Donato Sperduto – Agire o lasciar fluire? Emanuele Severino e Carlo Levi a confronto

Carlo Levi

Introduzione
Sia nei suoi scritti che nella  vita reale, lo scrittore torinese Carlo Levi ha sempre messo in relazione la dimensione ‘teoretica’ con quella ‘pratica’. Non si è ad esempio limitato a scrivere contro il fascismo, ma si è anche concretamente impegnato contro la persistenza di tale regime in Italia invitando gli italiani a non avere paura della libertà (non a caso Paura della libertà è il titolo del primo libro da lui scritto).
Anche il rinomato pensatore bresciano Emanuele Severino vede una correlazione tra ‘teoria’ e ‘pratica’, tra fede nel divenire e «nichilismo dell’Occidente». La celebre affermazione severiniana1 dell’eternità di ogni essere «sembra comportare di diritto la più radicale riforma antropologica»2. Infatti, tra etica ed ontologia esiste un legame inscindibile nel senso che ad una determinata toeria sull’essere segue una precisa dimensione antropologica. Ed è lo stesso Severino a ritenere che il pensare determina l’azione. Egli ha in effetti evidenziato le implicazioni etiche della concezione nichilistica dell’essere.
In questo mio lavoro scandaglio gli aspetti centrali del pensiero severiniano e di quello leviano mettendoli a confronto con l’intento di elucidare i punti che li avvicinano e che valorizzano anche il pensiero di Carlo Levi, il rinomato romanziere italiano autore anche di opere teoretiche ingiustamente trascurate.

1. La fluidità del tutto
Il filosofo bresciano ritiene che non tenendosi fermo all’estrema contrapposizione dell’ente e del niente, il pensiero occidentale ha smarrito il senso dell’essere, l’ha alterato e dimenticato, e così è caduto nell’estrema contraddizione, ha ammesso l’assurdo: che il non-niente (l’ente) è niente. Questo è avvenuto perchè quell’opposizione non è stata fatta valere necessariamente, assolutamente, ma è stata limitata temporalmente. Il nichilismo consiste proprio nella nientificazione di ciò che è, nella persuasione che l’essere divenga (esca dal nulla e ritorni nel nulla), potendo pertanto  non essere, e conseguentemente nella prassi (la volontà di pontenza) che scaturisce da questo convincimento.
Severino avvalora la sua tesi del nichilismo dell’Occidente rifacendosi ai filosofi  greci. Infatti, una volta escluso che il senso della cosa sia metastorico, ossia che non «sia apparso ad un certo momento» della storia umana (SFP, p. 369), egli afferma che il senso (nichilistico) della cosa è stato portato alla luce dalla metafisica greca (marcatamente da Platone).
La civiltà occidentale ha obliato il senso dell’essere, perchè ha voltato le spalle all’eternità dell’essere, affermata da Parmenide. A questo proposito, il motto di Severino è‚ appunto, «ritornare a Parmenide».
La fatidica affermazione della temporalità dell’ente ha dei risvolti etici. Allora quando si è persuasi che l’ente è nel tempo, «la nascita del progetto di dominio e di sfruttamento dell’ente non solo è possibile, ma è inevitabile» (AT, p. 31). Consistendo la volontà di potenza nella volontà che l’ente sia nel tempo, la caratteristica essenziale della civiltà occidentale non può che essere proprio la volontà di potenza.
Severino approfondisce questa tematica ricorrendo significativamente alla metafora del mare proprio perché il divenire esprime «la fluidità del mondo» (LeC, p. 122). Come per navigare occorrono le imbarcazioni, e prima ancora il mare, e, anzi, prima di tutto, che si creda nell’esistenza del mare, così per dominare il mondo occorrono degli strumenti, e prima ancora la dominabilità del mondo, e, «anzi, prima di tutto, che si creda nell’esistenza della dominabilità e flessibilità del mondo; occorre la fede nell’esistenza del dominabile» (FF, p. 109). Ora, essendo il mondo dominabile in quanto fluidità o divenire (le cose escono dal nulla e ritornano nel nulla), gli abitatori del tempo manipolano, producono e distruggono la totalità delle cose, perchè hanno fede nel divenire (nella fluidità) dell’ente, perchè credono di vedere questo divenire. Sì che, se il divenire dovesse risultare impossibile e non evidente, tale dovrà risultare anche il dominio del mondo. Ma allora, credendo nell’impossibile e agendo in base a questa fede (che però non è considerata una fede dall’abitatore del tempo), non sarà azzardato affermare che sulla terra domina ormai la follia estrema, che «la storia della nostra civiltà è la storia della follia estrema» (T, p. 218). Ed è proprio a questa conclusione che Severino perviene evidenziando la tesi della fluidità del tutto propria, a suo parere, al pensiero occidentale (ma, da quanto scrive, anche a quello orientale).

2. La distruzione degli immutabili
La volontà di potenza è incarnata dalle due fondamentali espressioni del nichilismo metafisico: Dio e la tecnica (EN, p. 183). Questi due “tecnici supremi” sottopongono ad una dominazione illimitata tutte le cose. Ma oramai «Dio è morto» ed è la tecnica ad esercitare questa dominazione illimitata. Come si spiega la morte del «vecchio re»? Per rispondere a questa domanda bisogna tener conto dell’interpretazione che Severino dà della storia del pensiero occidentale e che può essere definita così: inevitabile evocazione e distruzione degli immutabili.
I pensatori greci3 hanno inteso il divenire come l’uscire dal niente e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo. Ma la fede nel divenire delle cose implica l’imprevedibilità del divenire e questa imprevedibilità genera terrore. Tutto ciò che diviene irrompe nel mondo ed incomincia ad essere, è stato un niente. Ed «è proprio per questo suo essere stato un niente che ciò che irrompe nel mondo è assolutamente, infinitamente imprevedibile […]; e quindi è la minaccia estrema rivolta alle cose esistenti» (LC, p. 23). Per difendersi dall’angoscia del divenire gli abitatori del tempo, a partire da Eschilo, hanno predisposto come rimedio del dolore la verità, l’epistème, ossia «ciò che sta, imponendosi su ogni negazione che vorrebbe travolgerlo» (L, p. 164) e su ogni divenire (FF, p. 12). L’immutabile è quindi il rimedio del dolore. Ma, come ha visto Nietzsche, «il rimedio è stato peggiore del male» (FC, p. 11). La civiltà della tecnica ha così dovuto distruggere l’immutabile perchè rende impossibile il divenire. L’immutabile, infatti, «è il senso prestabilito al quale ogni sopraggiungente deve adeguarsi e nel quale ogni sopraggiungente è anticipato» (AT, p. 123). Ma, una volta anticipato, ciò che diviene non esce dal niente, bensì dalla propria anticipazione. Allora il niente non è più niente (viene cioè entificato) e il divenire diventa apparenza.
Morto Dio, il nuovo rimedio, cioè la scienza e la tecnica, quest’ultima essendo la scienza applicata all’industria, hanno preso il suo posto. Col suo carattere ipotetico, la previsione scientifica riesce a dominare realmente il divenire, riconoscendone l’imprevedibilità. Ma questo non vuol dire che, con l’eclissi dell’epistème, non sia rimasto alcun immutabile. L’unico immutabile che non è stato distrutto dal divenire è «la fede nell’evidenza del divenire», perchè, come ha visto l’attualista Giovanni Gentile, è «quell’unico immutabile che consente al divenire di mantenersi aperto come divenire» (AT, p. 123). Tuttavia, restando all’interno della fede nel divenire, nemmeno scienza e tecnica possono liberare dal dolore (FF, parte IV).
Per Severino si presentano in questo modo almeno due problemi cruciali. Da una parte l’uomo contemporaneo non può più trovare rimedio al dolore nell’Ente eterno, dall’altra si prospetta la mancanza di una vera via che permetta all’uomo di liberarsi dal dolore. Inevitabile porsi la domanda decisiva e darle una risposta fondata: cosa bisogna fare per poter esser felici?
Come vedremo, in Severino ogni sopraggiungente, quindi anche l’alienazione della verità, non è qualcosa che sarebbe potuto non apparire, ma qualcosa destinato ad apparire. Si pone allora il problema del tramonto dell’«isolamento della terra». Cosa si deve fare affinchè tramonti l’isolamento della terra (ossia il mondo del mortale separato dal destino della verità)? La soluzione del problema non può però emergere dalla risposta a questa domanda, anzitutto perchè la domanda: “Che fare?” sorge e trova risposta «soltanto all’interno della fede originaria in cui consiste l’isolamento della terra» (DN, p. 405). Non è restando all’interno dell’alienazione della verità che si può uscirne! La salvezza della verità, che è l’autentico significato del tramonto del nichilismo e dell’isolamento della terra, non è il risultato di una “mia” o “nostra” impresa.
«Nell’orizzonte della verità, “io”, “tu”, “noi” non dobbiamo far nulla» (DN, p. 407). Ma questo non vuol dire che, se «tutte le cose sono e divengono necessariamente», «non occorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni, nè che ci sforzassimo laboriosamente» (Aristotele, De interpr., 18b 31-33). Per Severino, neanche con questo modo di pensare si esce dal terreno del nichilismo. «Chi è convinto che non gli rimane altro che incrociare le braccia – chi cioè è convinto di poterle incrociare e di poter rinunciare ad agire –‚ se tutto accade necessariamente, costui è convinto di essere libero di incrociarle e di rinunciare ad agire, e isola dal Tutto la dimensione delle proprie decisioni» (DN, pp. 447-448). Se il tramonto del nichilismo e dell’isolamento della terra è destinato ad accadere, non solo non si deve far qualcosa, ma non si deve nemmeno rinunciare ad agire – e tanto meno ricorrere all’“attendismo”.
La verità non è qualcosa che deve essere messo in pratica; la liberazione dal dolore del mortale non è quindi la salvezza del mortale, ma ne è il tramonto. «All’essenza della verità non appartiene dunque la domanda: “Che cosa si deve fare?”, ma la domanda: “Che cosa è destinato ad accadere?”» (SFP, p. 32; cfr. anche G, pp. 73-78). Nel destino della verità, ogni cosa si inoltra nel cerchio dell’apparire necessariamente, con un ordine immodificabile e insostituibile. L’isolamento della terra e il nichilismo, che appaiono all’interno della verità dell’essere, non possono non accadere.

3. L’eternità dell’essere
Mi pare opportuno, a questo punto, esporre succintamente i tratti essenziali del pensiero severiniano dell’eternità dell’essere ovvero di quella che vorrei chiamare la metafisica futile di Severino. Ecco a quale conclusione conduce l’argomentazione severiniana ancorata al principio che l’essere è necessariamente se stesso: è immediatamente autocontraddittorio affermare che qualcosa non sia, che si dia un tempo in cui l’essere non sia (che l’essere non sia sé, ma il suo opposto); allora all’essere – e alle sue determinazioni – conviene immediatamente l’essere. «Risiede nel significato stesso dell’essere, che l’essere abbia ad essere» (SO, p. 317) e dunque non si può non dare «l’identità dell’essenza con sé medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza)» (ibid.). L’essere non è dunque indifferente a che sia o non sia e la negazione di proposizioni del tipo «L’essere (l’intero) non diviene» («L’essere è immutabile») e «L’essere (l’intero) non si annulla, e non esce da una iniziale nullità» «è intrinsecamente contraddittoria» (SO, p. 519). La verità dell’essere, la struttura originaria della verità è appunto l’essere (l’eternità) dell’essere ed è l’apparire dell’autonegazione della negazione della verità. Propria alla metafisica futile è, dunque, la “confutazione” (l’élenchos) della negazione della verità dell’essere (del resto sia in ‘futile’ che in ‘confutare’ è presente la radice latina FU, ‘versare’). Autonegandosi, la negazione lascia stare ciò che nega. Se si tiene presente che il verbo latino destino, costruito sulla radice sta, esprime «il senso fondamentale dello “stare”» (DN, p. 131), in questo senso si può parlare di «destino della verità», per indicare  che ciò che la verità dice non può essere rimosso, smentito, e che ogni ente, persino il più insignificante, è già da sempre e per sempre sollevato nell’essere (DN, pp. 124-125).
Tutto è eterno, tenendo presente che per Severino «l’eternità di ogni ente è l’eternità di ciò che esso è nel modo in cui lo è» (DN, p. 99). Tuttavia, tutto è eterno e ogni cosa appare e scompare. Ma quest’ultima affermazione non vuol significare che tutto diviene (appare e scompare). Vi possono essere divenire e percezione del divenire soltanto se “qualcosa” non diviene. Quel qualcosa di immoto è l’apparire trascendentale: ciò che sopraggiunge e esce dallo sfondo dell’apparire (ovvero dall’apparire trascendentale) non esce dal niente e non vi ritorna. Dunque, per Severino «il divenire che appare è sempre il divenire di una determinazione particolare, o “empirica”, del contenuto che appare» (EN, p. 98). Se l’apparire empirico (l’apparire di una determinazione particolare) entra ed esce dall’apparire, l’apparire inteso «come evento trascendentale, ossia come l’orizzonte della totalità di ciò che appare» (ibid.), non può apparire e scomparire. Gli enti possono apparire solo in quanto appare l’intramontabile cerchio, l’apparire trascendentale. Allora, divenendo, l’apparire empirico entra ed esce dall’apparire trascendentale, esce dall’ombra del non apparire ed entra nella luce dell’apparire (e viceversa). La totalità dell’ente (il Tutto) appare, quindi, processualmente, non si svela totalmente nell’apparire trascendentale (l’«eterno» severiniano non è pertanto atemporale). E in G Severino afferma poi che «il cerchio originario dell’apparire del destino esiste in una molteplicità di cerchi.» (G, p. 37)

5. Libertà e necessità
Una volta affermato che qualcosa si inoltra non nell’essere, ma nell’apparire, ossia che le variabili sopraggiungono ed escono dall’intramontabile cerchio dell’apparire, Severino deve risolvere un altro problema squisitamente filosofico: il problema della libertà. Esso può essere posto in questo modo: «le varianti seguono un destino necessario, nel processo del loro apparire e sparire, oppure appaiono, ma sarebbero potute non apparire e scompaiono ma sarebbero potute non scomparire? » (EN, p. 164). È con DN, che costituisce una notevole ‘svolta’ nel pensiero di Severino, che sopraggiunge nel cerchio dell’apparire il risolversi del problema della libertà.
In DN (e prima ancora in AT, pp. 108-111) viene testimoniata l’appartenenza della libertà all’essenza del nichilismo. Proprio con quest’affermazione inizia il cap. 1 di DN: «La libertà appartiene all’essenza del nichilismo, ossia all’alienazione che, completamente inavvertita, guida e domina lo sviluppo della civiltà occidentale» (DN, p. 19). Se la contingenza dell’ente  deve essere esclusa, perchè, oltre ad ammettere la possibilità che l’essere non sia, riferisce un predicato a qualcosa che non appare, e quindi tale riferimento non può esprimere un contenuto fenomenologico, proprio per questo stesso motivo si deve escludere la contingenza dell’apparire. Severino afferma, quindi, categoricamente che «Non solo ogni decisione è eterna e tutto è già da sempre deciso, ma le decisioni che appaiono sono il destino necessario della storia e nulla accade che non sia l’accadimento del destino» (DN, p. 94). Tutto ciò che accade (anche la follia dell’Occidente) è inevitabile, necessario. «Non esiste alcuna cosa che possa sfuggire alla necessità : perchè lo sfuggirle è il negarla […] e il negarla è autonegazione» (DN, p. 124). A differenza della libertà (l’esser disponibili all’essere e al niente), la necessità non è l’essenza della servitù (non è una costrizione): «il cuore di ogni cosa è la necessità stessa della verità, che dunque non ostacola e non imprigiona le cose, ma è il luogo in cui esse sono tutto ciò che possono essere» (ibid.). Il discorso di Severino non è‚ quindi, assimilabile al fatalismo. Nel cuore della libertà – o della contingenza – dell’ente sta invece la nientità dell’ente (DN, p. 120). Tutte queste affermazioni hanno fatto dire a C. Fabro che quella di Severino è «la negazione più radicale della libertà» in cui egli si sia mai imbattuto4.
Severino ci tiene a precisare che la necessità di cui lui parla (la “necessità futile”; cfr. § 11) non ha però nulla a che vedere con la “necessità” evocata dalla cultura occidentale, perchè alla radice di quest’ultima vi è la volontà di potenza. «Nella storia dell’Occidente la “necessità” compare sin dall’inizio divisa in se stessa: come la “necessità“ degli immutabili che dominano la ribellione del divenire, e come la “necessità“ del divenire che continua a sopravvivere sotto il dominio degli immutabii dell’Occidente e prepara la loro distruzione. La volontà di potenza sta alla radice di questa divisione della “necessità“» (SO, p. 97). Entrambe le facce della medaglia della “necessità” tradizionale sono inaccetabili per il filosofo bresciano (si tratterà allora di vedere come deve essere intesa esattamente la “necessità futile” della metafisica futile di Severino).
Dato che tutti gli enti sono eterni, non è semplicemente un fatto che ognuno di essi stia insieme agli altri, ma è inevitabile che ogni ente stia insieme agli altri e che sia «un loro inevitabile compagno. È cioè impossibile che un qualsiasi ente sia, senza che un qualsiasi altro ente sia. Ad esempio, è impossibile che il cielo stellato sia e questo cantare dei grilli non sia; o che la verità dell’essere sia e la storia del nichilismo non sia» (DN, p. 113). Ogni ente è necessariamente unito ad ogni altro, ogni parte è unita al Tutto e ad ogni altra parte. Tutto ciò che appare non può non apparire. «L’apparire di tutto ciò che appare appartiene alla necessità, detta dal dire necessario […], nel senso che la negazione della necessità è autonegazione non solamente in quanto essa nega l’opposizione dell’ente al niente, ma anche in quanto essa nega l’apparire di ciò che appare» (DN, p. 129). La necessità non è soltanto che l’ente non è un niente, ma anche che l’ente appare come concreto determinarsi dell’esser ente, «è dunque l’unione tra l’opposizione dell’ente al niente e l’apparire di una molteplicità di enti determinati […]. E quell’unione è la struttura originaria della verità, ossia la struttura originaria del destino» (DN, p. 130).

6. La Gioia e la Gloria
Come visto, ciò che accade non è il prodotto di azioni, non è ciò che il mortale crede che accade;  «ma ciò che accade è il destino […] che nessun dio e nessun uomo possono “tenere” e dominare» (DN, p. 489). Per Severino, le azioni non producono le “opere storiche”. «Le azioni sono astri eterni che chiamano, perchè si svelino, altri astri eterni. La “storia” è la risposta a questa chiamata. È l’intreccio del chiamare e del rispondere» (FF, p. 271). In quanto non ottiene ciò che essa vuole, la volontà fallisce nel suo intento di essere volontà, non riesce cioè ad essere volontà. Allora, avvalendosi di un verso di Eschilo (Prometheus, v. 314)5, Severino può rilevare che la téchne è molto più debole della necessità.
Ciò che manca alla volontà isolante per essere volontà – e al voluto per essere voluto – è il destino della verità. Esso è quindi eternamente ciò che la volontà non può mai riuscire ad essere. «Solo il destino è la volontà perfetta» (DN, p. 581). Nello sguardo del destino (eternamente apparente), la volontà è apparire e può volere soltanto il necessario e l’eterno: può volere soltanto ciò che è necessità che appaia, che è necessità che sia voluto. Nel cerchio dell’apparire, il destino della verità appare contrastato dall’isolamento della terra. Ma questo contrasto (questa contraddizione) appare come negato. È necessità che appaia come negato; «e questa negazione è essa stessa un tratto della necessità del destino. La volontà del destino è quindi volontà che vuole la negazione del contrasto tra il destino e l’isolamento, cioè vuole il completo tramonto dell’isolamento della terra» (DN, p. 583). Ed è necessità che (anche) questa volontà ossia che il destino appaia. La volontà del destino vuole il tramonto della volontà dell’isolamento della terra. L’apparire di questa volontà è  l’apparire della necessità del tramonto dell’isolamento, che è il tramonto dell’alienazione del destino della verità. E «proprio perchè ciò che appare è il destino, la volontà che vuole il destino» «è la volontà che ha già da sempre ottenuto ciò che essa vuole» (DN, p. 582). Nel discorso non finalistico di Severino, l’isolamento della terra è quindi già da sempre tramontato, oltrepassato – ma esso, nel cerchio finito dell’apparire, contrasta il destino della verità (il dolore «è eternamente oltrepassato dalla Gioia» (PM, p. 105)).
Inoltre, non solo la contesa tra il destino e l’isolamento della terra è già da sempre tramontata, «ma ogni contraddizione è già da sempre oltrepassata»(DN, p. 588). Prima di vedere come viene precisata questa tematica nel volume La Gloria, va rilevato che  ogni contraddizione appare (come negata e, insieme, come non oltrepassata) nel cerchio finito dell’apparire, che non può essere l’apparire del Tutto. Infatti, «l’apparire del Tutto è l’apparire dell’oltrepassamento di ogni contraddizione e, appunto per questo, apparire infinito» (DN, p. 589). L’apparire infinito del Tutto è il contenuto del cerchio finito dell’apparire nel suo aver già da sempre oltrepassato ogni contraddizione che avvolge tale contenuto in quanto finito. E questo contenuto è il destino, che, come contenuto finito, è la propria incapacità ad esser se stesso e che, nel suo aver già da sempre oltrepassato la totalità della contraddizione che lo avvolge in quanto contenuto finito, è se stesso. «II Tutto non è semplicemente altro dal contenuto del cerchio finito dell’apparire, ma è ciò che in verità questo contenuto è. In verità – cioè al di fuori del suo contraddirsi. II Tutto è l’esser se stesso del cerchio dell’apparire del destino» (DN, p. 590).
Ogni contraddizione è da sempre e per sempre un passato. Lo stesso mortale, in quanto contrasto tra il destino della verità e l’isolamento della terra, è già da sempre oltrepassato. E il mortale è appunto questo oltrepassamento: il Tutto è ciò che in verità il mortale è. Il Tutto è l’inconscio più profondo del mortale. Poichè ogni dolore, ogni pena è una contraddizione, il Tutto, come oltrepassamento di ogni contraddizione del finito, è la Gioia. E, quindi, la Gioia è l’inconscio più profondo del mortale.
In G, che costituisce la risoluzione di Destino della necessità, Severino arriva a dire che «la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata all’oltrepassamento della solitudine: il destino della verità è destinato a manifestarsi non contrastato dall’isolamento della terra. Questa destinazione appartiene al destino. Il disvelamento della Gioia, nel suo esser libera dal contrasto con la solitudine della terra, è la Gloria.» (G, p. 30) Ma la ‘buona novella’ (mi sia consentita l’espressione…) non finisce qui. Anzi, l’evoluzione (infinita?) del pensiero dell’eternità dell’essere fa entrare nel cerchio dell’apparire un ulteriore tassello dello stare della verità:  «la Gloria è il dispiegamento infinito, nel cerchio finito dell’apparire del destino, del suo essere già da sempre totalmente dispiegata nell’apparire infinito della Totalità dell’essente. Il culmine della Gloria è dunque il dispiegamento infinito della terra oltre la solitudine della terra.» (G, p. 32)
La Gloria che compete al cerchio finito del destino «è la necessità che ogni luogo raggiunto dalla terra sia oltrepassato e che dunque sia oltrepassato anche il luogo in cui consiste la solitudine della terra.» (G, p. 92)
Dunque, con La Gloria viene palesato l’oltrepassamento infinito proprio all’apparire e allo scomparire degli eterni: «Poiché è necessario che ogni luogo incontrato dalla terra – ogni eterna configurazione o fase della terra – sia oltrepassato, il dispiegamento della terra nel cerchio del destino è infinito; e quindi, dopo l’apparire di una qualsiasi configurazione, un’infinità di configurazioni della terra attende ancora di entrare nel cerchio del destino. E l’infinità di configurazioni che la terra è destinata a manifestare è a sua volta una parte del Tutto, ossia dell’eterno oltrepassamento concreto della totalità delle contraddizioni, nel quale consiste l’apparire infinito.» (G, p. 153)
Mi pare poi opportuno notare  anche che   per Severino «La Gloria non è una beatitudine futura che ancora attenda di essere: il dispiegamento infinito della terra è già, eternamente; e tuttavia è destinato a inoltrarsi nel cerchio dell’apparire del destino (e nella costellazione infinita dei cerchi) lungo un percorso che non è mai compiuto. Essere la Gloria significa, per ogni cerchio dell’apparire, essere questo disvelamento infinito del dispiegamento eterno della terra – che peraltro appare già eternamente nell’apparire infinito del Tutto, sì che in quel disvelamento non incomincia ad essere nemmeno l’apparire del dispiegamento infinito […] nello sguardo del destino della verità la Gloria di ogni cerchio del destino è insieme la Gloria di ogni altro cerchio. Essere la Gloria significa essere la costellazione infinita dei gloriosi» (G, pp. 155-156)

7. Il non-nonessere
Che ne è della radicale riforma antropologica operata da Severino? Gli scritti severiniani non dicono all’uomo cosa debba fare, come agire, in quanto «è impossibile agire ‘conformemente’ al destino della verità, perché l’agire stesso, in quanto tale, è difformità dal destino, ossia è l’illusione che, all’interno della terra isolata, ha fede nel proprio essere un io che ha la capacità di far diventar altro le cose della terra.» (G, p. 77)  Tutto accade necessariamente e «Già da sempre esiste dunque, ed appare, la totalità dei dolori e dei piaceri, dell’angoscia e della felicità che sono destinati a manifestarsi lungo il sentiero della solitudine della terra, e dei quali è per lo più portatore l’io dell’individuo. Ciò significa che all’Io finito del destino (ma anche all’io dell’individuo, e, poi, a ogni forma dell’io e ad ogni essente) non può accadere nulla che egli non sia già.» (G, p. 63) Carlo Levi direbbe che pertanto, non si tratta di dover agire, quanto di lasciar scorrere o fluire le cose. Vediamo come l’intellettuale torinese è arrivato ad un’argomentazione così radicale. È bene dire che l’ha fatto riferendosi al concetto di “futilità”.
I libri più prettamente filosofici di Levi sono il primo e l’ultimo da lui scritti: Paura della libertà e Quaderno a cancelli. Paura della libertà è stato pubblicato nel 1946, sebbene Carlo Levi l’abbia scritto «sette anni»6 prima, ossia in Francia, nel 1939. (Nel 1964 l’autore vi aggiunge un ulteriore capitolo: “Paura della pittura”, scritto nel 1942.) Questo libro, che Levi considera un «poema filosofico»7, è quindi stato scritto prima ma pubblicato dopo il più celebre Cristo si è fermato a Eboli8 (1945).
Da cosa ha origine l’individuo? Nel suo poema filosofico Levi risponde a questo quesito parlando della “massa”: «Più antica di ogni ricordo, più vaga di ogni speranza, più lontana della nascita, sta in tutti i cuori una oscurità illimitata […] zona nera di eterna passività, necessario nulla, dalla cui contraddizione hanno origine le cose, smisurata e senza termini» (PL, p. 105). Con un’arguta argomentazione che ricorda l’idealismo hegeliano e l’attualismo gentiliano, autori letti o riletti durante la sua detenzione nelle carceri torinesi9 perché legato all’area antifascista, Levi sviluppa questo discorso dicendo che ciò da cui l’uomo ha origine, la massa, è «un assoluto illimitato, e perciò inesistente, come il suo opposto, l’assoluta finitezza»; si tratta di «un concetto che contraddice se stesso», «è il nulla» (PL, pp. 105-106).
Da questo nulla, da questo «caos», nasce ogni individuo. L’uomo «viene dalla massa per differenziarsi» (PL, p. 23). La massa, dunque, è la condizione prima di ogni individualizzazione (o differenziazione, o rinascita). Levi la considera anche la  « forma delle forme»,  «quella forma che sta sotto a tutte le forme e che le comprende tutte, che non ne ha nessuna in modo determinato, ma che ha la possibilità di tutte le forme»10.
In Quaderno a cancelli11 Levi denomina «la pura Probabilità, o Futilità» (QC, p. 110) il punto da cui si origina il processo di individuazione visto che il risultato specifico di tale processo (il punto di arrivo) è ‘aperto’: «tutto è realmente possibile» (Cristo, p. 98). L’indeterminato, il concetto che contraddice se stesso, sembra essere il non essere, il cui opposto è l’essere. In realtà la massa (o l’indistinto originario) è la sintesi di essere e non essere, cioè un’entità che «è e non è insieme, e il suo non essere non ha per opposto l’essere, ma tutt’al più un non-nonessere (di cui non vedo il significato) : essa insieme, non dialetticamente, non è e non-non è» (QC, p. 110). Infatti, come dice  Hegel nella Scienza della logica, il puro essere ed il puro niente è lo stesso; l’inizio contiene dunque entrambi, l’essere e il niente: l’unità di essere e niente.
A quello di non-nonessere (alla massa) Levi associa il concetto junghiano di «indistinto originario»: «Esiste un indistinto originario, comune agli uomini tutti, fluente nell’eternità, natura di ogni aspetto del mondo, spirito di ogni essere del mondo, memoria di ogni tempo del mondo. Da questo indistinto partono gli individui, mossi da una oscura libertà a staccarsene per prender forma, per individuarsi – e continuamente riportati da una oscura necessità a riattaccarsi e fondersi in lui. Questo doppio sforzo sta fra due morti: la caotica prenatale, e il naturale spegnersi e finire. Ma morte vera è soltanto il distacco totale dal flusso dell’indifferenziato, vuota ragione egoistica, astratta libertà – e, all’opposto, l’incapacità totale a differenziarsi, mistica oscurità bestiale, servitù dell’inesprimibile» (PL, p. 23).
L’uomo può ritenersi ‘vivo’ quando prende le mosse dalla massa e le dà forma, senza però approdare nel suo opposto, l’astratta determinatezza : «i soli momenti vivi nei singoli uomini, i soli periodi di alta civiltà nella storia, sono quelli in cui i due opposti processi di differenziazione e di indifferenziazione trovano un punto di mediazione, e coesistono nell’atto creatore» (ibid.). Per Levi, l’animo umano oscilla tra l’indeterminatezza (la massa) e la determinatezza (l’individualità). E la dialettica massa-individualità ha una valenza storica e sociale, oltre che esistenziale: «Quello che è vero per l’individuo, è vero per la società e per lo stato» (PL, p. 55). Allora, il tendere come anche l’aver teso verso la categoria dell’indeterminatezza oppure della determinatezza concerne non soltanto la vita del singolo (la storia individuale), bensì altresì la storia del genere umano.
Un individuo – e un popolo, ed il genere umano – fruisce di autentica libertà nel preciso momento in cui riesce – creativamente – a mediare gli opposti differenziazione-indifferenziazione, a dare forma all’informe. La sintesi degli opposti (la ‘doppiezza nell’unità’), il processo di individuazione, funge da garanzia di libertà ed autonomia.

8. Opposizione tra arte e religione
Levi carica il processo di individuazione di valenze filosofiche e psicologiche. Ma non solo. Esso va infatti rapportato ai concetti di ‘sacro’ e di ‘religioso’: «non potremo intendere nulla di umano se non partiremo dal senso del sacro: il più ambiguo e profondo e doppio e vermaquilino dei sensi, l’oscura continua negazione della libertà e dell’arte, e, insieme, per contrasto, il generatore continuo della libertà e dell’arte. Né potremo intendere nulla di sociale se non partiremo dal senso del religioso, questo figlio poco rispettoso del sacro.» (PL, p. 21)
Il sacro e la religione non coincidono. Anzi, essi costituiscono un’altra coppia di opposti: mentre la prima dimensione connota l’informe e l’indistinto, la seconda ha una valenza negativa in quanto determinazione astratta e mutazione del «sacro in sacrificio» (ibid.). Tanto il sacro quanto la religione sono dei mezzi del processo di individualizzazione, ma ognuno in un diverso e opposto modo. «Il senso, e il terrore, della trascendenza dell’indistinto, lo spavento dell’indeterminato in chi è nello sforzo di autocrearsi e di separarsi, questo è il sacro.» (PL, p. 24)  Significativo il riferimento leviano allo sforzo di autocrearsi e di separarsi, ossia alla creazione. Per scoprire se stesso e il mondo, per autocrearsi, l’uomo deve partire dal caos (dal disordine, dall’informe) per generare il cosmos (l’ordine). L’uomo ha da essere ‘creatore’, ossia – platonicamente – Demiurgo, cioè Artista (Artigiano). Nei suoi scritti Levi ricorre, come Alain, a termini come ‘produttore’ o Contadino per designare la sua visione dell’individuo ‘sano’ che, in quanto tale, non ha reciso – e tanto meno ha intenzione di recidere – il cordone ombelicale che lo lega all’indistinto originario.
Al processo creativo fa da ostacolo la religione.  «Religione è la sostituzione all’inesprimibile indifferenziato di simboli, di immagini reali e concrete, in modo da relegare il sacro fuori della coscienza, porgendo ad essa degli oggetti finiti e liberatori.» (PL, p. 24)  La religione non mira a favorire l’invenzione della verità e la libertà dell’uomo. Al contrario, essa è  «un mezzo che tende, per liberare lo spirito dal senso terrificante della trascendenza, a sostituirla con simboli visibili, idoli.» (ibid.) Dal punto di vista storico, con questa operazione si è dato concretamente il via libera alla tirannide, alla divinizzazione (deificazione) dello Stato, alla hegeliana superiorità dello Stato sull’individuo. La religione protende essenzialmente a far obliare l’indistinto originario, l’autentico punto di partenza di ogni creazione, della libertà creatrice.
La libertà umana non può né consistere  «nella sostituzione all’uomo del suo simbolo, del suo idolo» (PL, p. 25) – ossia nella deificazione dello Stato –, né tanto meno nell’individualismo astratto in cui non si dà alcun senso di comunità o Stato. La libertà dell’uomo implica il continuo (o ciclico) ritorno ad un indistinto originario il cui oblio implica lo staticizzarne il fluire eterno. Queste prerogative vengono salvaguardate dall’arte, che è allora autentica espressione della libertà creatrice dell’uomo.
Dunque, l’affermazione e la determinazione dell’uomo possono avvenire – e di fatto sono avvenute nel corso della storia – in due modi radicalmente diversi: sotto la spinta della religione oppure della poiesis.  «La storia non è che la vicenda eterna del faticoso determinarsi della massa umana, e del suo risolversi in stato, poesia, libertà, o del suo celarsi in religione, rito, costume; e del ricrearsi continuo della massa dall’inaridire degli stati, dal cristallizzarsi delle religioni.» (PL, p. 106)  Le due possibilità di concretizzazione del processo di individualizzazione di cui parla Levi, con evidenti riferimenti al pensiero vichiano, non possono realizzarsi allo stesso tempo, pena la contraddizione. Infatti, mentre la religione  «è la limitazione simbolica dell’universale»,  «è la manifestazione certa di una servitù liberatoria e divina»,  «è rituale fisso», l’arte non può che essere «l’espressione concreta» dell’universale,  «la voce stessa della libertà umana»,   «mitologia». Date queste premesse, Levi non può che trarre la seguente conclusione:  «L’espressione religiosa è dunque l’opposto della espressione poetica» (PL, p. 69). Ricorrendo al religioso, l’uomo si appiglia alla  «certezza», ad una realtà  «trascendente e permanente», caratterizzata dall’immutabilità (PL, p. 71).
Tuttavia proprio l’immutabilità risulta essere espressione di inautenticità non consentendo all’uomo di essere ‘umano’, di essere cioè se stesso e perciò è fonte di alienazione. Invece l’espressione artistica è indice di  «creazione»(PL, p. 73) e libertà, ossia propriamente di mutevolezza e divenire. La religione limita la creazione e la libertà umana (impone loro dei limiti determinati, fissi); l’idolo, la divinità immutabile, impone la sua legge alla libertà e alla creatività, riducendole così in schiavitù, non facendole più essere autonome.  «Figurazione religiosa ed espressione artistica sono antitetiche: questa, creazione tutta umana, non conosce altra legge che la propria e implicita ed eternamente mutevole, anche quando raffiguri gli oggetti della religiosità: quella ha per suo compito di relegare l’arte sull’altare della certezza e della durata, di legarla nei suoi stessi schemi, perché essa continui; di sacrificarla, acciocchè essa possa diventare un legame simbolico, e quindi una pratica comunicazione tra gli uomini. L’opposizione è quella di creazione e di limite» (PL, pp. 72-73) (perciò, precisa Levi, non esiste,  «a rigore, un’arte religiosa: contraddizione in termini» (PL, p. 70)).

9. La morte degli dei (il Naufragio del Piloro)
Come detto, per Levi l’espressione artistica  «non conosce altra legge che la propria»: l’arte non è soggetta a nessuna legge estrinseca, non è soggetta ad altra legge che la propria, ed ubbidisce unicamente ad essa. Levi precisa che questa legge consiste nella libertà creatrice che prende le mosse dall’eterno fluire e dalla mutevolezza e che conserva queste peculiarità dell’umano. In altri termini, arte è sinonimo di divenire. In quanto tale, per usare una felice espressione di Gustavo Bontadini,  «il divenire come legge nega ogni legge del divenire, ogni legge che determini il contenuto del divenire.»12  Se l’arte si rifacesse ad una legge diversa dalla propria, se venisse inquadrata in schemi fissi, essa cesserebbe di essere libera (creazione). La sua legge (o autonomia) non le può consentire di accettare nessun’altra legge all’infuori della propria, ma, anzi, le impone di liberarsi da ogni altra imposizione, di distruggere ogni altra legge. Altrimenti l’arte non sarebbe arte, l’umano non sarebbe umano, ossia libertà creatrice e divenire. Il rifiuto della religione, la nietzscheana distruzione degli dei («Dio è morto») ovvero, per utilizzare la terminologia di Emanuele Severino, la distruzione degli immutabili è dunque necessaria perché essi – come visto – rendono impossibile o illusorio il divenire, la libertà. Soltanto con la distruzione degli immutabili (degli dei) sono possibili l’arte e l’individuo, è possibile forgiare (determinare) in modo originale e  ‘concretamente’ l’indeterminato. Con la morte degli dei è possibile creare od inventare la verità13. È questa la conclusione a cui perviene Carlo Levi fin da Paura della libertà. (Questa profonda tesi racchiude la chiave di lettura delle scelte e delle opere del Levi scrittore, pittore e politico.)
L’arte, di cui Croce proclama l’autonomia, non può quindi essere asservita e assoggettata. E ciò vale per qualsivoglia disciplina e dimensione umana. Il ‘detto’ che sintetizza alla perfezione il pensiero leviano è: «muoiono gli dei, si crea la persona umana» (PL, p. 134).
Per liberare l’uomo dalla paura della libertà, per salvare la libertà (filosoficamente, per ‘salvare i fenomeni’), Carlo Levi afferma coerentemente la necessità di negare gli dei immutabili. Difatti il divenire come legge nega ogni legge del divenire, cioè ogni legge che determini il contenuto del divenire, perché altrimenti il divenire sottosta ad una legge a lui estrinseca che gli impedisce di essere espressione di creatività, libertà e novità:  «perché l’idolo viva, ogni azione autonoma è sacrilega e mortale: solo è necessaria la obbedienza» (PL, p. 113). Dunque, l’idolo (la religione, lo Stato, ecc.) dice a ciò che è ancora informe come deve essere formato, a ciò che è come deve essere oppure non essere, impedendo ogni possibilità di libertà creatrice. Nel caso del dio Stato,  «la sua lingua è legge, e ogni legge è religiosa: poiché non è la norma interna di un’azione singola; ma la norma esterna e arbitraria di ogni possibile azione […]. Ogni autonomia, ogni atto creatore, è per sua natura, fuori di questa legge, nemico dello Stato, sacrilegio.» (PL, p. 112)  La filosofia  dello  scrittore piemontese non potrebbe essere meno esplicita e limpida su questo punto!
La conclusione che si prospetta? Se ci si affida agli dei  «finisce la libertà della legge morale interna alle cose, per iniziarsi la servitù della legge esterna, della legge religiosa» (PL, p. 121).
In uno scritto14 successivo a Paura della libertà Levi ritorna sul tema della morte degli dei descrivendo minuziosamente i vari elementi raffigurati in quadri e disegni concernenti il “Naufragio del Piloro”: «Un oceano artico, con balene, iceberg, gabbiani, pesci, foche, e poi onde nascenti, fino alla tempesta; e una nave [il Piloro], prima dolcemente navigante nella calma del mare, con tutte le sue vele gonfie; e poi il vento, il fulmine, l’albero maestro spezzato, le barche di salvataggio inutili, gli uomini vanamente cercanti scampo nel mare terribile, la poppa che si solleva mentre la nave precipita nell’abisso.» (corsivo mio)
Tuttavia il Naufragio del Piloro non si limita semplicemente a rievocare l’inabissamento di una grande nave. Oltre al senso letterale, affiora quello simbolico. Ciò che viene inghiottito dalle onde del «mare terribile» è sì una nave, che Ercole Levi, padre di Carlo, denominò il Piloro; ma Carlo Levi puntualizza che «il piloro era essere Padre» (questa la dimensione psicologica della tematica in questione). Non solo. Egli rileva inoltre che quel disegno simboleggia l’«infinita possibilità di creazione del reale» e gli fa vedere, «con estasi e rapimento, la realtà farsi, sotto le mani, forma e figura»; e insieme gli fa accorgere «con dolore, repulsione, angoscia, dell’errore, della contraddizione, della volgarità inespressiva che sta dentro la realtà, e nega la poesia.»15
Nel Naufragio del Piloro Levi rappresenta , quindi, in modo simbolico oltre che figurativo, la morte degli dei, la nietzscheiana ‘morte di Dio’. Il divenire è ovviamente rappresentato dal mare. Inizialmente, sotto la dominazione degli dei immutabili, è la calma del mare a regnare; è cioè l’immutabile a dominare le onde del mare. Ma il mare non può essere continuamente calmo, la sua forza ed il suo flusso non possono essere arrestati assolutamente. Ecco emergere pertanto le onde nascenti, indicanti l’affievolirsi della paura della libertà. La ribellione del divenire agli immutabili che intendevano farlo scomparire (negarlo) è a quasto punto inarrestabile: inevitabile la tempesta, lo spezzarsi dell’albero maestro, l’inabissamento della  nave. Gli dei sono troppo più deboli del divenire.
Ritengo pertanto che Carlo Levi vada forzatamente annoverato tra i pensatori moderni che, come vuole Severino, hanno espresso la necessità della distruzione degli immutabili. Oltre a Nietzsche, Leopardi e Gentile, autori ai quali si riferisce il filosofo bresciano, va aggiunto Carlo Levi.

10. Avvenimento versus azione
Per Severino, credendo nel divenire delle cose il mortale, avendo preteso recidere il cordone ombelicale che lo lega necessariamente al destino della verità, crede anche di manipolarle e di distruggerle. Vive conseguentemente nell’alienazione costituitata dal nichilismo (ossia il “Venerdì Santo” che precede la “Pasqua”).
Per Levi, l’uomo che si libera dagli dei non si separa da sé, non si aliena. Al contrario, riconquista l’immortalità ed il paradiso perduti vivendo  «in un tempo ritrovato, dove non vi è prima e poi, giorno e notte, ma dove ogni attimo è eterno»(PL, p. 125). Avendo ritrovato il tempo originario (o perduto), proprio alla massa (all’indistinto originario) e pertanto da identificare con   «l’eternità» o forse con   «il nulla» (Or., p. 15), l’uomo è libero di creare. Ne L’Orologio16, Levi qualifica con l’appellativo di Contadini gli individui « che fanno le cose, che le creano, che le amano »(Or., p. 166). Il Contadino ovvero l’Artigiano / Demiurgo di Platone dà ordine al disordine percependo (vivendo e pensando) il tempo vero, immagine dell’eternità,  «immagine pura di un fluire eterno» (Or., p. 10) ed unica garanzia della vita(lità) dell’individuo. Al Contadino si oppone il Luigino, il parassita che, obliando «l’oscuro fondo vitale di ciascuno di noi» (Or., p. 165) e non creando, per vivere si nutre di chi produce. L’etica dei Luigini si distingue nettamente da quella dei Contadini. E questa opposizione si basa su una diversa percezione del tempo. I Luigini sciolgono il legame che lega ogni essere all’indistinto originario e in questa maniera frazionano l’unità originaria e, dunque, il tempo immagine pura di un fluire eterno. Di conseguenza si affidano al ritmo matematico dell’orologio senza comprendere di vivere nell’alienazione della verità, di intraprendere il sentiero dell’alienazione. I  «due tempi» seguono  «un altro ritmo» ed obbediscono «ad altre leggi». Essi sono, «fra loro, incomunicabili» e già in Cristo si è fermato a Eboli, Levi rileva che essi danno luogo a due opposte civiltà (Cristo, p. 72).
Ma la distinzione tra due atteggiamenti esistenziali opposti figura già in Paura della libertà, proprio dopo che Levi ha trattato dell’indistinto originario. Lo scrittore torinese distingue l’«azione» dall’«avvenimento»: l’azione è «frutto della differenziazione completa: l’individuo, staccato dal tutto, si muove per darsi forma, e il suo movimento è incomprensibile se non a lui.» (PL, p. 23 (corsivo mio)) L’azione concerne quindi i Luigini (o, nel caso di Severino,  gli abitatori del tempo). «L’avvenimento è invece il prodotto dell’attività umana in quanto creatrice, ricca cioè nello stesso momento di differenziazione e di indifferenziazione, di individualità e di universalità[…], libera insieme e necessaria» (PL, pp. 23-24). L’avvenimento è pertanto proprio al Contadino, all’individuo vero.
Pur non anticipando la concezione severiniana dell’eternità dell’essere, le considerazioni leviane sulla dimensione temporale individuano l’importanza del concetto di eternità e della conseguente necessità di distinguere due opposte concezioni del tempo fondanti, ciascuna, un’etica diversa. In effetti, il tempo dell’orologio è l’opposto del tempo vero, della contemporaneità dei tempi: se nella dimensione meccanica del tempo si può distinguere il ‘prima’ dal ‘poi’, nella dimensione durativa del tempo – simile alla crociana contemporaneità ed alla bergsoniana durée réelle –  i tre tempi (passato, presente e futuro) esistono contemporaneamente (sviluppando le considerazioni sul tempo fatte da Sant’Agostino sulla base della teoria platonica del tempo immagine dell’eternità17, Levi avrebbe potuto dire che essi sono presenti, allo stesso tempo). Il tempo meccanico  «non fluisce, ma scatta in una serie di atti successivi, sempre uguali e monotoni»(Or., p. 11). Indubbio, allora, che il Luigino non può assolutamente essere un creatore.

11. La «necessità futile»
Le riflessioni contenute in Paura della libertà ritornano, come ha ammesso lo stesso autore, nei suoi successivi libri. Il cerchi si chiude con Quaderno a cancelli, l’ultimo libro scritto da Levi. In questa sorta di zibaldone, scritto in stato di cecità, Levi passa in rassegna varie tappe della sua vita, riespone ed ‘aggiorna’ molti aspetti e temi centrali del suo pensiero, della sua posizione filosofica.
Anche in Quaderno a cancelli egli parla dell’  «infinito ritorno a un indistinto anteriore prima del tempo […] fatto di archetipi prima di ogni possibile trasgressione» (QC, p. 222; chiaro il riferimento alla teoria junghiana degli archetipi) come anche della massa da cui ha origine la persona umana. Ora, come visto, questo punto di partenza viene denominato  « la Futilità » o anche la  «pura Probabilità» che  «è e non è insieme, e il suo non essere non ha per opposto l’essere, ma tutt’al più un non-nonessere» (QC, p. 110). Ma nella realtà dominano la divisione e la separazione del contemporaneo che hanno dato inizio al tempo degli dei. In Paura della libertà Levi fa riferimento al Paradiso perduto ed in Quaderno a cancelli si riferisce particolarmente alla rottura della  «naturale unità della sfera materno-filiale» (QC, p. 29), alla Morte della Madre. In entrambi i casi si tratta del distacco dal tempo prima dei tempi e della conseguente perdita dell’immortalità da parte dell’uomo. La vera differenza tra i due libri (il primo e l’ultimo di Carlo Levi) consiste nel fatto che mentre il primo   «non è solo un lamento funebre sulla civiltà che scompare, ma anche un volume folto di idee sulla rinascita e la riscoperta della civiltà»18, ossia indica all’uomo il sentiero del Giorno, il secondo libro non ritiene più recuperabile – quanto meno per l’autore – l’immortalità perduta. Inevitabile, quindi, l’attardarsi sul sentiero della Notte19.
Le affinità con il pensiero severiniano non devono sorprendere più di tanto. Infatti, la loro riflessione trova il suo fulcro da una parte nell’eternità e nell’unità del tutto, dall’altra nella critica della civiltà che ha voluto dividere l’indivisibile. Entrambi i pensatori si oppongono alla concezione classica del tempo implicante il “prima” ed il “poi” poichè questa interpretazione ‘malata’ della dimensione temporale implica uno stile di vita alienato, in quanto in tal modo l’uomo recide (o crede di recidere) il cordone ombelicale che lo lega all’eterno, dimentica cioè che l’inconscio dell’inconscio è costituito dall’eternità dell’essere. Al di là (o al di sotto) del tempo meccanico esiste il tempo vero, immagine pura di un fluire eterno (per Levi) o apparire e scomparire dell’eterno (per Severino). La dimensione psicologica affiora esplicitamente sia in Levi che in Severino ed entrambi propongono una concezione della felicità analoga a quella plotiniana, secondo cui l’uomo o, meglio, la parte superiore dell’anima umana, risiede stabilmente nell’intellegibile (nell’eterno), fonte di felicità: per Severino, l’uomo è da sempre e per sempre ancorato all’eterno (è eterno), alla gioia, perfino nell’oblio della verità dell’essere; per Levi, la felicità «è vano cercarla: perché non è raggiungibile che da chi ce l’ha»(QC, p. 203). Ed in Cristo si è fermato a Eboli parla in questi termini della sua consapevolezza dell’essere ancorato all’indistinto originario e della felicità che ne deriva: «Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero: tendevo l’orecchio alla notte e mi pareva di essere entrato, d’un tratto, nel cuore stesso del mondo. Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza.» (Cristo, pp. 198-199)
Non è casuale che i due pensatori italiani considerino «invidiosi» (AT, p. 22) e «gelosi» gli dei dell’Occidente (QC, p. 208) che negano l’eternità agli altri esseri per farne una prerogativa esclusivamente loro. Essi si scagliano contro gli dei del Possesso, contro i Padroni che considerano tutti gli altri esseri dei servi. Non per niente, i due filosofi ‘antitradizionalisti’, seppure su una base in parte diversa, sono concordi nel ritenere che non ci si possa impossessare delle cose, parlarne come di qualcosa di ‘mio’ o di ‘tuo’. Levi si rifà sintomaticamente ad una realtà concreta, alla lingua Ronga : «Nella lingua Ronga / non puoi dire mio / così nessuno può offenderti nelle cose / nè privarti di quello che non hai. / Non un uomo, molto meno un dio / parola svanita di inchiostro / dove il pane non è nostro / e nostro non può essere il  Padre» (QC, p. 22).
Alla logica del possesso e dell’utile, tanto Severino quanto Carlo Levi  antepone la logica del futile:  «ma la Futilità / non è utile nè inutile / non appartiene e non possiede / non serve  (non è serva) / non è tenuta e non tiene / a nessuna di queste cose pertiene.» (QC, p. 25)  Ogni ente è se stesso, è eterno. Nessuna gerarchia ontologica è pertanto ammissibile. E nessuno (nessun eterno) può appropriarsi dell’eterno. Pertanto,  Emanuele Severino non può che essere considerato, insieme a Carlo Levi20,  un assertore del pensiero futile: per entrambi si tratta di “lasciar scorrere le cose” (etimologicamente, “futile” significa “che lascia scorrere”: basti pensare al vaso Futile delle Vestali). Sebbene sia soltanto lo scrittore piemontese a parlare di futilità – in relazione al punto di partenza di ogni determinazione umana –, per il filosofo bresciano non si tratta di suggerire all’uomo una norma di vita. Allora, anche per Severino centrale è la nozione di  futilità. La differenza tra i due pensieri futili consiste in questo: se per Levi la futilità è il punto di partenza di un processo che sfocia nella creazione, nell’«avvenimento», nell’impegno concreto, per Severino essa costituisce vuoi il punto di partenza, vuoi il punto di arrivo del suo pensiero: tutto accade (entra ed esce dall’apparire trascendentale) secondo “necessità”.
Allora uno dei principi fondamentali del pensiero severiniano è, propriamente, quello di futilità: la futilità del tutto, ossia il necessario apparire e scomparire dell’eterno. Si prospetta quindi quello che solo in apparenza può essere considerato un paradosso (‘etico’): l’uomo guidato dal principio di futilità. Ritengo pertanto che piuttosto che parlare di neoparmenidismo – o di spinozismo –, come confermato anche dalle pagine di G prese in considerazione nel caso del pensiero di Severino sia più appropriato parlare di metafisica o pensiero futile.  Inoltre, se per etimologia ed assonanza il termine ‘fluidità’ deriva proprio da “futilità”21, non resta che opporre, al senso greco del divenire e della fluidità esplicato da Severino, il senso severiniano del divenire e della fluidità: il necessario apparire e scomparire dell’infinità degli eterni (che si oppone alla ‘modernità liquida’). Visto poi che il filosofo bresciano distingue la “necessità” di cui parla la tradizione occidentale dalla sua nozione di “necessità”, reputo che quest’ultima possa essere considerata, sulla scorta di quanto sostiene Levi in merito al non-nonessere, la «necessità futile» (QC, p. 50): propria del pensiero severiniano è da un lato la necessità della confutazione della negazione della verità, dall’altro  la necessità dell’ apparire e dello scomparire degli enti come base dell’essere dell’uomo (nel caso di Levi, proprio dell’“indistinto originario” è il necessario fluire eterno da cui deve emergere la creatività umana). Quella severiniana è quindi una necessità doppiamente “futile”.
Severino ha avuto modo di dire che «Certo, non si può rendere pietra ciò che è fluido. Questo è l’errore della tradizione dell’Occidente, che al di sopra della fluidità del mondo (e dunque riconoscendola) pone la pietra di Dio. Ma quando si riconosce che il senso greco della fluidità, cioè del divenire, è il contenuto di un sogno […], allora ciò che è impietrito è solo il sogno del divenire, è solo un divenire dipinto, e quindi, affermando l’eternità di tutte le cose, non si impietra più una fluidità reale, ma ci si trova in ac-cordo col cuore delle cose, che ‘non trema’ e che via via va mostrandosi.» (LeC, pp. 122-123) Bisogna però aggiungere che affermando l’eternità del tutto, si arriva ad affermare – conseguentemente – la futilità / fluidità del tutto (prima valenza della “necessità futile”) come anche l’inconfutabilità della verità (seconda valenza della “necessità futile”).
Pertanto, a quella che  chiamo la metafisica futile di Severino fa da controparte, parallelamente, un’antropologia futile. L’uomo è necessariamente un essere “futile”, ovverosia “inaffidabile”. Infatti, in opposizione a Martin Heidegger, che parla di “Gelassenheit”, l’uomo severiniano lascia fluire l’essere (per  Heidegger si tratta invece di lasciar essere gli enti). Di conseguenza, per Severino l’uomo  non può né agire né prendere decisioni in quanto espressioni del nichilismo dell’Occidente. L’uomo, eterna apparizione dell’essere, sa che la verità non può essere messa in pratica. A tale uomo sono poi estranee tanto la fede nel divenire quanto la fede nella verità. La futilità del tutto non è quindi una fede, bensì la verità inconfutabile.
Carlo Levi, invece, pensa ad uomo che, dopo essersi immerso nel mare della “futilità”, agisce, crea ed “inventa” la verità: l’uomo vero è un Contadino, un Demiurgo.

(Mythenstrasse 31, CH-6020 Emmenbrücke – Svizzera; sperd-to@gmx.ch)

Note

1 Cito gli scritti di Emanuele Severino utilizzando le seguenti abbreviazioni (come viene indicato, solo per gli scritti che hanno conosciuto una nuova edizione ampliata le citazioni non si riferiscono alla prima edizione, ma alla nuova edizione): AT = Gli abitatori del  tempo, 2a ed., Armando, Roma 1981; DN =  Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980; EN =  Essenza del nichilismo, 2a ed., Adelphi, Milano 1982 ; FC =  La filosofia contemporanea, Rizzoli, Milano 1986; FF = La filosofia futura, Rizzoli, Milano 1989; FM = La filosofia moderna, Rizzoli, Milano 1984; G =  La Gloria, Adelphi, Milano 2001; L =  Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992; LC =  Legge e caso, Adelphi, Milano 1979; LeC = La legna e la cenere, Rizzoli, Milano 2000; PM =  II parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985; SFP =  Studi di filosofia della prassi, 2a ed., Adelphi, Milano 1984; SO =  La struttura originaria, 2a ed., Adelphi, Milano 1981; T =  Téchne, Rusconi, Milano 1979.
2 C. ARATA, L’aporetica dell’intero e il problema della metafisica, Marzorati, Milano 1971, p. 169.
3 Sull’umanesimo della metafisica greca, cfr. la trilogia di L. GRECCHI, L’umanesimo della antica filosofia greca, Petite Plaisance, Pistoia 2007; L’umanesimo di Platone, Petite Plaisance, Pistoia 2007 e L’umanesimo di  Aristotele, Petite Plaisance, Pistoia 2008.
4 C. FABRO, L’alienazione dell’Occidente, Quadrivium, Genova 1981, p. 151. Su E. Severino, cfr. inoltre L. MESSINESE, Essere e divenire nel pensiero di E. Severino, Città Nuova, Roma 1985; A. ANTONELLI, Verità, nichilismo, prassi, Armando, Roma 2003; L. GRECCHI, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2005; AA.VV., Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Bruno Mondadori, Milano 2005; D. SPERDUTO, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Schena editore, Fasano di Brindisi 2007.
5 Su Eschilo, cfr. D. SPERDUTO, Eschilo in G. D’Annunzio, E. Severino e L. Grecchi, in AA.VV., Filosofia ed estetica, Petite Plaisance, Pistoia 2007, (Koiné, XIV), pp. 79-89.
6 C. LEVI, Paura della libertà [PL], Einaudi, Torino 1980 (1a ed. 1946), p. 12.
7 «Questo è veramente il più importante dei miei libri, nel senso che non è un racconto, e d’altra parte per me è assurda questa definizione di generi, oggi. Io stesso non saprei come definirlo; ma se vogliamo usare empiricamente un titolo, potrebbe essere un poema filosofico» (“Scuola viva: incontri con gli autori”, 1971, p. 13).
8 C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli [Cristo], Einaudi, Torino, 1975 (1a ed. 1945).
9 È questo il ’carcer tetro’? Lettere dal carcere 1934-1935, a cura di Daniela Ferraro, Il Melangolo, Genova 1991.
10 G. PELLEGRINI, Nel sole di Villa Strohl-Fern (Carlo Levi), Corbo e Fiore, Venezia 1985, p. 119.
11 C. LEVI, Quaderno a cancelli [QC], Einaudi, Torino 1979. A questo proposito, cfr. Carlo Levi inedito: con 40 disegni della cecità, a cura di D. Sperduto, Edizioni Spes, Milazzo 2002.
12 G. BONTADINI, Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano 1938, p. 52. Sull’attualità di Bontadini, cfr. D. SPERDUTO, Tra Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino, “Aquinas”, XLIX (2006), nn. 2-3, pp. 671-679.
13 Cfr. D. SPERDUTO, Carlo Levi e l’invenzione della verità, “Critica letteraria”, XXXII (2004), pp. 789-796.
14 C. LEVI, Le tracce della memoria, a cura di M. Pagliara, Donzelli, Roma 2002, pp. 37-41.
15 Ivi., p. 38.
16 C. LEVI, L’Orologio [Or.], Einaudi, Torino 1989 (1a ed. 1950).
17 Cfr. D. SPERDUTO, L’imitazione dell’eterno. Implicazioni etiche della concezione del tempo immagine dell’eternità da Platone a Campanella con un saggio sulla nozione di tempo in Carlo Levi, Schena, Fasano di Brindisi 1998, pp. 41-44 e 85-109.
18 G. FALASCHI, Carlo Levi, La Nuova Italia, Firenze 1978 (1a ed. 1971), pp. 13-14.
19 Sulla ‘morte’ e sulla ‘rinascita’ in Levi, cfr. G. LUPO, Tra inferno contadino e paradiso americano: Carlo Levi, Dante e la Bibbia, “Otto/Novecento”, XXVIII (2004), n. 1, pp. 69-85 e D. SPERDUTO, La rosa bianca e la rosa nera: Il Notturno di Gabriele d’Annunzio e il Quaderno a cancelli di Carlo Levi, “Critica letteraria”, XXXIII (2005), pp. 699-714.
20 Sul pensiero futile di Carlo Levi sviluppato in Paura della libertà (1946) ed in Quaderno a cancelli (1979), cfr. anche D. SPERDUTO, La futilità del tutto. Emanuele Severino e Carlo Levi, “Sapienza”, LVII (2004), pp. 485-489.
21 Sulla “futilità” in Levi, cfr. R. GALVAGNO, Carlo Levi, Narciso e la costruzione della realtà, Olschki, Firenze 2004.

N. A. Dobroljubob – Elaborare nell’anima la ferma convinzione della necessità e della possibilità del completo declino dell’attuale ordine

N. A. Dobroljubob

«Bisogna elaborare nell’anima
la ferma convinzione della necessità e della possibilità
del completo declino dell’attuale ordine di questa vita
per avere la forza di rappresentarla poeticamente».

 

(N. A. Dobroljubob, Stichotvorenija Ivana Nikitina,
Sobr. Soc. v deviati tomach, Goslitizdat, Leningrad 1963, tomo VI, p. 167).

 

Commenta M. Bacthin (in L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi 1979, p. 301): «Alla base della letteratura progressista del Rinascimento stava questa “ferma convizione della necessità e della possibilità del completo declino dell’attuale ordine di questa vita”. Ed è proprio grazie a questa necessità e possibilità di un cambiamento e di un rinnovamento radicale di tutto l’ordine esistente che gli artisti del Rinascimento hanno potuto vedere il mondo così come hanno fatto».

Pierangelo Sequeri – Agorà / Oltre il dialogo. Sfida congiunta alle passioni tristi: seguirei la stella, non il satellite

Pierangelo Sequeri

Pierangelo Sequeri

Dialogare è bene, ma lavorare è meglio. Parlare e ragionare delle cose in cui ne va di noi e dei nostri affetti più sacri e più cari, grazie a Dio, sono cose possibili – e rimangono necessarie – anche al di fuori degli schemi previsti dalle funzioni strumentali di determinati rituali dialogici: giuridici, psicologici, diplomatici, accademici, e via discorrendo.
Le raccomandazioni e le istruzioni a riguardo del dialogo non lo sostituiscono, del resto, se non c’è. Il dialogo è un valore naturalmente: tutto, pur di scongiurare la guerra. Quando sono ridotte al dialogo, però, la cultura e la politica finiscono per mandare in scena due spettacolini ripetitivi, seppur con diversa ambizione: il dibattito metodologico (interdisciplinare, multidisciplinare, o come si vuole) e il dibattito televisivo (con tutti i suoi omologhi politicamente ed ecclesiasticamente corretti). Troppo spesso, in entrambi i casi, solo chiacchiere e distintivo.
La retorica del dialogo, che finisce per sostituire interamente il lavoro del pensiero, e si nutre di svagata indifferenza per la verità nelle cose, soffoca anche il dialogo fra credenti e non credenti (o diversamente credenti, o pensanti, o come volete voi). Nel dialogo fra ragione e fede, infatti, qualunque cosa significhi, tutti gli esseri umani sono semplicemente implicati in qualcosa in cui è in gioco – e a rischio – semplicemente l’umano. Per quanto diversamente – e oppositivamente – si posizionino, in tutta coscienza e libertà (e nemmeno questo è scontato), gli umani hanno sempre a che fare con entrambe. È lì che viviamo, moriamo, e siamo. Questa è la storia dell’uomo. E così continua ad essere. Non c’è nulla di più interessante. Al di fuori di questo nesso – così intricato, così eccitante – nessun argomento ha sapore e attrazione all’altezza dell’umano. Nemmeno il cibo, nemmeno il sesso. Neppure oggi. Lo stesso esperimento della secolarizzazione a-teistica, non riesce ad affondare la società degli umani soltanto fino a che tiene alta la sua dialettica con le parole e i gesti della religione: della cui potenza simbolica, magari surrettiziamente, si nutre inequivocabilmente. Persino dibattiti altrimenti futili – o disperati – intorno alla qualità della vita, sono nobilitati dal fatto di essere innervati da quella dialettica. Diversamente, saremmo già ridotti all’ossessione predatoria per il dominio, alla lotta per le pozze d’acqua, all’eliminazione del più debole (lo so: c’è chi ci sta lavorando, ma non disperiamo di neutralizzarlo). Dell’umanesimo, scomparirebbe la passione e persino il linguaggio.

La mia idea sarebbe quella di fare un appello all’oltrepassamento del dialogo, per passare alla cooperazione. E chi c’è, c’è. Incominciamo dagli intellettuali, che ci hanno decostruito abbastanza. Siamo a pezzi. La vacanza del pensiero è finita e l’occidentale politicamente corretto è un po’ inebetito. Le nuove generazioni incominciano a domandarsi dov’era il trucco, e intanto si agitano alla rinfusa. Dove capita, decostruiscono anche loro, a loro modo. La colpa è nostra.
C’è del lavoro urgente da fare, a parte il dialogo: riguarda beni di prima necessità per l’ominizzazione, che il mercato ha dismesso. La ripresa di iniziativa culturale del cristianesimo chiede, d’altro canto, disincanto del mondo, cultura impeccabile e passione per la cosa. Non siamo nel peggiore dei mondi possibili: sempre nella creazione di Dio, abitiamo. Devoti ossessivi e sbeffeggiatori impudenti ricavano energie parassitarie dalla nostra radiazione malinconica di fondo, che ormai si diffonde “globalmente”. E le investono su opposti estremismi, in nome della fede o della ragione, confondendo molti. In un mondo che perde logos, la reazione a catena del polemos (della guerra, della violenza, dell’aggressività di tutti contro tutti) guadagna terreno e si fa incontrollabile.
In un mondo che rimane senza l’audace e creativa testimonianza della sua comune destinazione cristologica, il politeismo degli dèi razzisti e corporativi occupa la scena. Il tentativo di annichilire il cristianesimo lavora certamente per il nichilismo – dovunque accada. Lo svuotamento dell’incarnazione di Dio fa regredire la religione e l’ominizzazione: indisgiungibilmente. Per questo, noi per primi ci dobbiamo purificare col fuoco, pur di restituire all’evangelo il suo onore. Non solo la sua verità. L’Occidente, del resto, ha covato a lungo il suo uovo di serpente. Puntuale, arriva la sua morìa dei primogeniti. L’autorealizzazione narcisistica (ce n’è un’altra?) rende infelici. L’infelicità può reggere alla penuria di benessere: ma non all’incredulità nei confronti della differenza del bene e del male, o all’indifferenza della vita e della morte. È così fin dall’inizio.
Mi espongo all’azzardo. Il banco di prova che misura la serietà intellettuale della cooperazione di religione e pensiero si può condensare in quattro idoli da sfidare in campo aperto, come Elia, che non guarda in faccia alla sfrontatezza dei sacerdoti di Baal, né alla vigliaccheria di Acab, che vi espone il popolo di Dio. Non sono semplicemente temi da sviluppare, fra gli altri. Sono bastioni da abbattere, luoghi comuni da disinnescare con perfetta ironia del logos: senza “se” e senza “ma”. Pura deontologia dell’onestà intellettuale, con soave letizia dell’annuncio evangelico e della testimonianza contraria. Li enuncio sinteticamente.

Il primo idolo è l’esistenza separata di un mondo giovanile: con logiche proprie, desideri propri, organizzazione propria, irresponsabilità propria. In pochi decenni, questa invenzione (essenzialmente mercantile) ha generato, per contraccolpo, l’universo tignoso della competizione senile: incorporazione di un’adolescenza infinita, scarso interesse per il lavoro della generazione, ricerca di complicità nel godimento e difesa corporativa del potere. I giovani non hanno guadagnato nulla da questa scomposizione, in un primo momento oggetto degli ammiccamenti compiaciuti di una classe intellettuale frustrata dalle sue rivoluzioni mancate. I giovani hanno incominciato a rendersene conto. L’ammiccamento del mercato, almeno, adesso è più scoperto. È l’ora della desublimazione: l’ultima frontiera del freudismo alla rovescia. Essere giovani significa poter godere sessualmente, in qualsiasi forma: senza cura per la generazione e senza fatica della dissimulazione. Essere se stessi, come si dice, senza orpelli ideologici. Caspita. Un piccolo passo per un giovane, un grande balzo per l’umanità. Sulla soglia di questa regressione, per “rimanere giovani” a loro volta, si affollano pateticamente gli adulti (anche quelli apparentemente più pensosi). L’ultimo atto di questo abbandono dell’uomo senza età al mito dell’orda primitiva, è l’incorporazione del concepimento fra le variabili del desiderio di godimento (a certe condizioni “si rimane giovani” e ci si sente “adolescenti onnipotenti”, anche “facendo” un figlio). Di fatto, abbiamo incominciato a perdere il senso delle stagioni e dell’unità della vita: anzi della storia e della sua destinazione. E perdiamo il senso più pieno della libertà: mai così potente come quando si distacca da sé per incorporarsi irreversibilmente in un altro, destinato a non essere parte di me.

Il secondo idolo è il vincolo condizionale dell’economia utilitaristica. Quello secondo il quale si deve crescere sempre, a prescindere. Quello secondo il quale senza risorse finanziarie non si produce neppure cultura, o democrazia, perché tutto ha un costo. Quello secondo il quale l’essere umano è una macchina biologica del godimento predatore e del desiderio autoriferito. Non voglio nemmeno discutere, qui, di capitalismo o di mercato: l’intrascendibilità del fondamento economico-libidico della storia dell’uomo è un credo che unisce tutt’ora il capitalismo e i suoi oppositori. Parlo della potenza simbolica – religiosa, quasi teologale – accordata alla presunta ovvietà di questo strumento che si è fatto fondamento. E della gerarchia che i sussiegosi officianti dei suoi riti distribuiscono come inevitabile, sbeffeggiando gli ingenui che ne dubitano. Battaglia dura: inutile girarci intorno, bisogna mettersi di traverso. È questo che corrode la mente e svuota l’anima. Ora – è evidente – non siamo più neppure in grado di sacrificare vita e creature per la Bestia che promette di tenerci in vita. Siamo straccetti. E non possiamo reggere il gioco. E ci dicono pure che siamo noi che sbagliamo a consumare. Pezzi di interi continenti, con uomini e donne sopra, affondano di questo. Non per caso Gesù dice ai suoi che la sovranità di Cesare, a certe condizioni, può essere riconosciuta. Quella di Mammona, mai.

Il terzo idolo la struttura essenzialmente comunicativa del sapere. L’ossessione informativa, funzionale, strumentale del sapere, ha imposto la credenza nella sua giustificazione strettamente utilitaristica. Non è per la verità, è per la notizia: dopodiché (come dice l’assessore) sono fatti vostri. In uno spazio così angusto, che si dilata solo orizzontalmente, non c’è posto per nessuna profondità, nessuna grandezza d’animo, nessuna verità dell’arte, nessun realismo per la differenza dello spirito, nessuna potenza dell’affezione che allarga la mente, creando libertà e sfidando la morte. Esibizionismo linguistico, tutto fa spettacolo. Perdiamo metà del mondo e quasi tutto il suo cielo. Gli umani si parlano per essere più umani, non solo per comunicare meglio. Il pensiero e il linguaggio avvolgono spessori dell’essere-umano – e anche dell’essere mondano – che si arricchiscono di mille sfumature, dispiegano potenze nascoste, inturgidano la vita di grandezze incomparabili e imperdibili dell’anima. La parola del pensiero – anche quella silenziosa – crea spazi di eternità per la vita a disposizione dell’anima: è per la circolazione extra-corporea dell’anima, che arricchisce di colori caldi il pianeta uomo. Il godimento immediato è sempre un godimento mancato. L’espressione spontanea di sé rimane sempre vagito. Sempre più individui, giovani e sani, grugniscono e firmano con la x. La mente e l’anima chiedono cura. E invenzione e sintassi, circolazione di esperienze e affinamento del linguaggio, abilità nella modulazione delle sintonie e passione per l’attitudine a nuove composizioni che allargano i sensi, fino a renderli capaci di presa sull’eterno. La bellezza dell’anima è la nostra casa comune. Non per niente la qualità della musica è la spia perfetta della civiltà dei sensi spirituali che corrisponde alla formazione dell’umano in noi. I ragazzi, a scuola, anche quelli con l’anello al naso, aspettano solo testimoni competenti, impeccabili, appassionati di questo. Muoiono di rachitismo spirituale, le creature, prima che di violenza e di dosi eccessive.

Il quarto idolo è il carattere privato della nominazione di Dio. Nella cultura occidentale si è sviluppato un consistente pregiudizio a riguardo del senso comune della nominazione di Dio: sarebbe l’indicatore principale della superstizione, dell’inganno, della violenza. Di fatto, nella convinzione di doverla anzitutto sottrarre alla religione, la regolazione della nominazione di Dio è passata alla politica, poi alla scienza. Pur dichiarandosene incompetenti, la politica e la scienza non fanno che parlarne. A vanvera. Manca invece una seria cultura della teo-logia, che è certamente di interesse pubblico, in virtù della sua originaria disposizione alla mediazione del logos. Il cristianesimo dovrà essere, a sua volta, meno timoroso e più generoso: e adoperarsi perché la teo-logia diventi una rispettabile funzione del sapere critico e autocritico di pubblico interesse, non un gergo di mera appartenenza. Nella realtà, la disumanizzazione della nominazione di Dio, rimpicciolito alla misura del privato sentire delle politiche di parte o di etnìa, incoraggia una vera legione di piccoli padreterni. Piccoli, ma non innocui. “Dio” è meglio lasciarlo misteriosamente oltre il limite dei nostri desideri e dei nostri godimenti, piuttosto che riempirlo rozzamente o svuotarlo stupidamente di realtà. Il delirio di onnipotenza è il trascendentale della stupidità, non dell’autorealizzazione: e fa danni, persino in nome di Dio. Di certo, la privatizzazione del nome di Dio, che lo separa dall’universale rispetto per la verità che deve essere restituita alla giustizia – e non possiamo, noi – non ha prodotto nulla di buono. Nulla.

Troppo difficile? Per quel che vale, a questo punto, vi dico la mia opinione anche su questo. Pochi passi dietro la linea del talk show, ci sono fior di menti – che persino i teologi ignorano, a vantaggio dei più nominati in classifica – che non ne possono più dei quattro idoli che ci affogano le creature. Un soprassalto creativo che riapre il mondo ci serve, non la conta delle lenticchie che ci uniscono e ci dividono. Siamo in ostaggio, con tutta la carovana, di passioni tristi: autorefenziali e scettiche, in egual misura, nei confronti della verità che non patteggia con la morte e del desiderio di non abitare la terra invano. Mettere il cuore nell’intelligenza delle cose più vere e degli affetti più sacri, che ci tengono insieme per l’eterno (la generazione, l’amicizia, la grandezza dell’animo, il rispetto del mistero nascosto in Dio), è passione lieta, capace di creare comunanza e slancio, in grado di rimettere in moto la storia.
La bellezza attuale del cristianesimo, per come la vedo io, deve apparire in questo: con tutti i difetti e le incongruenze che porta, questa figura religiosa del Logos è l’unica in grado di proclamare, in nome di Dio, che la verità di Dio è riscatto e salvezza per l’ostinazione di essere umani. La nuova frontiera del dialogo è questa. Per la nuova evangelizzazione, seguirei la stella, non il satellite.

Pierangelo Sequeri

Già pubblicato in Koinè, Anno XVIII  –  NN° 1-3  –   Gennaio-Giugno 2011

Augusto Cavadi – Il saggio di N. Pollastri: «Consulente filosofico cercasi»

Augusto Cavadi

Come molti ricordano, Hegel notava con sottile ironia che chiunque voglia imparare un mestiere – ciabbatttino o medico – ritiene indispensabile sottoporsi ad apprendistato, mentre filosofi ci s’improvvisa scavalcando la fase dell’iniziazione. Oggi si potrebbe aggiungere che, nell’ambito degli studi filosofici, nessuno si sognerebbe di pronunziarsi su un pensatore o su una corrente di pensiero se non avesse letto almeno un titolo della bibliografia attinente. Questa elementare cautela viene allegramente scavalcata in un solo caso: quando ci si pronunzia sulla Philosophische Praxis di Gerd Achenbach e, più in generale, sul variegato mondo delle filosofie-in-pratica. Qui, infatti, è come se gli ultimi venticinque anni fossero due o tre settimane; come se centinaia di volumi e di articoli scientifici, in tutte le principali lingue del mondo, non fossero stati scritti. Sarebbe ridicolo, se non fosse patetico, constatare come serissimi docenti universitari, che non aprono bocca su un argomento quando non sono informati e aggiornati, sono prontissimi a sparare sentenze ogni volta che vengono richiesti di un parere sulla “consulenza filosofica” o su qualche altra pratica filosofica (di cui non hanno la minima cognizione diretta).
Da qualche mese questa superficialità non ha più scusanti: due precursori di questo nuovo ‘paradigma’ filosofico hanno pubblicato degli strumenti propedeutici che, in poche ma incisive pagine, riescono a diradare pregiudizi e fraintendimenti (almeno in chi sia animato da sinceri intenti di comprensione). Il primo saggio (D. Miccione, La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007, pp. 126) ha carattere più divulgativo e presenta, con uno sguardo davvero planetario, la mappa attuale delle diverse ‘scuole’. Il secondo, poi, a firma di Neri Pollastri, non è soltanto accessibile al vasto pubblico, ma anche dotato di notevole spessore teoretico. La tesi centrale dell’autore è inequivoca: la consulenza filosofica è «filosofia, e nient’altro. Non una professione d’aiuto, se non di mero aiuto al filosofare, cioè al pensare e al ricercare nuove forme di pensiero; non una professione d’ascolto, se non nel senso che, per dialogare, è sempre necessario anche ascoltare; non una terapia, perché anzi è il suo contrario, il suo radicale abbandono; non ‘cura di sé’, se non nel senso che, occupandosi del modo di pensare il mondo, si occuperà anche del modo in cui si pensa se stessi; non formazione, se non in un senso estremamente indebolito e allargato del termine; non una ‘tecnica’, perché priva di un obiettivo preciso e predeterminato, se non quello di cercare ciò che non si conosce. Dunque non rimane che ribadire quel che fin dalla sua origine si è intenzionalmente voluto che fosse: la consulenza filosofica è filosofia. E lo è a buon diritto, perché ne condivide i tratti caratteristici, salvo metterli in pratica su un terreno diverso da quello della filosofia tradizionale: nella realtà concreta e quotidiana; con individui particolari, e per giunta non filosofi; alla ricerca di una comprensione del senso degli aspetti minuti e particolari della realtà, più che delle universalità; ‘improvvisando’ creativamente in modo istantaneo, quindi producendo comprensioni del reale forse spesso meno profonde, ma sempre e comunque di tipo filosofico» (pp. 75 – 76).
Ma se è così, il movimento della filosofia-in-pratica lancia al mondo della filosofia una sfida, o meglio una richiesta: di essere contestata punto per punto come qualsiasi altra proposta filosofica (dunque opponendole argomentazione ad argomentazione), ma nel rispetto della sua specificità epistemologica. Le gare di nuoto sono regolamentari sia se si nuota sul dorso sia se si nuota a farfalla: nessuno si sognerebbe di rimproverare ad un atleta che opta per il primo stile di non adottare il secondo. Così fanno filosofia gli storici della filosofia, i teoretici sistematici e i filosofi-in-pratica: ma solo una spocchiosa intolleranza accademica (legata al paradosso di una disciplina che da alcuni secoli – a differenza di tutte le altre discipline dello scibile umano – non si preoccupa delle ricadute sulla società delle proprie acquisizioni) potrebbe tentare di negare cittadinanza filosofica a chi non accetta di situarsi, istituzionalmente, o come creatore di sistemi filosofici originali o come interprete dei sistemi elaborati altrove.

Elizabeth Bishop – L’arte di perdere

Elizabeth Bishop, L'arte di perdere

«Nella poesia di Elizabeth Bishop le cose oscillano tra essere come sono ed essere diverse da come sono. Quest’ambivalenza si manifesta talora con l’umorismo, talora con la metafora. In entrambi i casi si risolve invariabilmente in un salto paradossale: le cose diventano altre senza cessare di essere ciò che sono. Questo salto ha due nomi: immaginazione e libertà. L’immaginazione descrive l’atto poetico come un gioco gratuito; la libertà lo definisce comeuna scelta morale. Le poesie di Elizabeth Bishop hanno la levità di un gioco e la gravità di una decisione».

                                                                                                                        Octavio Paz

Elizabeth Bishop

L’arte di perdere.
Introduzione, traduzione e note di Margherita Guidacci.

Postfazione di Ilaria Rabatti:
L’occhio, l’orecchio e il cuore. Margherita Guidacci traduce Elizabeth Bishop.

ISBN 978-88-7588-113-9, 2013, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “filo di perle” [8].

In copertina: Edward Hopper, Automat, olio su tela, 1927. Des Moines Art Center.

http://www.petiteplaisance.it/libri/201-220/206/sin206.html

Ilaria Rabatti
L’occhio, l’orecchio e il cuore
Margherita Guidacci traduce Elizabeth Bishop

(Incipit della Postfazione di I. Rabatti, curatrice del volume)

Di tutte le versioni effettuate da Margherita Guidacci nella sua feconda attività di traduttrice, che ha fatto da accompagnamento e contrappunto all’attività di creazione poetica, occupando negli anni, per passione e per necessità, una parte cospicua della sua esistenza, nessuna, forse, ha rappresentato un intenso “tour de force” come il confronto con la poesia di Elizabeth Bishop.

I motivi della “difficoltà” nella traduzione delle poesie di Elizabeth Bishop li enuncia, in più di un’occasione, e meglio di chiunque altro, la Guidacci stessa, che li ha vissuti, “attraversati”, con lo sforzo della sua acuta e tesa sensibilità interpretativa. Rilevando una componente scientifica nel temperamento della Bishop, la Guidacci sottolineerà come il lucido spirito analitico della poetessa americana sia alla base della tendenza ossessivamente descrittiva dei suoi testi poetici, caratterizzati da una perfezione metrica e formale impressionante, che la rendono eccentrica, “inattuale” rispetto alla pratica poetica del suo tempo:

«Flaubertianamente la Bishop non si appaga né desiste finché non abbia trovato per ciascuna idea o sensazione le mot juste. La poetica della Bishop è tutta nella puntigliosa, perseverante lotta contro le approssimazioni. Le sue enumerazioni, le sue progressioni di aggettivi (generalmente binarie o ternarie), le sue similitudini e metafore sono rigorosamente in funzione di un’esattezza a cui la poetessa tende con una passione che non sarebbe esagerato definire scientifica. (Non proponeva del resto Pound la scienza come modello dell’arte per la sua esigenza di rigore?) I risultati estetici della Bishop sono frutto di minuziosi esperimenti, compiuti con l’ostinazione di un chimico nel suo laboratorio. In questo modo ella ha conquistato la sua eccezionale padronanza tecnica, raggiungendo pari forza nell’uso del verso libero (ma sempre governato da una sapiente scansione ritmica) e nelle più difficili forme ereditate dalla tradizione, come la sestina o la “villanelle”».

E ancora, sottolineando la densità lessicale della Bishop, che keatsianamente prolifera in versi stipati di parole, la Guidacci, mettendo bene a fuoco quelloche è il problema principale nel tradurla, dirà :

«La Bishop si accanisce con metodica, implacabile ostinazione su dettagli vicini e apparentemente minimi del mondo in cui vive: li analizza e li suddivide in strati sottilissimi; ne mette in luce l’intima tessitura toccandone le segrete molecole, li smonta e li rimonta con un’abile, paziente tecnica che non lascia nessuna lacuna all’interno della cosa esaminata, nessun tratto sbavato o manchevole del suo ricostruito contorno. […] Le poesie della Bishop aborrono, letteralmente, dal vuoto; non vi è in esse fessura che non sia colmata, nulla che non sia accuratamente descritto, catalogato, definito. L’immaginazione del lettore può perfino in un primo momento sentirsi oppressa, come soffocata sotto questo puntiglioso accumularsi di particolari che sembra rifiutarle qualsiasi iniziativa, salvo il riconoscimento, reverente o infastidito, di tanto mirabile e quasi maniaca esattezza».

L’“esattezza”, il “nitore fiammingo” dei particolari è il limite nel quale respira l’oltre bishopiano e forse il gradino più arduo per un traduttore. L’attimo epifanico, il punto segreto da cui nella poesia della Bishop scaturisce la rivelazione è sempre toccato infatti attraverso particolari concreti, in una «contiguità e coesistenza e in certi casi identificazione dell’ordinario con lo straordinario», di «domesticity» e «otherwordly» che conferisce ai suoi versi una luce assolutamente singolare e inconfondibile. La sua lirica è un microscopio, su cui si china, con precisionee sincerità, un occhio impegnato a ricercare, tra le pieghe dell’ordinario e del familiare, il mistero che vi è indissolubilmente connesso. [Continua nelle pagine del libro …]

Edward Hopper, Automat, olio su tela, 1927. Des Moines Art Center.
Edward Hopper, Automat, olio su tela, 1927. Des Moines Art Center.

Indice del volume

Nota introduttiva di M. Guidacci

 

da Nord e Sud

Mappa

ICEBERG IMMAGINARIO

QUANTO PIÙ FREDDA L’ARIA

A WELLFLEET, CAMMINANDO NELL’ACQUA

L’UOMO-FALENA

AMORE GIACE ADDORMENTATO

ERBACCIA

L’INCREDULO

IL MONUMENTO

QUAI D’ORLÉANS

UN SONNO VERTICALE

GALLI

PICCOLO ESERCIZIO

IL PESCE

TARDA MELODIA

COOTCHIE

ANAPHORA

 

 

da Una fredda primavera

UNA FREDDA PRIMAVERA

LA BAIA

SOGNO D’ESTATE

I MAGAZZINI DEL PESCE

CAPE BRETON

VARICK STREET

INVITO A MISS MARIANNE MOORE

 

 

da Problemi di viaggio

Brasile

ARRIVO A SANTOS

PROBLEMI DI VIAGGIO

FIGLI DI SQUATTER

CANTO PER LA STAGIONE DELLE PIOGGE

L’ARMADILLO

LA MATTINA DELL’EPIFANIA o COME VOLETE

 

 

Altrove

SESTINA

PRIMA MORTE NELLA NUOVA SCOZIA

DAL DIARIO DI TROLLOPE

VISITE A ST. ELIZABETH

 

 

 

da Poesie nuove e mai raccolte

SOGNI DIMENTICATI

SOTTO LA FINESTRA: OURO PRETO

 

 

 

da Geografia III

SALA D’ATTESA

CRUSOE IN INGHILTERRA

L’ALCE

POESIA

Un’arte

 

 

 

 

Note

 

 

 

Postfazione

Ilaria Rabatti

L’occhio, l’orecchio e il cuore
Margherita Guidacci traduce Elizabeth Bishop

John Williams – La sostanza specifica dell’amore

John Williams

John Williams

«Una volta sola ebbe notizie di Katherine Driscoll. All’inizio della primavera del 1949 ricevette una circolare dall’ufficio stampa di una grande università dell’est. Annunciava la pubblicazione del libro di Katherine e dava qualche informazione sull’autrice. Insegnava in un buon isitituto di Arti umanistiche del Massachusetts, e non era sposata. Appena fu possibile Stoner si procurò una copia del libro. Quando lo ebbe tra le mani, gli parve che le sue dita si animassero. Tremavano al punto che quasi non riuscì ad aprirlo. Sfogliò le prime pagine e lesse la dedica: “A W.S.”.

Gli occhi gli si annebbiarono e per un lungo istante restò seduto e immobile. Poi scosse la testa, tornò a guardare il libro e non lo lasciò più finché non l’ebbe letto tutto.

Era un buon lavoro, come aveva immaginato che fosse. La prosa era elegante e la passione era dissimulata dalla freddezza e dalla lucidità dell’intelligenza. Stoner si accorse che, leggendolo, era lei che vedeva e si meravigliò di quanto riuscisse a farlo veramente. Di colpo era come se Katherine fosse nella stanza accanto e l’avesse lasciata solo qualche istante prima. Sentì un pizzicore alle dita, come se la stesse toccando. Il senso di quella perdita, che aveva rinchiuso così a lungo dentro di sé, straripò sommergendolo mentre lui si lasciava portare alla deriva, oltre il controllo della sua volontà, perché ormai non voleva più salvarsi. Poi sorrise di gioia, come sull’onda di un ricordo: pensò che aveva quasi sessant’anni e avrebbe dovuto essersi lasciato alle spalle la forza di una tale passione, di un tale amore.

Ma sapeva di non averlo fatto. Sapeva che non l’avrebbe fatto mai. Oltre il torpore, l’indifferenza, la rimozione, quell’amore era ancora lì, solido e intenso. Non se n’era mai andato. In gioventù l’aveva dato liberamente, senza pensarci; l’aveva dato a quella conoscenza che gli era stata rivelata – quanti anni prima? – da Archer Sloane. L’aveva dato ad Edith, nei primi, ciechi, folli anni del corteggiamento e del matrimonio. E l’aveva dato a Katherine, come se fosse stata la prima volta. Stranamente, l’aveva dato ad ogni momento della sua vita, e forse l’aveva dato più pienamente proprio quando non si rendeva conto di farlo. Non era una passione della mente e nemmeno dello spirito: era piuttosto una forza che comprendeva entrambi, come se non fossero che la materia, la sostanza specifica dell’amore stesso. A una donna o a una poesia, il suo amore diceva semplicemente: Guarda! Sono vivo!».

 

John Williams, Stoner, Fazi, 2012, pp.  288-290.

Giacomo Pezzano – Contributo alla critica della giuridsizione umanitaria del bene comune a partire dal diritto romano

giurisdizione umanitaria

Queste brevi note prendono spunto dalle questioni poste dal libro di Luca Grecchi Diritto e proprietà nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo (Petite Plaisance, Pistoia 2011), e in particolare dal suo confronto con alcune posizioni di Oliviero Diliberto, il quale ha sostenuto che una determinata concezione del diritto è in grado di guidare (o accompagnare) la struttura di un modo di produzione sociale verso il comunismo. In particolare la concezione del diritto chiamata in causa dall’ex Ministro della Giustizia è quella del diritto romano, il quale viene invece da Grecchi criticato (in quanto diritto proprietario e contrattuale, jus utendi et abutendi, diritto all’uso e all’abuso sulle cose e sulle persone) in nome dell’anti-crematistico umanesimo greco, e della conseguente concezione greca del diritto. Cercheremo di contribuire alla critica del diritto romano che fa da sfondo all’intera opera di Grecchi, attraverso alcune riflessioni di Roberto Esposito e di Giorgio Agamben1.

1. Il paradigma politico moderno-contemporaneo:
il diritto di essere liberi individui proprietari

I. La politica moderno-contemporanea non solo non si fonda su alcun legame sociale, ma è addirittura possibile solamente a partire dal suo scioglimento, da quello «slegame» che s-lega i singoli, allontanandoli l’uno dall’altro per re-legarli in spazi individuali chiusi e asettici ob-ligandoli a obbedire a codici astratti. Il contratto (pactum unionis/associationis) è ciò che separa (nel senso letterale del ricondurre a se stessi) gli uomini proprio nel momento in cui li accosta e unisce (pactum societatis) come sommatoria di individui messi giuridicamente in relazione per consegnare al potere sovrano ogni forma di autorità e di controllo (pactum subjectionis).

II. Oggi si può affermare che dopo la morte di Dio è venuta quella del social-comunismo2, perché viviamo la politica come un regno di atomi gestiti da un potere centrale economicamente sovrano, viviamo il drammatico esito della «dimenticanza» (parafrasando Heidegger) di una distinzione che nel mondo greco continuava a essere fondamentale ancora dopo il periodo classico, quella tra economia (monarchica) e politica (poliarchica), tra oikos – dominio dell’idion nella sua occlusiva univocità nonché congrega di singoli uomini, letteralmente idioti – e polis – campo aperto del koinon nella sua irriducibile e molteplice diversità:
se il processo di unificazione viene spinto oltre a un certo punto, non vi sarà più alcuna polis. Una città è per natura un che di molteplice [plethos], e se diventa troppo una sarà un’oikia piuttosto che una polis e un anthropos piuttosto che un’oikia: in realtà dobbiamo ammettere che l’oikia è più una della polis e l’anthropos dell’oikia: di conseguenza chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe la polis (Aristotele, Politica, II, 2, 1261a 17-23).
L’economia e la politica differiscono non solo tanto quanto oikia e polis (queste in effetti ne costituiscono le rispettive materie), ma anche perché la politica [politikè] consta di molti capi [pollon archonton], l’economia [oikonomikè] invece è il governo di uno solo [monarchia] (Aristotele, Economico, I, 1, 1343a 1-4).

Come notava anche Hegel, la polis greca è stata lo spazio (concettuale e fisico) della continua mediazione tra uno e molteplice, e proprio per questo è stato il luogo di nascita della libertà europea, della libertà in quanto tale, della costruzione morale e politica che permette di battere la potenza distruttiva e nullificante di Kronos il divora figli3.

III. Il paradigma moderno della politica e della sovranità è contraddistinto da due aspetti fondamentali: la persona concepita come proprietaria e il sovrano (Re o Stato che sia) come colui che gestisce la vita degli individui. Il diritto, il cui fondamento è che «ciascuno difenda la sua vita e le sue membra per quanto è in suo potere» (Hobbes, De cive, I, 7)4, è il dispositivo chiamato a normare e a codificare tutto ciò: il diritto deve sancire la proprietà individuale (cfr. p. e. Locke, Secondo trattato sul governo, V, 25-51)5 e dichiarare il potere sovrano statuale come gestore unico, vero e proprio Leviatano (cfr. p. e. Hobbes, Leviatano, XVII-XVIII)6. L’aspetto che qui ci preme evidenziare è che è stato il diritto romano a codificare per primo in maniera sistematica e politicamente performativa questi due aspetti, come cercheremo brevemente di mostrare seguendo rispettivamente Esposito e Agamben. Questo non significa negare discontinuità, magari anche radicali, rispetto alla concezione giuridica moderna (maggiormente incentrata sul soggetto piuttosto che sulla persona, per esempio), ma semplicemente segnalare la persistenza, più o meno sotterranea, nella modernità di una visione della vita in comune degli esseri umani (visione sostanzialmente antiumanistica e – anzi: in quanto – anticomunitaria) la cui incarnazione giuridico-politica è stata resa possibile dallo jus romano (d’altronde, il soggetto giuridico moderno è pensabile proprio a partire dalla persona giuridica romana).
IV. In altri termini, la tesi che intendiamo sostenere è che è nel diritto romano che hanno trovato una prima fondamentale fondazione e codificazione alcuni tratti fondanti la soggettività personale giuridica moderna, espressione della capacità di penetrazione ideologica del capitale, come ben aveva colto Marx laddove notava che, anche attraverso il diritto, «la proprietà privata viene incorporata nell’uomo stesso, e lo stesso uomo si riconosce come l’essenza [Wesen] della proprietà»7, proprietà privata concepita «in quanto attività che è per sé, in quanto soggetto, in quanto persona»8: l’individuo soggetto del diritto è oggetto di una drammatica Trennung tanto rispetto al Mensch quanto al Gemeinwesen9. Infatti, per Marx nel diritto «si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa […]. Il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento [Absonderung] dell’uomo dall’uomo. È il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato in se stesso»10: «l’utilizzazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata»11, la libertà concepita come arbitrium si configura come «il diritto di godere a proprio arbitrio (à son gré), senza considerare gli altri uomini, indipendentemente dalla società, del proprio patrimonio e di disporre di esso, il diritto dell’egoismo»12. Il diritto tenta di realizzare l’estrema astrazione, senza però rendersi conto che in realtà gli uomini non possono essere atomi e non lo sono mai, in quanto l’uomo non abita nella divina (o animale) indifferenza, come aristotelicamente evidenziato da Marx ed Engels:
la proprietà caratteristica dell’atomo consiste nel non avere alcuna proprietà e perciò nessuna relazione [Beziehung] […]. L’individuo egoistico della società civile si può gonfiare […] fino a diventare l’atomo […]. Ma, poiché il bisogno del singolo individuo non ha senso evidente di per sé per l’altro individuo egoistico che possiede i mezzi per soddisfare quel bisogno […], ogni individuo è quindi costretto a creare questa connessione […]. Sono quindi la necessità naturale, le proprietà umane essenziali, per quanto alienate [entfremdet] possano apparire, l’interesse, che tengono uniti i membri della società civile; il loro legame reale è la vita civile, e non la vita politica […], essi sono atomi solo nella rappresentazione [Vorstellung], nel cielo della loro immaginazione – il fatto che nella realtà [Wirklichkeit] sono esseri fortemente distinti dagli atomi, cioè non sono egoisti divini, ma uomini egoistici13.

Gli uomini, dunque, proprio in quanto uomini, sono necessariamente in rapporto con gli altri, non sono indipendenti: non c’è individuo che non dipenda dal legame sociale per realizzare persino il proprio utile e l’interesse privato; è la natura umana, l’essere bisognoso proprio dell’uomo, a fare degli individui umani esseri non autosufficienti e non assoluti – né animali né dei14. Das menschliche Wesen, ricorda Marx nella Tesi su Feuerbach, è das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse (VI), e la vita sociale è essenzialmente Praxis (VIII), umwälzende in quanto sinnlich menschliche Tätigkeit (I)15. Questo, in estrema sintesi, è quanto il diritto romano ha cercato di mettere da parte attraverso il suo capillare dispositivo normativo e normalizzante, che ha dato vita a una paradossale coimplicazione tra individualismo e assolutismo, perché la realizzazione dei diritti individuali, la garanzia della loro sicurezza, viene connessa alla subordinazione a un’obbligazione politica che possiede un carattere di assolutezza, all’alienazione di tutti i diritti, persino alla donazione della vita.

2. Persona, libertà e proprietà: il dispositivo individualizzante del diritto

I. Il diritto romano viene da Esposito considerato un vero e proprio dispositivo, per il suo ruolo performativo, ossia produttivo di effetti reali: esso distingue la persona, intesa come entità artificiale portatrice del diritto, dall’uomo, inteso come essere naturale «cui può convenire o meno uno statuto personale» (TP, p. 13). Ciò significa che per il diritto, vero e proprio «meccanismo di disciplinamento sociale» (ibidem), l’uomo può essere considerato tanto persona quanto cosa, come si evidenzia nel caso dello schiavo, che abita la zona di transito tra cosa vivente e persona reificata. Non solo: qualcuno può essere considerato pienamente persona (essere incluso da parte del dispositivo del diritto) solamente se qualcun altro viene spinto verso i confini della cosa (viene escluso da parte del diritto). In poche parole, il diritto possiede un carattere «privativo ed escludente» (ivi, p. 20), esclude colui che è privato del diritto, mentre include colui che è ammesso dal diritto soltanto in quanto privato cittadino, proprietario della sua persona prima ancora che delle cose che lo circondano e di cui fa uso.

II. La persona, dunque, viene intesa nel diritto romano come una maschera, come una vera e propria finzione, come l’assunzione di un ruolo economico-sociale: il diritto romano ha trasferito lo scarto singolare tra corpo e persona (tra ciò che nell’uomo è da considerare ulteriore e separato rispetto alla sua semplice corporeità) «dall’ambito singolare dell’individuo alla trama complessiva dei rapporti tra gli uomini» (ivi, p. 94). La generalità del diritto unisce gli uomini proprio tramite ciò che li divide, essi «sono divisi dalla forma che li collega in un unico destino» (ivi, p. 95), destino che li allontana dall’esistenza concreta e dalla densità corporea per dar vita a categorie astratte di esclusione/inclusione: schiavi e liberi, suddivisi a loro volta in ingenui (liberi per nascita) e liberti (liberi per affrancamento). Il diritto rende gli esseri umani soggetti nel senso che li assoggetta, li rende cioè oggetti in quanto li definisce in base a uno status che li codifica: «servi, filii in potestate, uxores in matrimonio, mulieres in manu, liberi in mancipio, ma anche addicti, nexi, auctoritati, sono tutte classi di esseri umani alieni iuris» (ibidem), sottoposti alla potestà del pater familias, «unico tipo di vivente sui iuris» (ibidem).

III. Lo schiavo, notavamo, è una figura particolarmente rivelatrice in quanto «eternamente sospeso tra la condizione di persona e quella di cosa, cosa con un ruolo di persona e persona ridotta allo stato di cosa, a seconda che si guardi ai compiti effettivi che assolve nella società romana oppure alla sua classificazione strettamente giuridica» (ivi, pp. 95 s.). Infatti, da un lato, egli è quasi la non-persona nella persona, la cosa all’interno della persona, è proprietà del padrone alla stregua di cose e animali, è strumento certo «parlante» ma pur sempre strumento da utilizzare e «in piena balia di colui cui appartiene nei suoi atti e nel suo corpo» (ivi, p. 96), è letteralmente dominato dal suo dominus. Eppure, dall’altro lato, «può, in alcuni casi, rappresentare legalmente il dominus assente o addirittura amministrare un peculium» (ibidem), così come, seppur destituito di ogni personalità giuridica, può «essere sottoposto a pena, purché particolarmente crudele e infamante o anche, sotto tortura, testimoniare davanti a un giudice» (ibidem). Qualora fosse stato ucciso non dal padrone (sempre legittimato a farlo), il suo assassino poteva essere, sempre a seconda della volontà del padrone, condannato per omicidio («come accade quando si procura la morte di una persona»: ibidem), o tenuto al risarcimento pecuniario al proprietario («come se gli avesse sottratto qualsiasi altro bene materiale»: ibidem). La stessa ambiguità la si ritrova nel rituale della vindicatio in servitutem, nel passaggio dalla schiavitù alla libertà o viceversa, caratterizzato da una serie di stati intermedi che rendono «mai definitivamente compiuto e sempre reversibile» (ibidem) il transito da persona a cosa. Se si prende infatti, per esempio, la manumissio, l’affrancamento dello schiavo, si nota che essa, sempre connessa alla volontà sovrana del proprietario, può assumere le tre forme vindicta, testamento e censu:

nella prima l’emancipazione scaturisce dalla circostanza che alla vindicatio in libertatem di colui che, d’accordo col dominus, veste i panni dell’adsertor libertatis, non corrisponde una contravindicatio da parte del padrone. Nella seconda, per testamento, la liberazione avviene solo alla morte di quest’ultimo, con la conseguente estinzione degli obblighi patronali che negli altri casi continuano a vincolare il liberto. Nella terza, infine, la manumissio consiste nella iscrizione, sempre da parte del dominus, dello schiavo nelle liste del censo, e dunque nella sua iscrizione al novero dei cittadini liberi. Ma ciò che caratterizza, in tutte le forme, la procedura di manomissione è sempre la sua incompiutezza – vale a dire la distanza residua, graduata secondo precise misure, rispetto alla condizione di libertà effettiva (ivi, pp. 96 s.).

In altri termini, la liberazione restava sempre in sospeso, lo schiavo veniva considerato statuliber, non semplice liber, o addirittura gli restava preclusa la possibilità di fare testamento, in quanto tornava schiavo al momento della morte. Esisteva persino un istituto, la diminutio capitis (minima, media o maxima) volto alla «depersonalizzazione»: ciò mostra che la libertà, sempre e comunque nella disponibilità del padrone, era limitata nella forma, nell’estensione e nel tempo, venendo intesa «non come una condizione originaria, bensì derivata, cui l’uomo poteva accedere, temporaneamente e occasionalmente, attraverso un processo artificiale di personificazione» (ivi, p. 97).

IV. Non si deve pensare che tutto ciò valesse solo per lo schiavo, perché per il diritto romano nessun uomo era in quanto tale – per natura – persona: persino il liber per divenire pater doveva comunque passare «per lo stato di filius in potestate» (ivi, p. 98), vale a dire che prima di poter rivendicare lo jus vitae ac necis in quanto soggetto di diritto egli doveva essere stato a sua volta oggetto di analoga rivendicazione. Lo statuto di filius nel diritto mostra più di una consonanza con quello dello schiavo, o forse era persino peggiore di quello di quest’ultimo, in quanto – per esempio – il figlio abbandonato o venduto dal padre non diventava nemmeno proprietà del nuovo pater, perché restava in quella del padre naturale (cfr. ivi, pp. 98 s.). La persona, codificata dal diritto come centro individuale, si distingue dalla res in quanto sua proprietaria; il diritto romano compie una prestazione fondamentale che la giurisprudenza moderna non farà che accogliere, riarticolare e riallargare, quella della «separazione presupposta, all’interno dell’essere umano, tra un elemento naturale, corporeo, meramente biologico e un altro trascendente, costituito di volta in volta in centro di imputazione giuridica, razionale, morale» (ivi, p. 118)16. Come aveva intuito Simone Weil, cui Esposito si riallaccia, il diritto romano è diritto di usare e abusare, è legato a una divisione, a uno scambio e una quantità che ne fanno qualcosa di commerciale e legato all’esercizio della forza17: il diritto personale-individuale, sin dalla sua codificazione romana anzi grazie a essa, è un vero e proprio privilegio, qualcosa che include solamente laddove può escludere, è qualcosa di «privato e privativo» (ivi, p. 123), ha un carattere «di per sé particolaristico» (ibidem). È dunque contrario alla comunità e all’uguaglianza: «il privilegio per definizione è diseguale»18, e la diseguaglianza è per sua natura anticomunitaria.

3. L’homo sacer e l’eccezione sovrana

I. Secondo Agamben il fondamento del potere sovrano moderno non va cercato tanto nella libera cessione, da parte dei sudditi, del loro diritto naturale, quanto piuttosto nella conservazione, da parte del sovrano, del suo diritto naturale di fare qualsiasi cosa rispetto a chiunque, di punire chiunque (cfr. HS, p. 118): il sovrano moderno è come il pater romano, il quale non tanto prende in carico dai dominati (schiavi o figli che siano) il loro (supposto, o comunque sempre provvisorio, come notato) diritto personale, quanto piuttosto è l’unico a poter continuamente esercitare il proprio diritto di proprietà e di controllo rispetto a essi. Gli uomini che vengono sottoposti al potere sovrano vengono considerati uguali proprio come i dominati che vengono sottoposti all’autorità della persona romana venivano considerati uguali: in quanto a disposizione, persino in quanto uccidibili (cfr. p. e. Hobbes, De cive, I, 3)19. Nei termini di Agamben, la sovranità moderna considera politica la vita solamente in quanto vita sacra, ossia uccidibile ma insacrificabile (uccidibile proprio in quanto insacrificabile e viceversa).

II. Per definire la figura della sacralità connessa alla vita umana Agamben si rifà proprio a una figura del diritto romano arcaico: «at homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed qui occidit, parricidi non damnatur; nam lege tribunicia prima cavetur “si quis eum, qui eo plebei scito sacer sit, occiderit, parricida ne sit”. Ex quo quivis homo malus atque improbus sacer appellari solet» (HS, p. 79)20. Sacro viene dunque definito dal diritto romano quell’uomo la cui uccisione resta impunita ma il cui sacrificio resta interdetto: se è vietato violare qualsiasi cosa sacra, è invece non sacrilego uccidere l’uomo sacro, se ogni uccisione viene punita dalla legge, è invece lecito uccidere l’uomo sacro. L’uomo sacro si pone così all’interno del diritto come colui che è al di fuori tanto dello ius divinum (non può essere sacrificato secondo le prassi rituali) quanto dello ius humanum (è uccidibile da tutti senza punizione): lascia entrambi in sospeso proprio nel momento in cui ne conferma l’esistenza in maniera più radicale. In altre parole, l’homo sacer, restando a metà tra giurisdizione divina e umana, si pone in una zona di indistinzione tra il diritto e la sua applicazione, nel senso che attraverso di lui il diritto è all’opera attraverso la sua disattivazione: il diritto viene messo letteralmente in sospeso attraverso una duplice eccezione (cfr. ivi, pp. 80-82 e 90 s.). «La vita insacrificabile e, tuttavia, uccidibile, è la vita sacra» (ivi, p. 91): essa occupa lo stato di eccezione, appartiene a Dio nella forma della non sacrificabilità ed è inclusa nella comunità nella forma dell’uccidibilità, laddove l’appartenenza a Dio è normalmente definita dalla sacrificabilità e l’inclusione nella comunità dalla non uccidibilità.

III. L’homo sacer, suggerisce Agamben, va considerato come la figura originaria «della vita presa nel bando sovrano» (ivi, p. 92), ciò che è catturato in esso è «una vita umana uccidibile e insacrificabile: l’homo sacer» (ibidem), il suddito in quanto tale. Ciò significa che il diritto romano ha codificato la struttura essenziale della sovranità moderna, la quale ha in carico la gestione delle vite dei singoli proprio in quanto può negarle: «sovrana è la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio e senza celebrare un sacrificio e sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è la vita che è stata catturata in questa sfera» (ibidem). La legge conosce un caso in cui essa manifesta in tutta la sua potenza la sua capacità di applicazione: quando si applica disapplicandosi, come accade nel caso dell’eccezione, momento in cui la legge si consegna a una pura vigenza senza alcun significato (Geltung ohne Bedeutung), in cui avviene il pieno abbandono al bando sovrano, che accosta e lega al proprio controllo con più forza proprio ciò che considera bandito rispetto all’ordine sociale (cfr. ivi, pp. 34, 59, 68, 122 s.)21. In tale momento la sovranità rivela il suo volto, la sua capacità di includere per esclusione e di escludere per inclusione: «sovrano è colui rispetto al quale tutti gli uomini sono potenzialmente homines sacri e homo sacer è colui rispetto al quale tutti gli uomini agiscono come sovrani» (ivi, pp. 93 s.).

IV. Potremmo anche dire: il sovrano è il pater dei sudditi considerati quali «figli adottivi» del padre imperator22. Foucault affermava che uno dei privilegi caratteristici del potere sovrano è stato sempre la vitae necisque potestas: ebbene, tale potestà è stata originariamente definita dal diritto romano, come «incondizionata potestà del pater sui figli maschi» (ivi, p. 97). Nel diritto romano vita è un concetto non giuridico, indica cioè il semplice fatto di vivere o un particolare modo di vita, tranne che proprio nell’espressione vitae necisque potestas, in cui diventa un vero e proprio terminus technicus. Per Agamben questo mostrerebbe come nel diritto romano la vita appare solo «come controparte di un potere che minaccia la morte» (ibidem), di un potere dunque assoluto, quello che «scaturisce immediatamente e unicamente dal rapporto padre-figlio» (ivi, p. 98), che fa sì che il cittadino maschio libero si trovi di per sé in una condizione di «uccidibilità virtuale» (ivi, p. 100), di sacralità rispetto al pater, potere esteso in seguito all’intera sfera pubblica: «l’imperium del magistrato non è che la vitae necisque potestas del padre estesa nei confronti di tutti i cittadini» (ivi, p. 99). La vita considerata politicamente dal diritto romano è dunque quella sacra, perennemente esposta alla morte eppure proprio per questo non sacrificabile e non punibile: attraverso il diritto romano la vita «si politicizza attraverso la sua stessa uccidibilità» (ibidem), ossia soltanto tramite «l’abbandono a un potere incondizionato di morte» (ivi, p. 101). È solo a partire dall’orizzonte aperto dal diritto romano, sostiene Agamben, che nella modernità il potere supremo potrà essere concepito come «la capacità di costituire sé e gli altri come vita uccidibile e insacrificabile» (ivi, p. 113): persino il sovrano stesso si ritroverà investito della sacertà, di modo che la sua uccisione – crimine di lesa maestà – verrà considerata non un semplice omicidio (qualcosa di più, nel suo caso), e proprio per questo non potrà avvenire semplicemente seguendo i riti ordinari e le forme sancite (cfr. ivi, pp. 114 s.)23.

V. La politica moderna potrà prendere così in gestione la vita sacra in quanto nuda vita, sostiene Agamben, quella stessa nackte Leben che per Engels è quanto resta – e a malapena – dopo l’Auflösung der Menschheit in monadi da parte dello Scheidungprozess del capitalismo, modalità di produzione e di organizzazione sociale che dichiara apertamente la soziale Krieg, il bellum omnium contra omnes tanto temuto da Hobbes: «ognuno sfrutta l’altro, e ne deriva che il più forte si mette sotto i piedi il più debole, a malapena resta la nuda vita»24, in una situazione in cui «ciascuno vede nel suo prossimo un nemico da togliere di mezzo o tutt’al più uno strumento da sfruttare per i propri fini»25, e «questa guerra di tutti contro tutti non può stupirci, poiché non è altro che la concreta attuazione del principio già insito nella libera concorrenza»26. La vita viene così totalmente denudata e privata della sua essenza umana, quasi sino a scomparire – appaiono ancora tristemente valide alcune cupe parole di Adorno: «quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria. […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna»27.

Note

1 Faremo riferimento in particolar modo a R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007 (d’ora in poi TP in corpo testo) e G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995 (d’ora in poi HS in corpo testo).
2 È l’affermazione del Nobel per l’Economia del 1986 James M. Buchanan in: Il socialismo è finito, il Leviatano vive (1990), tr. it. di G. De Santis, in AA. VV., Le libertà dei contemporanei. Conferenze “Fulvio Guerrini” 1984-1993, presentazione di P. Ostellino, Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, Torino 1993, pp. 161-172.
3 Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia (1840), vol. I, a cura di E. Codignola e C. Sanna, Sansoni, Firenze 1947, pp. 182 e 279 s.
4 Cfr. T. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino (1649), a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 2005, p. 25.
5 Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo e altri scritti politici (1690), a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 1982, pp. 247-263.
6 Cfr. T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, pp. 275-303.
7 K. Marx, Manoscritti economici-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 2004, p. 102.
8 Ivi, p. 101. Altrove Marx affermava che gli individui sussunti alla forma-merce «si riconoscono reciprocamente come proprietari, come persone la cui volontà permea le loro merci. Qui entra in ballo il momento giuridico della persona, e della libertà nella misura in cui vi è contenuta» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), 2 voll., tr. it. di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 231).
9 cfr. K. Marx, La questione ebraica (1844), in B. Bauer – K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 173-206: 193.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 194.
13 K. Marx- F. Engels, La Sacra famiglia, ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci (1845), in K. Marx – F. Engels, Opere, IV: 1844-1845, a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-234: 134 s. Come ha scritto Charles Taylor, non solo «vivere in società è una condizione necessaria dello sviluppo della razionalità, in uno dei possibili sensi di questa proprietà, o della trasformazione [becoming] in un agente morale nel senso pieno del termine, o in un essere autonomo pienamente responsabile» (C. Taylor, Atomism, in Id., Philosophical Papers II: Philosophy and the Human Sciences, Cambridge University Press, Cambridge 1985, pp. 187-210: 191), ma persino «essere un individuo non equivale a essere un Robinson Crusoe; significa piuttosto essere collocato in un certo modo tra gli altri uomini» (C. Taylor, L’età secolare (2007), tr. it. di P. Costa e M. C. Sircana, a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2009, p. 206): persino l’asocialità è socialmente determinata ed è resa possibile solo a partire da un orizzonte sociale di fondo.
14 Marx ed Engels possono così scrivere: «solo nella comunità [Gemeinschaft] con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa possibile la libertà personale […]. Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione [Assoziation] e per mezzo di essa» (K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845-1846), tr. it. di B. Codino, introduzione di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 54 s.). Proprio per questo nella kommunistische Gesellschaft lo sviluppo originale e libero degli individui non può che essere condizionato dalla Zusammenhang fra essi (cfr. ivi, p. 430), vale a dire che la società comunista certo non nega l’individualità, ma riconosce che la società non è costituita da individui, quanto piuttosto dalle relazioni materiali tra di essi (questo è il cum del comunismo): la vita individuale «abbraccia una grande cerchia di molteplici attività [Tätigkeiten] e relazioni [Beziehungen] pratiche con il mondo» (ivi, p. 245); «la società non consiste di individui [Individuen], bensì esprime la somma delle relazioni [Beziehungen], dei rapporti [Verhältnisse] in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro» (K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 242). In caso contrario si dà vita a vere e proprie Robinsonaden, «robinsonate» per le quali il punto di partenza viene considerato l’einzelne und vereinzelte individuo (cfr. ivi, pp. 3 s.), mentre persino l’interesse privato è configurabile solamente come elemento sociale, vale a dire che è possibile pensarsi come individui solo all’interno di una società che ha già posto i presupposti per farlo, ed è per questo che Marx poteva scrivere: «si tratta di interesse dei privati; ma il suo contenuto, come la forma e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti da tutti. La mutua e generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti [der gegeneinander gleichgültigen Individuen] costituisce il loro nesso sociale» (ivi, pp. 96 s.). Per un approfondimento di queste tematiche rimandiamo a L. Basso, Socialità e isolamento: la singolarità in Marx, Carocci, Roma 2008.
15 Cfr. K. Marx, Tesi su Feuerbach (1845), in K. Marx – F. Engels, Opere, V: 1845-1846, a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-5.
16 Non deve allora sorprendere, sottolinea Esposito, che oggi alcuni tra i più importanti bioeticisti liberali (come Engelhardt o Singer) facciano esplicitamente riferimento al diritto romano, e in particolare alle figure di transito tra persona e cosa della manumissio e della municipatio, per articolare la loro concezione della persona (cfr. ivi, pp. 118-122).
17 Il riferimento di Esposito è allo scritto La persona e il sacro, dove tra le altre cose leggiamo: «la nozione di diritto è legata a quella di divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di per sé il processo, l’arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo. […] Lodare l’antica Roma per averci trasmesso la nozione di diritto è singolarmente scandaloso. Perché se si vuole esaminare ciò che tale nozione era in origine, al fine di determinarne la specie, si vede che la proprietà era definita dal diritto di usare e abusare. E in effetti la maggior parte di quelle cose di cui ogni proprietario aveva il diritto di usare e abusare erano esseri umani. […] La nozione di diritto trascina naturalmente dietro di sé, per via della sua stessa mediocrità, quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali. È situato a questo livello. Aggiungendo alla parola diritto quella di persona, il che implica il diritto della persona a ciò che si chiama la propria realizzazione, si farebbe un male ancora più grave» (in R. Esposito (a cura di), Oltre la politica. Antologia del pensiero impolitico, Mondadori, Milano 1996, pp. 75-78).
18 S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 78.
19 Cfr. T. Hobbes, De cive, cit., p. 23.
20 «Uomo sacro è, però, colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide, non sarà condannato per omicidio; infatti nella prima legge tribunizia si avverte che “se qualcuno ucciderà colui che per plebiscito è sacro, non sarà considerato omicida”. Di qui viene che un uomo malvagio o impuro suole essere chiamato sacro».
21 Stato in cui, come negli ultimi mesi accade sempre più spesso in Italia ma non solo, a essere considerata normale è l’emergenza (nonché, con essa, il rischio e il pericolo).
22 Situazione che noi in Italia stiamo vivendo in maniera drastica negli ultimi mesi: colui che controlla governo, principali mezzi di comunicazione e di informazione e gran parte del movimento economico del nostro paese si ritrova a essere considerato come dispensatore personale (e spesso nei confronti di persone perlomeno poco raccomandabili) di ricchezze, di posti di lavoro, di abitazioni, persino di incarichi politici, come padre padrone di parlamentari, «attrici», politici, imprenditori, come vero e proprio detentore di un potere totale sulle vite di questi, costretti ad accettare la totale dipendenza per poter aspirare a una qualche forma di (evidentemente menzognera) indipendenza.
23 Analogamente a come un processo nei confronti dei parlamentari italiani deve passare attraverso il filtro dell’immunità e della votazione del Parlamento, o a come un processo per prostituzione minorile rivolto nei confronti di un esponente del Governo italiano (o, come ben sappiamo, del Capo di esso) può dover essere istituito presso lo specifico Tribunale del Consiglio dei Ministri.
24 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra (1844), in K. Marx – F. Engels, Opere, IV, cit., pp. 235-514: 263.
25 Ivi, p. 362.
26 Ibidem.
27 T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa (1951), tr. it. di R. Solmi, introduzione e nota di L. Ceppa, Einaudi, Torino 1994, p. 3.

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