«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
[…] Oggi viviamo in società estremamente complesse. Alcuni ritengono che è proprio la complessità a non tollerare progetti sociali di sorta. Poiché, si dice, è praticamente impossibile forzare entro schemi progettuali le odierne società complesse, è meglio rinunciare ai progetti globali, considerati come arbitrarie fughe in avanti, e limitarsi a controllare di giorno in giorno i singoli sottosistemi, intervenendo soltanto là dove dovessero verificarsi grosse smagliature che potrebbero mettere in crisi il sistema nella sua interezza. Non ci si accorge che è stata proprio l’assenza di un progetto globale, la politica del giorno per giorno e degli interventi-tampone a determinare quello che forse può essere considerato il più grosso disastro di tutti i tempi: la crisi ecologica a livello planetario. Così come è l’assenza di progettualità politica a produrre le forti sperequazioni tra cittadini nei Paesi sviluppati e il crescente divario, sotto ogni profilo, tra il Nord e il Sud del mondo. Altro che “fine dell’utopia”. Oggi il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. Si tratta certo di intendersi. È chiaro che qui, per utopia, non s’intende quella banalizzata dal marxismo, né quella demonizzata dall’ideologia borghese. Non è cioè vuota “fantasticheria” né progetto totalizzante.
L’utopia […] è un progetto storico, che nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. Tale è infatti l’originario contenuto semantico del termine stesso, che oscilla, appunto, tra ou-topia “nessun luogo”) ed eu-topia “buon luogo”). L’utopia come luogo della società buona e felice che non c’è ancora. Il pensiero utopico nasce dalla consapevolezza che il mondo, o meglio, la società, così com’è, è carente d’essere: è inadeguata cioè a soddisfare i bisogni di ciascuno e a garantirne i diritti. Lo stato di cose presente è sentito fondamentalmente come ingiusto proprio perché non dà a ciascuno il suo. Questa rivolta morale contro l’ingiustizia sarebbe tuttavia velleitaria e impotente se non si tramutasse in coscienza critica, se cioè non individuasse quelle forme e quelle strutture concrete che sono causa d’iniquità, in ordine alla loro rimozione. Ma lo spirito critico-eversivo non sarebbe fecondo se non fosse sorretto da una coscienza progettuale, la sola che permette di ricostruire o rifondare la società secondo i dettami della giustizia, ossia di sostituire il “vecchio” con il “nuovo”.
Questo non significa […] che la mentalità utopica sia protesa a negare in maniera assoluta il presente, ossia a negare non solo il “negativo”, ma anche quel che di “positivo” vi è nel presente. In realtà, non tutto ciò che il presente contiene è “vecchio”, vale a dire superato, non rispondente agli imperativi della coscienza etica. Proprio perché l’utopia è il progetto della storia, che è nato e si va facendo nella storia, essa non può rinnegare le sue stesse conquiste. La coscienza utopica non rinuncia al bene presente in vista di un bene futuro. Al contrario, essa accetta e conserva tutto ciò che di positivo il presente offre, ben sapendo che il presente non è altro che il futuro del passato. In ogni presente possono venire a maturazione le spinte e le aspirazioni delle generazioni passate. La critica del presente, dunque, mira solo a rigettare tutto quel che di negativo e ingiusto il presente racchiude in sé.
Quella utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, ma è sempre vigile, inquieta e in lotta contro le ideologie di turno, che tendono a mascherare la realtà effettuale, presentandola come il migliore dei mondi possibili. Avendo come suoi valori-guida fondamentali la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, l’amore, la felicità, la pace, la coscienza utopica si protende a realizzarli con tutte le proprie forze. E poiché la realizzazione dei valori passa anzitutto attraverso le coscienze dei singoli, essa non può mai essere data per acquisita una volta per tutte. Donde la continua tensione, la vigilanza per evitare la ricaduta nell’ideologia, che è sempre in agguato per riproporre subdolamente istanze obsolete e “ripescaggi” antistorici.
La coscienza utopica, proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Solo che il rischio e lo scacco non la deprimono, ma le infondono coraggio, perché sa bene che gli autentici valori umani che essa persegue possono pur subire uno scacco nel breve periodo, ma alla lunga prevarranno. La coscienza utopica consente all’uomo di correre il rischio di pensare e decidere autonomamente. Le nostre società, dove il lavoro sociale si svolge in forme sempre più parcellizzate, hanno di fatto espropriato l’uomo del gusto del rischio, deprivandolo così anche della responsabilità. Tale espropriazione, che con il passare del tempo si è tramutata in una tacita delega agli “specialisti” (della politica e della scienza-tecnologia) di pensare e di decidere per tutti, ci ha regalato quella che a giusta ragione è stata definita «la società del rischio». […] Occorre perciò riappropriarsi del diritto al rischio, del diritto a decidere responsabilmente e autonomamente, liberandosi dalle “tutele” false e interessate e, in particolare, dall’ideologia scientista, che non è meno pericolosa delle altre di cui si “celebra”, spesso in modo allegramente discorsivo, la crisi.
Si può dunque affermare che mentre la crisi delle ideologie, se correttamente intesa, costituisce un fatto largamente positivo, poiché ci libera dalla “falsa coscienza”, la crisi, o ancor più la fine dell’utopia sarebbe una sciagura per l’umanità.
Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida, e quindi ritorno a uno stato ingiusto, dove i rapporti umani vengono regolati non dalla coscienza etica e dalla ragione, bensì dalla forza. Se dovesse venir meno l’utopia, la stessa politica, da arte o scienza del buon governo degli uomini, decadrebbe a mera lotta per il potere sugli uomini. Sarebbe il trionfo definitivo di quella che è stata recentemente definita «ragione cinica». Una strada su cui si è incamminata gran parte delle nostre società, proprio a causa dell’affievolirsi della coscienza e della tensione etica, che ha portato alla crisi e allo smarrimento dei valori autenticamente umani e, di conseguenza, alla caduta dello spirito utopico. Se la storia ha un qualche valore pedagogico, essa ci insegna che sovente il sonno dell’utopia ha generato i mostri.
È dunque tempo di svegliarsi, per riprendere, con l’energia necessaria, il cammino interrotto dalle forze distopiche, che in questi ultimi decenni hanno prevalso, anche a causa dell’attuale processo di globalizzazione, che si sta rivelando profondamente dannoso e ingiusto non solo per l’uomo, ma anche per l’ecosfera.
Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia, Dedalo, Bari 2015, pp. 167-170.
Il DPCM entrato in vigore venerdì ha vietato l’accesso al pubblico nelle biblioteche, senza neppure nominarle esplicitamente: inserendole nel contenitore generico degli “altri istituti della cultura”, le ha trattate come residui non identificati, al pari di spiccioli dimenticati in fondo a una borsa. Eppure le biblioteche non hanno nulla da invidiare a musei e mostre, sempre citati nelle infografiche, né sul fronte quantitativo né per l’impatto sociale e culturale sulle realtà territoriali.
Ed è proprio l’assenza di focalizzazione sulla specificità delle biblioteche che può spiegare una chiusura disallineata rispetto alle altre misure di prevenzione, visto che da maggio in poi le biblioteche avevano messo a punto sistemi di contingentamento degli accessi più che sicuri rispetto ai rischi di contagio. Una valutazione non approfondita delle pur evidenti differenze tra una mostra e una biblioteca dagli accessi già contingentati e rispettosi delle regole di distanziamento, unita forse alla fretta di chiudere un provvedimento di grande impatto sul Paese, può essere all’origine di una scelta che in molti hanno giudicato non sufficientemente riflettuta, o comunque sovradimensionata rispetto alle necessità reali: primi fra tutti gli utenti, che si sono ritrovati di nuovo privi delle opportunità di studio e consultazione in sede, nonché delle occasioni di incontro e approfondimento culturale che in tempi normali qualificano le proposte di servizio delle biblioteche. Con le scuole e le università chiuse, poi, per molti giovani gli spazi e gli strumenti delle biblioteche avrebbero rappresentato una risposta importante, anche se parziale, alle difficoltà nascenti dalla contrazione dell’offerta didattica in presenza e dall’accesso non paritario alle risorse tecnologiche.
Forti dell’esperienza maturata durante il lockdown, sono tanti i bibliotecari e le bibliotecarie che hanno messo a punto una serie di misure alternative al divieto di accesso agli spazi, nel rispetto di una norma che, a differenza di marzo, non ha decretato la chiusura degli istituti né ha prescritto per gli operatori l’obbligo di stare a casa: nelle ultime ore è stato un fiorire di soluzioni a volte anche curiose e fantasiose, ma sempre pratiche ed efficaci, per venire incontro alle esigenze del pubblico, prima di tutto offrendo la possibilità di ritirare su appuntamento i materiali prenotati on line o per telefono in punti prestito mobili, attivati presso spazi esterni, presso esercizi commerciali di prossimità, attraverso l’adozione di forme di drive-through, e soprattutto attraverso il prestito a domicilio, rivolto in modo particolare alle persone anziane, a basso livello di mobilità, o comunque impossibilitate a raggiungere la biblioteca.
Un nuovo slancio è stato dato ai servizi digitali, che da marzo in poi hanno rappresentato la risposta più resiliente delle biblioteche alla chiusura totale: eventi, incontri e presentazioni di libri trasmessi su varie piattaforme di videoconferenza, su YouTube o via Facebook, servizi potenziati di assistenza telefonica (spesso gestiti in smart working), e accessi moltiplicati alle piattaforme di prestito digitale, per la consultazione di giornali e banche dati, la lettura di e-book, l’ascolto di musica e la fruizione di film. Nel primo lockdown gli indici di accesso a queste piattaforme sono schizzati verso l’alto, facendo registrare indici di crescita anche del 600-700%, rappresentando una risposta efficacissima, sia pure non ancora alla portata di tutti, rispetto ai bisogni di lettura. Sono proprio di questi giorni i nuovi investimenti di molte biblioteche sull’acquisto di nuovi accessi e download da mettere a disposizione gratuita dei propri frequentatori.
Le biblioteche saranno fisicamente chiuse, dunque, ma saranno accessibili in tante modalità alternative. Certo, per quanto il prestito possa raggiungere i livelli degli anni precedenti, niente sarà come prima: ciò che non può essere pienamente ricostruito neppure nella più evoluta versione digitale è la speciale atmosfera che si respira in modo particolare nelle cosiddette “biblioteche sociali”, ovvero quelle biblioteche che, grazie anche a soluzioni architettoniche di particolare pregio, sono in grado non soltanto di offrire posti di studio e ricerca, ma di accogliere le famiglie, i bambini e i diversi gruppi di interesse in spazi dove svolgere attività differenziate, trascorrere il tempo libero in contesti belli e luminosi come i centri commerciali, ma – a differenza di questi ultimi – non segnati dall’esperienza del consumo: luoghi nei quali si ha diritto di accedere e stazionare liberamente perché si è esseri umani, e non già clienti disponibili a spendere denaro.
Questa è appunto la speciale atmosfera che fino al 9 marzo si respirava presso la Biblioteca San Giorgio di Pistoia, collocata in un manufatto industriale oggetto di rigenerazione urbana, che si sviluppa su tre piani di 6.500 mq, contornato da un’area esterna di altri 3.000 mq: uno spazio molto grande, differenziato in base alle diverse funzioni, che prima della pandemia era in grado di accogliere in media 1.500 persone al giorno: persone di tutte le età, provenienze ed estrazione sociale, sottoscrittrici silenziose di un implicito patto sociale che le abilitava alla prossimità fisica (sedute nello stesso divanetto, accanto al bancone del bar, in coda per restituire i libri al bancone, davanti alle opere d’arte in mostra negli spazi espositivi) come testimonianza materiale della reciproca accettazione, di un reciproco riconoscimento del diritto di utilizzare uno spazio pubblico, non soltanto perché istituzionalmente finanziato da un ente pubblico, ma perché primariamente res publica, cosa di tutti.
In una biblioteca del genere (e per fortuna non solo in questa) il “miracolo” va oltre il tradizionale ambito della lettura, per estendersi ad uno stare insieme che crea comunità: una comunità che non fonda i suoi legami sulla comunanza delle radici, ma che trova il senso di sé nel voler condividere il futuro. La biblioteca è per definizione luogo del meticciato, della condivisione, della “conversazione”, per usare una espressione cara a David Lankes, professore di biblioteconomia americano, che ha sviluppato una specifica teoria sulle biblioteche innovative. Conversare significa per lui costruire assieme la conoscenza, elaborarla e farla propria, in un contesto di relazioni in cui la semplice trasmissione del sapere non funziona più: in una biblioteca come la San Giorgio (ma gli esempi sono ovviamente anche altri) l’accesso ai libri e alle altre fonti di conoscenza, fisiche o remote, si arricchisce con l’offerta di una miriade di appuntamenti gestiti gratuitamente da utenti esperti, che mettono a disposizione la propria professionalità per condividere momenti di approfondimento sui più disparati argomenti, che diventano occasioni per la tessitura di una fitta rete di relazioni personali all’insegna dell’educazione permanente.
Non sarà facile trasferire nel mondo digitale questo ricco universo di relazioni che fa della biblioteca un vero e proprio laboratorio di attivismo civico e di cittadinanza consapevole: il digital divide ha avuto in questi mesi effetti devastanti nell’allargare la forbice tra gli haves e gli haves not sul fronte delle competenze tecnologiche e dell’accesso materiale alle tecnologie.
La tenuta di tali relazioni non sarà facile, né le biblioteche da sole potranno farsi carico di colmare gli effetti dell’attuale deprivazione culturale e tecnologica. Ma è certo che saranno in molte a impegnarsi in tal senso, cercando alleanze con tutte le forze in campo, per riconfermare il proprio ruolo di cittadelle della democrazia.
Maria Stella Rasetti,
direttrice delle biblioteche e degli archivi della città di Pistoia
L’intervento di Maria Stella Rasetti è stato anche pubblicato su il manifesto, 8-11-2020, p.10.
Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo.
Non indossate l’abito del «Politically correct».
Serve a necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera
Politicamente corretto Ogni organizzazione sociale ha le sue interdizioni: senza di esse non vi è comunità che regga. Il capitalismo assoluto cela le sue interdizioni pur rappresentandosi come la società più libera che la storia umana abbia conosciuto.
Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo assoluto.
Per necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera si opera secondo modalità plurali. La chiacchiera è il distrattore di massa del capitale: l’etere è occupato dal continuo flusso di informazioni, e di gossip, che funzionano per distrarre i popoli, che si vogliono plebi, dalla durezza del reale e trasportarlo in un mondo onirico di desideri e sogni derealizzanti. La chiacchiera è la nuova religione del capitalismo assoluto, religione nichilista in cui mediocri personaggi di nessun talento raccontano il loro privato. Il dispositivo opera per sostituire il concetto (Begriff) con la chiacchiera (Gerede). I santi, i letterati e gli scienziati che nella fase precedente del capitalismo erano i modelli dialettici e critici del capitalismo, sono sostituiti dalla mediocrità dei narcisi dello spettacolo, dai loro racconti “tutti simili” come le loro fisicità e che convergono sulla cultura del privato e dell’indifferenza verso il pubblico. Sono vere armi per veicolare il capitalismo assoluto nella forma infantile ed innocente del narcisismo incentrato sul corpo da esporre e della parola da annichilire. La differenza, e l’identità dialettica sono respinte, poiché qualsiasi intelligenza media può ben rendersi conto che le storie e le aspirazioni raccontate sono tutte “drammaticamente” eguali. L’attenzione è volta unicamente al proprio privato che riproduce mediante gli automatismi della chiacchiera i modelli socialmente imposti. La gabbia d’acciaio ha le sbarre invisibili, perché costruite con gli atti fonatori senza prospettiva e senza logos. Il potere non cala dall’alto, ma si diffonde mediante le stesse vittime: è nella loro carne, vi si installa per renderli automi nei quali convive la vittima con il carnefice. I diritti individuali sono negati, benché siano la bandiera ideologica e violenta del grande capitale. Il diritto alla parola non è il diritto alla chiacchiera, ma al concetto, alla riflessione; pertanto la chiacchiera interdice il pensiero e neutralizza il diritto alla parola, al libero concetto e alla pratica del logos. Il dialogo decade a pura emissione di dati e di immagini, nega se stesso, è sostituito con un suo surrogato. Il circo mediatico, mentre spinge a parlare di tutto, ad usare un linguaggio senza filtri opera per impedire l’esperienza critica comunitaria, la quale non può che concretizzarsi con il linguaggio significante. La chiacchiera è veicolo della reazione, della conservazione senza speranza e senza pensiero. La chiacchiera allarga i suoi spazi per occupare la temporalità delle menti. È associata all’immagine fino a confondersi con essa, dato che la semplicità lessicale diviene la copia dell’immagine, l’una non aggiunge nessuna informazione all’altra, ma entrambe destabilizzano l’attenzione, attaccano il pensiero nella sua genealogia. Gli automatismi irriflessi divengono la forza del capitale che desoggettivizza, e riduce le identità a semplici presenze gettate nella ridda degli stimoli senza mediazione concettuale. L’interdizione è tanto più violenta tanto più è occultata dall’ideologia della chiacchiera, la quale è l’arma con cui si conquistano “le nuove colonie” per il capitale. Ogni vivente è un regno da usare e da occupare. Il politicamente corretto è la forma del nuovo dispositivo di controllo. La tragedia attuale è il passaggio della sinistra sconfitta nell’impero della chiacchiera degli pseudo diritti individuali. La frontiera del politicamente corretto con le sue interdizioni ha trovato nella “sinistra” il mezzo di consolidamento del capitale. Dopo la caduta del comunismo ed il dissolvimento del partito comunista, la “sinistra” di potere ha ritrovato un suo nuovo ruolo nell’ideologia dei soli diritti individuali, appare come il salvagente a cui aggrapparsi per salvarsi, ma che in realtà l’ha fatta affondare. Il naufragio ed il timore di perdere posizioni di potere hanno favorito un ribaltamento tanto veloce quanto opportunistico. Il nichilismo rende adattivi, per cui la “sinistra” recava in sé tale matrice che ora si svela nella sua verità. Il nuovo mantra della nuova “sinistra”, come rileva Costanzo Preve, è l’acquisizione dogmatica e preconcetta della liberalizzazione dei costumi e dei consumi:
«In primo luogo, la genesi vera e propria. Si tratta di un episodio interno alla cultura radicale di estrema sinistra negli USA, dalla Vecchia Sinistra (old left), ancora socialista e comunista di tipo europeo, alla Nuova Sinistra (new left), postsocialista e postcomunista, sconfitta a livello di “struttura”, e che cerca una rivincita al livello del costume, dei modi di pensare e della “sovrastruttura”, in particolare per quanto concerne i quattro punti del sessismo maschilista, dell’omofobia, dell’antisemitismo antiebraico e del razzismo contro i “diversamente colorati” (neri, amerindi eccetera). In secondo luogo si tratta di una generalizzazione dell’intera società “ufficiale” di questo movimento, generalizzazione resa possibile e necessaria da un mutamento di natura dell’intera società capitalistica globale, r cioè caratterizzata dalla dicotomia Borghesia/Proletariato, ad una fase speculativa, e cioè post-borghese e post-proletaria, deve far cadere e rendere obsoleti i vecchi modelli razzisti, sessisti ed omofobi».[1]
Semplicismo del politicamente corretto La “sinistra” ha abbracciato la causa della liberalizzazione dei costumi, ha rinunciato al pensiero critico e comunitario con il risultato che è diventata parte del politicamente corretto. Con la rinuncia alla dialettica in favore dell’individualismo narcisistico la lettura complessa e profonda dei fenomeni politici è sostituita da un semplicismo povero di idee e di ideali. Il femminismo e la lotta contro i razzismi sono diventati il mezzo più efficace per rafforzare il sistema capitale. La “sinistra arcobaleno” favorisce l’assimilazione nella società dei consumi, libera per poter mettere ai ceppi i “liberati”. Nel regno animale dello Spirito c’è spazio per chiunque, perché al capitale non importa il genere di appartenenza o l’identità di provenienza, il suo scopo è trasformare ciascuno in consumatore senza limiti e in adoratore idolatra del plusvalore. Il capitale è flessibile, è “rivoluzionario”, è un buco nero che attrae energia e materia per ridurla in “niente”. Le differenze sono rese irrilevanti in nome del consumo; pertanto a ciascuno è concesso di dichiarare la propria differenza, purché non si sottragga ai consumi ed all’individualismo dall’io minimo. Il capitale vive di ossimori, pertanto l’individuo è ammesso, ma solo se si connota come personalità minima. Si interdice la formazione personale ed identitaria in nome del “divino consumo”:
«In breve: la “sinistra” (nulla a che fare con le severe analisi strutturali di Marx) crede che il keynesismo in economia e la liberalizzazione dei costumi nella cultura siano tappe di avvicinamento progressivo (e di fatto “stadiale”) ad una società socialistica e comunistica (in senso umanistico ed antistaliano), in quanto crede che per sua stessa insuperabile natura il capitalismo si fondi su di un profilo razzista, omofobico, maschilista, sessista, autoritario, eccetera. Di fronte al fatto inatteso, invece, che il capitalismo per sua stessa natura riproduttiva tende a superare il suo primo momento di instaurazione, effettivamente razzista, maschilista, omofobico, sessista eccetera, per poter allargare le sue basi di consenso e di gestione attiva, includendovi appunto i neri, le donne, gli omosessuali, eccetera, non sapendo neppure più dove porre le sue basi culturali identitarie».[2]
Fascismo sempre alle porte Il politicamente corretto per interdire la discussione su alternative potenziali e sulla verità del presente utilizza abilmente timori e paure del passato. Si fa appello al fascismo in assenza di fascismo. Si mette in atto un’operazione di derealizzazione, si proietta l’aggressività verso un nemico immaginario. Si legittima il presente con la religione dell’olocausto, per cui il sistema capitale è idolatrato per contrasto con i crimini del nazifascismo, ma naturalmente si occultano i crimini del capitalismo del passato come del presente. La religione dell’olocausto con la sua immensa produzione libraria e mediatica inonda il mercato ed unisce al profitto lo strutturarsi ossessivo e delirante della minaccia del nazismo alle istituzioni democratiche. Il pericolo inoculato nei popoli è lo strumento per tenerli docilmente alla catena:
«La religione olocaustica è quindi bivalente, in quanto serve sia all’asservimento simbolico dell’Europa, chiamata ad espiare per sempre, sia alla giustificazione indiretta delle atrocità razziste del sionismo colonialistico. Il capitalismo ha superato da tempo lo stadio ascetico-weberiano dell’accumulazione e lo stadio freudiano della necessità del Super-Io paterno baffuto, barbuto e peloso con completamento amoroso materno in busto a stecche soffocanti, ed in questo modo ha soltanto una fondazione individualistica e consumistica».[3]
L’antifascismo funziona come catalizzatore per una società disgregata, per impedire che l’individualismo divori se stesso si produce un artificio valoriale con cui unire all’occorrenza gli individui in perenne lotta e competizione. La religione dell’olocausto funziona, anche perché è una religione senza responsabilità verso il presente e che si limita a brevi liturgie da attivare nei momenti di crisi:
«L’antifascismo in assenza completa di fascismo è in realtà un meccanismo ideologico pestifero per impedire la valutazione dei fatti attuali. La costituzione italiana è stata distrutta nel 1999 con i bombardamenti sulla Jugoslavia, e da allora l’Italia è senza costituzione, e lo resterà finché i responsabili politici di allora non saranno condannati a morte per alto tradimento (parlo letteralmente pesando le parole), con eventuale benevola commutazione della condanna a morte a lavori forzati a vita».[4]
La religione dell’olocausto giustifica l’occupazione americana dell’Europa e con essa la sua colonizzazione.
La quarta guerra mondiale Il capitalismo assoluto produce surrogati per compensare l’inquinamento dei bisogni autentici ed eterni dell’essere umano (religione, filosofia, arte e scienza). Ogni surrogato non è che un prodotto che non potrà rispondere alle autentiche esigenze assiologiche ed ontologiche dell’essere umano, ciò malgrado la religione dell’olocausto, del femminismo in carriera, delle famiglie arcobaleno e dell’uguaglianza come irrilevanza sono diventati i valori della sinistra che pratica il politicamente corretto senza prospettive:
«L’Antifascismo Senza Fascismo è stato quindi la religione di compensazione di un mondo che stava disgregando i precedenti valori comunitari. Si è trattato di una vera e propria “religione laica” o meglio di un surrogato laico della vecchia religione, e questo spiega perché i cosiddetti “fascisti” sono diventati l’equivalente degli intoccabili e degli immondi delle vecchie religioni tribali».[5]
Il politicamente corretto coincide con la quarta guerra mondiale, ovvero con l’americanizzazione del pianeta, con l’omogeneizzazione di popoli, lingue e culture. Il politicamente corretto cela la guerra in corso, la quale è un’azione belligerante continua contro ogni identità che si oppone al dominio messianico ed imperiale americano. Le responsabilità della sinistra divengono inquietanti dinanzi a tali crimini:
«Il progetto egemonico del nuovo impero americano si fonda su di una omogeneizzazione oligarchico-plebea dell’intera umanità. Al posto della ricca compresenza di nazioni, popoli e classi del mondo, si avrebbe un’unica piramide sociale omogeneizzata composta di individui preventivamente sradicati e poi risocializzati su basi consumistiche (ovviamente, basi consumistiche non egualizzate, ma a differenziati gradi di potere d’acquisto)». [6]
Contro il politicamente corretto bisogna operare riaprendo la catena dei perché, e trasformare la domanda in prassi. La resistenza è possibile, e l’emancipazione personale deve diventare potenza comunitaria per la liberazione culturale ed economica. Nessuna emancipazione può concretizzarsi con azioni singolari, ma l’impegno critico nel quale il concetto è il protagonista è la premessa per ogni trasformazione e prassi:
«Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido».[7]
La filosofia come talpa e civetta La filosofia lavora non per l’immediato, essa è a volte come la talpa di Hegel il cui lavoro carsico prepara l’emancipazione ed il volo della civetta. Costanzo Preve è stato consapevole di aver lavorato per un futuro non determinabile. La sua dedizione alla filosofia diviene eguale alla passione dei grandi filosofi che hanno pensato il passato per capire il presente e preparato il futuro. La filosofia è, anche, dono di sé e questo i sofisti del politicamente corretto non possono comprenderlo:
«Passiamo al lungo termine. Dal momento che sono un pessimista generazionale ed un ottimista storico, e sono abituato a studiare i secoli ed i millenni, dò per scontato che questa abietta formazione ideologica del Politicamente Corretto certamente sparirà. Ma quando? Sospetto che questo non solo riguardi me, ma neppure gli attuali ventenni».[8]
Costanzo Preve ha pagato con l’impegno e l’auto-marginalità la sua lotta contro il politicamente corretto, il suo nome sarà sempre legato alla passione filosofica (Bestimmung) la quale non può che essere attività politica comunitaria. Può essere un esempio scomodo, ma ogni grandezza ci scopre impreparati ed inadeguati, ciò malgrado che ognuno salga sul suo asinello e scenda dal dorso dei grandi, come era solito affermare, poiché solo il coraggio di deviare dal cammino tracciato dalle potenze del nichilismo può rendergli onore. Non siamo vocati a diventare eroi, ma ognuno può trovare il modo di impegnarsi a suo modo sul solco dei dissenzienti del concetto, bisogna tradurre la società dello spettacolo in concetto per sperare nella prassi collettiva:
«Nella produzione televisiva della comunicazione il mezzo determina il contenuto del messaggio, scegliendo sistematicamente gli aspetti più superficiali ma anche più “visivi”, e dunque impressionanti, dell’evento riprodotto. In questo modo, ad esempio, la CNN americana, che è lo strumento televisivo dell’impero, sceglie di rappresentare le “atrocità” che poi serviranno da legittimazione pubblica alla risposta dei bombardieri americani. Tutto questo è rivestito da un’aura di presunta imparzialità ed autenticità che sembra non nascondere niente mentre nasconde tutto, dagli interessi economici in gioco ai precedenti storici. Lo voglia o meno, il giornalista televisivo è al servizio di questo meccanismo di eccezionalità visiva, che gira sempre intorno a tre forme archetipiche di spettacolo, lo spettacolo sportivo, lo spettacolo porno e lo spettacolo di morte in diretta».[9]
In questi giorni cade la data della sua morte (23 novembre),[10] ma ogni grande pensatore non muore mai; le verità che un pensatore ha svelato sono il lascito, a volte scomodo, con cui bisogna dialetticamente confrontarsi.
«[…] conoscere se stessi, come hanno detto alcuni tra i sapienti, è la cosa più difficile, ma anche la più piacevole […]; come, dunque, quando vogliamo vedere la nostra faccia la vediamo guardandoci allo specchio, allo stesso modo quando vogliamo conoscere noi stessi potremmo conoscerci guardandoci nell’amico; infatti l’amicoi è, come abbiamo detto, un alter ego. Se, quindi, è piacevole conoscere se stessi, e non è possibile conoscersi senza un altro che ci sia amico, l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso».
Aristotele, Grande Etica, II, 1213 a 13-25, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 1187-1189.
«Non c’è vera assenza se resta almeno il ricordo dell’assenza. […]
Se uno nin ha più la terra ma ha il ricordo della terra allora uno può sempre disegnare una mappa».
Anne Michaels, In fuga, Giunti, 1998
Una voce ci riscuote che non riconosciamo. Andiamo più vicini, tentiamo di distinguere bene le parole. È questo che fa cominciare o finire l’amore: cominciamo a capire le parole. Per salvarci doniamo e perdoniamo.
Anne Michaels, Anna, da The Weight of Oranges (1986)
«Ciò che Heidegger chiama fenomenologia e ontologia non è in realtà che un’astratta e mistica descrizione antropologica dell’esistenza umana, descrizione che nel suo concreto attuarsi fenomenologico insensibilmente si converte in una disamina – spesso interessantissima –dell’esistenza del filisteismo intellettuale durante la crisi del periodo imperialistico » (p. 506).
«Il metodo e il contenuto della filosofia di Heidegger esprimono qui, in una terminologia estremamente complicata (ma soprattutto affettata), il sentimento della vita proprio dell’intellettuale filisteo in un’epoca di grave crisi: stornare il pericolo che minaccia la propria ‘esistenza’ in maniera che non ne risulti alcun obbligo di modificare le proprie condizioni esteriori di vita o anche solo di collaborare al cambiamento dell’obiettiva realtà sociale. Per quanto Heidegger sia difficile da capire, queste conseguenze sono state tratte giustamente dalla sua filosofia» (pp. 515-516).
«Il fascismo deve non poco alla filosofia di Heidegger e di Jaspers se poté educare gran parte dell’intellettualità tedesca a una neutralità più che benevola. A questo riguardo rimane cosa piuttosto indifferente la posizione personale che essi hanno assunto nei confronti dell’hitlerismo, poiché nessuno dei due ha mancato fede ai presupposti e alle conseguenze della propria filosofia fino al punto da schierarsi realmente contro Hitler. Il fatto poi che Heidegger abbia aderito apertamente al fascismo, mentre Jaspers, per ragioni di carattere privato, non sia potuto giungere a tanto, e dopo la caduta di Hitler, quando il vento sembrava soffiare da sinistra, abbia utilizzato l’otium cum dignitate mantenuto sotto il nazismo per atteggiarsi ad antifascista, non cambia nulla a questo fondamentale stato di cose. Resta il fatto che con il contenuto obiettivo della loro filosofia hanno entrambi spianato la via all’irrazionalismo fascista» (531-532).
György Lukács, Die Zerstõrung der Vernunft (1954); trad. it. La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959.
«[…] Ci sono tre modalità primarie di favorire lo sviluppo della filosofia germinale: la conversazione frequente e prolungata tra due o più persone, le esperienze prolungate che ti portano letteralmente in un altro mondo (il racconto impegnativo, la recitazione, la musica, le arti figurative, l’immersione in altro contesto linguistico, il gruppo alternativo …), e infine le sessioni di filosofia con i bambini o i ragazzi. La prima risorsa – la conversazione frequente e prolungata – dipende essenzialmente dai genitori e dai nonni, dalla loro maggiore o minore propensione a ricercare un rapporto dialogico con noi fin da quando siamo piccini. […] La seconda risorsa – il teatro, la musica e ogni altro genere di esperienza che produce una discontinuità dal vissuto quotidiano — ha l’impagabile pregio di portarci letteralmente in un altro mondo e di trattenerci a lungo in quel mondo, dandoci l’agio, specialmente se siamo bambini o ragazzi, di sviluppare abilità e sensibilità impensate. Al nostro ritorno, il mondo ordinario (la famiglia, la classe…) puntualmente ci apparirà sotto una nuova luce, e il confronto non mancherà di suscitare riflessioni […]. La terza risorsa è la filosofia con i bambini e i ragazzi. L’intento fondamentale non è certo di iniziarli alla filosofia, né di disseminare un po’ di cultura filosofica, né di cominciare a far conoscere loro almeno il nome di qualche personalità del passato, da Socrate in su e in giù. Parlare di Socrate o di chiunque altro non ci aiuterebbe a valorizzare il potenziale filosofico di chi lo sente nominare per la prima volta. Le parole “filosofia”, “Socrate” e qualunque altra possono aspettare il loro turno. Prioritario non è certo impartire nozioni di alcun tipo, bensì dare spazio alla filosofia germinale […]. Ho provato così a suggerire qualche idea sull’arte di creare occasioni in cui dare voce a idee, convinzioni, pregiudizi, modi diversi di vedere le cose, opportunità di “guardarsi allo specchio” e di parlarne. Questa è filosofia, anche se si evita di tenere una lezione da esperti sulla psicologia dei teenager e se si fa a meno della parola “filosofia”; e di questa filosofia i ragazzi non sono spettatori, ma protagonisti. In linea di massima, una, due, tre immagini che diano da pensare possono essere sufficienti per consentire al docente di invitare i ragazzi a trovare a loro volta un input significativo su cui si possa poi ragionare in gruppo, sempre che a suggerire spunti di riflessione meritevoli di avere qualche sviluppo non siano le circostanze o il fatto del giorno. Se poi parliamo di ragazzi più grandi, della scuola secondaria superiore, sarà il caso di delineare strategie differenziate per quelle scuole nelle quali “si fa filosofia” e quelle nelle quali non si fa. Nel primo caso, poiché la (storia della) filosofia è oggetto di studio, con prestazioni valutate, è assai opportuno individuare occasioni di fare filosofia che non siano legate all’insegnamento, anche se l’insegnamento non manca di offrire temi e spunti anche fecondi. Non dovremmo mai dimenticare che il filosofare è un’attività di tutti e che solo a certe condizioni diventa un sapere: prima c’è il pensare, il provare a ragionare con la propria testa, mentre il sapere di ciò che è stato pensato da altri può venire solo in un secondo momento. Negli istituti tecnici e professionali, invece, la domanda di filosofia nel senso che sono andato specificando si fa addirittura drammatica, perché il prevalere di un apprendimento orientato allo svolgimento di un mestiere o di una professione rischia di generare in questi contesti più che altrove atrofia della mente, quasi che fuori dalla scuola i maschi non sapessero far altro che parlare di sport e le femmine di bellezza, eleganza, moda. Ovviamente non è così che stanno le cose, ma il semplice fatto di poter concepire questo stereotipo è sintomo acuto di inaridimento, dunque di atrofia, di impoverimento della gamma delle risorse mentali. E qui la responsabilità è del dirigente di istituto e degli insegnanti, che talvolta nemmeno si accorgono degli acuti bisogni formativi “di contorno” dei propri studenti. Occorrerà perciò a maggior ragione partire da forme “morbide” dell’invito a costruire qualche riflessione: le forme appunto illustrate finora — più un’altra. In queste scuole più che in altre (ma, in linea di principio, ovunque) è facile che il docente avverta l’esigenza di “nutrire” la classe con qualche idea in più, in modo da introdurre nel mondo mentale degli studenti un certo numero di idee che, in molti casi, rischierebbero di rimanerne fuori per sempre. Proverò a fare qualche esempio, pur sapendo che ognuno ha la sua casistica personale. Menzionerei in primo luogo la figura di Tersite. Mi riferisco al secondo canto dell’Iliade (vv. 155-277), che il docente può agevolmente riassumere, per poi magari leggerlo in traduzione alla fine, dopo averne discusso. In questi versi Odisseo esorta la “truppa” a credere nei capi e nella spedizione e non esita a percuotere i più riottosi, ma un soldato qualunque, Tersite, prende la parola e si permette non solo di criticare il capo della spedizione, ma addirittura di incitare i commilitoni: “Torniamocene a casa, così vedremo se il capo si rende conto, finalmente, dell’importanza di ciò che facciamo noi semplici soldati”. Odisseo lo rimbrotta severamente e si preoccupa dell’effetto che le sue parole potrebbero sortire, perché si rende conto che Tersite è agoretés, “uomo capace di parlare in pubblico e di risultare coinvolgente”, caratteristica rara tra i soldati semplici. Non è forse questo un embrione di coscienza di classe e di lotta di classe? Ci colpisce che già in Omero ci sia una netta, inequivocabile identificazione degli interessi di classe, ma quando si è cominciato a parlare di lotta di classe? Per iniziativa di chi? Qualcuno lo sa? Collegare questo spunto a Marx significa fare un salto interessante e impensato, che lascia il segno.
Un altro testo topico, che si presta molto bene a diventare oggetto di attenzione nei contesti indicati, è la storia di Nessuno, il falso nome che si è attribuito Odisseo quando ha dovuto confrontarsi con il ciclope Polifemo. Si tratta di una storia arcinota, che occupa gran parte del libro IX dell’Odissea. Gli elementi da segnalare sono il ricorso al nome Nessuno (v. 366) e le parole che Polifemo ad accecamento avvenuto scambia con gli altri ciclopi, chiedendo il loro aiuto. «Che ti è successo?», gli chiedono. «Nessuno mi ha accecato», risponde Polifemo. «Ma se nessuno ti fa violenza e sei solo, allora sei tu ad aver perso la ragione!» (vv. 408-412). L’equivoco causato dall’ambivalenza del nome produce subito un effetto che in quei tempi lontani era raro o addirittura ignoto: la contraddizione. Polifemo dà l’impressione di contraddirsi, e la contraddizione è insostenibile, perché scredita impietosamente colui che si contraddice. Da qui l’importanza dei tentativi di dimostrare che l’altro si contraddice o, al contrario, di dimostrare che una certa contraddizione è solo apparente. Perché è facile che in questi casi si presenti un’alternativa secca: o si vince o si perde. I ragazzi potrebbero essere invitati, quantomeno, a portare esempi […]».
Livio Rossetti, Anche i bambini pensano, Introduzione a: Dorella Cianci e Massimo Iiritano, Pensare da bambini. La sfida di Amica Sofia, Erickson editore, Trento 2020, pp. 20-22.
Dorella Cianci
Grecista e filologa di formazione, ha un dottorato in Storia dell’Educazione. Attualmente è assegnista di ricerca in Storia della Filosofia Medievale presso l’Università LUMSA di Roma, dove insegna anche al laboratorio di Filosofia dell’Educazione. È direttrice della rivista scientifica «Amica Sofia», edita da Rubbettino. Collabora con alcuni quotidiani, fra cui L’Unità, La Repubblica, «la Lettura» de Il Corriere della Sera, Il Mattino, in particolare come traduttrice. Scrive per le pagine culturali del Il Sole 24 Ore. Tra le sue pubblicazioni, Corpi di parole (2014) e Il teatro di Dioniso (2018).
Dottore di ricerca in Filosofia della religione all’Università di Siena-Arezzo, ha svolto attività didattica e di ricerca presso diverse università, italiane e straniere. Attualmente è docente di ruolo nella scuola pubblica, è membro del comitato scientifico dell’Osservatorio per la Comunicazione dell’Università Federico II di Napoli, presidente dell’associazione nazionale «Amica Sofia» (Università di Perugia) e collabora alla cattedra di Filosofia politica dell’Unical. È stato allievo e collaboratore, tra gli altri, di Sergio Quinzio, Bruno Forte, Sergio Givone e Massimo Cacciari.
Livio Rossetti(1938) è stato professore di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni. Nel 1989 ha fondato la Intern. Plato Society a Perugia, nel 2006 ha dato il via agli incontri di Eleatica che si tengono tuttora a un passo dagli scavi di Elea (in pieno Cilento) e nel 2018 ha fondato la Intern. Society for Socratic Studies a Buenos Aires. Tra i suoi studi su Parmenide e Zenone ricordiamo: Un altro Parmenide (2 voll., Bologna 2017) e Una tartaruga irraggiungibile (fumetto, Bologna 2013): nel 2019 questo volumetto è stato pubblicato in spagnolo, a Buenos Aires. Nel 2020 è in pubblicazione La filosofia virtuale di Parmenide Zenone e Melisso.
«Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci [“senza tregua e senza pietà”]. Non esistono “giorni feriali”, non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore».
Walter Benjamin, Il capitalismo come religione, Il melangolo, Genova 1985, p. 43.
«Quante volte ciascuno di noi ha “passeggiato” per la campagna senza saper decifrare il paesaggio umano che contemplava! Guardavamo e il nostro occhio era quello di un esteta goffo che confonde i fatti della natura e i fatti umani, che osserva i prodotti dell’azione umana – quel volto che cento secoli di lavoro hanno dato alla nostra terra – come si osserva il mare o il cielo, nei quali ogni traccia umana scompare».
Henri Lefebvre, “Introduzione”, in Id., Critica della vita quotidiana [1947], trad . il. di Vincenzo Bonazza, Dedalo Libri, Bari 1977, voI. l, p. 151.
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.AcceptRead More
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.