Aldo Capitini (1899-1968) – Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste.

Aldo Capitini 02

alta passione

 Aldo Capitini scrive nel 1956

«Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste.
Piú volte fino ad oggi sono state fatte «rivoluzioni», e ci sono quelli che vogliono anche ora fare una rivoluzione. Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste cose, liberazione, rinascita come persone liberate e unite. Ma sappiamo anche che noi non possiamo far tutto e subito; possiamo incominciare, unirci con chi è d’accordo con noi, lottare, sacrificarci, ma non possiamo con tutte le nostre poche forze (anche se, unendoci, siamo piú forti) liberare il mondo da tutto il male. E allora torneremo indietro? non faremo nulla? ci faremo prendere dallo scoraggiamento? lasceremo le persone sfruttate, i vecchi trascurati, i bambini affamati, gli uomini senza lavoro diventare banditi, pazzi, malati? Niente affatto: noi faremo ciò che potremo, faremo molti passi, raccogliendo le nostre forze per andare verso la salvezza e la luce giusta per tutti. […]
Ci vengono a dire che ci sono state altre rivoluzioni, inglese, americana, francese, russa, cinese. Ma noi rispondiamo che non vogliamo qui giudicare quelle rivoluzioni né i metodi che hanno usato né i risultati che hanno raggiunto; la storia deve mutare e oggi i nostri problemi li vediamo in un’altra luce; rispondiamo che la nostra rivoluzione, oggi qui e subito, ha qualche cosa di diverso, perché è fatta insieme con tutti, con l’animo nostro unito a tutti anche se non ci sono accanto, è rivoluzione per tutti e con tutti, non escludendo e non distruggendo per sempre e non dannando in eterno nessuno: è rivoluzione corale.
Se la nostra rivoluzione corale e totale, per la liberazione di tutta la società e di tutta la realtà, non può realizzarsi con le nostre mani in un colpo, faremo tutto ciò che potremo e resteremo aperti perché il resto avvenga fuori delle nostre forze. Se noi non possiamo togliere tutto il dolore, tutto il male, tutta la morte, cominceremo con l’amare tutti non dando noi il dolore, il male, la morte e con la fede che il resto del dolore, del male, della morte scomparirà. Se ci sforzeremo di usare mezzi puri e di tenere una coscienza onesta e amorevole, questa sarà l’offerta che facciamo e la garanzia che abbiamo che avverrà una liberazione totale. Per questo non ci accontentiamo di una piccola o grande riforma parziale, perché vogliamo un cambiamento totale. Una riforma parziale sarà utile: anche un aumento di salario per chi guadagni troppo poco, anche una casa a buon prezzo per chi abita nelle grotte (come ce ne sono in Italia), sono riforme sacrosante; ma a noi non bastano, perché vogliamo una liberazione totale, siamo rivoluzionari fino in fondo. Ma se non siamo riformisti facilmente contentabili, non siamo nemmeno rivoluzionari che credono di ottenere tutto con la violenza e l’assolutismo, e poi si accorgeranno che non basta».


Aldo Capitini
Un’alta passione, un’alta visione. Scritti politici 1935-1968, a cura di Lanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte, Firenze 2016, pp. 292-294

Lanfranco Binni, responsabile del Fondo Walter Binni, e Marcello Rossi, direttore de Il Ponte la “rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei”, hanno recentemente curato una ricca e approfondita raccolta di scritti politici di Aldo Capitini – il fondatore del Movimento Nonviolento e della rivista Azione nonviolenta – che coprono un arco temporale dal 1935 al 1968, anno della sua morte, dal titolo “Un’alta passione, un’alta visione”  (Il Ponte Editore). Ne pubblichiamo qui la premessa dei due autori.

Il volume cartaceo può essere richiesto presso Il Ponte libreria, mentre il sito web del Fondo Walter Binni mette a disposizione dei lettori la versione integrale in .pdf  

Questo volume di scritti di Aldo Capitini è un percorso di attraversamento diacronico della sua esperienza rivoluzionaria, teorica e tenacemente pratica, dall’antifascismo liberalsocialista degli anni trenta agli esperimenti di democrazia dal basso nell’immediato dopoguerra, alla decostruzione dell’ideologia cattolica e alla «rivoluzione nonviolenta» negli anni cinquanta, alla puntuale teorizzazione della «compresenza», della democrazia diretta e dell’«omnicrazia» negli anni sessanta.
I temi di Capitini, rimossi e deformati già nell’immediato dopoguerra, sono oggi attuali, da conoscere, da studiare e da sviluppare. Sono da riprendere le sue ricerche sulla «complessità» della realtà, sulla «compresenza» delle molte dimensioni del reale (il presente e il passato, la vita e la morte) in ogni singola esistenza; i suoi esperimenti di «nuova socialità» per una società di massimo socialismo e massima libertà, oltre le derive stataliste-staliniste e le imposture liberal-proprietarie; la sua puntuale polemica anticattolica per liberare la dimensione spirituale-mentale dai poteri confessionali; la sua prospettiva del «potere di tutti» come orientamento politico per il presente, contro i poteri oligarchici, politici, economici e culturali.
Al centro dell’intera esperienza umana, intellettuale, poetica, pratica di Capitini c’è la politica, una concezione della politica come intreccio di etica e creazione del valore, tensione alla trasformazione, alla liberazione rivoluzionaria della realtà. Tutti gli scritti di Capitini sono intimamente politici: è politica la sua elaborazione filosofica sulla «compresenza», è politica la sua poesia che nomina la realtà liberata qui e subito, è politica la sua libera ricerca religiosa, è piú che politica la sua concezione della politica, è piú che socialista la sua concezione del socialismo, è piú che libertaria la sua concezione della libertà.
I veri maestri agiscono a distanza e nel corso del tempo. Il tempo di Capitini è ora, nella fase della crisi della «democrazia» liberale (il sintomo) e della crisi strutturale del capitalismo (la malattia), della guerra globale e della devastazione del pianeta: «democrazia diretta», «omnicrazia», «compresenza», «realtà liberata» affermano oggi la loro urgenza teorica e di orientamento per la prassi rivoluzionaria.
I testi che abbiamo scelto e montato cronologicamente non costituiscono un’antologia, ma un percorso di attraversamento del «centro» delle idee e dell’azione di Capitini, nelle loro molteplici e costanti «aperture», per sollecitare un rapporto ulteriore con le sue opere, da leggere e studiare. Il titolo è di Capitini: in un articolo dell’autunno del 1945, Allarme per i giovani, 8 denuncia il clima di restaurazione di antiche dinamiche oligarchiche e di abbandono dei giovani, passata la tempesta della guerra e della Resistenza: «Nelle città, nei paesi e nelle campagne specialmente, vedo folle di giovani e di ragazzi inerti, che non hanno canzoni, non incontrano apostoli, non sanno come salutare, che grido lanciare, che non può e non deve essere piú quello di odio a un uomo e a un regime scomparsi. O dare tutto questo, un’alta passione, un’alta visione, o non ci meraviglieremo se dilagherà la tendenza a un individualismo scettico peggiore della morte».
Il libro è di Capitini, e inizia con la sua voce: lo scritto autobiografico Attraverso due terzi del secolo, scritto nel 1968 a due mesi dalla morte. Ci limitiamo a premettere un sintetico profilo della vita e delle opere, e una doverosa insistenza sul socialismo libertario di Capitini, il cuore e l’anima della sua stessa «religione aperta».

Lanfranco Binni (Fondo Walter Binni)

Marcello Rossi (Il Ponte Editore)


Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

 


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Stefano G. Azzarà e Andrea Bulgarelli – Intervengono all’incontro sul tema: «Esistono ancora destra e sinistra?». Riflessioni a partire dal confronto tra Domenico Losurdo e Costanzo Preve. Venerdì 1 febbraio ore 21, Libreria Comunardi, Torino.

Azzarà Preve Losurdo

Azzara Comunardi

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Venerdì 1 febbraio ore 21,

Libreria Comunardi, Via Bogino 2 , Torino.

 

Esistono ancora destra e sinistra?

Riflessioni a partire dal confronto tra

Losurdo nell'aprile 2011

Domenico Losurdo

e

Costanzo Preve

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Intervengono all’incontro

Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)  e Andrea Bulgarelli (CIVG)

Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.
Andrea Bulgarelli – «Costanzo Preve marxiano», intervista a cura di Luigi Tedeschi sul libro “Invito allo Straniamento” II.
Luigi Tedeschi intervista Andrea Bulgarelli, coautore con Costanzo Preve del libro “Collisioni – Dialogo su scienza, religione e filosofia”

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Emanuele Severino – Il capitalismo compera la tecnica per realizzare quella forma di incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. Che è costituito dall’incremento del profitto e del denaro. Lo scopo cioè è il controllo del mezzo universale.

Emanuele Severino 01
L'identità della follia

L’identità della follia

«Sia nel capitalismo sia nella tecnica lo scopo che si vuole raggiungere è il possesso del mezzo universale, capace cioè di realizzare qualsiasi scopo. I singoli scopi che si possono realizzare col mezzo universale non sono quindi lo scopo ultimo, che è solo la capacità indefinitivamente crescente di realizzarli. Lo scopo cioè è il controllo del mezzo universale.
Mentre il denaro è il mezzo universale ma solo relativamente all’acquisizione di ciò che già esiste […] la tecnica fa crescere indefinitivamente la capacità di realizzare scopi e conduce tale capacità al di sopra della dimensione in cui la crescita del denaro si dà [ … ] Il capitalismo sa che il denaro non può comperare tutto perché non tutto ciò che vorrebbe esiste e appunto per questo il capitalismo compera la tecnica […] Il capitalismo si serve della tecnica per realizzare quella forma di incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. Che è costituito dall’incremento del profitto e del denaro».

Emanuele Severino, L’identità della follia. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2007, p. 150.

 


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Friedrich Nietzsche (1844-1900) – La nostra cultura europea è come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile a una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più e ha paura di riflettere.

volpot

 

F. Nietzsche, nel 1887, introducendo l’ultima sua opera, pubblicata postuma, annunciava
l’avvento di due secoli di nichilismo:

«Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. lo descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce di decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile a una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più e ha paura di riflettere».

Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza. Frammenti postumi, Bompiani, Milano 1992, p. 3.

 


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – Scrivi col sangue: imparerai che il sangue è spirito

Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Chi si sente completamente in accordo con questo presente, e lo assume come qualcosa ‘che si comprende da sé’ non è da noi certo invidiato. Tra costoro e i solitari, stanno tuttavia in mezzo i combattenti, cioè coloro che sono ricchi di speranza.

Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Un’educazione, peraltro, che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza.


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Piera De Piano – Per una definizione del tempo in Aristotele. Il libro di Luigi Ruggiu «Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo»

Piera De Piano 01

Tardoantichi

Koinonia, 42, 2018

KOINΩNIA, 42, 2018

 

Coperta 283

Luigi Ruggiu

Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino

indicepresentazioneautoresintesi

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  Logo Adobe AcrobatPiera De Piano, Per una definizione del tempo in Aristotele  Logo Adobe Acrobat

Recensione al libro di Luigi Ruggiu, Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2017.

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Nel 1970 Luigi Ruggiu, professore emerito di Storia della filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dava alle stampe un’imponente monografia su Aristotele e la concezione del tempo di cui il volume qui recensito rappresenta una ristampa riveduta e corretta, con un aggiornamento bibliografico posto in appendice. A quella pubblicazione seguirono, dello stesso Ruggiu, una monografia interamente dedicata a Parmenide (1975) e, un ventennio dopo, la traduzione e il commento della Fisica di Aristotele (1995). Sono stati proprio questi studi, come dichiara l’Autore stesso, a trasformare negli anni il suo orientamento teoretico e ad allontanarlo da quella che era stata la sua «linea maestra», e cioè la prospettiva nichilista dell’interpretazione del testo aristotelico, prospettiva manifestamente dichiarata nel sottotitolo del volume ed ereditata direttamente da Emanuele Severino e dal suo saggio Ritornare a Parmenide del 1964. Tuttavia, la necessità di rendere fruibile le sue ancora stimolanti interpretazioni del testo aristotelico hanno convinto l’Autore a ristampare l’opera, diventata ormai introvabile, rinunciando ad una nuova edizione che avrebbe significato, ammette Ruggiu, riscrivere completamente la terza parte del volume e rivedere stilisticamente le prime due (pp. VII-X).

Tre, dunque, sono le parti che compongono la monografia: le prime due (La concezione del tempo e dell’istante e Coscienza e autocoscienza in relazione all’essere) sono dedicate più propriamente alle pagine aristoteliche del quarto libro della Fisica. La terza e ultima parte (Il tempo come fondamento della determinazione del senso dell’essere), invece, ha natura più speculativa e manifesta più evidentemente l’orientamento teoretico dell’autore, orientamento da subito dichiarato proprio da Emanuele Severino, che firma la prefazione al volume: il senso autentico dell’essere è quello di opporsi al nulla e quindi ogni filosofia che ammetta che l’essere possa non essere, cioè essere nulla, deve dirsi nichilistica; il primo filosofo ad aver teorizzato i tratti fondamentali della nientità dell’ente sarebbe stato – secondo Ruggiu – proprio Aristotele, affermando che è necessario che l’essere sia, quando è, e che il non essere non sia, quando non è (pp. 5-7). Il luogo proprio nel quale si realizzerebbe tale nientificazione dell’ente, secondo Ruggiu, è quello dell’analisi aristotelica del concetto di tempo, ed è illuminando questo snodo teorico che le quasi cinquecento pagine del volume acquistano senso e profondità.

Una difficoltà di queste pagine è legata alla scrittura dell’Autore, il quale non sempre distingue in modo chiaro la citazione del testo dall’interpretazione di esso. Sebbene l’aspetto più propriamente speculativo si sviluppi, infatti, nella terza parte del volume, fin da subito si ha l’impressione che l’esito dell’interpretazione condizioni troppo, fin dal principio, la lettura della pagina aristotelica. Considerato il valore d’indagine che conservano le prime due parti, ancora di indubbia utilità per il lettore moderno, su queste, e in particolar modo sulla prima, si concentreranno le note che seguono.

La problematicità della riflessione sul tempo proposta da Aristotele sta nel fatto che essa si inserisce pur sempre in un’ontologia «che determina il significato dell’essere sulla base della presenza, anche se quest’ultima può essere interpretata in diversi modi […]. Se il tempo viene ad essere sostanzializzato e considerato come disteso in linea retta nello spazio, passato e futuro o sono ricondotti al nulla oppure devono identificarsi con il presente» (p. 28). Se l’essere esiste solo nella presenza, e quindi nello spazio, come può esistere il tempo se esso ora è passato, ora è futuro?

Una prima soluzione dell’aporia si trova nel ricondurre l’ontologia del tempo a quella di una qualsiasi unità il cui essere è un durare. In tal senso si rende molto perspicua l’analogia tra la natura del tempo in quanto durata e la melodia: il nulla del passato e il nulla del futuro non sono un non-essere in senso assoluto; essi sono un niente di ora, dunque un «determinato nulla», non l’assoluta privazione dell’essere. Il fenomeno più facilmente percepibile in tal senso, secondo Ruggiu, è proprio quello della melodia: questa non può essere còlta semplicemente come composizione di una pluralità di suoni, ma come un tutto di cui fanno parte non solo il suono presente, ma anche quello passato; anzi senza quest’ultimo la melodia non sarebbe nemmeno più una melodia, risultando invece solo una serie di suoni irrelati l’uno rispetto all’altro (p. 30). La fisicizzazione del tempo e un’ontologia che riduce l’essere alla presenza portano a due conseguenze: o il passato e il futuro si possono pensare come frutto di semplice immaginazione, oppure il tempo si può pensare come un tutto che può legittimamente comprendere in sé parti riconducibili al non essere (p. 32).

Una seconda soluzione dell’aporia fa riferimento alla coscienza (è con questo termine che Ruggiu traduce il greco ψυχή). Ciò che si muove nel tempo, e quindi il non essere del passato e del futuro, si salva perché a esistere e non esistere non è – in questa prospettiva – il contenuto, ma la percezione del contenuto che si ha nella coscienza. Tale soluzione – si chiede però Ruggiu – riesce a tenere completamente lontano il tempo dal nulla? È a partire da questa domanda che lo studioso interroga il testo aristotelico soffermandosi sulla relazione tra tempo e movimento. Tempo e movimento sono fortemente intrecciati. La rappresentazione che ne abbiamo è che non esista tempo senza movimento né viceversa. Ma Aristotele dimostra anche come essi siano assolutamente distinti e separati. Ciò che è legato al movimento è piuttosto il tempo inteso in senso matematico, come unità di misura del prima e del dopo, ma non il tempo inteso in senso ontologico e metafisico. Ruolo importante in questa distinzione è quello rivestito, ancora una volta, dall’anima, che diventa così il ὑποκείμενον in senso primario, perché il fondamento in senso secondario è il contenuto della coscienza. Non esiste mutamento se non si ha coscienza del contenuto che muta e solo la coscienza consente di cogliere l’unità del flusso. Non esiste un tempo oggettivo. «Senza la presenza del mutamento nella coscienza, non si dà tempo, in quanto la presenza permane immutata e quindi, mancando il divenire dei contenuti della presenza, non può nemmeno esservi una percezione del tempo, che si costituisce come percezione di un flusso, cioè di un passato, dell’intervallo che intercorre tra passato e presente, del distinguersi vicendevole di questi diversi momenti» (p. 49). Tempo e movimento non s’identificano, ma non si dà tempo senza movimento (phys. 218b9 – 219a2). Il tempo è qualcosa del movimento: è quando percepiamo un ente che muta che percepiamo la successione insita nel divenire dell’ente, e quindi il tempo.

Accanto all’analisi testuale, Ruggiu non manca di discutere una ricca bibliografia critica. Sulla questione del rapporto tra tempo e movimento, per esempio, lo studioso prende le distanze tanto da Hamelin (Aristote, Physique II, traduction et commentaire, Paris 1931), che affronta sempre la questione in termini ontologici, quanto da Moreau (L’espace et le temps selon Aristote, Padova 1965), sostenitore invece di una prospettiva più precisamente psicologica, spostando invece la questione su un piano che egli definisce fenomenologico.

Il tempo non è una sostanza, cioè un τόδε τι, ma è un πάθος o una ἕξις del movimento (phys. 8, 1, 251b28; 4, 14, 223a 18). Ciò non significa però che il tempo sia una determinazione del movimento e che quindi esista in funzione di esso. Il tempo e il movimento hanno qualcosa in comune e questo qualcosa in comune è il τόδε τι, il ὑποκείμενον, il sostrato. Chiave di volta dell’interpretazione di questo nodo teorico è l’inserimento nel discorso del concetto di continuo come costitutivo di spazio, tempo e divenire. Il prima e il dopo (πρότερον καὶ ὕστερον) vengono evidentemente definiti in base a qualcosa che funge da principio, e quindi il punto nello spazio, l’istante nel tempo, il τόδε τι o τὸ κινούμενον nell’ente in movimento (cfr. Arist., met. 5, 11, 1018b 10). C’è qualcosa che ritorna ogni volta che ci si avvicina alla definizione ultima di tempo, sia quando si è dovuto ammettere che esso deve comunque in un certo qual modo sganciarsi dalla necessità di essere sempre qualcosa, sia quando ci si è avvicinati alla comprensione del divenire che è nel movimento. Questo qualcosa è la continuità esistente tra identico e differente, l’unità che esiste tra le parti e il tutto. Il tempo ha a che fare con ciò che sta a metà, che tiene unito ciò che è separato, che rende simili le cose dissimili. Ruggiu si sofferma molto su questa idea e costruisce di essa una lettura davvero stimolante, soprattutto considerando la temperie culturale in cui essa è stata formulata. Il divenire di un ente implica anche il permanere di quell’ente. Un soggetto che diviene, che muta, deve pur sempre conservare qualcosa, deve pur sempre rimanere, in relazione a qualcosa, identico a se stesso; altrimenti non ci sarebbe un divenire di quell’ente; non ci si accorgerebbe di un ente che muta, se di quell’ente che muta non permanesse qualcosa che lo rende riconoscibile in quanto «quell’ente che muta». Ecco perché il tempo è una successione, una durata, è la relazione anteriore-posteriore, πρότερον καὶ ὕστερον. Evidentemente bisogna che ci sia un principio, un punto di riferimento rispetto al quale far esistere il prima e il dopo. L’istante è il μεταξύ di questa durata, è il principio dell’anteriore e del posteriore e a questo punto riacquista la centralità del suo ruolo la coscienza: solo la coscienza può far sì che il divenire dell’ente sia percepito come tale e cioè come un permanere dell’ente che muta, che contiene in sé quel τόδε τι che lo identifica e che rimane uguale a se stesso nel mutamento. «La coscienza è la dimensione in cui l’ente nel suo passare permane, come memoria di ciò che non compare più nell’intramondano e come attesa di ciò che non è ancora fenomenologicamente comparso come ente intramondano» (p. 90). La coscienza quindi non è solo ratio cognoscendi del tempo ma anche sua ratio essendi: solo la coscienza può sapersi come identica e differente, può porre come identici e differenti i diversi contenuti della presenza.

Al di fuori della coscienza, diversità e identità sono senza significato. Prima e dopo esistono solo in quanto relazione della coscienza col contenuto fenomenologicamente presente: «è l’identità dell’autocoscienza che rivela il mutare delle determinazioni del τόδε τι e parallelamente le dimensioni del tempo in cui tale divenire si manifesta» (p. 91). A questo punto Ruggiu può arrivare alla definizione aristotelica del tempo quale:  ριθμὸς κινήσεως κατὰ τὸ πρότερον καὶ ὕστερον (phys. 4, 11, 219b 1), «determinazione dell’anteriore-posteriore del divenire». Tale definizione in qualche modo compendia tutti gli elementi emersi nei due capitoli precedenti: il divenire, lo spazio incluso nel divenire, il rapporto di anteriore-posteriore, la coscienza come fondamento della determinazione (numero) del divenire nei suoi momenti costitutivi, il πρότερον e il ὕστερον.

Il terzo capitolo è allora dedicato alla concezione del tempo quale numero. Due sono le interpretazioni correnti di tale definizione: da una parte quella epistemologico-matematica, sostenuta tra gli altri da Moreau (op. cit.) e Guthrie (A History of Philosophy, 1962), che intende  ριθμός come numero puro e quindi pensa al tempo come a una determinata unità di misura; dall’altra quella ontologica, secondo la quale con il concetto di numero attribuito al tempo Aristotele intenderebbe affermare l’atto del porre in rapporto le diverse fasi del movimento, proprio dell’operare dell’anima. Se la prima, secondo Ruggiu, riduce arbitrariamente il numero a un’unità di misura astratta, la seconda, che ha in Hamelin (Le système d’Aristote, 1931) uno dei suoi principali esponenti, ha portato l’attenzione sulla natura relazionale del numero, per cui il numero è sempre numero di qualcosa, predicato di qualcosa, e sulla funzione numerante dell’anima. Una posizione intermedia è quella di Wieland (Die aristotelische Physik, 1960), autore di una interpretazione di «tipo operativo», come la definisce Ruggiu: il tempo non è un principio ontologico del reale, ma il modo o lo strumento con cui l’anima si rapporta al divenire. Nel suo rapportarsi al divenire l’anima ha bisogno di unità di misura, che individua nei moti della sfera celeste.

L’obiettivo di Ruggiu è invece mostrare come il numero svolga nell’anima la funzione teoretica di ricongiungimento del molteplice al tutto, uno e continuo che forma la realtà del tempo. Il numero non ha alcun significato matematico; esso è numero di cose e ha come oggetto un continuo successivo. Tale conclusione è ciò che più tiene legato l’Autore, per sua stessa ammissione, alle conclusioni del suo scritto di anni addietro. È proprio la considerazione del movimento in successione la chiave di volta dell’interpretazione di Ruggiu. Il numero è lo strumento con cui il molteplice viene unificato. Ciò è vero in qualsiasi numerazione degli enti; qual è però la peculiarità della numerazione rispetto al tempo? Mentre nel molteplice che coesiste nello spazio la relazione che introduce il numero non ha un senso e una direzione determinati, per cui il qui può essere pensato come il colà e viceversa, nel caso del molteplice successivo la direzione deve essere conservata nella relazione di separazione e di connessione che il numero introduce. Il numero matematico è la relazione del molteplice all’uno ma non determina se questo sia un molteplice di coesistenti o un molteplice di successivi. L’inserimento del numero nella definizione del tempo è importante perché è proprio il numero a portare con sé la presenza dell’anima: il numero per Aristotele esiste solo in relazione alle cose di cui è numero e in relazione all’anima che numera. Conoscere per l’anima è attualizzare, cioè porre ogni contenuto nell’attività della presenza della coscienza. Quando la coscienza si relaziona a un contenuto che diviene, a un ente che si offre come continuamente altro da sé, allora essa deve numerare una successione. Momento fondamentale di tale successione è l’esser-ora, l’istante, a cui Ruggiu dedica non poche interessanti riflessioni, nel quarto capitolo di questa prima parte. L’istante è privo di sostanza, non è un τόδε τι, dal momento che esso è numero ed è, come il tempo, sempre predicato di qualcosa. Vi è inoltre una stretta relazione, anzi una interdipendenza, tra tempo e istante, per cui l’uno esiste solo se esiste l’altro: Φανερὸν δὲ καὶ ὅτι εἴτε χρόνος μὴ εἴη, τὸ νῦν οὐκ ἂν εἴη, εἴτε τὸ νῦν μὴ εἴη, χρόνος οὐκ ἂν εἴη (phys. 4, 11, 219 b 33). Non è possibile considerare, alla maniera zenoniana, il tempo come una molteplicità di istanti indivisibili, configurati come unità minime di tempo. Ciò presupporrebbe una priorità ontologica dell’istante rispetto al tempo, concepito come da questo indipendente, ma anche, paradossalmente, a fondamento della concettualizzazione di esso. Ne consegue la definizione dell’istante non più come parte del tempo ma come suo limite. In quanto limite, l’istante è presente nella realtà temporale solamente in modo potenziale. «Tale potenzialità può attuarsi solo per opera dell’atto astrattivo della coscienza che, determinando l’esser ora dell’ente mosso, distingue nel tutto uno continuo della successione del mobile, un momento temporale – l’istante – che non è realtà per sé stante, ma emerge come distinto dal tempo per il tramite dell’atto di determinazione della coscienza» (p. 138). La natura dell’istante è una natura aporetica, in quanto esso è identico e diverso al tempo stesso. Rispetto al suo «esser-ora», l’istante è sempre in atto, non si altera; ciò che varia è il contenuto di cui l’«esser-ora» si predica e quindi la rappresentazione che ne ha l’anima, la quale non percepisce soltanto il variare del contenuto, ma anche il variare continuo del νῦν che si predica nella successione del prima e del dopo e quindi dei momenti-limite del mobile nel suo divenire. Nell’istante ci sono, per così dire, un momento di identità e permanenza e un momento di differenza e variazione: il molteplice della variazione, nell’istante, corrisponde al variare delle determinazioni che ineriscono al mobile nel divenire, ma i diversi modi della variazione ineriscono all’unità e permanenza dell’esser-ora: «v’è quindi un unico istante che si succede e che si manifesta come presente, passato e futuro» (p. 189). In quanto l’istante divide, cioè in quanto si determina come inizio e fine delle determinazioni dell’essere mosso, esso è sempre in potenza; in quanto esso unifica, invece, è sempre in atto.

La seconda parte del libro è interamente dedicata al tema del rapporto tra tempo e ψυχή, in realtà già protagonista nelle pagine precedenti. Qui l’analisi prende avvio dalla dichiarazione aristotelica secondo la quale dal momento che niente può numerare se non la coscienza (ψυχή), e di essa l’intelletto (νοῦς), e visto che il tempo è propriamente il numero dell’anteriore e posteriore del divenire, allora non può esistere tempo se non esiste la coscienza (cfr. phys. 223 a 25-29).

Non è possibile affrontare qui dettagliatamente tutti gli approfondimenti che Ruggiu opera sul testo aristotelico; basterà dar conto brevemente delle discussioni condotte dall’Autore sulle diverse interpretazioni critiche di τοῦτο ὅ ποτε ὂν ἔστιν ὁ χρόνος (cfr. phys. 223a 27), che Aristotele ammette come esistente anche indipendentemente dalla coscienza. Lo studioso dimostra come tale espressione non si riferisca a una parte del tempo, ma al sostrato del tempo, al contenuto di cui il tempo è numero e cioè al divenire, oggetto di numerazione. Ciò che Ruggiu traduce come sostrato del tempo (τοῦτο ὅ ποτε ὂν ἔστιν ὁ χρόνος) è dunque ciò che deve essere determinato come tempo, ma non è per sé tempo. Perché quell’indeterminato sia determinato come tempo è necessario che esso si manifesti all’anima e che quindi venga numerato; senza la coscienza, che è la sola a svolgere l’attività numerante, non c’è tempo, c’è solo divenire. Tuttavia, Aristotele ammette che questo sostrato esiste al di fuori della coscienza perché il divenire non dipende ontologicamente dalla coscienza, esiste indipendentemente da essa, da essa non è creato, sebbene allo stesso tempo dipenda da essa perché in essa si manifesta: «la coscienza è quindi manifestativa, non tetica» conclude Ruggiu a p. 219. Definite tali premesse, Ruggiu prosegue dimostrando come la coscienza temporalizzi il divenire attraverso la sensibilità, tanto da precisare la natura del tempo come struttura della sensibilità, e anzi, più potentemente, come struttura del senso comune (κοινὴ αἴσθησις: p. 258). «Non è sulla base del senso dell’essere che viene a strutturarsi il significato del tempo ma, al contrario, è in base al tempo che si delinea lo stesso essere dell’ente» (p. 285): questo l’assunto di base della terza parte del libro. L’essere per eccellenza, l’ὄντως ὄν, spiega Ruggiu, è l’essere che trascende il tempo, che si sgancia dal processo di successione e si afferma dunque come assoluta permanenza. Tuttavia l’ente in quanto presente si lega al tempo, alla necessità di essere ora e non poter non essere ora, e, relazionandosi al tempo, finisce per porsi come momento del divenire. Ciò manifesta il legame tra il tempo e il nulla, dal momento che il divenire è «passaggio dal non-essere all’essere o dall’essere al nonessere» (p. 284). Su tale posizione Ruggiu in realtà ritornava già nella seconda edizione della sua traduzione della Fisica (2007), parlando del divenire come essere e riprendendo l’analisi del significato del non essere in Aristotele. Potenza e atto rappresentano per lo studioso uno dei molteplici significati dell’essere che egli passa in rassegna nel séguito del capitolo: l’essere come categoria, l’essere come accidente, l’essere nel significato di vero e falso e l’essere, appunto, come atto e potenza. Definito il significato strutturale che il tempo riveste nella determinazione del senso dell’essere, Ruggiu si occupa dell’analisi aristotelica del concetto di «essere nel tempo» (pp. 335-352) leggendo le pagine di phys. 4, 12, 220b 32-222a 10, da cui risulta che l’essere è significante non come non-essere nulla, ma come «perdurare nella presenza»: la temporalità diventa senso dell’essere. Ciò che è degno di nota è che tale analisi pone definitivamente in crisi ogni analisi del tempo di tipo epistemologico-matematico che non metta invece in relazione la concezione aristotelica del tempo con la dimensione ontologica delle cose.

È impossibile ripercorrere nel dettaglio l’intera analisi di quest’ultima parte dell’opera, che invece veniva sviscerata nella bella recensione di Enrico Berti («Una recente indagine sul rapporto tra essere e tempo in Aristotele», in Rivista di filosofia neo-scolastica, I-II, 1971, pp. 152-163), che, senza cedere a un tono troppo polemico, non esitò a confrontarsi direttamente su spinose questioni interpretative al centro del dibattito ontologico su cui lo studioso era chiamato in causa dallo stesso Autore. Considerando che molte delle conclusioni qui prospettate sono state superate da Ruggiu, come da lui stesso dichiarato fin dalla premessa, basti presentare in questa sede l’esito dell’argomentazione, che configura una dettagliata analisi del principio di non contraddizione, passaggio obbligato della riflessione ontologica, principio della scienza dell’ente in quanto ente. Esso, commenta Ruggiu, è legge dell’esperienza e in quanto tale non può essere posto in antitesi con nulla che appartenga a quella totalità, che è appunto l’orizzonte ontologico in cui quel principio vive e in relazione al quale esso ha significato. Pertanto, se la totalità entra in conflitto con l’esperienza, essa entrerà in conflitto anche con il principio, o, se il principio viene negato, entrerà in crisi anche la totalità dell’esperienza.

È così che si conclude questa voluminosa trattazione di uno degli argomenti più avvincenti della filosofia aristotelica e in generale del pensiero occidentale, qual è quello del tempo e della sua relazione con l’individuo e con le cose, che tanto rilievo assumerà poi nel pensiero tardoantico e cristiano (si pensi ad Agostino). È doveroso segnalare che, nonostante la presenza di numerosi refusi che, per la consistenza della loro frequenza, finiscono, a volte, per mettere a disagio il lettore, questa di Ruggiu è un’opera che conserva un’indiscutibile utilità e molti spunti di riflessione, soprattutto nella parte dedicata alla lettura del testo aristotelico. Notevoli sono anche la ricca bibliografia, aggiornata con testi pubblicati sull’argomento dopo il 1970, e gli indici, tematico e dei nomi, che corredano il volume. Nelle prime pagine, infine, dopo una sintetica presentazione dell’autore, si offre al lettore una riproduzione della copertina e del frontespizio del volume originario.

 

PIERA DE PIANO

 

 

 


Luigi Ruggiu

Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele

Saggio sulle origini del nichilismo.

Prefazione di Emanuele Severino

ISBN 978-88-7588-186-3, 2017, pp. 496, formato 170×240 mm., Euro 35

indicepresentazioneautoresintesi

 

 

Aion Ostia nuova

Mosaico dello zodiaco e delle Quattro Stagioni. Ostia Antica, Magazzini.
Dalla Necropoli di Porto all’Isola Sacra, Tomba 101.

 

L’attualità di un testo si riconosce dalla centralità del tema, dalla novità nell’impostazione, dalla fecondità dei risultati. Non si tratta solo della conoscenza storica dell’autore, Aristotele, ma della penetrazione di una ricerca resa nuovamente disponibile per la sua capacità di interloquire con i problemi di metodo e di merito. Anche sul versante non direttamente filosofico della scienza, in particolare della fisica moderna e contemporanea. Il tempo analizzato nella Fisica è stato indagato iuxta propria principia. È quindi capace di sprigionare tutta la forza sintetica di penetrazione di un tema così impenetrabile e sfuggente.

«La parte del testo relativa alla trattazione del tempo si presenta come lo svolgimento sistematico più profondo ed articolato della tesi per cui il tempo viene costituito dall’anima attraverso l’atto di numerazione che esercita in rapporto al divenire, ed è quindi necessariamente relato ad essa. Questa grande sintesi operata da Ruggiu, che ricomprende tutti i contributi precedenti sulla definizione del tempo secondo Aristotele costituisce, sia per il rigore dell’argomentare che per la consistenza dell’impianto teoretico che assume come presupposto un confronto critico indispensabile per ogni interpretazione che da essa si differenzia; in questo senso rappresenta, insieme al testo di Conen, l’interpretazione attuale più interessante della dottrina aristotelica del tempo» (A. Giordani).

Il filo nascosto della indagine aristotelica è costituito dal ruolo che l’anima dell’uomo riveste nella physis. Attraverso una magistrale fenomenologia della coscienza del tempo, nella quale si mostra l’unità inscindibile di tempo e movimento, Aristotele mostra l’irriducibilità del tempo al movimento, ma anche la necessità del suo rapporto. Il “numero” che quindi compare nella definizione del tempo, non è il numero astratto, il numero matematico, ma il numero concreto, il numero numerato. Attraverso un’analisi penetrante dell’ora (νῦν) lo Stagirita mostra la necessità dell’identità e permanenza e insieme la struttura del differenza che è propria dell’istante e quindi del tempo. È l’istante che costituisce l’unità e la continuità del tempo, ma insieme anche la sua distinzione. Il tempo non si dà senza l’anima, cioè senza la chiamata in causa della memoria, della presenza e dell’attesa.

Nella contemporaneità, a lungo questa problematica è parsa monopolio della fisica, con le sue esplorazioni nel mondo dell’infinitamente piccolo e della fisica dei quanti. Ma qui il tempo con i suoi caratteri di irreversibilità e di ekstaticità scompare. La fisica conclude infine che il tempo è nulla, il prodotto di una semplice illusione, come ebbe a dire Einstein in una celebre lettera inviata ai familiari del suo amico Michele Besso: «Per tutti coloro che credono nella fisica, la divisione tra presente, passato e futuro ha solo il valore di un’ostinata illusione».

Oggi tuttavia assistiamo ad un ribaltamento di queste tesi. «La sintesi fra il tempo di Aristotele e quello di Newton è il gioiello dei pensieri di Einstein» (C. Rovelli). Se al livello più fondamentale “non c’è variabile tempo” e quindi non esiste differenza tra passato e futuro, esiste anche un movimento di ritorno (Nostos!) per comprendere come da questo mondo senza tempo possa emergere il tempo a noi familiare. Alla nostra scala, esiste anche la variabile tempo. Con una espressione alla Borges, si conclude che «il tempo siamo noi».

Ma quale Aristotele e soprattutto: quale tempo?

A questo interrogativo, il volume di Ruggiu fornisce una risposta convincente. Perciò oggi viene qui riproposto nella sua piena attualità.



Luigi Ruggiu è professore emerito di storia della filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Già consigliere di amministrazione della Biennale di Venezia (1978-1986) e direttore della rivista di cultura e politica Il Progetto (1982-1992), a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia. Nel 2000 è stato insignito della medaglia d’oro del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi dei “Benemeriti della scienza e della cultura”.

Le principali linee della sua ricerca sono:

I.

La problematica della temporalità nella storia della filosofia

Tempo Coscienza Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichi-lismo, Brescia 1970; Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, a cura di L. Ruggiu, Guerini e Associati editore, Milano 1997; Filosofia del tempo, a cura di L. Ruggiu, Bruno Mondadori Editore, Milano 1998; Tempo della fisica e tempo dell’uomo: Parmenide, Aristotele, Agostino, Editrice Cafoscarina, Venezia 2006. Aristotele, Fisica. Testo greco a fronte. Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di L. Ruggiu, nuova edizione, Mimesis, Milano 2007; Tempo delle scienze, tempo della filosofia, in Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia, a cura di U. Curi, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 101-135; Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Mimesis, Milano 2013; Parmenide e il tempo, in Parmenide. Nostos, L’essere e gli enti, Edizione rivista e ampliata, con testo e traduzione dei frammenti, e con un saggio: Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 455-512.

II.

Il problema dell’agire pratico e poietico

Teoria e prassi in Aristotele, Napoli 1973; La scienza ricercata. Economia politica e filosofia. Studi su Aristotele e Marx, Treviso 1978.

III.

Filosofia e economia

Genesi dello spazio economico. Il labirinto della ragione sociale: filosofia societá e autonomia dell’economia, Guida, Napoli 1982.

IV.

Parmenide e la genesi dell’ontologia

Parmenide, Venezia-Padova 1975; Parmenide, Il Poema sulla natura, introd., traduzione di G. Reale; saggio introduttivo e commento di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991; Parmenide di Elea, in Le radici del pensiero filosofico. I – La filosofia greca: dai presocratici ad Aristotele, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1993; Parmenide. Nostos, L’essere e gli enti, Edizione rivista e ampliata, con testo e traduzione dei frammenti, e con un saggio: Mimesis, Milano-Udine 2014.

V.

La filosofia di Hegel

L. Ruggiu – I. Testa (a cura), Hegel contemporaneo. La ricezione americana di Hegel a confronto con la tradizione europea, Guerini e Associati, Milano 2003; L. Ruggiu – J. M. Cordon (cura), La crisi dell’ontologia. Dall’idealismo tedesco alla filosofia contemporanea, Guerini e Associati, Milano 2004; L’assoluto come nulla e la ragione come negare: Hegel a Jena, in Hegel e il nichilismo, a cura di F. Michelini e R. Morani, Franco Angeli editore, Milano 2003, pp. 21-40; Intersoggettività e universale della comunicazione, in L’Universale ermeneutico, a cura di G. Nicolacci e L. Samonà, Biblioteca del Giornale di Metafisica, Tilgher, Genova 2003, pp. 13-28; Spirito assoluto, intersoggettività, socialità della ragione, «Giornale di Metafisica», nuova serie, XXV (2003), pp. 393-418; Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Mimesis, Milano 2013.

VI.

Questioni di storia della storiografia

Il presente del passato. La ripresa del pensiero classico nella filosofia contemporanea, in L’oggetto della storia della filosofia. Storia della filosofia e filosofie contemporanee, a cura di R. Racinaro, La Città del Sole Editore, Napoli 1998, pp. 173-222; La ripresa dell’antico in Giordano Bruno, in Giordano Bruno: destino e verità, a cura di D. Goldoni – L. Ruggiu, Marsilio, Venezia 2002, pp. 185-224.


Aristotele, Fisica. A cura di L. Ruggiu

Aristotele, Fisica. A cura di L. Ruggiu

 

Aristotele, Fisica. Nuova edizione

Aristotele, Fisica. Nuova edizione

Genesi dello spazio economico

Genesi dello spazio economico

 

Il tempo in questione occidentale Paradigmi sulla temporalità nel pensiero occidentale

Il tempo in questione. Paradigmi sulla temporalità nel pensiero occidentale

 

Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti

Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti

 

Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel

Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel

 

Logica Metafisica Politica. Hegel a Jena

Logica Metafisica Politica. Hegel a Jena

 

Parmenide. Nostos. L'essere degli enti

Parmenide. Nostos. L’essere degli enti

 

Parmenide. Poema sulla Natura

Parmenide. Poema sulla Natura

 

Parmenide

Parmenide

 

Tempo della fisica e tempo dell'uomo. Parmenide, Aristotele, Agostino

Tempo della fisica e tempo dell’uomo. Parmenide, Aristotele, Agostino

 

Teoria e prassi in Aristotele

Teoria e prassi in Aristotele

 

 


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Horacio Cerutti Guldberg – L’utopico, essenza dell’utopia, si configura come la stessa fonte della capacità critica. Se il concetto di utopia viene rimosso, tutta l’impalcatura del pensiero filosofico rischia di crollare, perché la dimensione utopica rimanda ad un «bisogno della ragione», un protendersi verso il futuro come possibile presente.

Horacio Cerutti Guldberg 01
De varia utòpica. (Ensayos De Utopìa III)

De varia utópica. (Ensayos De Utopía III)

 

 

America Latina. Democracia, Pensamiento y Accion. Reflexiones de Utopia

America Latina. Democracia, Pensamiento y Accion. Reflexiones de Utopia

 

«L’utopico, essenza, dell’utopia, si configura come la stessa fonte della capacità critica. Se il concetto di utopia viene rimosso, tutta l’impalcatura del pensiero filosofico rischia di crollare, perché la dimensione utopica rimanda ad un “bisogno della ragione”, un protendersi verso il futuro come possibile presente».

Horacio Cerutti Guldberg, De varia utópica. Ensayos De Utopía, III, UAEM, Toluca, 1989, p. 9.

Cfr.: Stefano Santasilia, “El no-lugar del hombre. L’u-topia nella riflessione di Horacio Cerutti Guldberg“, «Rocinante», 7, 2012-2013, pp. 133-141.

 

Stefano Santasilia, Introduzione alla filosofia latinoamericana, Mimesi, 2017.

Stefano Santasilia, Introduzione alla filosofia latinoamericana, Mimesis, 2017.

 

 

Scrive Stefano Santasilia: «U-topico perché non avente una collocazione topo-grafica, ma pur sempre presente perché correlato all’attualità in maniera ineludibile. Cerutti, infatti, ricorda la duplice etimologia del termine “utopia”: ou-topos, non-luogo, luogo che non c’è, ma, allo stesso tempo, anche eu-topos, mondo felice, luogo massimamente desiderabile. Per il filosofo argentino, al di là della possibile interpretazione, l’utopia rimanda sempre alle dimensioni dell’immaginario e del simbolico. Immaginario e simbolico, però, sono pertinenti all’ambito del sociale solo se esso viene considerato nella sua capacità di svilupparsi e modificarsi. Per tale ragione, essi rimandano alla relazione con il futuro della società, il futuro di ogni singolo uomo, inteso come capacità di relazione con gli altri uomini. La dimensione temporale che, dunque, ricopre il ruolo di protagonista nella “dinamica utopica” è quella futura, non però come ciò che non è ancora ed è quindi indefinibile, ma nel suo ineludibile legame col presente, “nel” e “grazie al” quale si origina e al quale dona vita. Nella riflessione di Cerutti, il “momento utopico” si delinea come il momento stesso della possibilità futura, intesa come possibilità di modifica dell’attuale in base alla capacità di “criticare” il presente. L’utopico, essenza dell’utopia, si configura, perciò, come la stessa fonte della capacità critica, non allontanamento dalla realtà, bensì capacità di porsi a distanza da essa per evidenziarne le componenti destinate a venir meno. L’utopico costituirebbe, in tal caso, la prospettiva che apre all’alternativo; prospettiva che radica il suo nascere nell’immaginario e nel simbolico. Solo attraverso uno spazio immaginario (non-luogo), che differisca il nostro essere sociale rispetto alla stessa società in cui questo si esplica, è possibile lo sviluppo di una capacità critica a partire dalla stessa storicità, connotazione chiave dell’umana esistenza. Tale distanza, in fondo, è lo spazio della filosofia in quanto possibilità di un atteggiamento critico. Per questa ragione, Cerutti può affermare: “se il concetto di utopia viene rimosso, tutta l’impalcatura del pensiero filosofico rischia di crollare». Cerutti parla della filosofia latinoamericana intesa come critica dello stato di dipendenza. La filosofia latinoamericana è, allora, costitutivamente pensiero utopico perché autentico pensiero critico. Nella riflessione di Cerutti, dunque, l’utopia viene intesa come un “concetto operativo”, un esercizio razionale che si basa su due momenti: la realtà concreta e il mondo morale verso il quale la realtà va orientata. Il praticare la riflessione utopica avrà, allora, sempre due momenti: quello negativo, inteso come critica rispetto alla realtà, e quello positivo, ossia l’impegno di lottare per la libertà e per l’autonomia».

Stefano Santasilia, Introduzione alla filosofia latinoamericana, Mimesis, 2017, pp. 192-193.


 

Horacio Cerutti Guldberg

è professore di Storia delle idee e Filosofia politica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Universidad Nacional Autónoma de Mexico e Direttore di «Pensares y Quehaceres. Revista de Políticas de la Filosofía». Tra le sue recenti pubblicazioni: Hacia una metodología de la historia de las ideas (filosóficas) en América Latina (México 1997); Filosofar desde Nuestra América. Ensayo problematizador de su modus operandi (México 2000); Experiencias en el tiempo (Morelia 2001); Historia de las ideas latinoamericanas (et al., México 2003); Configuraciones de un filosofar sureador (Veracruz 2005); Democracia e integración en Nuestra América (Mendoza 2008).

 

 

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Horacio Cerutti Guldberg

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Piezas-24 – Entrevista Horacio Cerruti

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Horacio Cerutti: ¿Qué significa filosofar desde Nuestra Amércia?


Filosofía de la Liberación Latinoamericana

A tres décadas del surgimiento de la filosofía de la liberación, las constataciones cotidianas muestran el aumento exponencial de las desigualdades e injusticias sociales que le dieron origen. Por si hubiera dudas, allí están los datos duros de las estadísticas para mostrar, sin ir más lejos, que la “copa de champagne” no sólo no se derrama, sino que tiene cada vez bases más delgadas. Esta progresión geométrica de la explotación pareciera justificar por sí sola una insistencia creciente en la necesidad de liberación.Junto con estas constataciones también se cierne abrumadoramente la sensación de caminos cerrados, de imposibilidades que se presentan como cuasi insuperables, las cuales mitigan la esperanza y enardecen los ánimos, colocando no ya a la vida, sino a la mera sobrevivencia de las grandes mayorías de la humanidad en primerísimo plano.Con todo, parece atisbarse, si se quiere en espasmódicas manifestaciones, un renovado ciclo de organización de la resistencia de grandes segmentos de población a nivel regional y mundial. Representana aquellos que no están dispuestos a someterse y pugnan por mantener viva la esperanza, alimentan su rebeldía y trabajan en la construcción de otro mundo posible y deseable.Esta compleja y abigarrada situación sobreexige a la labor intelectual, y particularmente a la filosófica, para que esté a la altura de lascircunstancias y se ponga en condiciones de hacer un aporte que coadyuve al avance exitoso del proceso de liberación o, cuando menos, colabore en su desempantanamiento y participe en (re)impulsarlo creativamente.

Urge Filosofar desde Nuestra América

Pensar la realidad a partir de la propia historia crítica y creativamente para transformarla. Este enunciado parece condensar una respuesta mínima, y seguramente todavía insuficiente, a la inquietante pregunta acerca de cómo es posible filosofar desde Nuestra América para el mundo, por supuesto. Pregunta y respuesta constituyen la primera y muy provisional manifestación de un modo sugerente de enfocar estas enigmáticas cuestiones, casi siempre trivializadas en consideraciones sin trama epistemológica y el cual, poco a poco, va patentizando su fecundidad teórica.La recuperación de la expresión martiana Nuestra América no se realiza, por cierto, sin precisar alcances. Como mínimo cabe señalar que nuestra alude a las grandes mayorías apartadas progresiva y crecientemente de los beneficios de la vida colectiva o que nunca los han disfrutado. Mucho menos han podido sentirse participantes integrados a procesos comunes o a conjuntos de ciudadanos responsables con capacidad de decisión en aquello que les concierne de modo directo. La expresión conlleva fuertes connotaciones utópicas en su referencia a una Nuestra América que, en rigor, todavía no es nuestra en plenitud. Tiene, por ello, la virtud de explicitar cabalmente la tensión no resuelta entre una realidad cotidianamente experimentada como indeseable (no es éste el mejor de los mundos posibles, ni siquiera uno medianamente bueno o aceptable) con ideales largamente acariciados, organizados en un horizonte axiológico de realizaciones difícilmente apreciables en su posibilidad de concreción, aunque por de pronto valiosos en cuanto objetivos anhelados que brindan mucho a acciones e imaginarios individuales y colectivos.La realidad a pensar –y desde la que se piensa– se constata como constitutivamente compleja, fragmentante, diversificada, heterogeneizante y, sobre toda otra consideración, atravesada o estructurada por una conflictividad social creciente. Y es que la peyorativamente descalificada como decimonónica cuestión social, ya no parece invisibilizable fácilmente. Ya no reclama siquiera ser objeto de un existencialista compromiso para intelectuales, como a mediados del siglo pasado. Constituye un fenómeno ineludible –con compromiso o sin él–, envolvente, asfixiante. Tampoco comporta ningún mérito político o humanista aceptar que se parta de esa constatación. Crece día a día y no resta más que tomar posición frente a su inexorabilidad.Por ello, cabe renovar esfuerzos para no reaccionar sólo con simplismos trivializando el fenómeno o procurando neutralizarlo con salidas mecanicistas o maniqueísmos esterilizantes. Está invitando a un gran esfuerzo intelectual, a renovar el ingenio, a redoblar enfoques probables, a incrementar la calidad y vigor de las aproximaciones reiteradas.Está en juego –nada menos– la supervivencia de la especie y del planeta e, incluso, de todo aquello que merezca el nombre de vida. No es exagerar para nada y cuanto antes se admita, más rápido y eficazmente se pondrán en marcha energías creativas suficientes. Se está contra reloj. Por otra parte, conviene enfatizar que no hay tarea compartible más mundial, global, universalizable que ésta.En este contexto (escenario y tarea) la filosofía (el filosofar activo, propositivo, riguroso y pertinente) reencuentra rumbos clásicos y novedades sin cuento. Articular saberes –con visión epistemológica abierta y amplia, controlada racionalmente– se presenta como un procedimiento fecundo y pasible de rectificación continua para ejercer creativamente la crítica a situaciones indeseables y activar grietas de desarrollos alternativos, los cuales hagan efectivas las transformaciones anheladas. No basta con constatar que todo cambia, para romper inercias y pasividades cómplices. La recreación de lenguajes, estilos, procedimientos, enfoques y aproximaciones forma parte de un generalizado proceso de reconceptualización y de readecuación de la percepción, para afinar capacidades humanas compartibles y acumular fuerzas sugerentes y propositivas. Una renovada consideración analítica de los modos en que se ha ejercido la filosofía en muy diversos marcos institucionales socioculturales, permitiría atisbar funciones y tareas complementarias pendientes o vislumbradas, no sólo en los espacios académicos, insoslayables, sino también en otros ámbitos de la vida colectiva plenos de sugerencias, virtualidades y, aunque parezca difícil de aceptar, saberes. Es el caso de la renovada atención que se está prestando a la vigencia del pensamiento de los pueblos originarios a nivel mundial, con aprecio por la energía creativa que de ellos mismos surge al confrontar cosmovisiones aparentemente congeladas.Es el caso de la revolución epistémica insoslayable que ha aportado la insistencia de reconocimiento de las diferencias enriquecedoras específicas por parte de colectivos de mujeres desde muy diversas situaciones a lo largo de historias y geografías diversas.Quizá así, enfrentando la cuestión axial del poder, el quehacer filosófico (el filosofar) alcanzará cotas de excelencia y sintonizará (¿al fin?) con esfuerzos muy apreciables que se impulsan desde otras latitudes con entusiasmo contagioso. Con sus preguntas y esbozos de respuesta un filosofar renovado y accesible se requerirá y apreciará por más amplios conjuntos de jóvenes; aportará, quizá, con mayor pertinencia a los procesos de investigación en curso dentro de las instituciones académicas y justificará su presencia y extensión creciente como parte de la formación cultural amplia exigible a nivel de la enseñanza media superior y también de los medios masivos de comunicación.En una coyuntura internacional que semeja la hollywoodense deformación caricaturesca del Far West puede que apostar por ingeniosas políticas de la filosofía acerque al obstinado ideal de una democracia radical en la calle, en la casa y en la cama, tal como es anhelada crecientemente a nivel mundial.

 

 

 

Mis Libros

  • 2005 Configuraciones de un filosofar sureador, México, Ayuntamiento de Orizaba, Veracruz, 210 pp.
  • 2003 En coautoría con Mario Magallón Anaya, Historia de las ideas latinoamericanas ¿disciplina fenecida?. México, Universidad de la Ciudad de México / Casa Juan Pablos, 181 pp.
  • 2001 Experiencias en el tiempo. (Colección Fragmentario), Morelia, Jitanjáfora, 109 pp.
  • 2000 Filosofar desde Nuestra América. Ensayo problematizador de su modus operandi. Prólogo Arturo Andrés Roig, (Colección Filo-sofía de Nuestra América), México, Miguel Ángel Porrúa/ CCYDEL, CRIM, UNAM, 202 pp.
  • 1997 Filosofías para la liberación ¿liberación del filosofar? Pró-logo Ar-turo Rico Bovio, Toluca, Universidad Autónoma del Estado de México, 221 pp.
  • 1996 Memoria comprometida. Prólogo Eduardo Saxe-Fernández, (Cua-dernos Prometeo, 16), Heredia, Costa Rica, Universidad Nacio-nal, 170 pp
  • 1996 Lecturas críticas. (Cuadernos del Instituto Michoacano de Ciencias de la Educación, 13), Morelia, IMCED, 165 pp.
  • 1991 Presagio y tópica del descubrimiento. (Colección 500 Años Des-pués, 4), México, UNAM, 156 pp.
  • 1989 De varia utópica (Ensayos de utopía III). Presentación Luis Enrique Orozco, (Pensamiento Latinoamericano, ICELAC, 7), Bogotá, Universidad Central, 239 pp.
  • 1989 Ensayos de utopía (I y II). Toluca, Universidad Autónoma del Estado de México, 150 pp.
  • 1986 Hacia una metodología de la historia de las ideas (filosóficas) en América Latina. (Colección Ensayos Latinoamericanos, 1), Gua-dalajara, Universidad de Guadalajara, 174 pp.
  • 1983 Filosofía de la liberación latinoamericana. Presentación Leo-poldo Zea, (Colección Tierra Firme), México, Fondo de Cul-tura Eco-nómica.
  • 1981 Pensamiento idealista ecuatoriano. Estudio introductorio, se-lec-ción de textos, (Biblioteca Básica del Pensamiento Ecuato-riano, 8), Quito, Banco Central del Ecuador y Corporación Editora Nacio-nal, 553 pp.

Enlaces


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Anticitera. Lontano dai luoghi comuni – Il principale obiettivo che ci poniamo è quello di contribuire alla riattivazione del pensiero critico.

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ANTICITERA

Lontano dai luoghi comuni

 

 

Contenuti

 

A. Rodin, Il pensatore.

A. Rodin, Il pensatore.

PERCHÉ QUESTO SITO

 

Siamo arrivati al punto da non pensare quasi più, in nessun ambito, se non prendendo posizione «pro» o «contro» un’opinione e cercando argomenti che, secondo i casi la confutino o la supportino.

Con queste parole Simone Weil descriveva, poco prima di morire, la condizione di chi, entrando a far parte di un “partito”, accetta posizioni che perlopiù ignora o quantomeno non ha esaminato razionalmente. In altre parole di chi si colloca nella confortevole posizione di non dover pensare.
L’estensione di tale condizione alla gran parte degli ambiti della vita è a nostro avviso un aspetto importante della grave crisi culturale che stiamo attraversando, che si traduce non solo in un generale impoverimento intellettuale, a tutti i livelli sociali, ma, in modo interdipendente, anche in una sorta di anestesia che imbriglia il pensiero in una rete di luoghi comuni di cui sembra sempre più difficile acquisire consapevolezza critica, non fosse che per l’enorme velocità con la quale l’omologazione veicolata dalle nuove tecnologie sopravanza la produzione di idee e di cultura nuova.
Collocarsi lontano dai luoghi comuni costa fatica, nella misura in cui comporta la riattivazione del pensiero vivo e della razionalità.
Usando il termine «razionalità» non intendiamo qui riferirci a un dato biologico, magari espresso da qualche modulo cerebrale prodotto dal processo di adattamento cognitivo della specie umana alle condizioni di vita risalenti all’Età della pietra. Intendiamo invece riferirci ad un particolare aspetto culturale che ha le proprie radici nella civiltà greca e che prende le mosse dall’assunzione consapevole della dimensione relazionale della natura umana. E più specificamente a quel metodo, formatosi con lo sviluppo dell’antica retorica, che a partire dal “discorso” (logos) ha generato prima l’argomentazione filosofica e poi la dimostrazione scientifica. Vale sottolineare, per altro, che solo intendendo “razionalità” in questa accezione si può comprendere che gli strumenti della scienza e della tecnica, pur essendo un suo prodotto, non possono fondarla né garantirla. Detto altrimenti, l’esercizio della razionalità non è affatto assicurato dall’impiego automatico di alcuni suoi derivati e può essere abbandonato, come è accaduto più volte e come sembra accadere in larga misura anche oggi, quando l’argomentazione razionale appare relegata all’interno di alcune delle mille schegge in cui si trova frammentato il sapere specialistico, mentre invece nel contesto della cultura di massa si preferisce adottare una gamma di tecniche alternative maggiormente adattabili alla comunicazione mediatica: dalla propaganda affabulatoria, basata sulla libera associazione d’idee, fino al “marketing cognitivo” e al “neuromarketing”, che rovesciano la tradizione dell’antica retorica usando raffinate conoscenze scientifiche per ottimizzare l’efficacia di tecniche di persuasione in cui è assente l’argomentazione razionale. Inoltre, l’uso della razionalità viene sempre più spesso contestato in modo aperto: ad esempio da parte di coloro che vedono in essa un inutile ostacolo all’accoglimento del “nuovo che avanza” con l’istantaneità che esso richiede.
A nostro parere, l’esercizio della razionalità è semplicemente irrinunciabile per capire davvero il mondo in cui viviamo. In modo particolare di fronte alla vistosa contraddizione tra l’immagine del “progresso” e i fenomeni di degenerazione culturale cui assistiamo quotidianamente, resi opachi dal fatto che la nostra cultura tende a rendere automatiche non solo le attività sterili e servili, ma anche, e in misura sempre crescente, anche quelle creative e “liberali”.
È solo un apparente paradosso, ad esempio, che pur trovandosi sempre più immersi in un ambiente plasmato dagli esiti dell’attività tecnico-scientifica, si è persa la capacità di giudicare il valore della scienza, in vari sensi e a diversi livelli.
Da un lato, i dispositivi tecnologici che condizionano in modo sempre più potente la nostra esperienza individuale e sociale sono vissuti perlopiù come potenze magiche, e ciò non soltanto per la progressiva semplificazione dei loro protocolli di utilizzo ma soprattutto per la crescente estraneità della quasi totalità della popolazione alla razionalità scientifica che ha prodotto i principi del loro funzionamento. La perdita del controllo intellettuale e materiale su quanto ci circonda favorisce inoltre il diffondersi dell’idea, riduttiva e fuorviante, che l’alfabetismo scientifico consista nel sapere chi sono gli esperti e come ottenere i loro responsi. Sono facce della stessa medaglia. Gli stessi risultati scientifici, o meglio la loro banalizzazione giornalistica, vengono somministrati con profusione crescente come vettori di stupefazione acritica, e ciò non solo ad uso e consumo di quella poltiglia indistinta a cui è ridotta oggi la cultura popolare, ma anche, e in forme sempre più penetranti, nei luoghi dell’educazione e della formazione, determinando una crescente assuefazione all’accettazione passiva di una pseudo-cultura impossibile da capire e quindi solo da consumare.
È importante peraltro sottolineare che una battaglia culturale per rivitalizzare l’esercizio della razionalità, anche al fine di poter giudicare criticamente il valore dei suoi stessi derivati, trova nel campo avverso numerosi esponenti nello stesso mondo scientifico. La parcellizzazione del sapere in innumerevoli “saperi” tra loro non comunicanti e coltivati da distinte consorterie di specialisti, ciascuna pronta a legittimare tutte le altre pur di evitare interferenze nel proprio settore, produce infatti un abbassamento drammatico delle barriere in grado di arginare il dilagare dell’irrazionalismo, anche tra gli stessi scienziati. Il lavoro del “ricercatore” è divenuto una specializzazione professionale come le altre, operante in un campo generalmente molto ristretto di specialisti, reso omogeneo dalle riviste sulle quali pubblica, dai protocolli standardizzati, dai linguaggi e dai software adottati. In altre parole, il ricercatore non è più, generalmente, un intellettuale, e non appena esce dal suo microsettore di competenza, egli è preda dell’affabulazione mediatica precisamente come l’uomo della strada.
In senso generale, la “cultura” sta dunque perdendo la capacità di giudicare la società e proporre strumenti di sintesi e interpretazione del mondo, per divenire un settore compartimentato e amministrato da regole comunicative interne: un territorio al tempo stesso privilegiato e inoffensivo.
La battaglia culturale che vorremmo promuovere comprende la possibilità di cogliere la situazione finora esposta in una dimensione storicamente sensata. Un effetto particolarmente preoccupante dell’omologazione culturale in cui siamo immersi consiste infatti nella perdita della dimensione del tempo storico, che induce l’azzeramento della stessa intuizione che ci possa essere qualcosa da sottoporre a giudizio in termini razionali.
Così, ad esempio, ciò di cui abbiamo davvero bisogno per riattivare un serio dibattito sul significato e l’utilità della cultura scientifica è innanzitutto una riflessione critica sul metodo che ha reso possibili le acquisizioni della scienza medesima. In questa prospettiva una disciplina come la storia della scienza, uscendo dal suo residuale alveo specialistico, può acquisire una rilevanza di primo piano come banco di prova delle diverse concezioni della scienza oggi in circolazione e come bussola per orientarsi nelle scelte attuali. E non solo questo. Poiché il metodo scientifico è uno dei frutti più nutrienti prodotti dalla civiltà classica, la sua indagine in chiave storico-critica fornisce un viatico naturale per il superamento della tradizionale divisione tra le “due culture”, lungo il quale la nostra stessa cultura classica può uscire dal suo attuale ruolo di anticaglia inutile per tornare ad essere un patrimonio vivo cui attingere creativamente. Ci sembra che su questo terreno si possa incontrare più di un’occasione per ripensare l’unità, e dunque la sopravvivenza, della cultura e riportare in tal modo il dibattito su istituzioni come scuola e università sul piano culturale loro proprio, sottraendolo agli specialisti del nulla che troppo spesso se ne sono occupati.

Anticitera prende le mosse dalle considerazioni precedenti. I suoi contenuti si articolano in cinque categorie principali: cultura, società, istruzione, ricerca, lingua italiana. Oltre a brevi saggi, recensioni e interviste scritti specificamente per Anticitera, vorremo offrire al lettore una raccolta di testi anche non recenti di vari autori, inclusi gli scriventi, che reputiamo interessanti ma di non banale reperibilità. Con tutto ciò vorremmo provare a dare un contributo alla riflessione pubblica su questioni ampiamente dibattute, o in altri casi richiamare l’attenzione su temi a nostro parere ingiustamente trascurati o dimenticati, nella convinzione che se c’è qualcosa che non si dovrebbe temere è proprio di non essere “attuali”.
In tutti i casi, il principale obiettivo che ci poniamo è quello di contribuire, almeno in piccola misura, alla riattivazione del pensiero critico. Siamo coscienti che si tratta di un tipo d’impegno culturale che deve procedere attraverso una comunicazione intensa, senza fretta, che talora può apparire faticosa, ma che comunque privilegia la cosa da comunicare rispetto alla potenza del canale di comunicazione, l’esigenza di fornire una rappresentazione critica della realtà rispetto all’obiettivo di modificarla. Nel contesto storico in cui ci troviamo, mantenere una distinzione tra gli strumenti e le visioni del pensiero e la loro possibilità di imporsi nella concreta vita sociale non ci appare necessariamente un segno d’irresolutezza, quanto piuttosto un sano antidoto contro la confusione attivistica.

Gli autori

Alessandro Della Corte – alexdc1979@libero.it

Stefano Isola – stefano.isola@gmail.com

Lucio Russo – lucio.russo@tiscali.it


Raccolte di testi

In questa sezione sono raccolti testi che riteniamo utili sia come strumenti di riflessione generale che come pietre di paragone per giudicare la nostra stessa cultura. Comprende testi di varia natura: oltre ad alcuni scritti inediti o di difficile reperibilità degli stessi artefici di questo sito, una serie di testi che riteniamo importanti ma la cui esistenza è spesso segnalata solo nelle bibliografie.


La macchina di Anticitera
Il frammento principale della macchina di Anticitera-Museo archeologico nazionale di Atene

Il frammento principale della macchina di Anticitera. Museo archeologico nazionale di Atene.


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Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) – Quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa fare ciò che vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza.

Nuovi saggi sull'intelletto umano

Nuovi saggi sull’intelletto umano

 

 

«[…] quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa fare ciò che vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza».

 

Gottfried Wilhelm von Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, II, 21.

 


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Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.

David Foster Wallace 05

Ci sono due giovani pesci che nuotano
e a un certo punto incontrano un pesce anziano
che va nella direzione opposta,
fa un cenno di saluto e dice:
– Salve ragazzi. Com’è l’acqua? –
I due pesci giovani nuotano un altro po’,
poi uno guarda l’altro e fa:
– Che cavolo è l’acqua?
David Foster Wallace, Questa è l’acqua

[clicca qui per leggere la pagina di Wallace]

Salvarore A. Bravo

L’epoca della normalità del male

 

***

Sommario

***

I pesci di David Foster Wallace

Dialettica spazio-tempo

L’ipostasi merce e la natura consumante dell’uomo nichilista

Cura maniacale del corpo e pornografia di se stessi

L’antiumanesimo del sistema Capitale

Un mondo senza virtù

Genealogia del Capitale e dello stato presente

La prima domanda da porre

Lottare contro la “normalità” e non contro la “banalità” del male

La perenne tensione dell’ostilità predatoria

L’economicismo è la negazione del libro (dell’umanesimo)

Senza modelli progettuali,
non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete

 

*******
*****
***
*

I pesci di David Foster Wallace

Ci sono totalitarismi impliciti – e dunque non riconosciuti – che agiscono capillarmente con modalità pervasive, difficilmente identificabili. Il problema è il percorso per riconoscere il totalitarismo implicito e l’integralismo in cui siamo immersi, come pesci in acqua. In genere, non si è capaci di discernere la qualità ambientale ed ideologica che si respira e ci trasforma, in una parte di un tutto, poiché la normalità, l’abitudine all’indifferenza come al parossismo del valore di scambio congela ogni attività critica domandante. L’animale è parte integrante dell’ambiente, è specializzato e funzionale al suo contesto di sopravvivenza, non lo cambia, non può trasformarlo, perché in assenza del linguaggio e della rappresentazione non può agire su di esso per riconfigurarlo, e quindi ne è passivamente parte, come il pesce nell’acqua che non può rappresentarsi l’acqua e di conseguenza non può immaginare un altro modo di vivere. La tecnocrazia, nella stessa maniera, sempre più persuade che lo stato attuale è l’unico mondo possibile, dunque siamo come pesci in acqua, senza linguaggio per ripensare l’ambiente socioeconomico in cui siamo gettati.

***

Dialettica spazio-tempo

Non è necessario organizzare squadre di pompieri pronte a bruciare libri ed a proibire la lettura come in Fahrenheit 451. Il potere economico ha assimilato il potere politico: oggi utilizza mezzi meno palesi, fa appello all’esemplificazione, ai processi di alienazione, alle miserie dell’abbondanza per lobomotizzare l’essere umano, per sottrarre all’ente generico (Gattungswesen) le sue potenzialità, il suo essere un animale simbolico. Aldo Capitini definiva il totalitarismo consumista una forma di “americanismo-pompeiano”: l’eccesso, la dismisura è la legge dell’integralismo economico. La spazializzazione contro la temporalità vissuta ed in quanto tale storica e dotata di senso, è la dialettica che sostanzia il totalitarismo economico. Per Kant è il tempo l’intuizione che dà senso allo spazio, per il totalitarismo economico, lo spazio deve assimilare lo spirito (Geist).

***

L’ipostasi merce e la natura consumante dell’uomo nichilista

La spazializzazione agisce in modo da occupare gli spazi per sottrarre con la stimolazione delle immagini, degli idola-merce, ogni possibilità di prassi del soggetto che sottoposto al “bombardamento etico” del libero mercato, abdica ad ogni valutazione critica sul senso e sulla congruità del contesto in cui è disperso. Lo spazio pervade i tempi della mente sottoponendola ad un’accelerazione osmotica di desideri, riducendola ad un porto nel quale le merci sono scaricate e caricate. La spazializzazione della vita è dinanzi ai nostri sguardi, ma come il pesce nell’acqua, non ci rappresentiamo il mondo merce, non lo nominiamo: eppure esso c’è , è l’ipostasi e noi siamo l’accidente. Il processo di animalizzazione dell’essere umano, a questo punto, non necessita di squadre di pompieri pronte ad incenerire, con i libri, i pensieri autonomi e disfunzionali al sistema capitale, ma agisce riempendo gli spazi di merce sottraendo al libro, alla sospensione della valorizzazione, ogni possibilità di diventare reale.
Le grandi librerie si riempiono di oggetti di ogni genere, di conseguenza gli imprenditori delle multinazionali del libro, non sono antitetici al sistema capitale, ma complementari, al punto che il potenziale lettore trova in una libreria, non solo libri, ma anche carabattole, stoviglie, mezzi multimediali: la distrazione dal libro, dal pensiero critico, è così organizzato all’interno degli spazi nei quali invece, si dovrebbe organizzare e riorganizzare l’apparato simbolico: il fine è solo vendere, per cui il libro è reso eguale a qualsiasi merce.
Non è necessario che vi siano i pompieri ad inibire la lettura, si agisce per la dimenticanza del libro, della coscienza oppositiva e critica, ostruendo i canali nutritivi della temporalità, inaridendo la natura umana generica per definirla nei termini di natura consumante, ed osservante agli obblighi della legge del libero scambio.

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Cura maniacale del corpo e pornografia di se stessi

Il passo ulteriore dell’asfissia-merce è l’adattarsi dell’essere umano alle leggi del mercato, al punto di percepire se stesso come “capitale umano”: una merce un po’ speciale, da immettere nel mercato delle competenze e della competizione previa ostentazione della merce in oggetto. La pornografia di se stessi. La spazializzazione è la messa in vendita sul mercato della “cura di sé” che – a dispetto dell’ultimo Foucault – non è affatto la messa in atto di liberi processi di soggettivizzazione, ma è unicamente cura maniacale del corpo, tentativo di ridurlo a corpo morto, a pura spazializzazione ben tornita, cartina di tornasole per rendere più vendibili le proprie competenze comprate nel circuito della “offerta formativa”.

***

L’antiumanesimo del sistema Capitale

Il modo di produzione capitalistico nega la natura degli esseri umani, pone la persona sullo stesso livello degli animali non umani: questi ultimi si caratterizzano per essere specializzati in una particolare funzione; il capitalismo specializza l’essere umano rendendolo funzione in una particolare attività produttiva. È negata la polisemia simbolica dell’essere umano: nel capitalismo assoluto l’essere umano è sempre più consumatore senza limiti, piuttosto che produttore. È opportuno rammentare la lezione di Marx, che a soli ventisei anni, aveva compreso gli effetti antiumanistici del sistema capitale:

«La creazione pratica d’un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la riprova che l’uomo è un essere appartenente ad una specie e dotato di coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la specie come verso il suo proprio essere, o verso se stesso come un essere appartenente ad una specie. Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’impero del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente difronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza». [1]

***

Un mondo senza virtù

Marx descrive un mondo senza virtù, senza aretè (ἀρετή), parola greca in italiano poco traducibile, perché la virtù per i Greci era la realizzazione di sé. Essa è bellezza, perché generativa (Platone, Simposio), è l’umano nella forma finalistica: ciascuno ha un’indole, un dono/virtù (cristianamente: i “talenti”), che deve affinare e formare, affinché la sua vita sia degna di essere vissuta; divenendo se stesso, l’essere umano si stacca dallo stato ferino, dall’immediatezza dei bisogni riordinandoli in una dimensione universale. Pertanto Aristotele può affermare[2] che lo sviluppo virtuoso dell’intelletto india, rende simili alla divinità. Giustizia e felicità coincidono nella visione greca: la Politeia (Πολιτεία) di Platone presuppone non solo la giustizia, ma anche la felicità, poiché ogni cittadino occupa un ruolo che corrisponde alla propria natura e pertanto è felice. Senza la dimensione temporale non vi è telos (τέλος), ma solo il bieco meccanicismo che riduce l’essere umano ad un ente gettato in uno spazio senza tempo e dunque sottratto alla storia. La lotta personale e collettiva è tenere in vita il proprio senso, la fedeltà al proprio destino contro l’integralismo economico meccanicistico. Naturalmente non è sufficiente. Perché la prassi sia parte del quotidiano, si deve elaborare un progetto collettivo a più voci. Ma senza questa prima forma di resistenza non vi alcun inizio, alcun agere, ma solo l’ipostasi mercato, che curva le parole, le espressioni dialogiche nella forma merce, e dunque il dispositivo (Gestell) si installa per parlare per noi, i posseduti dall’economia di mercato.

***

Genealogia del Capitale e dello stato presente

L’emancipazione dal capitalismo assoluto non può prescindere dalla conoscenza critica. Massimo Bontempelli, filosofo e storico, nel suo scritto L’ Agonia della scuola italiana chiarisce che sapere critico è quel sapere capace di mettere in discussione i fini, mentre la tecnocrazia didattica si sofferma sulle abilità tecniche per giungere a fini già prestabiliti ed indiscutibili. L’emancipazione necessita di una messa in discussione dei fini, mediante i processi archeologici-genealogici della Filosofia. Il metodo processuale tipico della Filosofia – e strutturatosi in particolare con Rousseau, Marx e Foucault – rimette in discussione l’ipostasi mercato rimappando dati e necessità che invece, attraverso di esso, appaiono nella loro umanità, non più un destino senza destinazione, ma potenzialità interne alla storia umana. Un nuovo asse culturale è dunque imprescindibile al fine della prassi, altrimenti si sarà condannati a vivere nell’eterna ripetizione del presente, esposti alla precarietà come al male di vivere come fosse una necessità ontologica.

***

La prima domanda da porre

Bisogna, dunque, reimparare a domandare, ed in ciò la Filosofia è un ausilio non sostituibile:

«Le domande da porre non sarebbero: Quali tipi di sapere volete squalificare dal momento che chiedete: è una scienza? Quali soggetti parlanti, discorrenti, quali soggetti d’esperienza e di sapere volete dunque “minorizzare” quando dite: “Io che faccio questo discorso, faccio un discorso scientifico, e sono uno scienziato”? Quale avanguardia teorico-politica volete intronizzare per staccarla da tutte le forme circolari e discontinue del sapere?».[3]

La prima domanda da porre è “Chi parla?”. Abbiamo smesso di chiedercelo. I libri, come la Storia, muovono a questa domanda che desostanzializza i feticci per porre la verità della Storia: lo Spirito umano. Senza la domanda fondamentale “Chi parla?”, il mercato continuerà a parlare, a decidere, ad imperare sui sudditi e sugli esecutori. Si narra che l’imperatore che decise la costruzione della grande muraglia fece bruciare tutti i libri, tranne i libri di medicina. A chi gli chiedeva perché avesse bruciato anche i libri di Storia, l’imperatore rispose che sono sempre un pericolo per il governo in corso.

***

Lottare contro la “normalità” e non contro la “banalità” del male

Anche oggi libri e Storia sono minacciati dal potere economico che – per eternizzarsi – deve rimuovere dallo spazio i libri e ridurre la Storia a semplice successione temporale, a semplice presenza nel curriculum scolastico. Il potere si sottrae, così, al giudizio, poiché per la Storia insegna a riconoscere il male e dunque non lo rende “normale”, al punto da non riconoscerlo. Lo Spirito del mondo (Weltgeist), la prassi che porta verso l’emancipazione e la libertà si ritira dall’umanità: al suo posto non resta che il tempo privato dalla sua teleologia. La normalità del male, per George Mosse, è la condizione per l’affermarsi dei totalitarismi, e non la banalità del male della Arendt:

«Non mi pare dunque adeguato parlare della banalità del male, come fa Hannah Arendt. Trovare un’altra espressione è difficile, ma io parlerei della normalità di un male che minaccia in forme estreme il nostro secolo […] Che cosa c’era nella mente? Innanzitutto questo pensiero chiaramente espresso in un famoso discorso di Himmler: abbiamo visto tutti questi cadaveri, e tuttavia restiamo forti. Ritengo che Hannah Arendt non sia nel giusto parlando di banalità del male».[4]

***

La perenne tensione dell’ostilità predatoria

La normalità del male è la precarizzazione della vite oggetto dei capricci del mercato e della legge del profitto. Il paradigma del nuovo ordine mondiale è l’utile che si concretizza nell’individuo astratto, avulso dalla comunità che usa tutto e tutti al fine di ottenere il massimo risultato possibile. La condizione della normalità del male è simile allo stato di natura descritto da Hobbes nel Leviatano. Ogni individuo nello stato di natura vive perennemente la tensione dell’ostilità predatoria, è come se il cielo minacciasse continuamente tempesta, per cui lo stato di precarietà è presente anche nei periodi brevi di calma:

«Infatti la guerra non consiste soltanto in una battaglia od in una serie di operazioni militari, ma in un periodo di tempo in cui appare chiara la volontà di combattere, e perciò l’elemento tempo deve essere considerato come compreso nella natura della guerra, così come lo è nella natura delle mutazioni atmosferiche. Infatti come la natura di una burrasca non consiste soltanto in uno o due scrosci di pioggia, ma nella inclinazione al cattivo tempo per molti giorni insieme; così la natura della guerra non consiste nei suoi particolari episodi, ma in un atteggiamento ostile, durante la durata del quale non vien data requie al nemico».[5]

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L’economicismo è la negazione del libro (dell’umanesimo)

Libri e prassi sono filologicamente legati, sono il luogo dove lo Spirito dell’umanità prende forma per simbolizzare dialetticamente il tempo. La glorificazione dell’economicismo ha il suo puntello adamantino nella negazione del libro e della lettura. Ogni resistenza deve iniziare dall’attività pratico-teoretica della lettura. Contro il nichilismo economico e dello spettacolo il libro può essere una fenditura nel sistema, un diniego silenzioso dello stato presente. Senza la cultura del libro e della mediazione razionale consustanziale ad essa, non resta che l’incultura dell’immediato, la quale, mentre promette e lusinga con le sue aspettative, forgia le catene del nichilismo, il cui tempo è contenuto nella guerra di tutti contro tutti, nella condizione di spettatore dinanzi agli effetti della globalizzazione.

***

Senza modelli progettuali, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete

Per ricostruire un’azione politica, è necessario lo studio in cui trovare modelli mediati razionalmente nella presente storia: senza modelli progettuali, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che ripete se stesso. I modelli progettuali, in modo comparativo, dispongono al pensiero. La pedagogia del nichilismo, la distruzione dei contenuti – a favore della tecnodidattica che pone i libri in uno stato di minorità – è il germe che veicola la tirannia dell’economia sulla politica, è la negazione della cittadinanza. Contro tutto questo, sono possibili soluzioni plurali, ma rimane la centralità del pensiero teoretico/pratico.

 

[1] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, paragrafo XXIV.

[2] Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b30-31.

[3] M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi Torino 1977, p. 170.

[4] G. Mosse, Intervista sul nazismo, Laterza, Bari 1997, pp. 72-73.

[5] T. Hobbes, Leviatano, Utet Torino, pp. 158-159.

 

 


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Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 -1944) – Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra. Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.

Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra. Oppure si apre la porta: si esce dall'isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.
Punto linea superficie

Punto linea superficie

 

 

L’artista deve formare non solo l’occhio,
ma anche la sua anima.
V. V. Kandinskij

L’arte oltrepassa i limiti
nei quali il tempo vorrebbe comprimerla,
e indica il contenuto del futuro.
V. V. Kandinskij

 

«Ogni fenomeno può essere vissuto in due diverse maniere. Queste due maniere non sono arbitrarie, ma legate ai fenomeni – esse vengono derivate dalla natura dei fenomeni, da due loro proprietà:

Esterno- Interno.

 

Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra: i rumori ne vengono attutiti, i movimenti diventano fantomatici e la strada stessa appare, auraverso il vetro trasparente, ma saldo e duro, come una entità separata, che pulsi in un “al di là”.

Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.

[…]

L’opera d’arte si rispecchia sulla superficie della coscienza. Essa sta al di là e si dilegua dalla superficie, senza lasciar traccia, appena scomparso lo stimolo. Anche in questo caso c’è una specie di vetro trasparente, ma saldo e duro, che rende impossibile il diretto rapporto interno. Anche qui abbiamo la possibilità di entrare nell’opera, di divenirne parte attiva e di vivere con tutti i sensi la sua pulsazione».

Vasilij Vasil’evič Kandinskij, Punto Linea Superficie, Adelphi, Milano 1968, pp. 7-8.

 


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