universalistico rigorizzato, che viene chiamato erroneamente “materialismo” perché il termine “materia” è usato impropriamente in modo metaforico per indicare l’ateismo (Marx non credeva in Dio), il primato della prassi sulla semplice contemplazione della realtà sociale, e soprattutto il primato della struttura sulla sovrastruttura all’interno di un dato modo di produzione sociale. Detto in linguaggio militare, l’idealismo è la strategia e il materialismo è la tattica. Il discorso sarebbe lungo (ma l’ho fatto dettagliatamente altrove), ma qui è necessario interromperlo per ragioni di spazio. Mentre il metodo del cosiddetto materialismo storico (inteso come teoria della genesi, sviluppo, crisi e tramonto dei modi di produzione) non consentirebbe di per sé una grande narrazione unilineare predeterminata e teleologicamente necessitata, ma darebbe invece luogo ad uno sviluppo multilineare senza alcuna garanzia teleologica, se fosse ovviamente praticato con serietà “scientifica” e libertà interpretativa, il movimento comunista ha trasformato questa intelligente teoria in una stupida teoria dei cinque stadi prefissati della storia universale (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, ed infine comunismo finale visto come trionfo definitivo della “sinistra” contro la “destra”). Perché tanta inutile ed antistorica stupidità? Ma è semplice. Questa antistorica stupidità restaura in modo evoluzionistico-positivistico un elemento fondamentale del pensiero dei primitivi, e cioè il messianesimo teleologico garantito. Di “materia” non c’è in proposito che la testa dura degli zucconi che credono che la sacrosanta causa della critica al capitalismo abbia bisogno di raccontare (e di raccontarsi) delle storie inverosimili, inventandosi una linea ferroviaria a cinque stazioni in cui correrebbero i binari della storia universale. E tuttavia, gli zucconi resteranno tali finché non sarà assodato che la teoria». [3]

L’antiumanesimo si palesa nel messianesimo del marxismo dialettico, ma anche del capitalismo assoluto, in entrambi si concretizza nella forma del fatalismo storico. La condizione attuale del capitalismo assoluto è interna al determinismo della storia, dea astratta ed ingovernabile, che riporta l’umanità che si auto-percepisce evoluta, in quanto ipertecnologica, ma in verità regredisce ad uno stato primitivo, nel quale le forze ingovernabili della natura e della storia sono padrone e signore della società più smart che la storia abbia conosciuto. L’iperumanesimo di Marx è di ausilio per concettualizzare e razionalizzare le contraddizioni in cui si dibatte l’umanità: senza concetti non è possibile spezzare le catene visibili ed invisibili che tengono “il cane alla catena”.

Salvatore Bravo

[1] Costanzo Preve, Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx, pubblicato in Costanzo Preve – Eugenio Orso, Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla struttura di classe del capitalismo contemporaneo, Petite Plaisance, Pistoia, p. 5

[2] Ibidem, p. 6.

[3] Ibidem, pp. 8-9.

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