Salvatore Bravo – Fallimenti e ricostruzioni teoriche. Note su Gianfranco La Grassa.

Gianfranco La Grassa 01

Salvatore Bravo

Fallimenti e ricostruzioni teoriche

Note su Gianfranco La Grassa

Gianfranco La Grassa (Conegliano, 19 gennaio 1935) è un post-marxista, definizione generica e nel contempo embrionale, perché la galassia del post-marxismo è abitata da un mondo plurale, in cui convivono una molteplicità di posizioni e tendenze, ma non è ancora chiaro quale prevalga. È un pensatore che segna il passaggio dal crollo del marxismo a una nuova postura di sinistra ancora incerta, quindi, dai tratti indefiniti, benché usi le categorie marxiane per leggere il presente. Il punto di partenza di La Grassa è constatare il sostanziale fallimento del comunismo reale, poiché la classe operaia non è stata capace di gestire l’apparato industriale. Di fondo vi è un limite teorico di Marx e del marxismo che ha “ridotto” la contrapposizione tra capitale e salario a semplice opposizione giuridica tra proprietari e non proprietari. La realtà storica effettiva, invece, non è semplice antitesi giuridica, ma opposizione tra capacità di gestione manageriale della proprietà (dominanti) e sulla sponda opposta l’incapacità decisionale dei subalterni (dominati), i quali sono subalterni non solo per la condizione economica, ma specialmente perché sono esclusi dai circuiti decisionali delle imprese e del capitale. Il comunismo reale ha palesato tale “privazione culturale” con l’effetto che la rivoluzione è ricaduta su se stessa, si è burocratizzata, ha nuovamente escluso gli operai ed i contadini dalla gestione del potere. Il lavoratore collettivo produttivo ipotizzato da Marx, quale punto nodale per la messa in atto del comunismo non si è materializzato, poiché si è riformata una nuova classe di gestori del potere economico di cui la classe operaia è stata suddita. Nella visione di Marx il capitalismo si sarebbe trasformato in capitalismo finanziario (III Libro del Capitale), per cui i padroni avrebbero lasciato la gestione delle fabbriche agli ingegneri e ai tecnici, i quali si sarebbero dovuti alleare con gli operai, al fine di controllare collettivamente le fabbriche, ribaltando il potere, e liberando operai e classe media. I padroni, ormai “aristocrazia della finanza”, si sarebbero dedicati a “produrre” plusvalore in borsa, il parassitismo finanziario con la loro autoesclusione dalla diretta gestione della produzione sarebbe stato l’inizio della rivoluzione.
La classe operaia idealizzata da Marx quale motore universale della storia, non aveva e non ha le competenze per una simile operazione politica e strutturale, essa è stata un mito catalizzatore che ha mostrato “nella storia” la sua verità. Il comunismo non ha mantenuto le sue promesse, il disincanto per le condizioni dei subalterni si è congiunto con il fallimento predittivo di Marx. La successione stadiale ipotizzata da Marx è stata cancellata dalla storia effettiva. I due elementi hanno prodotto il collasso del comunismo, la sua effettiva scomparsa e il disincanto generalizzato.
La Grassa non si definisce marxista, sperimenta una nuova identità partendo dall’analisi delle condizioni presenti del capitalismo. La verità nuda e cruda del comunismo è davanti a noi, distogliere lo sguardo significa solo rimandare il problema senza risolverlo:

“Perché l’elemento decisivo di tale teoria consisteva nella supposta oggettiva funzioni emancipatrice universale della classe operaia considerata nella sua (quasi) totalità ( le “masse proletarie”) oppure con più specifico riferimento alla sua presunta avanguardia che ne rappresentava la coscienza – il manifestarsi dell’incapacità rivoluzionaria di detta classe, che non si volle mai riconoscere formulando una sequela di ipotesi ad hoc sempre più inconsistenti, condusse infine al ripiegamento su una costruzione socialistica da parte dello Stato. In definitiva, ebbe la sua rivincita il socialismo di Stato Lassalle, aspramente criticamente e sbeffeggiato da Marx[1]”.

L’incapacità operaia di gestire la produzione con la classe media si è confermata non solo ad Est, ma anche ad Ovest. Dinanzi ad una simile verità storica non resta che prendere atto dell’incapacità della classe operaia di essere la protagonista del movimento rivoluzionario, per cui bisogna congedarsi dai miti marxisti e marxiani per un sano principio di realtà da cui riteorizzare ex novo l’alternativa:

“Il passaggio dalla proprietà al potere di disporre fu per l’epoca – in cui la lotta dei comunisti rivoluzionari (che si consideravano neoleninisti) e dei marxisti rinnovatori mirava a sconfiggere dall’interno il presunto neorevisionismo delle dirigenze PCUS e di praticamente tutti i partiti comunisti, salvo per un breve periodo (fino alla morte di Mao nel 1976) quello cinese – un evento liberatorio, di cui è oggi estremamente difficile rendersi conto. Tale passaggio manteneva ferma la convinzione della centralità rivoluzionaria della classe operaia, non riprendendo quindi il concetto di lavoratore collettivo cooperativo, poiché era fin troppo evidente, anche in seguito all’esperienza accumulata nell’ambito del capitalismo occidentale, che le potenze mentali e le funzioni direttive della produzione (in realtà dei processi di lavoro) dimostravano di non essere per nulla in grado, malgrado alcune speranze sollevate dal movimento del 1968, di staccarsi dal potere delle classi proprietarie e di criticare queste ultime in funzione di una – in realtà mai innescata, né all’ovest né all’est – riappropriazione reale dei mezzi di produzione (capacità di utilizzarli per i propri fini, ecc.) da parte dell’intero corpo lavorativo[2]”.

 

Capitalismo e razionalità strategica
L’analisi “oggettiva” di La Grassa per teorizzare il movimento anticapitalistico parte dall’errore teorico di fondo dei marxisti, i quali hanno effettuato un riduzionismo puramente giuridico ed economicistico, per cui bisogna “ripartire” da un macroelemento economico, tecnico e sociale, ovvero più che la lotta tra capitale e lavoro salariato, è la lotta strategica tra gli imprenditori ad essere la forza sostanziale e dinamica del capitalismo che ha raggiunto la sua espressione evidente nella contemporaneità. Tale lotta non può che avvenire in presenza di altissime competenze manageriali che si traducono in strategie per conquistare i mercati e per conquistare le strutture statali al fine di affermare la supremazia dei gruppi in lotta tra di loro. La razionalità strategica diviene il perno operativo dei gruppi imprenditoriali-manageriali in lotta che per conquistare mercati, politica e Stato con forme concorrenziali aggressive che La Grassa denomina “conflitti strategici” con cui appropriarsi di quote di mercato e con esso “zone d’influenza” sociale, culturale e politica. Il denaro è per i “dominanti” un mezzo per conquistare un potere sempre più vasto, per penetrare in aree sempre più vaste della politica come della produzione culturale. In questo contesto “i dominanti” non sono assimilabili alle classi agiate, perché per essi il denaro è solo uno strumento per ritagliare porzioni sempre più larghe di potere, e lo stesso Stato è interno a questa strategia, esso non è caratterizzato da omogeneità strutturale, ma dietro la parvenza dell’unità è mosso dalle forze strategiche in campo:

“Concentrare l’attenzione teorica e analitica solo sull’oligopolio e/o la concorrenza, in quanto forme diverse di mercato, è appunto conseguenza di quella impostazione che pone al centro i problemi della proprietà o meno dei mezzi di produzione e che considera l’impresa solo come unità produttiva. Se teoria e analisi vengono fondate sul concetto di conflitto strategico, la lotte per le quote di mercato, e le varie forme di quest’ultimo, vengono ricomprese nel più vasto orizzonte dello scontro interdominanti per le zone d’influenza, sia con riguardo alle diverse sfere sociali (economica come politica e culturale) sia riferendosi, in senso geopolitico, alle diverse aree della formazione capitalistica mondiale[3]”.

La lotta strategica produce nuovi bisogni, per vendere nuovi prodotti. L’agire strategico si rafforza mediante la cultura del consumo, con l’omogeneizzazione delle scelte dei consumatori/dominati orchestrata dai gruppi manageriali. La razionalità strategica non agisce semplicemente incrementando la produzione, ma “studia” strategie di condizionamento sociale per cambiare modi di vita, tradizioni e morali, per cui il “nuovo prodotto” non è solo un elemento materiale che produce plusvalore, ma è veicolo di nuovi modelli culturali che calano dall’alto delle strategie manageriali e che colgono i consumatori nel ruolo dei “dominati” nel lavoro come fuori di esso:

“L’anello di congiunzione tra esterno e interno dell’impresa capitalistica, tra i ruoli della strategia di conflitto interimprenditoriale e quelli di coordinamento interno orientato al minimax, è rappresentato dalle innovazioni di prodotto[4]”.

 

Crisi e opportunità
Il conflitto strategico interimprenditoriale è il tallone di Achille del capitalismo, poiché le lotte per la conquista imperiale di quote di mercato e potere sempre più ampie a livello globale, e le tensioni interne per controllare gli apparati statali da usare per favorire i gruppi in ascesa espone il capitalismo a crisi, le quali possono essere un’opportunità per il suo ribaltamento. Non vi sono le fasi stadiali marxiste a profetizzare il cambiamento, pertanto la crisi è una partita aperta, in cui si muovono sia movimenti anticapitalistici, sia movimenti ed ideologie di diverso genere. La crisi è un momento fluido come il potere del capitale, è un’improvvisa fessurazione del potere all’interno del quale possono agire forze dinamiche di opposizione. Non vi è nulla che assicuri il risultato, ma nelle crisi ci si gioca una possibilità di cambiamento verso destra o verso sinistra non realizzabile nei momenti di “solidità fluida” del capitalismo:

“E’ in una situazione di simile complicatezza – per nulla affatto caratterizzata da un’omogenea massa di dominati in movimento in movimento contro la minoranza dei dominanti – che deve destreggiarsi l’eventuale gruppo di azione strategica per la trasformazione anticapitalistica. La tensione morale, di cui ho detto, è condizione necessaria ma non sufficiente; ad essa deve aggiungersi la capacità di analisi delle condizioni di possibilità che la crisi, con la lotta acuta scoppiata tra i dominanti per il rivoluzionamento delle posizioni di supremazia precedenti la crisi stessa, apre alla trasformazione anticapitalistica. Non c’è nulla di precostituito, nessuna ricetta di carattere generale in grado di indicare le modalità, storicamente specifiche, delle azioni strategiche che i gruppi mossi da intenti trasformativi della formazione sociale esistente debbono compiere per ottenere successo; mai immancabile, più spesso contrarie[5]”.

Gianfranco La Grassa ha sicuramente posto in essere problematiche rimosse dal marxismo ufficiale. Non si può per le sue posizioni teoriche definirlo un comunista, diventa difficile collocarlo all’interno di una categoria ben determinata, ciò non necessariamente è negativo, benché senza un’appartenenza esplicita il quadro teorico rischia di desertificarsi in assenza di tensione dialettica. Nella teoria del filosofo di Conegliano non vi è un fondamento metafisico, pertanto non è chiaro il percorso che “le forze morali anticapitalistiche dovrebbero percorrere”. Le crisi possono essere momenti congiunturali di grandi opportunità, ma in assenza di un fondamento metafisico è facile che l’opposizione anticapitalistica si sciolga in una pletora di posizioni, poiché il semplice “anticapitalismo”, non può tenere assieme movimenti e partiti che si connotano sempre più per la loro pluralità frammentata, mentre i fondamenti metafisici comuni permettono con più facilità di trovare compromessi e progettualità chiare da perseguire. Il soggetto che dovrebbe in situazione di crisi operare la svolta, non è in alcun modo esplicitato. Si può dubitare della formazione improvvisa in una situazione emergenziale di un soggetto rivoluzionario, credo che esso debba configurarsi nei periodi di apparente quiete del sistema, giacché il capitalismo non è solo conflittuale a livello globale, ma anche al suo interno agisce secondo modalità “distribuitive” che creano squilibri economici e di potere e specialmente produce una “qualità di vita” non rispondente ai bisogni umani. Il tema dell’alienazione è aggirato e la “normale violenza” che scorre nel sistema può, invece, diventare il nucleo concettuale trasversale per aggregazioni progettuali condivise. La Grassa ci offre strumenti per decodificare il presente, ma non ci aiuta ad orientarci verso il futuro che, in tale contesto, risulta nebuloso e distante, e ciò può demotivare la ricerca di un’alternativa al capitalismo come “stile di vita”. I gruppi che tumultuosamente si muovono nella crisi, in assenza di fondamenti metafisici e preparazione dialettica, possono sviluppare tendenze distruttive quanto il capitalismo:

“Nella crisi dunque – ma è solo in essa che si muovono in senso proprio, e tumultuosamente, le masse – i gruppi strategici trasformativi debbono attuare la guerra di movimento, e puntare piuttosto direttamente al controllo degli apparati del potere statale[6]”.

 

Ricominciare da Marx?
L’incapacità manageriale degli operai evidenziata da La Grassa ha un senso all’interno del capitale, ma rovesciato il capitalismo la gestione delle imprese e delle fabbriche dovrebbe essere non certo fondata sul paradigma manageriale che risponde alla logica della razionalità strategica e competitiva, ma sul servizio e sulla soddisfazione dei bisogni delle comunità. Non sono pochi gli esempi, anche se isolati, di operai che gestiscono direttamente imprese con un’organizzazione solidale. Il fallimento del comunismo e la momentanea vittoria del liberismo rischiano di oscurare la complessità dei fenomeni storici, i quali se sono letti sotto il “solo” cono d’ombra dell’evidente sconfitta storica, rischiano di eternizzare il liberismo. La storia non è prevedibile, pertanto si può ipotizzare che sia possibile ripensare il comunismo su nuova fondamenta e concettualizzando la sconfitta storica. Se si rinuncia a tale progetto si diventa complici della trasformazione della società in un “eterno mercato”. Un punto teorico da cui ricominciare, lo esplicita lo stesso La Grassa, il comunismo teorizzato da Marx esaltava l’individualità comunitaria, mentre il comunismo reale ha appiattito le individualità come la partecipazione:

“Sono tuttavia convinto che secondo Marx e il migliore marxismo – non certo quello, ad es., dei “sessantottini”; né quello sindacale, ecc. – il comunismo volesse e dovesse esaltare l’individualità, non avvilirla né soffocarla. Non si predicava un egualitarismo grigio, conformistico, piatto, buono per portare in primo piano i mediocri, privi di ogni idea propria, annientando invece le qualità di spicco, come purtroppo accadde nel “socialismo reale” (e in molti partiti comunisti). A ciascuno secondo il suo lavoro non significava, per Marx, far soltanto riferimento alla quantità, al tempo di lavoro, ma anche alla sua creatività e originalità. Altrimenti non nasce mai il nuovo, tutto continua in una routine mortificante che, alla fine, provocherà la rivolta contro “l’uomo medio”, quello di cui vorrei ci si ricordasse sempre la definizione datane da Pasolini, tramite il personaggio del regista interpretato da Orson Welles, nel suo forse più bel gioiello cinematografico: La ricotta da Rogopag. Nemmeno però si può accettare il tipo di competitività che regna nella nostra società, nel capitalismo borghese e ancor più in quello dei funzionari del capitale: una lotta fondata sulla sopraffazione, la coercizione, l’inganno, la menzogna, l’ipocrisia, il raggiro, e chi più ne ha più ne metta; e molto spesso, ovviamente, sull’uccisione (di massa), le guerre e distruzioni immani, le torture, ecc[7]”.

Si potrebbe ricominciare da Marx per ricostruire il comunismo, malgrado gli errori teorici e storici senza abiurarlo: non si deve buttare il bambino con l’acqua sporca. Marx non è rimasto sepolto solo sotto il crollo del muro di Berlino, ma specialmente è stato ideologizzato dal comunismo reale fino a renderlo prigioniero delle nomenclature che lo hanno congelato in un lungo e sterile inverno. Prima di abbandonare Marx e il comunismo si potrebbe riprendere la lettura di Marx per trarne le potenzialità irrigidite dalla corrente fredda della storia, e per “esplorare” le potenzialità sistemiche non ancora esplicitate. Il comunismo ha una storia breve, pertanto come tutti i movimenti di grande respiro non possono essere giudicati e congedati per i risultati ottenuti in un tempo relativamente breve. Si “obliano”, pertanto, nella veloce liquidazione le conquiste che il comunismo ha favorito in Occidente come in Oriente. Se si afferma che la vittoria del capitalismo è “totale[8]”, l’effetto inibente diventa drammatico, ed è facile perdere con la speranza, la creatività e la lucidità storica. La vittoria del capitalismo, può essere l’inizio della sua fine, perché è fondato sull’illimitato, e dunque, perso ogni limite ed opposizione è possibile che mostri la sua verità, maciullando Stati e persone, con l’effetto di svelare la sua “intima” verità spaventevole. La verità è tutto, affermava Hegel, per cui il giudizio dev’essere sulla totalità aperta al futuro dell’esperienza trascorsa, e non certo finalizzata solo a conteggiare gli errori. La posizione di Costanzo Preve verso il marxismo reale è indubitabilmente più complessa, rileva i limiti teorici di Marx, evidenzia le tragedie storiche del comunismo reale e le sue conquiste, il confronto dialettico con “il tutto” lo porta al comunitarismo quale forma di comunismo democratico con fondamenta metafisiche:

“Nell’ultimo saggio di La Grassa, insieme a una certa interpretazione di Marx che paradossalmente io stesso condivido in buona parte (ma per un settario se non la condividi tutta sei un analfabeta ignorante), ci sono due affermazioni: comunismo e marxismo sono morti, la prima; e la storia non è storia delle lotte di classe fra dominanti e dominati, la seconda. E’ possibile commentarle senza essere investiti di pittoreschi insulti e di accuse di non conoscere Marx, oppure no? Tutti capiscono che non appena alcune tesi vengono affidate alla carta stampata diventano “pubbliche”, ed esiste ancora il kantiano “uso pubblico della ragione”. Esiste per tutti, salvo che per La Grassa. Ripeto quello che per me è il punto essenziale: chi si mette sul terreno della falsificazione epistemologica del marxismo e del comunismo sceglie di interpretare Marx come il portatore di una semplice scienza previsionale non filosofica, che come tutte le scienze previsionali non filosofiche cade sotto il criterio popperiano della falsificazione[9]”.

Il crollo del comunismo teorico e storico lascia uno spazio aperto di potenzialità, si può uscire dal comunismo, ma questa è una possibilità, non è una necessità determinata da “ragioni superiori”, si può scegliere anche di proseguire il cammino di emancipazione all’interno della storia comunista senza dogmatismi, e trasformando i fallimenti in spessore teorico da cui riprendere l’iter della storia emancipativa.

Salvatore Bravo

***

[1] Gianfranco La Grassa, Il capitalismo oggi dalla proprietà al conflitto strategico Per una teoria del capitalismo, Petite Plaisance Pistoia 2004, pag. 15.

[2] Ibidem, pag. 24.

[3] Ibidem, pag. 89.

[4] Ibidem, pag. 81.

[5] Ibidem, pp. 180-181.

[6] Ibidem, pag. 183.

[7] Gianfranco La Grassa, Nel tempo della globalizzazione non si può invocare una rinascita di Karl Marx, occorre un ripensamento ‘globale’ dell’intera sua prospettiva storica.

[8] Costanzo Preve – Gianfranco La Grassa, Oltre la gabbia d’acciaio, Vangelista, 1994, pag. 15.

[9] Costanzo Preve, Note su Gianfranco La Grassa, 24/10/2011, in pauper class.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ivan Illich (1926-2002) – Il modello a cui mi sono ispirato è il “Simposio” di Platone. L’idea platonica di philia, dell’amore come strada per accedere alla conoscenza, ha costituito una sfida. Ma perché si possa perseguire la verità è necessario innanzitutto lasciar cadere un certo numero di convenzioni accademiche prodotte dall’università.

Ivan Illich 006

In den flussen nördlich der zukunft

In den flussen nördlich der Zukunft
werf ich das Netz aus, das du
zögernd beschwerst
mit von Steinen geschriebenen
Schatte.

Nei fiumi a nord del futuro
getto la rete che tu,
esitante, carichi
di ombre scritte
da pietre

Paul Celan


«Il modello a cui mi sono ispirato è il Simposio di Platone. L’idea platonica di philia, dell’amore come strada per accedere alla conoscenza, ha costituito una sfida, perché, di decennio in decennio, ho dovuto interpretarla in modi sempre nuovi. Ma una convinzione è rimasta costante: l’amicizia non potrà mai significare per me la stessa cosa che significava per Platone. Nella città greca la virtù era intesa come un comportamento appropriato, adeguato: era l’ethos, l’etica, confacente a un certo ethnos, una popolazione, e questa virtù era il fondamento dell’amicizia, ciò che la rendeva possibile. L’amicizia era il fiorire della virtù civica e il suo coronamento. Era soltanto in quanto ateniesi virtuosi che gli ospiti al Simposio sym-posion (il bere insieme) – di Platone potevano amarsi. Non è stato questo il mio destino di ebreo errante e pellegrino cristiano: non mi è stato possibile ricercare l’amicizia come qualcosa che sorgesse da un luogo e dalle pratiche ad esso pertinenti. È stata invece l’etica sviluppatasi intorno alla mia cerchia di amici a nascere come risultate della nostra ricerca di amicizia e della pratica che ne facevamo. È un’inversione radicale del significato di philia: per me l’amicizia è stata la sorgente, la condizione e il contesto perché potessero avvenire il coinvolgimento e l’affinità di pensiero; per Platone poteva essere soltanto il risultato di pratiche confacenti al cittadino.

Questa inversione cruciale mi obbliga a dire qualche parola sulla storia dell’amicizia. Per Platone – e sarebbe lo stesso per qualunque altro testo classico dell’antichità – l’amicizia presuppone un ethnos, un “qui e ora” dato, al quale appartengo per nascita; presuppone determinati limiti entro i qua i può essere praticata. […] Poi venne quel sommo provocatore e folle, quel Gesù storico dei Vangeli, con la sua storia del Samaritano (il palestinese) che è l’unico a comportarsi da amico nei confronti del Giudeo (l’ebreo) percosso. Gesù apre una nuova illimitata capacità di scegliere chi voglio per amico, e una corrispondente possibilità di lasciarmi scegliere da chiunque mi voglia. È qualcosa che viene spesso dimenticato da quelli che dipingono l’amicizia moderna soltanto come uno sviluppo ulteriore di ciò che Platone e Aristotele intendevano con questo termine. Gesù ha spezzato la cornice che delimitava le condizioni entro cui poteva darsi amicizia […].

Ho considerato mio compito verificare in che modo la vita dell’intelletto, la disciplinata e metodica ricerca comune di una visione chiara – si potrebbe dire filosofia, nel senso di amare la verità – possa essere vissuta così da diventare occasione per suscitare philia. (Consentitemi di usare la parola philia, per evitare le buffe implicazioni che “amicizia” assume nelle diverse lingue moderne). Volevo capire se fosse possibile creare legami umani di reale, profondo coinvolgimento in occasione e con i mezzi della ricerca condivisa; e volevo anche spiegare come la ricerca della verità possa essere perseguita in modo ineguagliabile intorno a una tavola da pranzo, davanti a un bicchiere di vino, e non in una sala conferenze. Se l’espressione “ricerca della verità” fa sorridere la gente e fa pensare che io appartenga a un qualche Vecchio Mondo, ebbene sì, vi appartengo.

[…] Ma perché si possa perseguire la verità entro l’orizzonte di un “noi” che è davvero un “io” plurale […] è necessario innanzitutto lasciar cadere un certo numero di convenzioni accademiche – estremamente vischiose e tenaci – prodotte dall’università, fra cui l’organizzazione della conoscenza in discipline specialistiche ed esclusive.

[…] Le persone che sanno qualcosa della storia delle idee all’interno di una tradizione tendono a pensare di poter progredire nella loro conoscenza solo entro la cerchia di persone che hanno la loro stessa formazione. Io ho cercato di sfidarle a mettere l’amicizia al di sopra di questo pregiudizio e a lasciare che l’amicizia li motivasse a formulare in un linguaggio comune le svolte e le intuizioni rese possibili grazie alla loro conoscenza tecnica. È una sfida che non si limita a chiedere loro di insegnare agli studenti dei primi livelli universitari – perché l’insegnamento universitario di primo livello può essere soltanto un’introduzione al loro metodo –, né a chieder loro di ampliare i propri orizzonti per includervi altre professionalità. Si basa sulla convinzione che le cose davvero importanti devono essere suscettibili di condivisione con altri che io amo, prima di tutto, e con i quali poi sento il bisogno di parlare; e questa convinzione avrà un impatto significativo sul modo in cui valuto ed esprimo le mie intuizioni. Dovrei anche dire che il convivium, o symposion […]».

 

Ivan Illich, I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Prefazione di Charles Taylor, Edizione italiana a cura di Milka Ventura Avanzinelli, Verbarium . Quodlibet, Firenze 2009, pp. 138-141.


 

Nacque a Vienna da padre croato e madre ebrea sefardita.
Sin da bambino si dimostrò estremamente ricettivo e versatile: conosceva l’italiano, il francese e il tedesco e poteva parlare questi idiomi alla stregua di lingue madri.
Imparò in seguito il croato, il greco antico e lo spagnolo, il portoghese, lo hindi e altri idiomi.
Prestò servizio come assistente parrocchiale a New York. Nel 1956, fu nominato vice-rettore dell’Università Cattolica di Porto Rico, e nel 1961 fondò il Centro Intercultural de Documentación (CIDOC) a Cuernavaca in Messico, un centro di ricerca che realizzava corsi per i missionari del Nord America.
Ordinato sacerdote a Roma nel 1951 e attivo nelle diocesi di New York, Ponce (Puerto Rico) e Cuernavaca (Messico), interruppe volontariamente l’esercizio pubblico del sacerdozio nel 1968, a seguito del procedimento avviato a suo carico dalla Congregazione per la dottrina della fede: in questione erano le sue attività a difesa dell’autonomia religiosa e culturale dell’America latina di fronte alle ingerenze «missionarie» statunitensi.
Illich scelse allora di dedicarsi a una critica militante delle moderne ideologie e istituzioni del mondo sviluppato, e a una parallela rivendicazione dei valori «vernacolari», con libri come Descolarizzare la società, La convivialità, Nemesi medica cui negli anni Settanta arrise una notevole fortuna internazionale.
Più tardi approfondì e radicalizzò la sua critica, dirigendola sull’intera parabola del processo di modernizzazione in Occidente e sulle trasformazioni antropologiche da esso indotte (Lavoro ombra, Per una storia dei bisogni, Il genere e il sesso, Nello specchio del passato), da ultimo coinvolgendovi anche senso e destino della rivelazione cristiana (La perdita dei sensi, I fiumi a nord del futuro).
Negli ultimi anni fu colpito da una crescita tumorale sul volto che, coerentemente con la sua critica alla medicina ufficiale, tentò, senza successo, di curare con metodi tradizionali.
Fumava regolarmente oppio per lenire il dolore.
All’inizio della malattia, consultò un medico per valutare la possibilità di rimuovere il tumore, ma gli fu detto che con grande probabilità avrebbe perso la facoltà di parlare e così convisse come meglio poteva con la malattia, da lui definita “la mia mortalità” 


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.
Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.
Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.
Ivan Illich (1926-2002) – Elogio della bicicletta. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta.
Ivan Illich (1926-2002) – Come filosofi rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non non lo è più e proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti di quegli esperti di ecologia che promuovono il disinteresse per la tradizione storica e la virtù terrestre dell’autolimitazione.
Ivan Illich (1926-2002) – La dipendenza dall’abbondanza castrante, una volta radicata in una cultura, genera la “povertà modernizzata”. Nella velocità, niente resta, niente è assaporato, niente è conosciuto. Velocità e calcolo sono due aspetti dello stesso silenzio infecondo che minaccia ogni vita.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Byung-Chul Han – L’anestesia permanente nella società palliativa derealizza il mondo. Il ‘like’ conduce allo smantellamento della realtà. Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare. All’intelligenza artificiale manca proprio questa vita del pensiero, che non è calcolo né artificiale intelligenza.

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«[…] La società palliativa è una società del mi piace, che cade vittima della mania di voler piacere. […] Il like è l’emblema, il vero e proprio analgesico della contemporaneità» (p. 8).

«La nuova formula di dominio recita: Sii felice. […] Nel regime neoliberista, anche il potere assume una forma positiva. Diventa smart. […] Il potere smart opera in chiave seduttiva e permissiva […]» (pp. 16-17).

«Il virus fa breccia nella zona di benessere palliativa e la trasforma in una quarantena in cui la vita s’irrigidisce diventando mera sopravvivenza. […] La società della sopravvivenza perde del tutto il senso della buona vita» (p. 22).

«L’anestesia permanente nella società palliativa derealizza il mondo. Anche la digitalizzazione riduce sempre più la resistenza e fa gradualmente sparire l’interlocutore recalcitrante, ciò che è contro, il controcorpo. Il protrarsi del like conduce a un’insensibilità, allo smantellamento della realtà. La digitalizzazione è anestesia.

Nell’epoca post-fattuale, con le fake news o i deep fake nasce un’apatia nei confronti della realtà, anzi un’anestesia della realtà. Solo un doloroso shock di realtà riuscirebbe a strapparci da questa situazione» (pp. 44-45).

«Senza dolore non è possibile alcuna conoscenza capace di rompere radicalmente col passato. Anche l’esperienza nel senso enfatico del termine presuppone la negatività del dolore. È un doloroso processo di trasformazione. Contiene una fase di patimento o sopportazione. In questo si distingue dall’evento, che non conduce ad alcun cambio di stato poiché diverte invece di trasformare. Solo il dolore produce un reale cambiamento. Nella società palliativa si perpetua l’Uguale. Andiamo da tutte le parti senza fare esperienza. Prendiamo atto di tutto senza approdare alla conoscenza. Le informazioni non portano né a esperire, né a conoscere. Manca loro la negatività della trasformazione. La negatività del dolore è costitutiva del pensiero. È il dolore a distinguere il pensiero dal calcolo e dall’intelligenza artificiale. Intelligenza significa scegliere tra (inter-legere). È la capacità di distinguere. Per cui non abbandona ciò che esiste già. Non è in grado di creare il completamente Altro. In ciò si differenza dallo spirito. Il dolore approfondisce il pensiero. Non esiste un calcolo profondo. In cosa consiste la profondità del pensiero? Al contrario del calcolo, il pensiero crea uno sguardo diversissimo sul mondo, proprio un altro mondo. Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare. All’intelligenza artificiale manca proprio questa vita. […] L’intelligenza artificiale è solo uno strumento di calcolo. È forse capace d’imparare, anche di deep learning, ma è incapace di fare esperienza. Solo il dolore trasforma l’intelligenza nello spirito» (pp. 53-54).

Byung-Chul Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2021.


Quarta di copertina

Il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza. La paura del dolore è cosí pervasiva e diffusa da spingerci a rinunciare persino alla libertà pur di non doverlo affrontare. Il rischio, secondo Han, è chiuderci in una rassicurante finta sicurezza che si trasforma in una gabbia, perché è solo attraverso il dolore che ci si apre al mondo. E l’attuale pandemia, argomenta il filosofo tedesco-coreano, con la cautela di cui ha ammantato le nostre vite, è sintomo di una condizione che la precede: il rifiuto collettivo della nostra fragilità. Una rimozione che dobbiamo imparare a superare. Attingendo ai grandi del pensiero del Novecento, Han ci costringe, con questo saggio cristallino e tagliente come una scheggia di vetro, a mettere in discussione le nostre certezze. E nel farlo ci consegna nuovi e piú efficaci strumenti per leggere la realtà e la società che ci circondano.


Byung-Chul Han, nato a Seul, è considerato uno dei più interessanti filosofi contemporanei. Già docente di Filosofia e Teoria dei Media presso la Staatliche Hochschule für Gastaltung di Karlsruhe, insegna ora Filosofia e Cultural Studies alla Universität der Künste di Berlino, ed è autore di saggi sulla globalizzazione e l’ipercultura. Per nottetempo ha pubblicato La società della stanchezza (2012), Eros in agonia (2013) La società della trasparenza (2014), Nello sciame. Visioni del digitale (2015), Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere (2016) e L’espulsione dell’altro (2017).


Byung-Chul Han – La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. Non è necessaria alcuna riflessione o pensiero. Essa resta coscientemente infantile, banale, svuotata di qualsiasi profondità. Nessuna interiorità si nasconde dietro la sua superficie levigata. Giova dismettere vesti levigate accogliendo l’invito di Rilke: «Tu devi cambiare la tua vita».

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno, abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.

Giordano Bruno Verità
Gustav Klimt, Nuda Veritas, particolare.
Salvator Rosa (1615-1673), Allegoria della menzogna.

Salvatore Bravo

Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno,
abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci
i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.

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La pratica della menzogna conosciuta
In questi decenni difficili l’inaudito e l’osceno spesso sono il pane quotidiano, ma nulla accade, niente sembra portare effetti sostanziali nella prassi politica e comunitaria. La meraviglia panica innanzi a tale realtà-verità dovrebbe essere oggetto di una riflessione profonda da parte di uomini e donne di buona volontà che vivono la difficile pratica della verità. In un quadro storico apparentemente razionale, ma in realtà irrazionale, servile e malinconico, tutto sembra accadere, ma nulla cambia, non vi è prassi, ma solo abitudine ed indifferenza. L’informazione – con la sua abbondanza di fonti – rende possibile constatare che la verità degli accadimenti – narrati secondo la liturgia ufficiale – non è tale. Rppure sembra che la verità non emerga. Se si pone ascolto alle conversazioni comuni è palese che, in media, non si ha fiducia alcuna nella narrazione mediatica, eppure si finge di credere, e passivamente si torna alle attività quotidiane. La verità non è seppellita da sovrastrutture complesse, ma è dinanzi a noi. Anche quando si ha il sospetto che il racconto ufficiale non corrisponda al vero, nulla si fa per approfondirlo: lo si accetta per sopravvivere quietamente. In tale contesto raccontare la verità dei fatti di cronaca non sortisce risultato alcuno, difficilmente si ottiene il passaggio all’autocoscienza individuale e collettiva. I processi di riconfigurazione del reale storico non sembrano effettuarsi, si vive in una dimensione forse “assolutamente nuova”, in un limbo tra verità e “menzogna conosciuta”: si intravede forse la verità, ma si pratica la menzogna. Tale comportamento è divenuto ora di massa: i popoli si nutrono di questo nuovo veleno che penetra nel corpo delle istituzioni come nelle relazioni interpersonali, nelle parole e negli sguardi, creando una sostanziale sfiducia nella prassi. Si vive nella caverna platonica, pare volutamente. La verità e la “menzogna conosciuta” convivono senza procurare conflitti etici o lacerazioni interiori. La vita si riduce all’attimo presente. Si strappa l’attimo senza contestualizzarlo. Ci si accontenta di ritagliarsi attimi di vita (lasciando sullo sfondo l’ombra della verità) e si accetta la pratica della “menzogna conosciuta” o anche soltanto sospettata. Regna la divina indifferenza. Pertanto, ogni evento di cronaca – con le sue liturgie – resta confinato in un spazio e in un tempo sospeso, la vita continua senza che nulla accada. I recenti fatti di cronaca, la complessità pandemica, l’uccisione dell’ambasciatore in Congo sono eventi che vengono accettati secondo le liturgie ufficiali, pur sapendo che il vero non è detto. Eppure ciò non muove a ricercare, non attiva una azione autonoma di indagine alla ricerca della verità. Si assiste semplicemente all’ennesimo spettacolo in scena fingendo di credere allo spettacolo della menzogna.

Scenografia della menzogna
Primo Levi ci ha insegnato – in I sommersi e i salvati – la tragedia della contemporaneità, ci ha indicato una verità evidente che non possiamo ignorare e che può servirci come categoria per capire il nostro difficile presente: normalmente si sceglie di essere parte della zona grigia, ovvero la verità evidente è saputa, ma non ci si schiera, ci si limita a sperare di non cadere vittime della macchina della menzogna che uccide la verità come gli esseri umani. La zona grigia si globalizza. Sappiamo tutti che la finanza governa, che la politica è al servizio degli interessi superiori della finanza, che la democrazia – dapprima ridotta a semplice procedura senza sostanza – ora è sospesa anche nella sua pratica procedurale. Sappiamo che in Africa non muoiono martiri e santi, ma uomini e donne, che l’aziendalizzazione delle istituzioni privilegia i possidenti ed esclude dai servizi il popolo. I servizi sociali senza i quali i popoli sono plebi, sono “offerti” secondo una qualità associata al reddito, eppure nulla accade, benché l’ingiustizia sia evidente. La menzogna è trasmessa, secondo formule linguistiche, che ammiccano alla verità, e la trasformano in menzogna. Il linguaggio da casa dell’essere-verità è divenuto la casa della menzogna conosciuta. Si sopravvive in questa palude grigia, in cui gradualmente si diffonde un razzismo che classifica le genti secondo il censo, eppure si plaude al multiculturalismo, ai diritti individuali, ci si scandalizza dei feminicidi, la ritualizzazione è ascoltata, come se ci si credesse, sapendo che sono solo scenografie della menzogna. Mettere in atto processi genealogici di ricategorizzazione del reale significherebbe “responsabilità e coinvolgimento personale”. Si preferisce fingere di acconsentire alle versioni ufficiali, pur sapendo che mentono. Il potere crea catalizzatori di consenso, a cui si aderisce nominalmente, ma si ha il sentore che la ricostruzione è troppo semplice, troppo ripetitiva e che i fatti non possono essere spiegati con semplice logica manichea. Si finge di credere sperando di scampare al pericolo ed alla responsabilità personale: si sopravvive, perché la zona grigia è fatta di sopravvissuti.

Nichilismo passivo
Cercare la ragione profonda del successo della zona grigia è arduo, e ci si può spostare da cause storiche contingenti: la caduta del comunismo novecentesco, la lotta per la sopravvivenza nella globalizzazione liberista sfibra le energie, in quanto si deve lottare per difendere ciò che domani nella competizione potrebbe essere tolto, per cui l’atomocrazia – col suo carico di solitudine – diviene la normalità quotidiana. Vi è una realtà più profonda, forse, che rafforza l’indifferenza davanti alla verità sospettata e conosciuta ed alla pratica della menzogna, ed essa è che l’Occidente ha sostituito la verità con l’esattezza, per cui verità e menzogna sono equiparate, sono niente, perché l’esattezza numerica e scientifica ha divorato la verità, è stata la “cattiva maestra” dell’Occidente. L’esattezza è entrata nel cuore e nell’anima dell’Occidente, si è sviluppata una monomania collettiva: tutto è riportato alla sola quantità, pertanto non vi sono altre categorie razionali con cui disporsi e sentire gli accadimenti. Solo l’esattezza parla e muove all’agire. L’educazione all’imprenditorialità generalizzata ha tale fine ultimo, per cui se si uccide un intero continente per i suoi minerali che servono per l’informatica e l’energia pulita ciò è coerente con l’esattezza, e la realtà dello sfruttamento e della violenza non provocano scandalo. La verità è complessità logica, dialettica ed etica, per cui il potere domina perché la zona grigia è complice e vittima di questa diseducazione globale alla verità. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita non provocano azioni e reazioni, perché l’esattezza esige che la vita sia normalmente mercificata, e le parole della mercificazione sono l’unico linguaggio dell’Occidente: la zona grigia sa che tale prassi è la verità, ma accetta l’esattezza come fosse l’unica strada percorribile, pur sapendo ed intuendo che tale modalità di vivere non rientra nel “bene”.

Ogni agire politico deve confrontarsi con il rischio di infrangersi contro l’esattezza, contro l’abitudine ad agire solo perseguendo interessi personali legati all’utile. Si può ipotizzare che quando gli ultimi residui di resistenza saranno trascesi, non si avranno più paradigmi per discernere e sospettare che le versioni ufficiali sono ideologiche. Si deve, affinché ciò non accada, lavorare per la verità, per riportare in luce la differenza tra verità e menzogna. Ancora una volta è la filosofia che può riportare la verità al centro del suo discorso gnoseologico ed ontologico, in modo che la democrazia divenga pratica e ricerca della verità, e non un ideale ideologico da usare per far accettare i “bombardamenti etici”, l’irrilevanza e l’omogeneità culturale come mezzo per privare persone e popoli della loro identità. Spetta a coloro che ascoltano la tragedia etica del presente riprendere il cammino verso la verità sapendo che non vi è certezza del risultato. Si devono riaprire «i chiostri de la verità»[1] come diceva Giordano Bruno nella Cena de le ceneri. Ognuno può dare il proprio contributo a tale operazione filosofica, nessuno è escluso. Siamo all’anno zero, pertanto bisogna cominciare da tale verità per capire il presente.

 

Salvatore Bravo

[1] Giordano Bruno, La cena de le ceneri, Einaudi Torino, 1995 p. 20.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Arianna Fermani – La virtù rende buona la nostra vita e, insieme, la salva. Una vita felice, è, dunque, una vita che prospera, ma che pro­spera soprattutto grazie alla virtù, che sa produrre la bellezza e l’armonia. La virtù, in questo quadro, è e deve essere non solo qualcosa di teorizzato, ma qualcosa di “praticato”.

Arianna Fermani - Virtù


«[…] la virtù rende buona la nostra vita e, insieme, la salva, la sottrae alla distruzione e alla dismisura, le impedisce di cadere nell’eccesso, di dirigersi pericolosamente verso quegli estremi che, insieme, la rendono viziosa e la annientano.

Dare misura al proprio agire: è questo il compito impegnativo che si richiede a chi vuole agire virtuosamente. Ma in questa virtù come capacità di “dar misura” a se stessi e al proprio agire riemerge quel significato di virtù come forza che abbiamo ricordato precedentemente. Perché, per “darsi misura” occorre essere forti, nel duplice senso del “farsi forza” (per intraprendere il duro cammino in direzione del giusto mezzo) e dello “sforzarsi” (per contenere quella parte di sé che ci allontana da questo obiettivo). Come è stato detto «abbiamo bisogno della massima forza morale per combattere i nostri cattivi impulsi e tutte le nostre virtù in realtà consistono nell’evitare il vizio».[1] Talvolta, afferma lo stesso Aristotele, si tratta di forzare la propria natura. Esattamente come fa chi deve raddrizzare un legno storto:[2] lo spinge fortemente nella direzione contraria a quella che, a causa di un difetto, ha assunto, allo scopo di farlo diventare diritto. Così è per l’essere umano, naturalmente portato in una direzione piuttosto che in un’altra, incline per natura a compiere certe cose piuttosto che altre. E di questa inclinazione bisogna tenere conto, senza sottovalutare l’estrema difficoltà dell’impresa e senza irrigidirsi in schemi preconfezionati, limitandosi a scegliere, quando la situazione lo richiede, perfino il minore dei mali.[3]
Allora chi è virtuoso è retto e la sua rettitudine si manifesterà in ogni scelta, in ogni azione, in ogni modo di rapportarsi alle proprie passioni. In tale corretta amministrazione del pathos risiede, pertanto, il fondamento di una vita buona e bella, a livello individuale e anche a livello collettivo, in quanto la virtù rappresenta l’anello di congiunzione – di una congiunzione sana e feconda – tra l’individuo e il mondo: «l’ἀρετή umana è un’abi(tua)lità acquisita e perfezionata che ha origine e causa nel proponimento […], a sua volta tensionalità desiderante che proviene da bouleusis, una catena i cui anelli connettono, senza interruzioni, interiorità e relazionalità dell’essere umano, il quale è dalla nascita dotato di logos e propenso alla vita di comunità»[4] (pp. 43-44.).

«La virtù, insomma, ci rende armonici e rende bella, armonica ed equilibrata la nostra esistenza, dato che, come si ricorda nel Carmide: “una vita condotta con temperanza deve essere anche bella”.[5] È per questo che una vita senza virtù non può che essere costitutivamente eccessiva, sgraziata, brutta (pp. 47-48.).

«Una vita felice, è, dunque, una vita che prospera, ma che pro­spera soprattutto grazie alla virtù, che sa produrre la bellezza e l’armonia. Felice, infatti, può essere detta una vita armonica, una sinfonia ben eseguita, uno spartito ben suonato. Certo, però, che un modello di questo tipo si rivelerebbe niente più che un quadretto stucchevole se non tenesse conto di un fatto che, nella sua assoluta ordinarietà, risulta addirittura banale: la felicità si realizza nella vita umana e quindi è costretta a misurarsi, quotidianamente, con mille elementi disarmonizzanti. Primo fra tutti il dolore, la dissonanza esistenziale per eccellenza, e, con il dolore, tutta quella sterminata gamma di piccole e grandi disarmonie che ogni giorno abbruttiscono il quadro, guastano la melodia» (p. 52).

«La virtù, in questo quadro, è e deve essere non solo qualcosa di teorizzato, ma qualcosa di “praticato”, è e deve essere la cosa più importante, la cosa di maggior valore, ciò da cui ogni esistenza può essere resa bella e degna di ammirazione e senza cui, al contrario, tutto va in malora, la mescolanza si distrugge, in preda all’eccesso, alla dismisura, all’assenza di limiti» (p. 54).

Arianna Fermani, Virtù, Unicopli, Milano 2021

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[1] J. N. Shklar, Ordinary Vices, Harvard University Press, 1984; trad. it. S. Sabattini: Vizi comuni, il Mulino, Bologna 1986, p. 276.

[2] «Instaurare nell’anima la medietà è un compito difficile, poiché comporta un vero e proprio “raddrizzamento” di quelle tendenze naturali. All’inclinazione verso il piacere occorre contrapporre una spinta di segno contrario, uno sforzo che viene paragonato a coloro che tentano di far diventare diritti i legni sorti» (Silvia Gastaldi, Le immagini della virtù. Le strategie metaforiche nelle Etiche di Aristotele, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1994, p. 89).

[3] «Infatti uno degli estremi è più sbagliato, mentre l’altro lo è meno; e dal momento che è arduo cogliere perfettamente il centro, con una seconda navigazione, come dicono, si devono scegliere i mali minori; e questo potrà avvenire soprattutto nel modo che diciamo. E quindi si deve esaminare quali sono le cose per cui siamo portati. Infatti persone diverse sono portate, per natura, a cose diverse. Questo, d’altra parte, risulterà chiaro dal piacere e dal dolore che nascono in noi. Dobbiamo dunque spingerci nella direzione opposta; infatti allontanandoci molto dall’errore arriveremo al giusto mezzo, come fanno coloro che raddrizzano i legni storti… Certo, è difficile, e lo è soprattutto nei casi particolari; infatti non è facile stabilire come, con chi, per quali motivi e per quanto tempo arrabbiarsi; infatti anche noi, talvolta, lodiamo coloro che lo fanno troppo poco, e li chiamiamo miti, a volte, invece, lodiamo coloro che hanno un carattere duro e li chiamiamo virili. Ma mentre non è biasimato chi si allontana solo in piccola misura dal bene, né se devia verso il difetto né se lo fa verso l’eccesso, il contrario accade per chi si allontana in misura maggiore; infatti costui non passa inosservato. Non è facile stabilire col ragionamento fino a che punto e in che misura è degno di biasimo; infatti non lo è neppure nessun’altra delle cose sensibili; esse, infatti, rientrano nei casi singoli e il giudizio su di esse spetta alla sensazione. Tutto ciò mostra, quindi, che lo stato abituale intermedio è lodevole in tutti i casi, ma che a volte si deve tendere maggiormente verso l’eccesso e a volte verso il difetto; in questo modo, infatti, conseguiremo nel modo più facile il giusto mezzo e il bene» (Aristotele, Etica Nicomachea, II, 9, 1109 a 33-1109 b 26).

[4] F.C. Papparo, in G. Alicandro, Atletismo della virtù. Sulla φιλα in Aristotele, Edizioni ETS, Pisa 2018, pp. 24-25.

[5] Platone, Carmide, 160 B 9-10.


Sommario



Quarta di copertina

L’αρετή di un individuo, come pure quella di un animale o di una realtà inanimata, è per un greco la sua migliore realizzazione, la perfetta esecuzione del proprio compito; la virtù di un qualsiasi essere è ciò per cui ne va del suo valore, ciò che realizza quel determinato essere proprio perché lo fa essere “ciò che è”. Il volume attraversa le ricchissime nozioni di αρετή e di virtus, nel lungo e stratificato arco storico che va da Omero a Proclo, intrecciandole a questioni, altrettanto complesse e appassionanti, quali quelle di responsabilità dell’agire, vizio, piacere e dolore, vita felice e così via. In un serrato “corpo a corpo” con i testi e con le riflessioni degli antichi – che oltre che a parlare a noi, su queste tematiche, più che mai, parlano di noi – il testo è impreziosito da due strumenti utili ad orientarsi nei diversi profili, storici e concettuali, del tema d’indagine: Lessico delle virtù e Glossario delle virtù.




Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana.

Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.


e, tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani:

Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele

Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele

Editore: eum, 2006

Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.

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L'etica di Aristotele

L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana

Editore:Morcelliana, 2012

Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano.
La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.

Sommario

Ringraziamenti
Premessa
I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni
II “Essere” e “dirsi in molti modi”
Introduzione
I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele
II. Autenticità delle tre Etiche
III. Obiettivi e struttura del lavoro

PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù
Capitolo primo: Giustizia e giustizie
Capitolo secondo: La fierezza
Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia
Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza
Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio”
Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio

SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione
Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca”
Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere
Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore

TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona
Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici
Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza
Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità
Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis
Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi
Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi

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Le tre etiche

Le tre etiche. Testo greco a fronte

Editore:Bompiani, 2008

In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.

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Platone e Aristotele

Platone e Aristotele. Dialettica e logica

Curatori: M. Migliori, A. Fermani

Editore:Morcelliana, 2008

Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.

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Interiorità e animae

Interiorità e anima: la psychè in Platone

Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani

Vita e Pensiero, 2007

Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.

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Humanitas

Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.

Curatore: A. Fermani, M. Migliori

Editore: Morcelliana, 2016

Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.

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Il Simposio di Platone

Il ‘simposio’ di Platone

J. Rowe, Arianna Fermani

Academia Verlag, 1998

Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.

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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità;
Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203

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rivista di

ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE

Arianna Fermani

Vita e Pensiero

Rivista di Filosofia Neo-Scolastica

Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202

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Studi su ellenismo e filosofia romana

Studi su ellenismo e filosofia romana

Curatori: F. Alesse, A. Fermani, S. Maso

Editore: Storia e Letteratura, 2017

In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.

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Thaumazein cop

Arianna Fermani,
Essere “divorati dal pentimento”.
Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele

in THAUMÀZEIN; n. 2 (2014); Verona, pp. 225-246

Arianna Fermani,
Essere “divorati dal pentimento”. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele


Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.
Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.
Arianna Fermani – Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani
Arianna Fermani – Quando il rischio è bello. Strategie operative, gestione della complessità e “decision making” in dialogo con Aristotele. L’assunzione del rischio e la sua adeguata collocazione all’interno di una vita “riuscita” implica la continua individuazione di priorità in vista della costituzione il più possibile armonica dell’esistenza.
Arianna Fermani – «Il concetto di limite nella filosofia antica». L’uomo non è dio, ma la sua vita può essere divina. Divina è ogni vita buona, ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre.
Maurizio Migliori e Arianna Fermani – «Filosofia antica. Una prospettyiva multifocale». Questo volume aiuta a tornare, con stupore e gratitudine, alle feconde origini del pensiero occidentale, per guardare finalmente, con occhi nuovi, il mondo e noi stessi.
Arianna Fermani – Il messaggio di Socrate è di una attualità straordinaria. La filosofia, con Socrate, si incarna in uno stile esistenziale, e si esplica in quella insaziabile – e, insieme, appagante – fame di vita e ricerca di senso, che accompagnano il filosofo fino all’ultimo istante dell’esistenza
Arianna Fermani, Giovanni Foresta – «Dalle sopracciglia folte al percorso inarcato dalla rotta superiore dello sguardo, il tempo esprime monumento del vissuto tingendolo di bianco». È un mirare avanti, un protendersi anima e corpo verso il futuro. Questo perché la vera vecchiaia, lungi dall’essere l’età anagrafica, è la mancanza di entusiasmo, è lo spegnersi dei sogni e dei desideri.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Luca Grecchi – La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice.

Luca Grecchi - Dolcezza - Silvia Vegetti Finzi

Luca Grecchi

Dolcezza

Introduzione di Silvia Vegetti Finzi


«La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice».

L. G.



Quarta di copertina

La dolcezza è una virtù fondamentale che rende migliori le relazioni umane, e mai come in questo periodo di grandi incertezze se ne sente il bisogno. Questo saggio di Luca Grecchi analizza dapprima, alla luce della filosofia greca classica, alcuni dei contenuti essenziali per la comprensione della dolcezza, come la verità, il bene, la virtù. In un secondo momento, descrive le principali strutture etiche affini alla dolcezza, ma che dalla stessa si differenziano, costituendone talvolta semplicemente delle componenti: la gentilezza, la tenerezza, l’umiltà, la misericordia, la gratuità, la forza, la semplicità e la finezza. Di queste qualità, che il nostro tempo spesso altera, la dolcezza costituisce il coronamento e la compiuta realizzazione.

Luca Grecchi (Codogno, 1972) insegna per le cattedre di Filosofia Morale e di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra i suoi libri più recenti, Leggere i Presocratici (2020) e tre volumi della collana «Questioni di filosofia antica» delle Edizioni Unicopli, ossia Natura, Uomo e Ricchezza (rispettivamente 2018, 2019 e 2021). Ha scritto inoltre Conoscenza della felicità (Petite Plaisance, 2005).

Pagine 170 – Euro 17,00


Indice

Introduzione di Silvia Vegetti Finzi

PRIMO CAPITOLO:
Per introdurre il discorso

La dolcezza come virtù

L’uomo: un ente da definire

Il bene: un concetto da definire

Il rispetto e la cura come relazioni costitutive del bene

Per una definizione della dolcezza

La dolcezza come giusta misura

La dolcezza come virtù filosofica

 

SECONDO CAPITOLO:
Cosa non è e cosa è la dolcezza

La dolcezza non è gentilezza

La dolcezza non è tenerezza

La dolcezza non è umiltà

La dolcezza non è misericordia

La dolcezza è (anche) gratuità

La dolcezza è (anche) forza

La dolcezza è (anche) semplicità

La dolcezza è (anche) finezza

Bibliografia


Luca Grecchi – i suoi libri


Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.
Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare
Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD
Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo
Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia
Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.
Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.
Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.
Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.
Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele
Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità
Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno
Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.
Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.
Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Luca Grecchi – Sulla progettualità
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
 
Luca Grecchi – «Commenti» [Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano]
Luca Grecchi – Aristotele, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – Platone, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.
Luca Grecchi – Scuola “elementare”? Dalla filosofia antica ai giorni nostri
Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.
Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.
Luca Grecchi – Educazione classica: educazione conservatrice? Il fine della formazione classica è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità, ossia aiutarli a realizzare, a porre in atto, le proprie migliori potenzialità, la loro natura di uomini
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.
Luca Grecchi – Scritti brevi su politica, scuola e società
Luca Grecchi – i suoi libri (2002-2019)
Luca Grecchi – L’UMANESIMO GRECO CLASSICO DI SPINOZA. Lo scopo della filosofia non è altro che la verità.
Luca Grecchi – «Uomo» – L’uomo è il solo ente immanente in grado di attribuire senso e valore alla realtà e di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura.
Luca Grecchi – Insegnare Aristotele nell’Università
Luca Grecchi – L’etica di Aristotele e l’etica di Democrito: un confronto
Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli
Luca Grecchi – Multifocal approach. Una contestualizzazione storico-sociale. Occorre porsi con critica consapevolezza progettuale all’interno della totalità sociale.
Luca Grecchi – «Leggere i Presocratici». La cultura presocratica rappresenta tuttora una miniera in buona parte inesplorata.
Luca Grecchi – Questo volume cerca di colmare un vuoto, almeno nella letteratura specialistica in lingua italiana. Mancava infatti, ad oggi, un volume complessivo sul tema della ricchezza nella filosofia antica.
Luca Grecchi – La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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María Zambrano (1904-1991) – Il compiuto riconoscimento di ciò che siamo è sempre preceduto dal sofferto confronto con l’altro.

Maria Zambrano 040

«Il compiuto riconoscimento di ciò che siamo,
è sempre preceduto dal sofferto confronto con l’altro,
avvertito insieme fuori di noi e in noi,
per effetto di quella sorta di compartecipazione,
anteriore alla definizione dell’individuo,
di cui la tragedia è espressione»..

M. Zambrano, El hombre y lo divino, F.C.E., México 1995. In versione italiana: L’uomo e il divino, intr. di V. Vitiello, Lavoro, Roma 2001, p. 247.


Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita
María Zambrano (1904-1991 – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.
María Zambrano (1904-1991) – L’amore è l’elemento della trascendenza umana. Originariamente fecondo, quindi, se persiste, creatore di luce, di vita, di coscienza. È l’amore a illuminare la nascita della coscienza.
María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?
María Zambrano (1904-1991) – La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato, senza possibilità di scelta, senza poter prendere alcuna decisione.
María Zambrano (1904-1991) – La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla, le è estraneo e perfino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico.
María Zambrano (1904-1991) – Sogno e destino della pittura. Dal sogno la pittura ha la sua nascita. Perché essa è nata nelle caverne. I sogni hanno bisogno di salvarsi. E un sogno salvato è un sogno visibile.
María Zambrano (1904-1991) – L’esperienza precede ogni metodo. Ma il metodo si dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura.
María Zambrano (1904-1991) – La vera musica non può essere trovata in un dogma, ma in un uomo concreto che percepisce con la sua armonia interiore l’armonia del mondo.
María Zambrano (1904-1991) – La finalità si sveglia, e quando arriva così è un tipico risveglio: da uno stato di abulia o dal lasciarsi vivere, ci svegliamo facendoci sentire che dobbiamo agire.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto.
María Zambrano (1904-1991) – Persona è colui che nella vita lascia intravedere, con la sua stessa vita, che un senso superiore ai fatti fa acquisire ad essi significato configurandoli in un’immagine: affermazione di una libertà imperitura pur nell’imporsi delle circostanze.
María Zambrano (1904-1991) – Il pensiero filosofico ci permette di osare sentire. La Filosofia nasce dalla necessità che la vita umana ha di trasparenza e di visibilità. È intimità che aspira a farsi visibile, solitudine che vuole essere comunità nella luce.
María Zambrano (1904-1991) – La delicatezza è una virtù eminentemente sociale, è un frutto ultimo dello spirito umano. Là dove appare, è imperitura.
María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno della parola. Se si pensa è perché la vita ha bisogno della parola che la rischiari, della parola che la potenzi, che la innalzi.
María Zambrano (1904-1991) – Il passato in quanto tale, appare e al tempo stesso si integra, emergono da esso nuove possibilità, poiché il passato feconda al tempo stesso in cui è fecondato, crea un piano temporale nuovo è più complesso. Più complesso e più prossimo all’unità.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Günter Anders (1902-1992) – Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite

Günter Anders 08

Salvatore Bravo

Günther Anders e il male di vivere.
Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite

 

Se dovessimo cercare il fondamento della nostra epoca non potremmo che constatare che il male è il suo fondamento. La libertà si è tramutata in male, sta divorando se stessa. L’anarchia individualista e la menzogna dominano, sono la struttura che tutto muove. Si assiste al consolidarsi di personalità che trasformano il loro desiderio in legge universale, il corpo pulsionale è oggetto di un’idolatria socialmente accettata ed esaltata. Il limite è vilipeso, il logos è negato, ogni discussione sul male di vivere è portata all’interno di argomentazioni in cui si rileva che il “male” è ineluttabile, quindi è inemendabile. Non resta che adattarsi e sopravvivere alla violenza quotidiana, non resta che negare se stessi per conformarsi al male nella nuova forma di male di massa. Il nuovo totalitarismo – con i suoi dispositivi perennemente in azione – plasma i popoli, li rende laboratori dove saggiare la potenza dei nuovi mezzi di manipolazione e formazione di una nuova antropologia del negativo come normalità. Il soggetto non osa porre il problema del bene e del male, ma semplicemente è parte di un’immensa zona grigia dove l’esperienza dell’identità è costruita in “laboratorio”, il cui scopo è occupare “spazio vitale e consumare “il mondo” da cui ci si ritrae. La libertà diviene cambiamento continuo, il progresso che coincide con la libertà è consumo di ogni forma di vita; il cannibalismo libertario è la verità dell’Occidente. Günther Anders ha tematizzato il male, ha tentato di razionalizzarlo, ha mostrato che il “male” è insediato nella libertà, la quale consente agli esseri umani di fuggire la contingenza, in cui sono inchiodati per diventare “creatore” di mondi:

 

«L’uomo fa esperienza di sé come qualcosa di contingente, come qualunque, come “proprio io” (che non si è scelto); come uomo che è precisamente così come è (per quanto possa essere tutt’altro); come proveniente da un’origine di cui non risponde e con la quale deve tuttavia identificarsi; come “qui” e come “ora”. Questo paradosso fondamentale dell’appartenenza reciproca della libertà e della contingenza, questo paradosso che è un’impostura, il dono fatale della libertà, si chiarisce come segue. Essere libero significa: essere straniero; non essere legato a niente di preciso, non essere tagliato per niente di preciso; trovarsi nell’orizzonte del qualunque; in una postura tale per cui il qualunque può anche essere incontrato in altri qualunque. Nel qualunque, che posso trovare grazie alla mia libertà, è anche il mio proprio io che incontro; questo, pur appartenendo al mondo, è straniero a se stesso. Incontrato come contingente, l’io è per così dire vittima della propria libertà. Ecco perché il termine “contingente” deve indicare questi due caratteri: “la non costituzione di sé” dell’io e la sua “esistenza in quanto tale”. Questo vale per tutto ciò che segue».[1]

Straniero al mondo ed a se stesso, il rischio che la libertà si muti in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite pregresso è il gravoso problema etico ed ontologico che l’essere umano deve vivere e risolvere. Se il male alligna nella forma parossistica e nichilistica dell’io ipertrofico e consumante, è nella struttura economica che bisogna individuare la causa efficiente che perverte la libertà in tracotanza, in dispersione della soggettività nel ritmo frenetico e funebre del ciclo consumo e distruzione. Il male si espande, trova in ogni soggetto il punto ottico che si spazializza per occupare ogni tempo ed ambiente in frenetica attività di produzione-creazione che prontamente e velocemente deve annichilire.

 

Vergogna
L’io rifiuta il limite, ogni limitazione è vissuta con vergogna, come negazione della libertà che abita l’essere umano, che lo struttura ontologicamente. Per fuggire alla vergogna dell’origine che rammenta all’essere umano che non è un creatore assoluto, è necessario affermare la libertà che annichilisce, che crea mondi per distruggerli. La creatura compensa la vergogna della contingenza con la distruzione, diventando homo faber, fino a produrre mezzi e ordigni che non controlla e di cui resta vittima. Lo sviluppo tecnologico, il dominio delle merci che dominano come zombie sugli esseri umani che li hanno prodotti e creati è l’esito della libertà patologica dell’essere umano. La libertà e la non identificazione divengono il percorso che porta alla distruzione, a produrre strumenti che potrebbero cancellare l’essere umano, ed a fondare un mondo “senza l’essere umano”. L’essere umano nell’opera giovanile Patologia della libertà del filosofo è destinato alla distruzione, ad annichilire i mondi che pone, per vivere l’ebbrezza del creatore, ma svelandosi impotente, poiché la creazione non è che annichilimento della vita. L’annichilimento di ogni forma-mondo permette di “curare” la vergogna distruggendo, non più “pastore dell’essere”, ma “pastore dei consumi distruttivi”, così si svela il fondo nichilistico e minaccioso della libertà umana. La libertà diviene la tragica terapia di un essere fragile, all’incapacità di accettare la contingenza, ma che ambisce all’onnipotenza:

 

«All’origine la vergogna non è vergogna di aver fatto questo o quello, anche se questa forma di vergogna già significa che io non mi identifico con qualcosa che viene da me, la mia azione, e con la quale tuttavia dovrei, nel senso che vi sono costretto, identificarmi. Proprio il fatto di essere capace di questa particolare vergogna morale richiede come condizione formale che io sia identico e, insieme, non identico con me stesso; il fatto che io non possa uscire dalla mia pelle e al tempo stesso possa considerarla tale; che incontri me stesso nella libertà dell’esperienza di me – ma in quanto non-libero. La vergogna non nasce da questa incongruenza, ma è quest’ultima ad essere già vergogna. Nella vergogna l’io vuole liberarsi, nella misura in cui si sente esposto a se stesso in maniera definitiva e irrevocabile, ma, ovunque si nasconda, esso rimane nell’impasse, resta alla mercé dell’irrevocabile, dunque di se stesso. E tuttavia l’uomo fa così una scoperta: proprio esperendosi come non posto da sé, per la prima volta sente di provenire da qualcosa che non è lui; per la prima volta avverte il passato, ma non quello che di solito chiamiamo il “passato”: non il proprio passato familiare, storico, ma il passato totalmente estraneo, irrevocabile, trascendente; quello dell’origine. L’uomo avverte il mondo da cui proviene ma al quale non appartiene più come io. Così, la vergogna è soprattutto vergogna dell’origine. Pensiamo ai primi esempi biblici della vergogna: alla coincidenza della vergogna e della caduta, e all’esempio dei figli di Noè che, “girando la faccia per la vergogna”, coprono le nudità di loro padre».[2]

La spinta alla libertà distruttiva, alla compensazione per la vergogna del limite e della gettatezza non necessariamente deve portare alla distruzione, alla bomba atomica come descritto da Günther Anders, le possibilità con cui la libertà si può concretizzare sono plurali: la libertà come delirio d’onnipotenza, come fuga dalla vergogna è il modello pervasivo del capitalismo assoluto non iscritto nella natura umana. La libertà può umanizzare, se vive il limite con il logos e come soglia in cui incontrare l’alterità, e identificarsi in essa, la libertà è distruzione, se è orientata alla creazione aggressiva, a divorare il mondo, perché il limite è vissuto con vergogna. Senza la soglia del limite si entra nella violenza, nell’io che usa se stesso come alabarda per abbattere ogni ostacolo allo scopo di dimostrare di essere creatore e non creatura.

 

Solitudine ed eternità
Per eternizzarsi l’essere umano deve trascendere la contingenza temporale, in cui è prigioniero, con l’eternità deve superare lo spazio ed il tempo e proiettarsi verso un infinito frustrante, perché resta creatura ed ogni tentativo di elevarsi a divinità ricade su di lui nella forma della vergogna, del limite da cui si fugge e che puntualmente riappare nella rappresentazione e nella realtà effettuale. Tale condizione potrebbe essere letta in modo differente rispetto al filosofo de L’uomo è antiquato, ovvero l’essere umano è tale, perché consapevole del limite, ed ogni abbattimento dello stesso non è che negazione della sua natura e dunque “tragedia collettiva”:

 

«Così, l’uomo vuole essere ora e sempre. Tenta, cioè, di immortalarsi nel tempo, così come si affannava a glorificarsi nello spazio; tenta di negare ulteriormente la contingenza dell’ora al quale si è trovato abbandonato. E si sforza di costruire il suo essere autentico sotto la forma di una statua permanente, nella Memoria e nella Fama, rispetto alla quale la sua forma attuale e incompleta è come il fenomeno in relazione all’Idea. Di questa statua gloriosa egli non è che la copia infedele e temporale; ed ecco il paradosso: più la sua gloria aumenta, meno “lui stesso” sembra avere a che fare con la sua statua; questa ha usurpato il suo nome; ed è tale statua che raccoglierà la gloria al posto dell’uomo, molto a lungo, anche dopo la morte; schiacciato e abbattuto, eccolo invidioso del suo grande nome».[3]

L’essere umano con relazioni emotive soddisfacenti, che conosce se stesso e vive la profondità della sua indole si radica nel presente per avere cura del futuro, se tale condizione manca, se il presente è solo un immenso vuoto senza legami, fugge dalla solitudine accarezzando sogni di eternità che compensino la solitudine e lo squallore dello sradicamento da sé e dalle alterità.

 

L’animale non umano
Per comprendere l’essere umano lo sguardo teoretico di Günther Anders ha analizzato gli animali non umani, essi non sono liberi, le loro risposte sono precostituite e sono parte integrante dell’ambiente. Gli animali non hanno mondo, perché non hanno rappresentazioni. Dal contrasto fenomenologico tra l’essere umano e gli animali non umani il filosofo trae elementi per definire il fondamento ontologico dell’essere umano:

 

«Ma la materia a priori dell’animale gioca allo stesso tempo il ruolo di sbarramento. Infatti, l’animale non raggiunge e non trova altro che ciò di cui porta in sé il messaggio. Le sue percezioni non vanno al di là del contenuto già anticipato. La forza dei legami che lo vincolano a un mondo determinato, tradotta nella prescienza pre-sperimentale che ne ha, gli impedisce di rompere liberamente i suoi vincoli. A dirla tutta, l’animale non apprende nulla di veramente nuovo. È preso nella rete di legami che lo ricollegano al mondo, è schiavo delle sue anticipazioni. Tutto ciò che gli resta estraneo sfugge totalmente alla sua presa (come attestano incontestabilmente gli esperimenti di psicologia animale) o lo spiazza come la sorpresa di una materia refrattaria all’elaborazione e che non costituisce esattamente il suo mondo».[4]

La condizione umana è apparentemente opposta alla condizione animale, in quanto l’essere umano crea mondi, ma la libertà lo spinge a distruggere i mondi che crea fino a minacciare la vita nella sua totalità. La libertà patologica rende l’umanità “forma di vita” qualitativamente peggiore dell’animale non umano per la sua capacità annichilente.

 

Pessimismo
L’analisi di Günther Anders pone il problema della libertà e della sua qualità e specialmente della struttura ontologica dell’essere umano, ma rischia di eternizzare il presente con la tecnocrazia, di indurre a negare la prassi, poiché la constatazione della potenza distruttiva che si annida nell’essere dell’umanità, non può che condurre al pessimismo più paralizzante. Necessitiamo di riportare la condizione umana attuale al sistema che lo abita e lo muove per poter comprendere che ciò che si constata e verifica nel quotidiano e nelle cronache non è che il riflesso della funerea quantificazione della vita all’interno della società dello spettacolo. Senza la deduzione sociale delle categorie, vi è il “rischio” di cadere nella trappola dell’astratto, ovvero si ipostatizza il presente, come Hobbes ha trasformato le sanguinarie lotte di religione, non in un caso storico, ma in natura umana perennemente in lotta. La deduzione sociale delle categorie ed il materialismo sono categorie interpretative senza le quali il presente rischia non solo di eternizzarsi, ma specialmente si paralizza ogni critica implicante la prassi. Abbiamo bisogno di strutture concettuali per capire il presente, mentre il sistema ci inonda di tecnologie per renderci dipendenti e sempre più simili ad esse nelle procedure di ragionamento.

Ogni epoca svela la natura umana nelle sue potenzialità, innanzi a noi vi è la possibilità della scelta etica e filosofica, senza le quali non siamo che “enti” consegnati ad un infausto destino. La natura umana è libera, perché generica (Gattungswesen), ma tale libertà si può vivere nella fuga dell’onnipotenza, o può essere oggetto del limite che la determina nella relazione. Non vi può essere libertà che nella relazione, poiché solo essa consente di conoscere e conoscersi, ogni rifugio nel sogno distopico dell’onnipotenza non è che patologia socialmente indotta, di cui constatiamo gli effetti a livello antropologico ed ambientale al limite dell’irreversibile, e che ci invocano ad una metafisica umanistica. Senza tale postura non vi è futuro, ma solo l’annientamento di ogni umanità, per poter scuotere le coscienze intorbidite è necessario mostrare che l’essere umano come lo constatiamo “oggi” non è tutto, ma una delle sue possibilità più perniciose, che invocano una trasformazione dell’assetto socio-economico, perché l’umanità può essere molto di più che un distopico incubo della ragione. L’immaginazione ampliata come nuova capacità teoretica pensata dal filosofo per abbandonare gli effetti funesti della tecnocrazia non può bastare per trascendere le distruttività del presente. Senza una pubblica razionalità che sveli e riveli la verità del presente e la sua ideologia si resta prigionieri all’interno dell’onnipotenza. L’immaginazione descritta da Günther Anders è organica all’onnipotenza, è l’altro volto di un’impossibile fuga dal presente per rifondare il presente. La scommessa sul futuro si regge in modo fondamentale sugli uomini e le donne di cultura che, malgrado i tempi terribili attuali continuano ad impegnarsi perché la barbarie non sia definitiva. Le contraddizioni sempre più macroscopiche possono farci ipotizzare che esse nel corso dei tempi attuali mostreranno i loro effetti insanabili e dialettici, pertanto le idee e le resistenze disseminate potranno ritrovare il loro senso.

Salvatore Bravo

[1] Günther Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, pag. 40.

[2] Ibidem, pag. 45.

[3] Ibidem, pag. 52.

[4] Ibidem, pag. 25.


Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.
Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.
Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.
Günter Anders (1902-1992) – Non sono disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi esseri umani siamo in grado di provocare e che abbiamo effettivamente provocato.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Maurizio Schoepflin – Il problema della filosofia moderna secondo Marino Gentile.

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Marino Gentile
Il problema della filosofia moderna

Nonostante sia riconosciuto come il maggiore esponente della “scuola padovana di filosofia”, Marino Gentile (1906-1991), che proprio nell’Ateneo patavino insegnò per oltre vent’anni, formando una generazione di studiosi di notevole vaglia, non è molto noto. In realtà, egli è stato una delle menti più acute nel panorama del pensiero italiano novecentesco, e davvero paradigmatico appare il suo percorso speculativo che, dopo aver preso le mosse dall’attualismo di Giovanni Gentile, si indirizzò, sulla scia dell’insegnamento di Armando Carlini, nella direzione della metafisica di ispirazione cristiana. In questo contesto si situano gli importanti studi storiografici che Gentile condusse al fine di comprendere a fondo il cammino compiuto dalla filosofia occidentale dall’antichità ai nostri giorni. Tra i lavori da lui dedicati al confronto con la speculazione del passato spicca Il problema della filosofia moderna, pubblicato per la prima volta precisamente settant’ anni fa, nel 1950. Due sono le grandi questioni affrontate dall’autore in questo libro: la prima concerne la possibilità o meno di reperire nel pensiero moderno una sostanziale unità dottrinale; la seconda riguarda la valutazione dell’indole critica che lo caratterizzerebbe. Gentile sintetizza le sue risposte ai problemi sopra accennati affermando che “l’unità del pensiero moderno si debba ritrovare nell’accoglimento, più o meno coerente, del matematismo e che l’intento della ricerca critica si sia venuto componendo con esso, avendone a volte stimolo e sostegno, ma più spesso limite e arresto”. Gentile, dunque, concorda con coloro che hanno individuato la cifra principale della filosofia moderna nel primato attribuito alla conoscenza matematica ai fini della comprensione e del dominio della realtà. Ha scritto Enrico Berti, allievo del nostro autore e a lungo docente nell’Università di Padova: “Il Gentile andava sviluppando anche una sua interpretazione della filosofia moderna come caratterizzata dall’intento pratico di realizzare il dominio dell’uomo sulla natura (quello che F. Bacone chiamava il regnum hominis) per mezzo di una concezione meccanicistica della natura stessa, fondata su una concezione matematistica della conoscenza. Tale interpretazione, annunciata nei volumi su Umanesimo e tecnica (Milano 1943) e Bacone (Brescia 1945), trovò la sua espressione più completa nel volume Il problema della filosofia moderna (ibid. 1950), dove il Gentile pervenne a risultati convergenti con quelli, allora sconosciuti, di E. Husserl e dell’ultimo M. Heidegger, nonché di M. Horkheimer e di altri critici della filosofia moderna, che avevano individuato nel pragmatismo e nel matematicismo il limite della criticità di quest’ultima”. Secondo Gentile, dunque, il primato della matematica esaltato dalla modernità ha precluso a essa di portare sino in fondo l’istanza critica che starebbe alla sua base, dando luogo a una sorta di cortocircuito speculativo che ha condizionato a fondo i successivi sviluppi del pensiero.

Maurizio Schoepflin, Il problema della filosofia moderna secondo Marino Gentile, “Il Foglio” del 23.9.2020.


Marino Gentile

Il problema della filosofia moderna

ISBN 978-88-7588-260-0, 2020, pp. 14.

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I temi discussi da Marino Gentile in questo libro

 

Regno dell’uomo, matematismo e meccanicismo (Galilei, Bacone e Cartesio)

Il disegno umanistico del «regnum hominis» / La caratteristica della concezione moderna del «regnum hominis» / Il matematismo del Galilei / Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero di F. Bacone / L’atteggiamento di Bacone verso la matematica / R. Descartes come fondatore della filosofia moderna / Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero cartesiano / La funzione del matematismo nel sistema cartesiano / La matematica e il dubbio universale / I due centri di certezza nel sistema cartesiano / Matematismo e meccanicismo / Le aporie del cartesianesimo.

Le difficoltà del matematismo. Il problema della «res extensa». Cartesio e Spinoza

Le condizioni per un cartesianesimo integrale / Sua incompatibilità con il concetto di anima-forma / Risoluzione del cartesianesimo nello spinozismo / Spinoza e Cartesio /Le caratteristiche del razionalismo spinoziano / Il matematismo nel pensiero spinoziano / Matematismo e meccanicismo / Occasionalismo e pascalismo.

Esteriorità e interiorità nella conoscenza (Locke e Leibniz)

Gli elementi della «modernità» nel pensiero del Locke: «regnum hominis» e meccanici­smo / Come nel pensiero del Locke vi sia presente anche il matematismo / Il rapporto del Locke con la distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie / Conseguente critica del concetto di sostanza da parte del Locke / Inadeguatezza del nominalismo tradizionale alla critica del Locke / Il matematismo come limite dommatico della ricerca lockiana / Il dualismo d’interiorità ed esteriorità / Leibniz e la sua ripresa al matema­tismo antico / Matematismo antico e matematismo moderno / La polemica vichiana e la prevalenza del matematismo nella cultura illuministica.

 

Il superamento kantiano del matematismo e i suoi limiti

La filosofia kantiana come ricerca assoluta / Condizioni della ricerca e funzione esercitata in essa dalla matematica e dalla meccanica / Raporto della dottrina dell’Io tra­scendentale con la funzione esercitata nella ricerca dalla matematica e dalla meccanica / Dall’estetica e dall’analitica alla dialettica / Il matematismo e le aporie della dialettica / Il matematismo come limite della ricerca kantiana.


Maurizio Schoepflin – «Presocratici»: e fu l’aurora. il libro di Luca Grecchi è un utile strumento per studiare gli albori dell’affascinante cammino della filosofia occidentale.

Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di  Maurizio Schoepflin

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Maurizio Schoepflin – «Presocratici»: e fu l’aurora. Il libro di Luca Grecchi è un utile strumento per studiare gli albori dell’affascinante cammino della filosofia occidentale.

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Maurizio Schoepflin
Presocratici: e fu l’aurora

Ha scritto Martin Heidegger: «Ogni grande cosa può avere solo un grande inizio. Il suo inizio è sempre la cosa più grande… Tale è la filosofia dei Greci». Si tratta di un’affermazione difficilmente contestabile, in quanto ben pochi saranno disposti a negare che l’eccezionale stagione del pensiero ellenico abbia prodotto risultati pressoché insuperabili. Ora, quello che Heidegger ha sostenuto a proposito della filosofia greca, vale anche per i suoi inizi, che sono stati essi stessi grandiosi. Non v’è dubbio che l’acme del pensiero classico sia rappresentata da Platone e Aristotele, ma è altrettanto certo che senza il formidabile contributo dei pensatori che li precedettero la loro produzione non sarebbe apprezzabile in tutto il suo valore.
Dunque, l’inizio dell’inizio, ovvero i primi passi della filosofia greca, riveste un’importanza fondamentale, oltre che un fascino straordinario. Coloro che hanno scritto le primissime pagine del sapere sono comunemente definiti “presocratici”, e proprio a loro ha dedicato un volume interessante e ben articolato Luca Grecchi (Leggere i Presocratici, Scholé, pagine 262, euro 22). Il libro si apre con una serie di considerazioni preliminari, nelle quali l’autore affronta questioni riguardanti la loro identità, la loro collocazione storica e teoretica, la bibliografia che li riguarda e, infine, le varie interpretazioni che di essi sono state proposte. Sino a oggi, annota Grecchi, le diverse letture che del pensiero presocratico sono state date, sono riconducibili a tre grandi filoni: quello scientifico-naturalistico, che vede la natura al centro, quello mistico aurorale, incentrato sul divino, e quello politico-umanistico, che fa perno sull’uomo. Secondo l’autore, sarebbe errato assolutizzare una di queste interpretazioni, le quali, invece, vanno poste fra loro «in maniera aperta ed includente, non chiusa ed escludente». Soltanto così sarà possibile avvicinarsi a una retta comprensione del composito universo presocratico, a cui si deve anche l’indicazione delle tre linee principali lungo le quali si muoverà tutta la filosofia posteriore, linee che, a giudizio di Grecchi, definiscono quello filosofico come «un sapere che si rivolge all’intero, coordinandone le varie parti; un sapere dialettico, ossia caratterizzato da argomentazioni e contro-argomentazioni; un sapere onto-assiologicamente orientato, assumente come fondamento di senso e valore l’uomo».
Una bella introduzione di Maurizio Migliori, un lessico essenziale dei termini greci utilizzati e una corposa bibliografia arricchiscono il libro: utile strumento per studiare gli albori dell’affascinante cammino della filosofia occidentale.

Maurizio Schoepflin, Presocratici: e fu l’aurora, «Avvenire», 06-02-2021, p. 20



Luca Grecchi – «Leggere i Presocratici». La cultura presocratica rappresenta tuttora una miniera in buona parte inesplorata.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di  Maurizio Schoepflin


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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