Autore: ppci
Carmine Fiorillo – Crisi è decisione vitale, giudizio totale
Crisi viene dalla parola greca – eminentemente polisemica – krísis,[1] la cui radice è collegata al verbo kríno, anch’esso ricco di molteplici significati.[2]
È ben vero che crisi, anche in greco antico, connota un significativo e improvviso cambiamento, in senso favorevole o sfavorevole, che avviene nel decorso di una malattia. Individua altresì un accesso improvviso, un fenomeno violento, per lo più di breve durata (crisi isterica, crisi nervosa, crisi di pianto; anche: crisi di rigetto). In senso figurato, con riferimento alla singola persona, si dice appunto essere in crisi, di chi viva un momento difficile (crisi di coscienza, crisi spirituale, crisi religiosa, crisi adolescenziale, crisi matrimoniale); con riferimento alla vita di una collettività (crisi sociale), il turbamento vasto e profondo di una società (si pensi, tra gli altri, a testo di Huizinga La crisi della civiltà). L’espressione crisi economica è ormai diventata nell’uso corrente semplicemente crisi. Si parla anche di crisi parlamentare, crisi ministeriale, crisi politica, crisi costituzionale, crisi istituzionale, crisi sindacale, crisi energetica, crisi ecologica, crisi culturale. È parola davvero inflazionata.
Domandiamoci perché nel tempo si è andata perdendo la consapevolezza del senso originario più pregnante di crisi, come decisione e giudizio, come «decisione vitale» e «giudizio totale»? Forse proprio perché la filosofia, come la poesia,[3] vorrebbe essere ridotta alla stregua di mera «comunicazione», una «informazione» come un’altra. Preferiamo, anche per la parola crisi, tornare alle radici e rifarci a Eschilo,[4] a Sofocle,[5] a Platone: kríno tò aletés te kaì me,[6] a Omero,[7] a Senofonte .[8]
A chi le domandava se oggi si può parlare di “poesia in crisi” e di “poesia della crisi”, una delle più profonde voci poetiche del Novecento, M. Guidacci, rispondeva: «Per me ogni clausola determinativa aggiunta al nome “poesia” è fortemente riduttiva. Bisognerebbe accostare questi due termini: poesia e crisi; facendo sentire che è solo un accostamento nel tempo (con innegabili rispecchiamenti), ma non una fusione, la poesia resta crisi. A meno che non si ricorra, anche questa volta, al senso greco, crisi=decisione, giudizio; nel qual caso l’idea di poesia-crisi mi piace moltissimo: la poesia è una decisione vitale e un giudizio totale, tridimensionale sull’universo, poiché costituisce essa stessa un accrescimento di tutto ciò che esiste» (in: “Riscontri”, n. 3, luglio-settembre 1980, pp. 117-119).
Chi si pone delle domande e si interroga sui criteri di valore della filosofia e della poesia (momento valutativo della critica) oggi è fatto oggetto di scherno. Crisi della filosofia? Crisi della poesia? Meglio parlare di cedimento catastrofico, a partire dagli intellettuali. Per la filosofia come per la poesia continua ad essere valido lo Stirb und Werde, il «muori e diventa» goetiano. Crisi è per me decisione, giudizio: la filosofia è decisione vitale, giudizio totale.
Carmine Fiorillo
Note
1 forza distintiva, separazione; scelta; elezione; giudizio, decisione, sentenza; esito, risoluzione, evento, riuscita.
2 distinguo, scevero, secerno, separo; scelgo, preferisco; decido, giudico; fo entrare in fase decisiva o critica; stimo, penso, credo, giudico, dichiaro.
3 poíesis è l’arte poetica, la poesia, come ci dice Platone (Gorgia 502); poiéo significa: fo, fabbrico, costruisco, lavoro, fo con arte, compongo, scrivo in versi. In latino i versi erano chiamati carmina e la parola carmen è assimilabile al sanscrito karma. La radice sanscrita kri, da cui viene karma, si ritrova nel verbo latino creare e ha lo stesso significato del verbo greco poiéin, cioé fare, lavoro in cui si racchiude ad un tempo l’umano e l’arte, e da cui deriva poíhsis, poesia, un “fare” operoso che è conoscenza di sé e del mondo, canto “cultuale” che è una ri-creazione del cosmo.
4 «Nel giudizio degli Dei»; Eschilo, Agamennone 1288]; k. aftonon olbon [preferisco una felicità che non desta invidia; Eschilo, Agamennone 471].
5 «Quando si tratta di scegliere fra uomini giusti e virtuosi»; Sofocle, Filottete 1050].
6 «Distinguo il vero e ciò che non è tale»; Platone, Teeteto 150.
7 «Sceverare al soffio dei venti il grano e la pula»; Omero, Iliade 5, 501.
8«Distinguere i buoni dai cattivi»; Senofonte, Memorabilia 3, 1, 9.
Mario Brunello – «Silenzio», Il Mulino, 2014. «Più penso al silenzio e più la musica mi parla»
Mario Brunello
«Silenzio, parola controtempo: il silenzio sta fuori del tempo, fuori dal suo gioco, fuori dal sopravvenire del tempo. Il controtempo viene a sorprendere il tempo nella sua inerzia, che lo spinge verso un’unica direzione. Il silenzio prende controtempo il tempo. In musica il controtempo si prende lo spazio cosiddetto “debole” della battuta, ma è lo spazio che dà la libertà all’esecuzione, che dà la libertà di un “rubato”, sia con il suono sia con il silenzio.
Anche nella scansione del tempo data dal ticchettio dell’orologio, il silenzio è in controtempo, e se la scansione è lenta il silenzio che intercorre può essere infinito. Il battere del tempo riporta alla realtà, il silenzio controtempo lascia spazio al sogno.
Il silenzio, per prendere in controtempo il tempo, si presenta in ogni momento del giorno, ma il succedersi frettoloso degli eventi lo pone in ombra.
Scrivo la parola “silenzio” per metterlo in controtempo, per ascoltarlo, come questo libro che è più da ascoltare che da leggere. Nel silenzio.
Lo stesso silenzio, che assomiglia di più alla “cura” con cui si preparava l’ascolto di un trentatré giri, un LP, su un giradischi. Non so quanti lo ricordano. Provo a ripassare mentalmente i passaggi e i gesti di quell’ascoltare privilegiato, la possibilità di ascoltare la musica in casa, preceduta da un rituale in un certo senso silenzioso. Dedicarsi a una sola cosa, senza preoccuparsi del tempo richiesto.
Senza pretendere che quell’atto abbia più di un risultato, nessun collegamento a link, playlist, siti senza luogo nel mondo o condivisioni di “mi piace” con sconosciuti.
L’ascoltare è da molto tempo ormai collegato al vedere o, peggio, al fare; l’ascoltare è strettamente collegato a un’altra azione.
Il vinile prevedeva prima di tutto un tempo per una scelta, ponderata, molto spesso premeditata e pregustata, in quanto si era consapevoli del tempo e della quantità di azioni che l’ascolto del disco metteva in moto. Era previsto anche uno spazio fisico ben preciso in casa, una specie di rifugio musicale dove, oltre alla postazione di ascolto, c’era anche il posto fisso per il giradischi e per stivare i dischi. Ora lo spazio musicale è trasportabile facilmente, ricreabile direttamente intorno o dentro le nostre orecchie, e la scelta passa attraverso un touch screen dalle infinite possibilità di collegamenti. Era prevista anche la cura dell’oggetto, la pulizia dei solchi entro i quali magicamente la musica veniva scritta e letta poi dalla puntina, delicatissima estremità di un ancora più delicato braccio. Con gesto lento e calibrato bisognava accompagnare il braccio del giradischi a posarsi sul vinile in movimento e soprattutto c’era, una volta messo in pista, l’invito implicito a non assentarsi ma ad aspettare la fine del disco e perciò stare ad ascoltare. Prendersi volutamente uno spazio e un tempo per ascoltare.
Tra ciò che mi ha spinto a scrivere sul silenzio vi è proprio il ricordo di questi gesti. Il silenzio è un tema talmente sconfinato e profondo: il mio sguardo è certo parziale, ma privilegiato. È quello di chi il silenzio lo usa e vive quotidianamente come materia prima. Circoscritto nell’ambito musicale, mi è sembrato un tema di grande stimolo.
Prendermi cura del silenzio che incontro ogni giorno nella musica che faccio, cercare di descriverlo e comprenderlo, mi ha riportato ai gesti e alla considerazione necessari all’ ascolto di un vinile, come ricordato sopra. Ho immaginato di offrire un momento di “ascolto” più che una lettura. Una serie di riflessioni “lente” che, come la musica, hanno bisogno di tempo.
Il libro è suddiviso in quattro movimenti, da “ascoltare” come una Sonata: il primo movimento in forma sonata nella sua tipica struttura di esposizione, sviluppo, ripresa e coda, il secondo in forma di Lied, il terzo uno Scherzo, e un Finale con Tema e Variazioni.
Come dire “il silenzio non si legge, si ascolta”».
Mario Brunello, Silenzio, Il Mulino, 2014: Premessa, pp. 7-11.
Recensioni:
Oliviero La Stella, Il suono del silenzio
Eric Jarosinski – Per cambiare la realtà serve molto più che un “mi piace”
«Per quanto riguarda la Rete non credo che Internet cambierà la realtà. Sono stato un attivista, ho usato il telefono, le mailing list, gli sms, i primi social media per pubblicizzare sit in, manifestazioni. Sono però persuaso che senza un rapporto vis-à-vis non riuscirai mai a convincere una persona a partecipare ad una manifestazione. Se viene meno questo rapporto in presenza, puoi raccogliere molti “mi piace” o il tuo tweet potrà essere rilanciarto, ma nessuno si impegnerà in prima persona. Tra i miei follower ci sono giornalisti impegnati, attivisti, tecnici critici dei media, ma questa comunità dei senza più comunità rimane relegata alla Rete. Per cambiare la realtà serve molto più che un “mi piace”».
Eric Jarosinski, il manifesto del 27-10-2015, p. 8.
Giuseppe Ungaretti
Elsa Morante
Alber Anker (1831 – 1910)
Lev S. Vygotskij – Diventiamo noi stessi attraverso gli altri. La cultura è il prodotto della vita sociale e dell’attività collettiva dell’uomo
Lev S. Vygotskij, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, 1960 (tr. it. 1974)
Umberto Fava – Il quadrifoglio di Medea. Racconti. La mia tetralogia dal Po all’Acheronte
Umberto Fava, Il quadrifoglio di Medea. Racconti. La mia tetralogia dal Po all’Acheronte.
ISBN 978-88-7588-125-2, 2014, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 12 – Collana Egeria [17]. In copertina: Pietra dal profilo antropomorfo raccolta sulla montagna di Itaca. Fotografia di Massimo Bersani.
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Le confessioni di un vecchio amanuense
Ci sono dei momenti in cui mi vien voglia di scrivere qualcosa del tipo La morte di un commesso viaggiatore raccontata da Arthur Miller, rivoltandola – un mestiere vale l’altro – ne La morte di un vecchio amanuense. Insomma, la storia di una sconfitta, di un fallimento.
Più che la parola morte, mi costa usare la parola vecchio. Ma sempre meglio vecchio che anziano. Vecchio mi fa venire in mente Re Lear, il Sior Todaro Brontolon, il servo Firs del Giardino dei ciliegi. Anziano chiama il ricovero e la badante.
Come ci si sente essere arrivati a 70 anni suonati e finire come Willy Loman alla deriva? Che bello arrivare a 70 anni e passa e accorgersi di ritrovarsi alla fine come al punto di partenza. Magari è vero come scrive Eliot nei suoi Quartetti che finire è iniziare. Ma io non ho più tempo per ricominciare, non ho più 16 anni.
Sì, non ci si sente al massimo scoprirsi dei Nessuno, di cui «non c’è libraio che ne conosca l’esistenza», per rubare un’efficace espressione di Margherita Guidacci.
La cosa per la verità non dovrebbe inquietarmi: da molti anni ho fatto col mio orgoglio un giuramento, da molto tempo ho qui davanti a me sullo scrittoio, scritte nero su bianco, le parole di Cesare Pavese che ho scelto come mio stile di vita: «[…] e soprattutto il coraggio di starsene soli come se gli altri non esistessero».
Ma ero ingenuo. Sapevo di non dovermi fare illusioni, neppure una. Tranne quella di riuscire a vivere senza illusioni.
Sì, solo lo sono, ma non sono stoico abbastanza. Chi non è fatto di ferro ne esce tramortito. Gli scrittori sono come la mafia, e come la mafia si ammazzano fra loro. Avrei dovuto saperlo quando ho preso la prima volta in mano, da ragazzo, la penna. Anche di questo però dovrei infischiarmene, dal momento che io non sono uno scrittore, ma uno che scrive. Insomma un amanuense.
Sì, io non sono né stoico né coraggioso. Almeno non coraggioso abbastanza per far la fine di Willy Loman. In compenso sono orgoglioso. Ma di che orgoglioso? D’essere un uomo fuori gioco, fuori scena, fuori tutto, un autore dietro le quinte?
Orgoglioso che in scena ci sono almeno i miei personaggi.
Vi piace Wagner? Per me è un grande ammaliatore. Ebbene, io mi sento, con sconfinato orgoglio, un piccolo Wagner. Nell’epoca delle romanze, dei duetti e degli acuti, lui suonava altra musica, infischiandosene degli acuti, dei duetti e delle romanze. Nell’epoca delle crisi di coppia, della coppia che scoppia, della coppia che non è più una coppia, degli amoretti e degli amorazzi, delle mille sfumature della volgarità, delle mille storielle borghesi da salotto o da tinello, delle sdolcinature sentimentali sentite e risentite un milione di volte in tutte le salse, insomma dell’imperativo categorico di essere alla moda o sparire, io non sparisco e orchestro alla Wagner altre melodie, cerco il nuovo e l’originale, strade non battute, guardo ai grandi del passato, ai maestri di sempre.
E nell’epoca delle trilogie, scrivo la mia Tetralogia di racconti, come Wagner compose la sua Tetralogia dell’Anello del Nibelungo che dedicò a Schopenhauer, che a sua volta compose Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente. Ed Eliot compose in poesia i Quattro quartetti e Vivaldi in musica Le quattro stagioni e Beethoven in piena sordità gli estremi cinque Quartetti per archi, per i quali Proust parlò di «fascino inebriante» e «divino mistero» e «non tutte note adatte a orecchie umane».
Che anche le cose che scrivo io non sembrino adatte ad orecchie umane? Potrebbe darsi. Dico allora che, volendo, le mie cose si potrebbero anche intitolare Dialoghi tra sordi – tra me e gli altri – come lo sono stati a suo tempo gli ultimi Quartetti per archi di Beethoven. Solo che ora non saprei dire chi è più sordo, se io e Beethoven o gli altri.
Ora dico solo che non c’è il tre senza il quattro. Sul quadrifoglio che la mia Medea tiene fra le labbra, il quadrifoglio che ha raccolto fra l’erba della riva del Po, sulle quattro foglioline sono scritti (ci vuole occhio per vederli, come ci vuole occhio per vedere la nave Argo navigare su queste acque), ecco su ciascuna delle quattro foglioline è scritto un titolo della mia tetralogia, Presso un fiume stranier, Senza titolo, Bella ciao e Prima del diluvio. È su questa antica terra Ausonia che è venuto su un quadrifoglio così, che racconta storie come l’aedo Omero.
Sono moltissimi, i più, quelli che oggi non si sono accorti che la nostra epoca è quella in cui i morti sorreggono i vivi. I morti, sì, gli uomini antichi come Omero, le loro parole, le loro opere, le loro idee, i loro sogni.
A me piace essere inattuale come Socrate e come Nietzsche, che appunto si divertì a scrivere le sue quattro (anche lui con la sua “tetralogia”) Considerazioni inattuali.
Mi piace essere solo ed essere fuori dal mio tempo come lo fu Wagner al suo tempo. Non mi piace essere moderno, se il moderno dura cinque minuti.
Mi piace essere estraneo a questa mia città, anche se pago cara questa mia ostinata estraneità.
In Germania lo chiamavano Deutsche Misere, il Destino Tedesco; Thomas Mann si definiva «disperatamente tedesco»; Arthur Rimbaud parlava di «disgusto dell’Europa»; Paul Celan soffriva di «solitudine ebraica».
Avessero provato Mann, Rimbaud, Celan il destino, la disgrazia, la disperazione, il disgusto, la solitudine d’essere piacentino. Di Piacenza si muore come si muore di cancro.
Piacenza sul Po non è una grossa città. È più grossolana che grossa. E amara. Allora per addolcirmi la bocca penso alla dolcezza della Petite Plaisance sull’oceano, quella di Marguerite Yourcenar là sulla sperduta isola di Mount Désert, là nel lontano Maine, nel grande Nord degli Stati Uniti. Petite Plaisance si chiamava la sua casa fra la costa dell’America e la distesa dell’Atlantico.
Provate a ripetere più volte, cinque, dieci volte, adagio, Petite Plaisance, e ad un certo punto vi sembrerà un frusciare d’acqua, sembrerà di sentire scorrere – su queste due scorrevoli parole – l’onda del mare, la risacca scivolare e sciogliersi sulla riva.
La corrente del mio Po a Piacenza che, indifferente a queste rive, va verso il mare non potrebbe, con la monotonia della sua unica nota, un interminabile doooo…, un’infinita nota che è anche più lunga di quel lunghissimo accordo in mi bemolle maggiore che dagli archi passa ai corni e poi all’orchestra e che introduce L’oro del Reno che introduce a sua volta la wagneriana Tetralogia, ecco quel monocorde dooooo… del mio Po non potrebbe mai ispirare nessun musicista.
Invece la Piccola Piacenza della Yourcenar ha ispirato l’editrice di Pistoia che ha adottato il suo nome. Un nome e un disegno, quello della cicogna di Karen Blixen.
Talvolta si vede, tra il Po, l’Adda e la Trebbia, volare la cicogna. Forse è la cicogna della Blixen di passo su queste campagne e sopra questi campanili. Non porta bambini, ma libri. Insomma, in un modo o nell’altro porta la vita. Meglio dell’Araba Fenice. Che vada fino alla costa del Maine, alla casa solitaria della Yourcenar? Impossibile? Ci sono arrivati i Vichinghi volando sulle navi. Ci possono arrivare le cicogne solcando i cieli. E poi… Chi non spera quello che non sembra sperabile… dice Eraclito. No, chi non spera l’insperabile non potrà mai scoprirne la realtà né vedere realizzati i suoi sogni né trovare Mount Désert.
Ho troppi grilli e fantasie per la testa? Ho letto troppi libri come Don Chisciotte? Mi son bevuto il cervello bevendo le tante frottole dei poeti? Leggere un buon libro è come bere una buona grappa. Entrambi possono dare alla testa. Per questo non solo nella Biblioteca d’Alessandria e sulla Opernplatz di Berlino hanno fatto falò di libri. Anche gli amici di Don Chisciotte l’hanno fatto. Sì, c’è chi pensa di rinsavire gli uomini facendo così. Il matto può anche rinsavire, ma il sognatore?
Ma ci sono casi disperati come il mio. Perché? Ho letto troppi libri? No, più che altro ho letto – al di fuori degli strepiti e dei clamori della città – molti alberi, molti monti, molti cieli, molte nubi. Il mondo non finirà finché ci saranno uomini che leggeranno libri fra le cui pagine di carta passa il soffio dell’aria e del cielo. E per profumarli ancora più di vita, metto fra le pagine come segnalibri una foglia di noce staccata dal ramo, una penna di gazza caduta dal cielo.
Passato da lettore ad autore, mi sono sentito in certo qual modo storico fuori tempo del mio tempo, raccontando storie e fantasmi, paure e sogni della mia epoca, il mito e la vita.
Dov’è la favola, dov’è il mito, dov’è il simbolo, dov’è la realtà?
Con questa progressione di sferzanti domande Pavese assaliva un amico scrittore che gli aveva mandato un romanzo in lettura.
Se queste domande Pavese le facesse ora a me, risponderei con la sconfinata superbia di prima: sono qua, in queste mie 110 pagine.
Si narra che una volta il poeta John Keats ad una cena con amici alzando il calice per un brindisi inaspettatamente disse: «Sia maledetta la memoria di Newton».
Gli amici ammutolirono. Perché maledetto il povero Newton? Perché, spiegò Keats, con la sua scoperta della rifrazione della luce nel prisma gli aveva rubato l’incanto dell’arcobaleno. Allora tutti d’accordo nel maledire Newton.
Cosa dovrei dire io, allora, di chi mi ha rubato l’incanto della Luna, quegli astronauti che coi loro mostruosi scarponacci di ferro hanno lasciato segni sulla sua delicata pelle. Io innamorato deluso della Luna, la quale è invece tutta persa dietro a bel Endimione. Lei, chiara e irraggiungibile, anche se mi appare – nell’ultimo dei racconti della mia Tetralogia – in fondo al mio bicchiere d’ubriaco, bella e stretta nella sua alta cintura da dea, a cui non posso neanche dire: “Ciao, Luna. Ci vediamo stasera al solito posto”.
Sogno d’amore col pianoforte di Liszt o Sonata al chiaro di Luna col piano di Beethoven, Quadrifoglio o Tetralogia, Commedia o Tragedia, Quartetti o Poemetti, come vi piace. Per me è una sfida alle convenzioni e ai conformismi e alle mode e alle pigrizie di chi si crede mio contemporaneo, ma non lo è. Dato che io, a differenza d’altri, voglio essere contemporaneo non dell’effimero e della moda, ma del duraturo. Di gente giovane quanto meno come Omero. O come la Luna quando c’è la luna nuova.
Dal Po all’Acheronte, che è quasi come dire da me ad Omero, da qui all’eternità.
Umberto Fava