Fernando Birri – «Para que el lugar de la Utopia, que, por definiciòn, està en “Ninguna Parte”, esté en alguna parte».

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«Para que el lugar de la Utopia,

que, por definiciòn, està en “Ninguna Parte”,

esté en alguna parte».

 

Fernando Birri,
in occasione dell’inaugurazione a Cuba
de la Escuela Internacional de Cine y Television, il 13 dicembre del 1986.
Con queste parole indicava il compito che egli attribuiva
alla scommessa implicita nella costituzione della Escuela.

***

 

 

«Il nostro cinema, le nostre vite
sono un atto, un seme, un fiore,
un frutto carnale di resistenza poetico-politica.
Quando dico il nostro cinema, le nostre vite,
non sto usando la retorica
di una prima persona in plurale:
tutto il contrario,
sto usando il plurale del popolo
e dei cineasti del popolo.
Questa resistenza poetica
si chiama Nuovo Cinema Latinoamericano»

Fernando Birri

Manifesto dei 30 anni di Nuovo Cinema Latinoamericano, 1985
***

Una finestra sull’utopia

«Lei è all’orizzonte» dice Fernando Birri.
«Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi.
Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là.
Per quanto io cammini non la raggiungerò mai.
A cosa serve l’utopia?
Serve proprio a questo: a camminare.»
Da “Las palabras andantes”, di Eduardo Galeano, Finestra sull’Utopia

 ***

220px-Fernando_Birri_(Ceremonia_de_Clausura)

***

Che-Muerte-de-la-Utopia

Che: ¿muerte de la utopia? (1997)

Con motivo del 30 aniversario de la muerte del Che Guevara, Birri viajó, cámara en mano, por varios países tras las huellas de este legendario personaje. El filme reflexionar sobre el mito y el hombre. Pero, sobre todo, es un pretexto para preguntarse sobre la vigencia y el significado de la utopía.

 

 

BIRRI, Fernando

Enciclopedia del Cinema (2003)
di Daniele Dottorini

Regista cinematografico argentino, nato a Santa Fe il 13 marzo 1925. Tra le figure più significative del cinema argentino moderno, radicato nella cultura latinoamericana ma fortemente legato all’Europa, sospeso tra documentazione della realtà e creazione di immagini poetiche, B. ha contribuito al rinnovamento del cinema sudamericano non soltanto con i suoi film, basati su un’originale rielaborazione della lezione neorealista, ma anche con il suo impegno costante per la formazione di nuove generazioni di autori. Il suo primo film a soggetto, Los inundados (1961), è stato premiato come migliore opera prima alla Mostra del cinema di Venezia del 1962. Interessatosi alla poesia fin da giovanissimo, nel 1943 fondò un teatro ambulante di burattini, il Retablillo de Maese Pedro. Dopo aver frequentato l’Universidad Nacional del Litoral, a Santa Fe, nel 1950 si trasferì a Roma per frequentare il Centro sperimentale di cinematografia, dove si diplomò nel 1952. Tornato a Santa Fe, nel 1958 fondò e diresse l’Instituto de Cinematografía de la Universidad Nacional del Litoral (da cui derivò la Escuela Documental de Santa Fe), un centro di formazione volto a promuovere un nuovo cinema latinoamericano, realista, nazionale e popolare, capace di sottrarsi al sottosviluppo culturale attraverso film di inchiesta su temi di interesse sociale. Il primo prodotto nato da questa esperienza fu Tire dié (1958), un documentario sulla vita nei quartieri poveri di Buenos Aires, realizzato con la collaborazione degli studenti e considerato l’atto di nascita del Nuevo Cine argentino. Tra le realizzazioni seguenti, di particolare rilievo La verdadera historia de la primera fundación de Buenos Aires (1959), mediometraggio che racconta le origini coloniali della capitale ispirandosi a un grande affresco dell’illustratore argentino Oski (pseudonimo di Oscar Conti), a sua volta basato sulla cronaca scritta nel 1535 dal lanzichenecco tedesco Ilrich Schimedl che nel film viene utilizzata come commento delle immagini. Los inundados, atto di denuncia delle condizioni della provincia di Santa Fe, esposta a periodiche inondazioni ‒ che suscitò subito l’attenzione della critica internazionale ‒ si caratterizza per l’impiego di codici della cultura popolare, come la poesia a braccio (i payadores) e il teatro comico (il sainete), che conferiscono al racconto un tono ironico. Dopo La pampa gringa del 1963, film sospeso tra fiaba e documentario, il golpe militare guidato dal generale Juan Carlos Onganía lo costrinse quello stesso anno a lasciare l’Argentina, chiudendo così l’esperienza della scuola, cui B. dedicò anche il libro La escuela documental de Santa Fe ‒ Una experiencia piloto contra el subdesarrollo cinematográfico en Latinoamerica, pubblicato nel 1964.

Fermatosi in un primo tempo in Brasile, paese che dovette presto abbandonare, sempre per motivi politici, tornò quindi in Italia. Qui, dopo aver collaborato con Ansano Giannarelli per Sierra maestra (1970) e Non ho tempo (1973), fu impegnato per dieci anni nel complicato lavoro di montaggio di Org (1979), film sperimentale, basato sulla complessa ricerca di associazioni oniriche tra suoni e immagini. All’inizio degli anni Ottanta, mentre riprendeva l’attività didattica fondando in Venezuela il Laboratorio Ambulante de Poéticas Cinematográficas (1982), i suoi interessi si concentrarono di nuovo sul documentario, come testimoniano i lungometraggi Rafael Alberti, un retrato del poeta por Fernando Birri (1983), Remitente Nicaragua: carta al mundo (1984), e Mi hijo el Che. Un retrato de familia de Don Ernesto Guevara (1985). Nel 1986 ha fondato, con Gabriel García Márquez, la Escuela Internacional de Cine y Televisión de San Antonio de los Baños, a Cuba, di cui è stato direttore fino al 1991. I due artisti hanno inoltre collaborato alla sceneggiatura di Un señor muy viejo con unas alas enormes (1988), film tratto dall’omonimo racconto dello scrittore colombiano. Per la televisione tedesca ha girato Che: ¿muerte de la utopia? ‒ Che: Tod der Utopie? (1997), in cui, in occasione del trentennale della morte, è tornato sulla figura del guerrigliero argentino, ed El siglo del viento ‒ Das Jahrhundert des Sturms (1998), un percorso nel Novecento latinoamericano ispirato all’opera dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, La memoria del fuego (1982-1987), e realizzato fondendo materiali di repertorio e scene da uno spettacolo di burattini, primo amore del regista.Nel 1999 ha dato vita alla Fundación Fernando Birri de Artes Multimediales, con sede a Santa Fe, dedicata alla formazione di giovani artisti nel campo audiovisivo. Tra gli scritti da lui pubblicati, si segnalano: Pionero y peregrino (1987); El alquimista poético-político: por un nuevo nuevo nuevo cine latinoamericano, 1956-1991 (1996). bibliografia

A. Toni, Il cinema dell’America Latina dal 1959 ad oggi, in Storia generale del cinema, a cura di V. Bossoli, Roma 1977, pp. 405-29 (in partic. pp. 418-24).

Fernando Birri e la Escuela Documental de Santa Fe, a cura di L. Miccichè, Pesaro 1981.

Fernando Birri. Il nuovo cinema latino-americano, a cura di D. Fasoli, Roma 1988 (in partic. pp. 30-58).

P. D’Agostini, Il nuovo cinema latino-americano, Roma 1991, pp. 40-51.

P. Sendrós, Ferdinando Birri, Buenos Aires 1994.

J.C. Avellar, A ponte clandestina: Birri, Glauber, Solanas, García Espanosa, Sanjinés, Alea: teorias de cinema na América Latina, São Paolo-Rio de Janeiro 1995.

 

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Inaugurazione della sala Fernando Birri alla Casa Argentina di Roma

INTERVISTA INEDITA AL REGISTA FERNANDO BIRRI (A cura di MARCELLO CELLA e SIMONETTA DELLA CROCE)

 

 

 


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Arrigo Colombo – L’utopia è un progetto che ha la sua base nella stessa natura d’uomo. Le linee fondamentali del progetto stanno dunque già nella stessa natura d’uomo.

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Utopia e distopia

Utopia e distopia

Si comprende allora il senso nuovo dell’utopia come progetto della storia. In questa fase moderna il progetto che intenziona la storia occidentale, poi la storia universale; nell’universalizzarsi del prrocesso. Intenziona la prassi storica, umana, la società umana, l’«umanità» nel suo farsi, nel suo costruirsi; tesa ormai, impegnata sull’obiettivo della società giusta e fraterna.
Un progetto che si elabora e rielabora, si rifà sempre; che perciò può dirsi storico-metastorico, nel senso che trascende sempre il presente, e il futuro nella prospettiva del presente; è sempre al di là, ogni volta al di là non solo della società realizzata, ma di quella stessa progettata, della stessa possibilità progettuale del momento. Quelli che hanno identificato l’utopia con la categoria della «perfezione», perché ne hanno trovato il germe o l’idea in certi progetti letterari; e vi hanno discusso a non finire, si ritrovano spiazzati perché l’idea di perfezione è incongrua all’utopia: contrasta da un lato con la finitudine umana, dall’altro con la creatività in cui si essenzia lo spirito. Perciò le è incongrua l’idea di compimento, di stadio finale o supremo: una concezione del tipo hegeliano, chiusa nella ragione (nell’Idea) e nel suo manifestarsi […].
L’utopia è un progetto che ha la sua base nella stessa natura d’uomo, la quale però – lo si è visto – è potenzialità pura o quasipura, perché creatività. Perciò comincia dal nulla o quasi-nulla, dalla preistoria animale; poi dalla base animale e insieme spirituale. Che deve però realizzare, costruire creativamente. Il discorso già impostato
all’inizio. «Uomo sii uomo», sei uomo ma lo devi essere; lo sei potenzialmente, lo devi realizzare in libertà e creatività. Sei un essere di specie, un coessere; sei un’armonia di soma-psiche-pneuma; sei dotato di ragione e di volontà-amore: devi essere tutto questo, costruire il tuo essere-coessere, la tua persona-società; costruire una società nell’uguaglianza e nel vincolo della comune natura, il vincolo fraterno.
Le linee fondamentali del progetto stanno dunque già nella stessa natura d’uomo. Né può essere altrimenti; se appunto si tratta dell’uomo e non di un altro, non di un antropoide o di un «alieno». E però queste linee fondamentali son nulla o quasi-nulla in conseguenza della potenzialità pura o quasi-pura in cui giacciono, e in rapporto alla creatività che le dovrà realizzare. «Uomo sii uomo», ma lo sii autocostruendoti (Selbsterzeugung, la parola hegeliana, poi marxiana), lo sii nel modo più fortemente creativo; mentre sai che potresti essere anche un uomo-non-uomo, uomo-bestia; lo sei stato, lo sei ancora.
Senza questa riflessione sulla natura non si può capire la valenza etica dell’utopia, il suo imperativo, lo stretto dovere che la impone. o altrimenti giustizia e ingiustizia, amore e odio sarebbero indifferenti, il prevalere dell’uno o dell’altro affidato alla casualità, alla forza, o al calcolo per una società che funzioni. Non all’insuperabilità del vincolo etico, del dovere, del diritto. Né si potrebbe capire l’eutopia, il suo fondamentale e globale precomprendersi nel disegno della società buona, società giusta e fraterna. […]
L’utopia, il progetto della società giusta e fraterna, è dunque un progetto storico.

Arrigo Colombo, L’utopia, il suo senso, la sua genesi come progetto storico,
in Utopia e distopia,
a cura di A. Colombo, Edizioni Dedalo, 1993, pp. 158-160.

 

Scritti di:
E. Baldini, L. Bertelli, G. Bof, G.C. Calcagno, G. Capone, A. Colombo, V. Fortunati, H. Hudde, S. Manferlotti, M. Moneti, G. Pirola, C. Quarta, A. Rizzi, G. Schiavone, G. Seclì, R. Trousson, L. Tundo, G. Zucchini

Risvolto di copertina

Il libro è mosso da un duplice intento, ch’è anche il nodo della discussione e del dibattito che lo anima. Anzitutto la rifondazione dell’utopia come progetto della storia, il progetto della società giusta e fraterna che muove la storia intera. Di contro al concetto usuale che ne fa un vagheggiamento irreale e fantastico, o un ideale comunque impossibile; ma anche contro la corrente che lo risolve nel fatto letterario, nel viaggio e nel romanzo. In secondo luogo la sceverazione dell’utopia dalla distopia ch’è il suo opposto, la società perversa; mentre l’utopia-eutopia e la società buona, la società di giustizia. Non si può dire che il comunismo sovietico fosse un’utopia: era il suo opposto, una distopia.

Arrigo Colombo, filosofo, responsabile del Gruppo di ricerca sull’utopia dell’Università di Lecce. Lavora sui problemi della società del nostro tempo e sul progetto utopico che la va trasformando: Martin Heidegger. Il ritorno dell’essere, Il Mulino, Bologna 1964; Il destino del filosofo, Lacaita, Manduria 1971; Le società del futuro. Saggio utopico sulle società postindustriali, Dedalo, Bari 1978; Fourier. La passione dell’utopia (ed. con L. Tundo), Angeli, Milano 1988.

 

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Alessandro Pallassini – Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza.

Quale progettualità?

Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


Koinè, Periodico culturale, Anno XXIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

Direttori: Luca GrecchiCarmine Fiorillo

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx
Alessandro Pallassini

Note marginali
per la progettazione di un comunismo della finitezza
a partire da Spinoza

***

Ordo et connexio rerum
idem est ac
ordo et connexio idearum

Ringrazio Luca Grecchi e Carmine Fiorillo che mi hanno dato la possibilità di intervenire su un tema su cui li seguo da tempo e che mi interessa molto. Debbo precisare, però, che essendo un neofita della rivista – per quanto ne conosca alcuni pregevoli numeri – e dei suoi dibattiti interni cercherò di argomentare alcune tesi che non so quanto possano essere strettamente coeve al dibattito che si sta sviluppando, ma che tuttavia credo possano ricoprire un certo interesse per lo stesso. Sebbene l’analisi parta da lontano ed abbia un taglio incentrato principalmente, soprattutto nella prima parte, sulla filosofia di Spinoza, crediamo tuttavia che questa scelta non solo non sia in contrasto con la tematica proposta dalla rivista, bensì costituisca una modalità di approccio che, esplicitando i propri fondamenti filosofici, contribuisca al dibattito circa la natura umana e la pianificazione, che nel nostro caso chiamiamo programmazione e tendiamo a declinare secondo due direttrici, ovvero, anticipando quanto andremo a dire nei paragrafi successivi, come programmazione attuale e come possibile programmazione\progettazione futura.
Mi concentrerò su quello che, riprendendo le analisi di A. Tosel, chiamo comunismo della finitezza, ovvero su una prospettiva di programmazione sociale che tenga insieme una base ontologica fondata sul riconoscimento della finitezza umana, una base etica che faccia sistema con l’ontologia e una sfera politica che funga da dispositivo immanente per la progettualità umana, declinata secondo la sua dimensione alienata – propria dell’attuale fase storica – e secondo una prospettiva di liberazione per il futuro e conforme a natura\concetto umano.
Tuttavia, parlare dei temi che vengono proposti è particolarmente difficile e come tutte le imprese che riguardano l’intero e non una sua singola parte portano con sé il rischio che ci si perda nell’argomentazione. Proprio per questo motivo, cercherò di trattare il tema per progressive camere di compensazione, argomentando dal più generale al più particolare e tornando nel finale sulla prospettiva futura.
Affronterò, pertanto, la discussione di sguìncio, proponendo alcuni temi di ordine essenzialmente spinoziano circa la condizione ontologica degli esseri umani, il rapporto tra ontologia, etica e politica, la programmazione sociale – declinata sia come dispositivo pedagogico oppressivo, sia come progettualità futura – e l’idea di comunismo della finitezza ed infine alcune note tra il presente ed il futuro a mo’ di conclusione estremamente provvisoria.
Nello specifico, il primo paragrafo è dedicato al concetto di produttività anonima della Sostanza e di naturalità umana, mentre il secondo paragrafo, seguendo la medesima linea, cercherà di concentrarsi sul rapporto tra finitezza umana e Sostanza\Natura, sull’idea di natura umana e su quella di etica come modalità non scissa dall’ontologia e dalla politica.
I paragrafi tre e quattro, in qualche forma, propongono una fenomenizzazione – non una fenomenologia – delle strutture portanti della società e dei suoi dispositivi.
Infine, l’ultimo paragrafo riprenderà, in forma ontologica, una prospettiva comunista, declinandola secondo quello che, a partire dalle analisi di A. Tosel, chiamiamo comunismo della finitezza. Le conclusioni tireranno le fila di questo processo, nella prospettiva di una progettazione futura. [… Leggi tutto nel PDF allegato]

Alessandro Pallassini,

Note marginali per la progettazione
di un comunismo della finitezza
a partire da Spinoza


Gli altri interventi

Luca Grecchi, Sulla progettualità
Alessandro Monchietto,
Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi
Claudio Lucchini – La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano.
Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità.

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Laura Tundo Ferente – Il pensiero utopicamente connotato ha saputo esercitare costantemente la critica e l’opzione etica per la società giusta.

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Per un Manifesto della «Nuova Utopia»,

Per un Manifesto della «Nuova Utopia»

«[…] l’utopia propone riflessioni, idee, forme istituzionali, modalità operative molto consapevoli, impegnate a ridisegnare il senso e perimetro storico del principio ideale di riferimento che resta la giustizia;  […] l’utopia non conosce se non questa via: rende più acuto lo sguardo sulla realtà, sulle sue mancanze, sulle inadempienze, sulle distorsioni e ineguaglianze, sulle contraddizioni; elabora un’idea di ciò che considera buono, giusto […]; progetta forme della prassi che traducono in modi di vivere e in istituti sociali e politici quelle idee e indicazioni; immagina, propone, sperimenta (anche con l’esperimento mentale) modalità operative corrispondenti al loro evolvere. In questo presentare soluzioni, che sono però soltanto tentativi, l’utopia ha svolto uno straordinario ruolo di anticipazione e prefigurazione. Ha saputo leggere i vizi del tempo presente e svelarne il vero aspetto fuori da qualsiasi ineluttabilità, ha individuato le responsabilità, ha riflettuto su cosa si dovesse intendere per società “buona” e “felice”. Rispetto alla generale riflessione filosofica, non di rado raffinata, ma attenta ad altre grandi questioni, o talvolta anche cointeressata alle medesime visioni dei poteri emergenti, il pensiero utopicamente connotato ha saputo esercitare costantemente la critica e l’opzione etica per la società giusta, ha coltivato il terreno dell’immaginario sociale; per questa via ha saputo cogliere il bisogno e il desiderio in relazione alla giustizia, ha saputo indicare vincoli etici e un orizzonte di senso obbligante diversi da quelli in atto».

Laura Tundo Ferente, Utopia ed etica. Il desiderio e il vincolo,
in Per un Manifesto della «Nuova Utopia»,
a cura di Cosimo Quarta, Mimesis,, 2013, p. 78.

 

 

Quarta di copertina

I saggi che compongono questo volume, scritto a più mani, costituiscono un prezIoso contributo in ordine all’elaborazione di un Manifesto della “nuova utopia”, ossia di un documento a carattere interdlsclplinare, che ha tra i suoi fini anzitutto quello di ridare all’utopia il suo senso autentico, liberandola dai fraintendimenti che per secoli l’hanno banalizzata, deturpata e falsata. L’espresslone “nuova utopia” si è resa necessaria proprio per fare emergere la complessità e la rlccheua del fenomeno utopia, che non riguarda solo il fatto letterario, come da secoli si è creduto, ma abbraccia l’intera sfera dello scibile e della prassi umana, in quanto tale fenomeno si configura non come qualcosa di meramente “fantastico” e, meno che mai, di “bello ma impossibile”, bensì come il progetto della storia. E ciò perché l’uomo, fin dal suoi primordi, si caratterizza come un essere progettante, proteso cioè, sul piano personale, a diventare, attraverso l’educazione, quel che ancora non è, mentre, sul piano sociale, attraverso l’impegno etico-politico, si sforza di progettare e realizzare un ambiente di vita in cui possa vivere bene, ossia una società in cui regni la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la solidarietà, la pace, il benessere, l’amore. Un altro fine del Manifesto – e di questo volume che lo prepara – è quello di proporre l’utopia, intesa in senso nuovo, come antidoto alle paure e alle angosce che affliggono l’uomo del nostro tempo. In un contesto di perdurante crisi ed incertezza, che spesso sfocia nella disperazione, l’utopia, infondendo nell’animo umano la straordinaria e positiva forza emotiva della speranza, lo spinge ad uscire dalla mortificante condizione di passività e lo impegna a progettare e costruire una società più giusta e fraterna.

Scritti di: Lidia Caputo, Roberto Cipriani, Arrigo Colombo, Marina D’Amato, Carla Danani, Marianna Forleo, Vita Fortunati, Daniela Martina, Luigi Punzo, Gianpasquale Preite, Cosimo Quarta, Jean-Michel Racault, Christian Rivoletti, Giuseppe Schiavone, Eleonora Sparano, Laura Tundo Ferente, Francesco Totaro, Paul-André Turcotle.

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Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.

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homo-utopicus

«[… Il] processo formativo della coscienza critica si evince distintamente dall’opera di More. La dimensione critica è infatti chiaramente presente nel primo libro dell’Utopia, che costituisce, com’è noto, una severa e serrata critica alle istituzioni e ai costumi dell’epoca. Ma anche il secondo libro, in cui è concentrata la parte propriamente progettuale dell’opera, contiene elementi di critica tutt’altro che trascurabili. Sicché è davvero sorprendente notare come, pur in presenza di una critica così puntuale, rigorosa e, a tratti, radicale, molti studiosi abbiano potuto assimilare l’Utopia di More e, tramite essa, il fenomeno utopico tout court, all’irrealtà, al sogno, al gioco, all’illusione, all’astrattezza.
L’aggancio alla realtà storica è talmente forte ed evidente che soltanto dei lettori accecati dal pregiudizio possono non scorgere quel che invece i contemporanei di More e, in primis, Erasmo, davano per chiaro e scontato. Dovrebbe pur dire qualcosa, all’immenso stuolo di critici frettolosi, il fatto che il “principe degli umanisti”, in uno dei
suoi – peraltro rarissimi – giudizi sull’opera moriana, abbia riferito che More pubblicò l’Utopia “al fine di mostrare quali fossero le cause dei mali degli Stati; ma si soffermò a descrivere soprattutto l’Inghilterra, di cui aveva una più diretta e approfondita conoscenza” [Lettera di Erasmo a Ulrich von Hutten, in Erasmo da Rotterdam, Opus epistolarum Desiderii Erasmi Roterodami, Oxford, 1906-1958, vol. IV, p. 21].
Questo dimostra che anche l’utopia letteraria, lungi dal vagare nel sogno e nella fantasia, si trova invece profondamente radicata nella realtà storica. Essa nasce infatti dall’acuta coscienza, che è insieme critica ed etica, dei mali sociali e della volontà di superarli. Ed è appunto da questa volontà di bene che si origina il progetto di una società fondata sulla libertà, sulla giustizia, sull’eguaglianza, sulla pace.
Nasce cioè la coscienza progettuale, cui si connette l’impegno, o meglio, la tensione realizzativa. In More non solo la coscienza critico-progettuale, ma anche la tensione realizzativa è talmente forte da presentarci l'”ottimo Stato” come già realizzato. Senza dire che nell’hexastichon, come si è visto, è proprio tale tensione a marcare la differenza, ossia a sancire la superiorità dell’Utopia sulla Repubblica platonica

È opportuno sottolineare che, se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana. Una coscienza, infatti, priva del momento critico rischia di essere fagocitata dalla dimensione onirica dell’esistenza; mentre, senza il progetto, l’uomo, invece di governare gli eventi, resta in balìa del loro caotico fluire, ossia è alla mercé di una storia che non ha direzione né senso né fine; una coscienza, inoltre, priva della tensione realizzativa rischia di sfociare in sterile velleitarismo, vale a dire in incapacità di produrre effetti positivi sul piano della prassi storica.
L’impegno etico, il dovere di realizzare il progetto è parte integrante della coscienza utopica. La quale, proprio perché conosce i suoi limiti, sa bene che vi sarà sempre uno scarto tra il pensiero e l’azione, tra la teoria e la prassi. E quindi è una coscienza sempre vigile, attenta a non scambiare per assoluto ciò che è relativo e caduco (compreso, ovviamente, il proprio progetto).
Il fatto poi che il progetto utopico sia definito “ottimo” non significa che lo sia in senso assoluto, ma solo relativamente alla coscienza che l’ha espresso. Via via che la coscienza storica matura, cambiano le aspirazioni dell’uomo e mutano, perciò, anche i suoi progetti.
La coscienza utopica è, per definizione, una coscienza aperta, in quanto non solo è protesa sul futuro (sul “non ancora”), ossia su ciò che di buono i nuovi tempi porteranno, ma è attenta anche a ciò che di buono il presente contiene, cercando il meglio ovunque esso si trovi. Questa protensione sull'”ora” e sull'”altrove” sfugge ai detrattori dell’utopia, quando accusano gli utopisti di progettare “società chiuse” e di sacrificare il presente al futuro. Eppure, More aveva più volte sottolineato l’estrema disponibilità degli Utopiani a mettere in discussione i propri ordinamenti, nel caso ne avessero scorti di migliori altrove».

Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia,
edizioni Dedalo, 2015, pp. 124-125.

 

 

Risvolto di copertina

L’utopia non è solo un concetto letterario, come spesso erroneamente si pensa, bensì un carattere originario ed essenziale della specie umana: analizzandone per la prima volta la dimensione storica e antropologica, questo libro ci consente di capire che l’uomo non è solo sapiens, ma anche utopicus. L’utopia alimenta la speranza progettuale ed è una potente forza di mutamento sociale che, sia pure in forme diverse, è sempre presente nella storia umana.  Attraverso un’analisi originale della genesi della parola e un confronto puntuale con alcu­ni concetti similari (come mito, paradigma, ideale, ideologia) si arriverà a una definizione dell’utopia e del suo rapporto con alcuni tra i più importanti fenomeni socio-storico-culturali, come la rivoluzione, la scienza, la religione e l’ecologia. In questa nuova luce, si vedrà quindi come l’utopia possa costituire un valido antidoto culturale alle paure e al nichilismo del nostro tempo.

Indice del volume

Introduzione - I. IL FONDAMENTO ANTROPOLOGICOE STORICO DELL’UTOPIA - Capitolo 1 - L’utopia: una storia di fraintendimenti - 1. L’utopia non coincide con il fatto letterario - 2. Equivoci derivanti dall’assimilazionedell’utopia al fatto letterario - 3. Ulteriori fraintendimenti - Capitolo 2 -Homo utopicus. L’utopia come carattereoriginario della specie umana - 1. Sulla presunta fine dell’utopia - 2. L’utopia come fenomeno umano originario - 3. Homo utopicus - Capitolo 3 -Utopia e storia - 1. Genesi e prime forme dell’utopia storica - Il bisogno di cambiamento - 2. L’utopia delle origini: la preistoria, il mito - 3. Utopia e storia nel mondo antico - 4. L’utopia storica nel Medioevo cristiano - II. L’UTOPIA: IL TERMINE E IL CONCETTO - Capitolo 4 -Utopia. La genesi straordinaria e complessadi una parola-chiave - 1. La lunga gestazione: l’ipotesi di un Elogio della saggezza - 2. Il problema del nome: da Abraxa a Nusquama - 3. Da Nusquama a Utopia - 4. Il nesso ou-topia/ eu-topia - 5. L’utopia come coscienza critico-progettualee tensione storico-realizzativa - Capitolo 5 -Delucidazione concettuale I:paradigma, ideale, utopia - 1. Sul concetto di paradigma - 2. Sul concetto di ideale - 3. L’utopia - Capitolo 6 -Delucidazione concettuale II:ideologia e utopia - 1. Il contributo (e la responsabilità) di Karl Mannheim - 2. Capitalismo e marxismo versus utopia - 3. Per un risveglio della coscienza utopica - III. IL RUOLO DELL’UTOPIA IN ALCUNI TRA I PIÙ IMPORTANTIFENOMENI SOCIO-STORICO-CULTURALI - Capitolo 7 -Utopia e rivoluzione - 1. La rivoluzione - 2. Utopia e rivoluzione - 3. L’istanza utopica della rivoluzione non violenta - Capitolo 8 -Scienza e utopia - 1. Scienza versus utopia? - 2. La scienza nell’utopia letteraria - 3. Utopia e scienza in dialogo - Capitolo 9 -Utopia e trascendenza - 1. Sul rapporto utopia-trascendenza - 2. Homo utopicussivetranscendens: la scoperta dell’«oltre» - 3. Dall’utopia alla Trascendenza - Capitolo 10 -Ecologia e utopia - 1. Crisi ambientale e modernità: dalla Weltanschauungmeccanicistica all’esplosione dei consumi - 2. Carattere utopico della progettualità ecologica - Indice dei nomi

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Herbert Marcuse (1898-1979) – Né ritirarsi né adattarsi, ma imparare come sviluppare con la nuova sensibilità una nuova razionalità, per sostenere il lungo processo dell’istruzione.

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La dimensione estetica

La dimensione estetica

«Bertolt Brecht ha osservato che viviamo in un periodo in cui sembra un crimine parlare di un albero. Da allora, le cose sono molto peggiorate. Oggi, sembra un crimine solamente parlare di un cambiamento mentre la società è trasformata in un’istituzione di violenza […]. Il puro e semplice potere di questa brutalità non è immune contro la parola pronunciata e scritta che lo accusa? E la parola che è diretta contro i professionisti di questo potere non è la stessa che usano per difendere il loro potere? C’è un livello al quale sembra giustificata persino l’azione priva di intelligenza contro di loro. Perché l’azione spezza, anche se solo per un momento, l’universo chiuso della soppressione. L’escalation è costruita dentro il sistema e accelera la controrivoluzione a meno che sia fermata in tempo. Eppure, c’è un tempo per la conversazione e un tempo per l’azione anche in questo sistema, e questi tempi sono definiti (segnati) dalla concreta costellazione sociale delle forze. Dove l’azione radicale di massa è assente, e la sinistra è incomparabilmente più debole, la sua azione deve essere autolimitante. Ciò che è imposto alla ribellione dalla repressione intensificata e dalla concentrazione di forze distruttive nelle mani della struttura di potere deve diventare il terreno per il raggruppamento, il riesame. Devono essere sviluppate strategie che sono adattate a combattere la controrivoluzione. Il risultato dipende, in larga misura, dalla capacità della generazione giovane non di ritirarsi né di adattarsi, ma di imparare come raggrupparsi dopo la sconfitta, come sviluppare, con la nuova sensibilità una nuova razionalità, per sostenere il lungo processo dell’istruzione, il prerequisito indispensabile per la transizione a un’azione politica su larga scala. Perché la prossima rivoluzione sarà la preoccupazione di generazioni, e “la crisi finale del capitalismo” può durare quasi un secolo.».

Herbert Marcuse, La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, a cura di Paolo Perticari, Guerini e Associati, 2002, p. 266.


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Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.

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«[…] il genere Homo si caratterizza, fin dalle origini, per la sua inquietudine, per la ricerca di nuove possibilità […], dimostrando così la sua capacità di non fermarsi al puro dato sensibile, ossia di andare oltre la percezione immediata, e quindi di pre-vedere quel che ancora non è fisicamente visibile, cioè percepibile dai sensi. L’inquietudine e l’angoscia sono legate […] alla scoperta della libertà, alla possibilità di scegliere tra due o più comportamenti.
Ma il prevedere – che è un’attitudine propria della ragione – implica la coscienza del tempo, o meglio, la temporalità, la quale […] rende possibile il  costituisce cioè la conditio sine qua non del progettare. Sullo spazio aperto dalla previsione s’innesta così […] la progettualità, che è un fatto specificamente ed essenzialmente umano. E poiché l’uomo non è un individuo isolato, ma, in quanto coessere, nasce, vive e opera sempre in un determinato contesto storico-sociale, ecco che il suo progettare si carica di storicità, di socialità, di politicità, caratterizzandosi, immediatamente, come utopico, dal momento che l’utopia può essere definita come il progetto della storia, come progetto e impegno di costruire la “società giusta”; quella società, cioè, in cui a ciascuno venga finalmente riconosciuto il proprio diritto: il diritto dell’uomo in quanto uomo. Da ciò discende che l’utopicità non è un fatto accidentale e transeunte, ma un carattere essenziale della specie umana» .

«Lo dimostra il fatto che, ancora oggi, l’uomo si presenta come l’essere che, per sua natura, si protende e proietta verso il suo dover essere. E ciò perché è in gioco l’originaria potenzialità della persona, il suo oscillare tra il nulla e il tutto, la sua capacità di costruire liberamente (dunque, anche sbagliando) quel se stesso che ancora non è. Il progetto […] non è una delle tante opzioni, ma costituisce l’opzione fondamentale, poiché solo per mezzo di esso il genere Homo attinge quella che viene chiamata dignità umana.
Senza il progetto, cui si connette il dover essere e quindi il vincolo etico – che lo obbliga a realizzare, per quanto è possibile pienamente, l’umanità che è in lui – l’uomo decade a bestia. Ciò che rende la vita umana degna di essere vissuta è anzitutto quest’opera […] che richiede l’impegno e lo sforzo di tutta una vita, proprio perché l’uomo, in quanto essere finito, è soggetto alla caduta e allo scacco, ma è anche capace, ogni volta, di rialzarsi, per riprendere il cammino […].
Ora, questo impulso a protendersi verso il dover essere,  […] questa profonda aspirazione a diventare quel che non è ancora fanno, appunto, dell’uomo un essere essenzialmente progettuale, cioè utopico. In altre parole, l’utopicità è un carattere che ha segnato l’uomo in maniera indelebile. È il carattere distintivo per eccellenza, da cui tutti gli altri derivano, compreso, forse, lo stesso attributo di sapiens. La “sapienza”, infatti, non è un dono, bensl una dura conquista […]. Ma non vi sarebbe sapienza senza il desiderio, o meglio, il bisogno di conoscere, […] ricerca di nuove possibilità […]» (pp. 50-51).

«Il progetto utopico […] nasce da una profonda coscienza etica, la quale spinge l’uomo a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente, ritenuto ingiusto e insostenibile. Il progetto utopico, quindi, non è solo un modello teorico, bensì, in quanto è proteso, per sua natura, alla realizzazione, richiede un forte impegno anche sul piano della prassi. Lungi dall’essere qualcosa di “astratto”, esso è estremamente concreto […]. Invero, ogni progetto, per sua natura, nasce da un bisogno, ossia dal bisogno di mutare la realtà che, così com’è, risulta carente, inadeguata a soddisfare le esigenze dei singoli o della società in generale.  […] Storicamente è accaduto che le società e le epoche maggionnente dinamiche sono state quelle che hanno espresso un maggiore bisogno di progettualità e quindi un maggiore bisogno di utopia. In questo senso, si può dire che l’utopia si rivela come il motore della storia» (pp. 56-57).

«L’affievolirsi della tensione utopica deve essere considerato come un campanello d’allarme per l’umanità. […] Senza utopia non v’è progettazione, non v’è immaginazione, non v’è speranza e, quindi, non v’è futuro. […] In altre parole, privare l’uomo dell’utopicità significa privarlo della sua stessa umanità» (pp. 58-59).

«Il progetto utopico nasce anzitutto dalla consapevolezza che le condizioni storiche di fatto esistenti (a livello sociale, politico, economico, ecc.) sono profondamente ingiuste; donde l’istanza delle trasformazioni sociali. […] Alle origini del progetto utopico v’è dunque, in primo luogo, la presa di coscienza critica sulla realtà di fatto […].
La coscienza utopica sarebbe però irrimediabilmente monca, se si configurasse solo nella duplice dimensione critico-progettuale. La progettazione, infatti, perché possa dirsi autenticamente utopica, deve essere orientata verso il bene, ossia deve essere sorretta da una volontà di bene, la quale ha come suo fondamento la coscienza etica.
A generare l’utopia è quindi una profonda spinta morale, che si manifesta concretamente non solo come “ansia del giusto” […], ma anche come volontà di pace, di libertà, di uguaglianza, di solidarietà, di amore fraterno. Senza la coscienza etica, che è anche coscienza del limite, la progettazione finirebbe con il degenerare nella hyhris, nell’arroganza, nel delirio di onnipotenza, si trasformerebbe, in altri termini, in volontà di male, ossia in distopia. […] Ecco perché la coscienza morale è una dimensione essenziale, fondamentale della progettazione utopica.
La coscienza etica svolge un ruolo importante, decisivo, non solo nella fase critico-progettuale, ma anche nel momento realizzativo dell’utopia; infatti, è proprio grazie alla vigilanza morale che l’utopia evita di degenerare nel suo opposto, evita cioè di cadere nella
distopia. Il dovere di realizzare il fine, ossia il progetto della “società buona e giusta”, deve essere sempre sotteso dall’impegno di ricercare e scegliere i mezzi, che siano non solo efficaci, ma anche “buoni”, cioè rispettosi della dignità umana e dell’intera ecosfera.
Quando nella coscienza umana comincia a farsi strada l’idea che un fine buono, come ad esempio la giustizia, può essere realizzato compiendo ingiustizie, sopraffazioni e ogni altro genere di violenza, allora si può essere certi che si è abbandonata la strada lunga, stretta e faticosa dell’utopia, per imboccare quella più corta e ampia, ma assai più pericolosa, della distopia.  […] E ciò accade, appunto, per una carenza di spirito utopico, da cui l’uomo spesso rifugge, perché la realizzazione del fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Concepita in tal modo, l’utopia […] riesce a dar conto della straordinaria ricchezza e complessità della progettazione sociale […]» (pp.65-67).

Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia,
edizioni Dedalo, 2015.

 

 

Risvolto di copertina

L’utopia non è solo un concetto letterario, come spesso erroneamente si pensa, bensì un carattere originario ed essenziale della specie umana: analizzandone per la prima volta la dimensione storica e antropologica, questo libro ci consente di capire che l’uomo non è solo sapiens, ma anche utopicus. L’utopia alimenta la speranza progettuale ed è una potente forza di mutamento sociale che, sia pure in forme diverse, è sempre presente nella storia umana.  Attraverso un’analisi originale della genesi della parola e un confronto puntuale con alcu­ni concetti similari (come mito, paradigma, ideale, ideologia) si arriverà a una definizione dell’utopia e del suo rapporto con alcuni tra i più importanti fenomeni socio-storico-culturali, come la rivoluzione, la scienza, la religione e l’ecologia. In questa nuova luce, si vedrà quindi come l’utopia possa costituire un valido antidoto culturale alle paure e al nichilismo del nostro tempo.

Indice del volume

Introduzione - I. IL FONDAMENTO ANTROPOLOGICOE STORICO DELL’UTOPIA - Capitolo 1 - L’utopia: una storia di fraintendimenti - 1. L’utopia non coincide con il fatto letterario - 2. Equivoci derivanti dall’assimilazionedell’utopia al fatto letterario - 3. Ulteriori fraintendimenti - Capitolo 2 -Homo utopicus. L’utopia come carattereoriginario della specie umana - 1. Sulla presunta fine dell’utopia - 2. L’utopia come fenomeno umano originario - 3. Homo utopicus - Capitolo 3 -Utopia e storia - 1. Genesi e prime forme dell’utopia storica - Il bisogno di cambiamento - 2. L’utopia delle origini: la preistoria, il mito - 3. Utopia e storia nel mondo antico - 4. L’utopia storica nel Medioevo cristiano - II. L’UTOPIA: IL TERMINE E IL CONCETTO - Capitolo 4 -Utopia. La genesi straordinaria e complessadi una parola-chiave - 1. La lunga gestazione: l’ipotesi di un Elogio della saggezza - 2. Il problema del nome: da Abraxa a Nusquama - 3. Da Nusquama a Utopia - 4. Il nesso ou-topia/ eu-topia - 5. L’utopia come coscienza critico-progettualee tensione storico-realizzativa - Capitolo 5 -Delucidazione concettuale I:paradigma, ideale, utopia - 1. Sul concetto di paradigma - 2. Sul concetto di ideale - 3. L’utopia - Capitolo 6 -Delucidazione concettuale II:ideologia e utopia - 1. Il contributo (e la responsabilità) di Karl Mannheim - 2. Capitalismo e marxismo versus utopia - 3. Per un risveglio della coscienza utopica - III. IL RUOLO DELL’UTOPIA IN ALCUNI TRA I PIÙ IMPORTANTIFENOMENI SOCIO-STORICO-CULTURALI - Capitolo 7 -Utopia e rivoluzione - 1. La rivoluzione - 2. Utopia e rivoluzione - 3. L’istanza utopica della rivoluzione non violenta - Capitolo 8 -Scienza e utopia - 1. Scienza versus utopia? - 2. La scienza nell’utopia letteraria - 3. Utopia e scienza in dialogo - Capitolo 9 -Utopia e trascendenza - 1. Sul rapporto utopia-trascendenza - 2. Homo utopicussivetranscendens: la scoperta dell’«oltre» - 3. Dall’utopia alla Trascendenza - Capitolo 10 -Ecologia e utopia - 1. Crisi ambientale e modernità: dalla Weltanschauungmeccanicistica all’esplosione dei consumi - 2. Carattere utopico della progettualità ecologica - Indice dei nomi

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Karl Marx (1818-1883) – La sensibilità soggettiva si realizza solo attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana.

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Opere filosofiche giovanili

Opere filosofiche giovanili

«Soltanto attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana vi è la ricchezza della umana sensibilità soggettiva (l’orecchio musicale, l’occhio per la bellezza della forma – in breve, i sensi capaci di umana gratificazione, sensi che affermano se stessi come poteri essenziali dell’uomo) sia essa coltivata o prodotta».

Karl Marx, Manoscritti economico-filsoflci del 1844, tr. il. G. Della Volpe, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 229.


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Herbert Marcuse (1898-1979) – Ciò che si definisce “utopico” non è più qualcosa che “non accade” e non può accadere nell’universo storico, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite.

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La dimensione estetica

La dimensione estetica

«Finora uno dei principali criteri guida della teoria critica della società (e in particolare della teoria marxiana) è stato quello di trattenersi da ciò che si può ragionevolmente chiamare speculazione utopica. Si presuppone che la teoria sociale sia tenuta ad analizzare le società esistenti alla luce delle loro funzioni e delle loro capacità, e a identificare le tendenze dimostrabili (nel caso ve ne siano) che possono condurre al superamento della situazione in atto deducendo logicamente dalle istituzioni e dalle condizioni prevalenti. La teoria critica può anche essere in grado di determinare i fondamentali cambiamenti istituzionali che costituiscono i prerequisiti per il passaggio a un livello più alto di sviluppo: “più alto” nel senso di un più razionale e più equo utilizzo delle risorse, di una riduzione dei conflitti distruttivi e di un allargamento del governo della libertà.
Ma la teoria critica della società non si è avventurata oltre questi limiti per paura di perdere il suo carattere scientifico. lo ritengo che questa concezione restrittiva debba essere revisionata e che tale disamina sia suggerita, e persino resa necessaria, dalla reale evoluzione delle società contemporanee. La dinamica della loro produttività priva la nozione di “utopia” del suo tradizionale contenuto di irrealtà: ciò che si definisce “utopico” non è più qualcosa che “non accade” e non può accadere nell’universo storico, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite».

Herbert Marcuse, Sagio sulla liberazione. Dall’«uomo a una dimensione» all’utopia, in Id.,  La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, a cura di Paolo Perticari, Guerini e Associati, 2002, p. 106.


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Herbert Marcuse (1898-1979) – Il presupposto fondamentale della rivoluzione, la necessità di un cambiamento radicale, trae origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui. Solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice.

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La dimensione estetica

La dimensione estetica

«Se l’ideologia diventa mera ideologia […] si attua una svalutazione dell’intero regno della
soggettività, una svalutazione non solo del soggetto in quanto ego cogito, il soggetto razionale, ma anche dell’interiorità, delle emozioni e dell’immaginazione. La soggettività degli individui, la loro stessa coscienza e l’inconscio tendono a essere dissolti nella coscienza di classe.
In tal modo viene minimizzato un presupposto fondamentale della rivoluzione, cioè il fatto che la necessità di un cambiamento radicale debba trarre origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La teoria marxista dovette soccombere a quella stessa reificazione che aveva denunciato e combattuto nel complesso della realtà sociale. La soggettività divenne un atomo dell’oggettività; persino nella sua forma ribelle si arrese a una coscienza collettiva. La componente deterministica della teoria marxista non consiste nella relazione tra esistenza sociale e coscienza, ma nel concetto riduttivo di coscienza che neutralizza il contenuto specifico della coscienza individuale e, con ciò, il potenziale soggettivo per la rivoluzione.
[…] La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui – la loro storia personale, che non s’identifica con la loro esistenza sociale. È la storia particolare dei loro incontri, delle loro passioni, gioie e sofferenze, esperienze che non traggono necessariamente origine dalla loro condizione di classe e che non sono nemmeno comprensibili in questa prospettiva. Certo, le manifestazioni concrete della storia degli individui sono determinate dalla loro condizione di classe, ma tale condizione non è il fondamento del loro destino, di quello che accade loro. Specialmente nei suoi aspetti non materiali essa infrange la cornice sociale. È troppo facile relegare amore e odio, gioia e dolore, speranza e disperazione nell’ambito della psicologia, escludendoli cosÌ dalla sfera della prassi politica radicale. Per la verità, in termini di economia politica potrebbero non essere “forze produttive”, ma per ogni essere umano questi aspetti sono decisivi e costituiscono la realtà.
Anche tra i suoi esponenti più illustri l’estetica marxista ha partecipato alla svalutazione della soggettività. Da qui la preferenza per il realismo come modello di arte progressiva, la denigrazione del romanticismo in quanto semplicemente reazionario, la condanna dell’arte
“decadente! in generale, l’imbarazzo nel valutare le qualità estetiche di un’opera in termini diversi dalle ideologie di classe.
La tesi che mi accingo a discutere è la seguente: le qualità radicali dell’arte, vale a dire la denuncia della realtà costituita e l’evocazione della bella immagine (schöner Schein) della liberazione, si fondano precisamente nella dimensione in cui l’arte trascende la propria determinazione sociale e si emancipa dall’universo dato del discorso e del comportamento, conservando tuttavia la sua presenza schiacciante. In tal modo l’arte crea il regno in cui diventa possibile il sovvertimento dell’esperienza che le è proprio: il mondo da essa forgiato è riconosciuto come una realtà soffocata e distorta nella realtà data. Questa esperienza culmina in situazioni estreme (di amore e di morte, di colpa e di fallimento, ma anche di gioia, di felicità e di soddisfazione) che fanno esplodere la realtà costituita in nome di una verità solitamente negata o neppure ascoltata. La logica interna dell’opera d’arte sfocia nell’emergere di un’altra ragione, di un’altra sensibilità, che sfidano la razionalità e la sensibilità incorporate nelle istituzioni sociali dominanti.
In nome della legge della forma estetica, la realtà data è necessariamente sublimata: il contenuto immediato è stilizzato, i “dati” vengono rimodellati e riordinati secondo le esigenze della forma artistica, secondo la quale persino la rappresentazione della morte e della distruzione evocano il bisogno della speranza, un bisogno radicato nella nuova coscienza incorporata nell’opera d’arte.
La sublimazione estetica promuove la componente affermativa, riconciliante dell’arte, nonostante sia allo stesso tempo veicolo della funzione critica, di negazione dell’arte. La trascendenza della realtà immediata manda in frantumi l’oggettività reificata dei rapporti sociali costituiti e apre una nuova dimensione dell’esperienza: la rinascita della soggettività ribelle. Così, sulla base della sublimazione estetica, si attua una desublimaziane nella percezione degli individui, dei loro sentimenti, giudizi, pensieri; un’invalidazione delle norme, dei bisogni e dei valori dominanti. Con tutte le sue caratteristiche di ideologia e di conferma, l’arte permane una forza del dissenso.
Possiamo provvisoriamente definire la “forma estetica” come il risultato della trasformazione di un dato contenuto (fatto di cronaca o storico, personale o sociale) in un tutto autosufficiente: una poesia, un lavoro teatrale, un romanzo ecc. L’opera è così “sottratta“ al processo incessante della realtà e assume un significato e una verità che le sono proprie. La trasformazione estetica si attua mediante un rimodellamento del linguaggio, della percezione e della comprensione volto a svelare l’essenza della realtà nella sua apparenza: le potenzialità represse dell’uomo e della natura. In questo modo l’opera d’arte ri-presenta la realtà mentre la denuncia.
La funzione critica dell’arte, il suo contributo alla lotta per la liberazione, risiede nella forma estetica. Un’opera d’arte è autentica o vera non in virtù del suo contenuto (cioè della rappresentazione “corretta” delle condizioni sociali), né della forma “pura”, ma per opera del contenuto che è diventato forma.
Così, se è vero che la forma estetica tiene lontana l’arte dalla realtà della lotta di classe – dalla realtà pura e semplice – ed è ciò che costituisce l’autonomia dell’arte vis à vis con il “dato”, questa dissociazione tuttavia non produce “falsa coscienza” o mera illusione, ma piuttosto controcoscienza: la negazione della mentalità realistico-conformista.
Forma estetica, autonomia e verità sono interdipendenti. Ciascuna di esse è un fenomeno storico-sociale e ciascuna trascende l’arena storico- sociale. Mentre quest’ultima limita l’autonomia dell’arte, non invalida però le verità transstoriche espresse nell’opera. La verità dell’arte consiste nella sua capacità di infrangere il monopolio della realtà costituita (cioè di coloro che l’hanno costituita) e di definire che cosa è reale. In questa rottura, che è la conquista della forma estetica, il mondo fittizio dell’arte appare come la vera realtà.
L’arte si affida a quella percezione del mondo che aliena gli individui dalla loro esistenza funzionale e dalla prestazione fornita nella società – si affida a un’emancipazione della sensibilità, dell’immaginazione e dell’intelligenza a tutti i livelli della soggettività e dell’oggettività.
L’elaborazione estetica diventa veicolo di inquisizione e di denuncia. Ma questa conquista presuppone un grado di autonomia che sottrae l’arte al potere mistificante del dato e la libera all’espressione della propria verità. Dal momento che uomo e natura si costituiscono
entro una società non libera, le loro potenzialità represse e distorte possono essere rappresentate solo in forma estraniante. Il mondo dell’arte è quello di un altro principio di realtà, dello straniamento, e solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice».

Herbert Marcuse, La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, a cura di Paolo Perticari, Guerini e Associati, 2002, pp. 15-18.


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