«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
[in lui erano] le basi di quella conoscenza della natura umana che insegna a riconoscere e ad apprezzare un’altra persona – fino ad anticiparne l’individualità spirituale – dalla cadenza della voce, dal modo di prendere un oggetto, perfino dal timbro del suo silenzio e dall’espressione dell’atteggiamento con cui si inserisce in uno spazio, in breve da quella maniera nobile, quasi non tangibile e tuttavia essenziale e completa, di essere uomo e spirito: la quale racchiude il nocciolo nel suo aspetto palpabile e vagliabile come la carne racchiude lo scheletro.
Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless, in Id., Racconti e teatro, trad. it. di Anita Rho, Torino, Einaudi, 1964.
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Licika, solicello! Oggi è l’1 febbraio. E da un mese che ho deciso di cominciare a scrivere questa lettera. Sono traseorsi 35 giorni. Per lo meno 500 ore d’ininterrotta meditazione! Scrivo perché non sono più nella condizione di pensare a queste cose (mi si confonde la testa, se non parlo), perché penso: «Tutto è chiaro», tanto adesso (relativamente, s’intende) che in passato; perché ho semplicemente paura di provare troppa gioia al momento del nostro incontro e che tu possa ricevere, o più precisamente che io ti possa affibbiare il mio solito stracciume di sempre condito con un po’ di gioia e d’arguzia. Scrivo questa lettera con estrema serietà. La scriverò soltanto di mattina, quando la mente è fresca e non sono ancora comparse le mie stanchezze, le mie cattiverie e irritazioni serali. In ogni caso lascerò dei margini, di modo che, se mi viene in mente qualcos’altro, mi sia possibile annotarlo. In questa lettera farò ogni sforzo per sfuggire a qualsiasi «emozione» o «condizione». Questa lettera parlerà soltanto di quello che avrò verificato con sicurezza, di ciò che ho pensato in questi mesi, parlerà solo di fatti (1 febbraio). […] Tu dovrai assolutamente leggere questa lettera, e pensare a me per un attimo almeno. Io sono così infinitamente lieto che tu esista, di tutto quelle che è tuo, anche se non è in diretta relazione con me, che non voglio credere che non t’importi nulla di me. […] La mia decisione di non recar danno alla tua esistenza con nulla, nemmeno con un soffio, è sostanziale. […] E adesso parliamo di quello che ho creato:
Ti amo? (5/II 23)
Io ti amo, ti amo nonostante tutto e grazie a tutto, ti ho amato, ti amo e ti amerò, sia tu dura con me o gentile, mia o di un altro. Comunque ti amero. Amen. […] Di nuovo parliamo del mio amore. Della famigerata attività. Per me nell’amore si esaurisce forse tutto? Tutto, solo in un altro modo. L’amore è la vita, è la cosa principale. Dall’amore si dispiegano i versi, e le azioni, e tutto il resto. L’amore è il cuore di tutte le cose. Se il cuore interrompe il suo lavoro, anche tutto il resto si atrofizza, diventa superfluo, inutile. Ma se funziona, non può non manifestarsi in ogni cosa. Senza di te (non senza di te «nella lontananza», interiormente senza di te) io cesso di agire. È stato sempre così, lo è anche adesso. […].
Vladimir V. Majakovskij, Lettera a Lili Brik del 1-27 febbraio 1923, in V.V. Majakovskij – L. Lu. Brik, L’amore è il cuore di tutte le cose. Lettere 1915-1930, a cura di Bengt Jangfeldt. Trad. di Serena Prima, Mondadori, Milano 1985, pp. 159-167.
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Prezioso recupero, nell’anno in cui ricorre il centenario della nascita, Lato di ponente raccoglie pensieri e riflessioni di Margherita Guidacci, quasi tutti inediti fino ad oggi. Un libro difficile da definire per la stessa autrice, con il ritmo della poesia e la concretezza della prosa, intessuto di citazioni che sono per lei voci dialoganti: Qohélet, Agostino, Pascal, Donne, Dickinson, Leopardi, Rilke, Kafka, Valéry, Eliot. Una miniera nascosta, un diario-taccuino di lavoro in cui sono registrati i segni di una profonda crisi. La scrittura resta comunque limpida e ferma, e, come sempre nei libri della Guidacci, ha il dono grande della semplicità sia che si rapprenda in una forma essenziale da frammento presocratico (o da quartetto eliotiano), sia che si distenda in composizioni di più ampio respiro meditativo. Assemblato di fretta – presentendo ormai vicina la fine del proprio viaggio umano – senza il consueto lavoro di revisione e montaggio dei testi, Lato di ponente rivela una evidente natura composita, che viene ad attenuarsi però sul piano tematico, nella costante ripresa e indagine di alcuni motivi-chiave (primo, tra tutti, il tema del tempo) che legano i pensieri in una totalità profondamente coerente, aprendo nuove, interessanti prospettive d’indagine anche sulla sua opera poetica.
Ti si rompe lo specchio e dell’universo che conteneva non rimane che una macchia nera, frastagliata sul muro. M. Guidacci
Il primo atto di coraggio che si può chiedere a se stessi è di vedere onestamente, fino in fondo, senza chiudere gli occhi, fino a qual punto si ha paura. M. Guidacci
… il problema di ritrovarsi è più profondo e infinitamente più generale di quello (analogo) che si presenta nella relatività fisica. P. Valéry
«Nel vano d’una finestra», dentro una stanza silente, immagino Margherita che in un labirinto d’angoscia cerca di ritrovare i tratti del suo volto riflessi nell’opacità di un vetro. Se fra tutti i suoi libri dovessi sceglierne uno, forse sceglierei proprio questo, il libro-fantasma con lucida pena tenuto dentro per tutta la vita. Una miniera nascosta, vibrante di umana inquietudine, un diario-taccuino di lavoro in cui è registrato di tutto: intuizioni, smarrimenti, lacerti poetici, sogni, meditazioni, severe autoanalisi e disarmanti confessioni. «Certamente un libro del nadir», difficile da definire anche per l’autrice, che introduce e conduce a quella che Margherita Pieracci Harwell chiama la «trilogia dell’amarezza»:2Un cammino incerto (1970), Neurosuite (1970) e Terra senza orologi (1973).
Con il ritmo della poesia e la concretezza della prosa, Lato di ponente è anche un libro filosofico, intessuto di citazioni che sono per lei voci dialoganti; continua a leggere ….
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Il velo di fango che gli aveva avvolto lo spirito e l’anima quella notte si dissipava lentamente, cedendo al soffio del giorno appena spuntato, pieno di profumi dolci e rianimanti. La riva era indorata dai primi raggi del sole, e l’acqua, un po’ torbida per effetto della pioggia, rifletteva malamente il verde degli alberi. […] Ippolito camminava lungo la riva capricciosa, che formava piccoli seni verdeggianti, e scopriva ad ogni passo nuove meraviglie di bellezza. Camminava leggero, sfiorando l’acqua, sicuro di scorgere sempre qualcosa di nuovo. Esaminava attentamente tutto quanto vedeva, si fermava ad ogni piccolo seno formato dalla riva per avere il colpo d’occhio degli alberi che lo circondavano, come se cercasse la ragione della diversità tra il dettaglio dell’assieme degli alberi e quello del piccolo seno. Ad un tratto si fermò, abbagliato. Il fàscino di una visione. … la fanciulla era immersa nell’acqua sino a mezzo busto, era davanti a lui, la testa reclinata in avanti, intenta ad intrecciare i capelli che si erano sciolti. Sulle carni rosee brillavano al sole gocce di acqua come scheggie di diamanti che carezzavano le spalle, il petto e, prima di scendere nel fiume, tremolavano al sole lungamente, come se non volessero lasciare il corpo che le aveva accolte. Osservava quell’immagine come qualcosa di sacro, tanto era pura e armoniosa la bellezza di quella fanciulla nel fiore della gioventù. Si sentiva lieto e non provava altro desiderio che quello di contemplarla. […] Ma, purtroppo, quaggiù come il buono dura poco, il bello è raro … e Ippolito fu lieto solo per pochi istanti. La fanciulla alzò la testa e, mandando un grido di collera, si immerse nell’acqua fino al collo. Quel grido echeggiò nel cuore di Polkanov, che si sentì tuffato come in un mare di ghiaccio.
Maksim Gor’kij, Fàscino, Casa Editrice F. Bideri, Napoli 1915, pp. 101 ss.
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«[…] Nel crepuscolo invernale i cortili dell’Università di Pavia diventano spazio deserto e se un uomo si muove fra le colonne viene fatto di chiedersi: ma chi è che si muove fra le colonne? I passeri planano per l’ultima volta dalla quercia alle due magnolie. Il silenzio avanza come un’alta marea sugli otto cortili, soprattutto acquista potere sull’ultimo, il cortile sforzesco, che risale al Quattrocento e dove si trovano le sale del «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei»; vuoto di frequentatori la sera il Fondo si trasforma in un cimitero. […] Un cimitero è un luogo di silenziosi fantasmi; più raramente di sonori musicisti. È Calvino a dirci che nella città di Ipazia i suonatori si nascondono nelle tombe e da una tomba all’altra si danno la voce con flauti e arpe. Ma più spesso vi dimorano ombre. […] Benché non sia possibile descrivere l’aspetto fisico delle ombre, si può dire che esse pur nella nuova condizione di esseri senza peso hanno le stesse facce di quando avevano un corpo, dato che la faccia conserva per sempre tracce di quello che le è capitato. Si accostano furtive agli armadi-cassaforte dove qualcosa d’altro, che le riguarda, ma cosa?, occupa la loro attenzione. È allora che se uno per caso si trova nel Fondo è invaso dalla sensazione di un’immensa, insuperabile distanza: al tempo in cui le ombre avevano un corpo lui magari non era ancora nato o, se era nato, si trovava in un luogo diverso dello spazio. In questi casi si può fare ben poco l’uno per l’altro, come succede ai ricevimenti pubblici o ai funerali, dove ci si trova tutti insieme da estranei. Senza dubbio tali Presenze, invisibili ai più, sembrano sorgere da una categoria nuova della realtà, da uno stato proprio del reale e non da noi. Come se l’altro reale, quello a cui di solito si fa capo, tacesse, avesse perso qualsiasi virtù di evidenza. Adesso sappiamo che è possibile avere per qualche momento la sensazione che ombre si muovano implacabili nelle sale. Non si ha nessun dato sul preciso momento in cui la mente si arrende a tale visione e le ombre, scaturite da ignota sorgente, si emancipano, hanno causa vinta. Esse desiderano raccontare di sé tutt’altro genere di vicende e di cose, atte a colmare lacune dei biografi e dei critici. Mica sono personaggi della fantasia. Loro hanno dovuto portare in giro sul serio un corpo palpabile. Non si tratta qui di restare nella logica di un racconto, ma di entrare in un’altra logica, in altre regole del gioco, quelle in cui uomini e donne hanno dovuto vivere materialmente ogni istante dell’esistenza, provare la difficoltà di sbrogliarsela con se stessi, vita natural durante, quando per esempio hanno preso in mano la penna per la prima volta, con una felicità poi perduta, andata a finire in uno scritto fatto a pezzi, e quando presto o tardi è venuto il momento in cui hanno cominciato a dubitare di quello che facevano. Le ombre passano inquiete da una sala all’altra: allora uno, seduto al tavolo di lavoro, prova voglie inconsuete, quali voglie?, metti quella di dare alla foto di uno scrittore appesa alla parete o a un venerato busto di marmo, situato in un angolo della sala, i freschi movimenti dell’uomo. Impossibile? Ma già abitare tale desiderio è qualcosa. Forse le ombre notano il turbamento di chi le trova un po’ dentro e un po’ fuori dei ritratti noti. Se potessero sorriderebbero, ma le ombre non sorridono, sono al di là del tempo della vita in cui si sorride. Ma sono davvero uscite dal tempo? Bisogna distinguere. C’è il tempo a cui sono appartenute e c’è l’altro tempo, quello che ora le avvolge nel Fondo, nel mondo dei viventi. Il primo i greci lo chiamavano aion e segnava una fatale chiusura; il secondo chronos e segnava un’apertura verso il futuro, per cui venne anche detto immagine dell’eternità. Ecco dunque perché loro sono qui, nel Fondo, sono venute a farci visita, si sono immerse nel chronos. In questo mondo in cui ogni cosa si consuma in un mese o in un anno, e viene subito sostituita con un’ altra più perfezionata, che pare insostituibile ed eterna, ma si consuma essa pure in un mese o in un anno e così via, loro non prendono parte a questo consumio generale. Persistono, premono su di noi, attendono di essere riconosciute, se pure da un numero limitatissimo di viventi. In modo ora ludico ora drammatico comunicano, anche se non sempre attraverso la voce. Chi frequenta d’abitudine il Fondo sa che la comunicazione dura magari, come accade nei sogni, pochi intensissimi minuti dopo di che tutto si perde in quartieri sconosciuti. Non esiste una mappa del mondo sotterraneo, di quell’ignoto da cui tutti i fantasmi provengono, profondo come un abisso, che esercita su di essi un’attrazione cosmica diversa da quella a cui sono soggetti i viventi. Per questo i fantasmi sono instabili, erranti, fuggitivi. Fanno fatica ormai a riabituarsi al mondo in cui vissero coi piedi per terra nel loro aiòn, il loro tempo passato.
Ma le Presenze invisibili sono attratte nel Fondo da una terza idea di tempo, che è soltanto loro e dà segni di sé soltanto qui, fra i manoscritti. Un’idea di tempo che diventa cosa, oggetto fatto di parole scritte. Fogli ingialliti, stesure successive, un tutto che segnala l’ordine temporale della composizione di un’opera. Come dire che c’è una realtà temporale che appartiene alla logica dell’opera. Le vere competenti sono loro, le ombre. Quello che Filone d’Alessandria nel De opificio chiama il “giorno uno” dell’inizio del mondo c’è in ogni testo letterario; solo loro, e nemmeno sempre, saprebbero rintracciarlo. Quello che di sicuro conoscono è il ciclo dei giorni e delle notti dell’opera, anch’esso proprio di questa terza idea di tempo, che non è né aiòn né chronos, ma è ritmo e articolazione dell’energia creativa, crescita segreta e quasi biologica delle forme. Naturalmente ci sono ombre e ombre, come uomini e uomini. Alcune, particolarmente inquiete, considerano sbagliata la vita trascorsa coi piedi per terra: avrebbero potuto realizzare grandi cose e invece queste grandi cose non ci sono state, tanto che il mondo continua a sentirne la mancanza. Il modo difatti con cui le cose terrene sono come sono è del tutto parziale, cioè nessuno esclude che se fossero diverse potrebbero essere meglio e tutti sulla terra hanno l’aria di aspettare che questo succeda. Loro, le inquiete, hanno perso l’occasione e un’invisibile tramezza le separa dalle altre, quelle il cui destino è stato in direzione del più e non del meno o addirittura è stato un destino trionfale. Si leva nel silenzio la voce di Italo Calvino:
“Si dispiegavano tutte le forme che il mondo avrebbe potuto prendere nelle sue trasformazioni e invece non aveva preso, per un qualche motivo occasionale o per una incompatibilità di fondo: le forme scartate, irrecuperabili, perdute”.
Ogni ombra si muove in cerca dei suoi feti, delle sue incompiute, che arrischiano invano di emergere tra il disordine delle varianti a penna all’interno degli armadi-cassaforte, simili a spirali di insetti sulle foglie. C’è della bellezza in queste creature abortite, in questi personaggi non ancora condotti a compimento e abbandonati ai margini del niente. […] Siamo sempre lì, una bellezza prigioniera di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato; una distanza non sempre ipotizzabile fra prime stesure e opere giunte alla luce della stampa. Di qua ombre inquiete che vagano nelle sale del Fondo, di là embrioni, feti, aborti della scrittura sporchi di inchiostro, uccisi dalle cancellature. Allora il Fondo è un universo in miniatura, che abbraccia in un solo insieme le cose che ci sono e quelle fluttuanti tra il possibile e l’improbabile. Cosi cessa di essere un semplice Fondo, dove tutto il dentro è deposito e il fuori è vita. Diventa anzi specchio del mondo, dove quasi niente di quanto ha inizio giunge del tutto a compimento. Si muovono da padrone perché solo loro sanno che cosa veramente sia il passato, mentre la via d’uscita dei pensieri dei viventi è quasi sempre una via che segue la freccia diretta al dopo, non al prima. Per i viventi dentro l’unione di passato e futuro è il futuro che soverchia. Tutto sommato anche il Fondo con le sue quotidiane pulsazioni, con il ramificarsi per cui ogni ramo ne genererà altri sembra provare non esserci bene che non si proietti nel dopopresente […]»(pp. 5-9).
***
«[…] Si sa, ci sono cose che si presentano come segni di altre. Guai se ci si incaponisce a non vederli questi segni, anche se possono a prima vista apparire privi di senso. La vita quotidiana contiene un mucchio di avvertimenti che appaiono assolutamente privi di senso e carenti di realtà, ma che esistono tuttavia, è solo la ragione del loro esistere che rimane nell’ombra. Per questo non sempre ci si sente in grado di distinguere se un evento del passato che ricordiamo c’è stato o lo abbiamo sognato e trasformato in conformità dell’architettura interna del nostro io» (p. 111).
Maria Corti, Ombre dal Fondo, Einaudi, Torino 1997.
Quarta di copertina
Esiste a Pavia un luogo singolare, popolato da ombre immerse in una temporalità diversa da quella dei viventi. Quel luogo ha un nome e una storia: si chiama «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei» ed è nato e cresciuto grazie ai sogni e alla tenacia di Maria Corti. Lì si conservano e si studiano i testi autografi dei maggiori scrittori dell’Otto e del Novecento, lì i viventi intrecciano le loro storie con quelle di chi non è più al mondo ma vi ha lasciato una traccia. In questo testo creativo Maria Corti, nella sua doppia veste di narratrice e di studiosa, evoca vicende del Fondo, divenuto nel corso degli anni una delle più vive realtà culturali italiane. Ed evocando dispensa testimonianze e aneddoti di prima mano su famosi scrittori, vedove votate alla gloria letteraria dei propri mariti, banchieri generosi, personaggi maggiori e minori che si incrociano come in un testo sinfonico, con tempi, ritmi e movimenti musicali di volta in volta diversi. Ombre dal Fondo è esempio di un raro genere letterario, una sorta di sinfonia evocativa. Coagula con originalità riflessioni sulla letteratura e sulla «materia» di cui la letteratura è fatta: il manoscritto d’autore, con i tratti a penna che definiscono una grafia, le correzioni, a volte i disegni che lo corredano, diventa la chiave d’accesso per sondare quello che Maria Corti chiama «avantesto», cioè la scaturigine, esistenziale oltreché letteraria, dell’invenzione creativa. Perché «al tocco giusto dello sguardo, gli occhi guardano il visibile, le Carte, e allo stesso posto vedono l’invisibile». Ombre dal Fondo, infine, è anche una rassegna di interventi critici su una serie di scrittori fra i più amati dall’autrice, da Montale a Bilenchi, ad Amelia Rosselli. Una critica, quella disseminata in questo libro, che non ha mai nulla di astratto ma si nutre della presenza fantasmatica degli scrittori e delle loro Carte, come in un concretissimo colloquio che tocca nel profondo le ragioni della letteratura.
Maria Corti ha insegnato per molti anni Storia della lingua italiana e ha creato e diretto il «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei». Ha ideato riviste culturali come «Strumenti critici», «Alfabeta», «Autografo». Tra i suoi studi filologico-letterari ricordiamo Metodi e fantasmi (Feltrinelli 1969), Il viaggio testuale (Einaudi 1978), La felicità mentale (Einaudi 1983), I percorsi dell’invenzione (Einaudi 1993), a cui si aggiunge il volume teorico I principi della comunicazione letteraria (Bompiani 1976) . Ha diretto l’edizione critica delle Opere di Fenoglio (Einaudi 1978). Ha pubblicato alcuni libri di narrativa: L ‘ora di tutti (Bompiani 1996, 15a ed.), Il ballo dei sapienti (Mondadori 1966), Voci dal Nord Est (Bompiani 1986), Il canto delle sirene (Bompiani 1989), Cantare nel buio (Bompiani 1991). Nel 1995 è uscito il libro-intervista Dialogo in pubblico (Rizzoli).
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È indubbio che ogni epoca finisce per esercitare, se non una censura basata su codici tassativi e più o meno espliciti, almeno una deformazione congiunturale del testo. Un tempo si era soliti dire che il primo passo per una lettura adeguata di un’opera consisteva nel definirne il circolo ermeneutico: compito di un critico o di un lettore (suggeriva Leo Spitzer)[1] era quello di partire dalla periferia e di compiere in senso inverso, risalendo verso il centro, il percorso che era stato originariamente compiuto dal creatore. Una volta raggiunto il centro, si poteva ragionevolmente pensare di avere conquistato la verità dell’opera perché quella «verità», certa e rassicurante, esisteva e perché si riteneva che una strategia adeguata avrebbe permesso di conquistarne la chiave.
La fragilità del modello è risultata evidente appena si è messo in dubbio il postulato che l’opera in sé possedesse un significato unico, accertabile e metastorico, definito una volta per tutte dal suo creatore. Ci si è accorti allora che, nel corso della loro vita secolare, i testi sono stati sottoposti a una serie di deformazioni talvolta volontarie (come nel caso della censura), ma molto più spesso preterintenzionali e in nessun modo imputabili alla responsabilità del lettore. Il quale, anche quando si muove secondo i dettami della più rigorosa filologia, e – alle prese con un testo antico – utilizza con la massima attenzione e precisione il codice linguistico del tempo, non può elidersi, non può fare in modo che quel codice abolisca il suo codice. Ci sarà sempre, come ha detto Bachtin,[2] un inevitabile scarto linguistico che finirà col produrre deformazioni. C’è una coscienza di lettore, una coscienza ermeneutica che si misura con un’altra coscienza, «con la coscienza di un testo», e la tensione tra queste due coscienze porta inevitabilmente a disegnare un modello irriducibile al cerchio, ma che fa piuttosto pensare a un’ellisse.[3]
Mario Lavaggetto, Oltre le usate leggi. Una lettura del Decameron, Einaudi, Torino 2019, p. 26.
***
[1] L. Spitzer, Critica linguistica e storia del linguaggio, Laterza, Bari 1954, pp. 12 ss.
[2] M. Bachtin, Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle altre scienze umane, in Id., L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino 1988, pp. 291 ss.
[3] M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, p. 24.
Tanti incontri della nostra vita, tanti rapporti umani sono basati semplicemente sul fatto che si dà una moneta o una banconota a qualcuno in cambio di un francobollo o di un giornale, sanza sapere niente di quella persona.
Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti.
Avevo subodorato l’atmosfera di viltà, compromesso o di prudenti silenzi da una parte, di rudi abusi di forza, di una smania di arrivismo, di quella piatta demagogia accostata alle realtà dell’arbitrario dall’altra, che è, o finisce per essere, l’aria irrespirabile di tutte le dittature»
Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti.
Postfazione
di Marguerite Yourcenar
Una prima versione di Moneta del sogno, appena più breve, è apparsa nel 1934. L’opera attuale è ben più di una semplice ristampa o anche di una seconda edizione rivista e ampliata con brani inediti. Alcuni capitoli sono stati quasi interamente riscritti e a volte notevolmente sviluppati; in certi punti, i ritocchi, i tagli, le trasposizioni non hanno risparmiato quasi nessuna riga del vecchio libro; in altri, al contrario, grandi blocchi della versione del 1934 sono rimasti invariati. Per come si presenta oggi, il romanzo è quasi per metà una ricostruzione degli anni 1958-1959, ma una ricostruzione in cui il nuovo e il vecchio s’intrecciano a tal punto che è pressoché impossibile, persino per l’autore, distinguere in quale momento cominci l’uno e finisca l’altro.
Non solo i personaggi, i loro nomi, i loro caratteri, i rapporti reciproci, e lo sfondo in cui agiscono sono gli stessi, ma anche i temi principali e secondari del libro, la struttura, il punto di partenza degli episodi e il più delle volte il loro punto d’arrivo permangono immutati. Al centro del romanzo vi è sempre il racconto, per metà realistico, per metà simbolico, di un attentato antifascista a Roma nell’anno XI della dittatura. Come in precedenza, alcune figure tragicomiche più o meno legate al dramma o a volte affatto estranee a esso, ma quasi tutte più o meno consapevolmente in balia dei conflitti e degli slogan dell’epoca, si concentrano attorno a tre o quattro personaggi dell’episodio centrale. Al primo Moneta del sogno apparteneva anche l’intento di scegliere dei personaggi che a prima vista potrebbero sembrare sfuggiti da una Commedia, o meglio, da una Tragedia dell’Arte moderna, ciò al solo fine di porre subito in evidenza quanto ognuno di essi ha di più specifico, di più irriducibilmente singolare, e di lasciare quindi intuire quel quid divinum più essenziale della loro stessa persona. Lo slittamento verso il mito o l’allegoria era pressoché simile nelle due versioni, e ambiva ugualmente a confondere in un tutto unico la Roma dell’anno XI dalla nascita del fascismo e la Città in cui s’intreccia e si disfa in eterno l’avventura umana. Infine, la scelta di un mezzo volutamente stereotipato, quello della moneta che passa di mano in mano, per collegare tra loro episodi già imparentati dalla riapparizione degli stessi personaggi e dei medesimi temi, o dall’introduzione di temi complementari, esisteva già nella prima versione del libro, e la moneta da dieci lire rappresentava come qui il simbolo del contatto tra esseri umani sprofondati, ognuno alla propria maniera, nelle passioni e nella propria intrinseca solitudine. Quasi sempre, riscrivendo in parte Moneta del sogno, mi è capitato di dire, in termini a volte molto diversi, quasi esattamente la stessa cosa.
Ma, se è così, perché imporsi una ricostruzione tanto considerevole? La risposta è molto semplice. Nel corso della rilettura, alcuni brani mi erano parsi troppo deliberatamente ellittici, troppo vaghi, a volte troppo ornati, troppo contratti o troppo diluiti o anche, a volte, soltanto mal riusciti. Gli interventi che rendono il libro del 1959 un’opera diversa da quella del 1934 tendono tutti alla presentazione più completa, e dunque più minuziosa, di alcuni episodi, allo sviluppo psicologico più accentuato, a semplificare e a chiarire certi aspetti e, per quanto possibile, ad approfondirne e ad arricchirne altri. In diversi punti ho cercato di rafforzare la componente realistica, in altri quella poetica, il che alla fine è o dovrebbe essere la stessa cosa. I passaggi da un piano all’altro, le brusche transizioni dal dramma alla commedia o alla satira, frequenti nella prima versione, oggi lo sono ancora di più. Ai procedimenti già impiegati, narrazione diretta e indiretta, dialogo drammatico, e persino aria lirica, è andato ad aggiungersi in rarissime occasioni un monologo interiore che, lungi dal voler mostrare, come quasi sempre avviene nel romanzo contemporaneo, un cervello-specchio che riflette passivamente il flusso delle immagini e delle impressioni che scorrono, qui si riduce ai soli elementi basilari della persona, e pressoché alla semplice alternanza del sì e del no.
Potrei moltiplicare questi esempi, destinati a interessare chi scrive romanzi più di chi li legge. Mi sia almeno consentito di smentire l’opinione corrente secondo la quale riprendere in mano una vecchia opera, ritoccarla, a maggior ragione riscriverla in parte, è un’impresa inutile se non nefasta, inevitabilmente priva di slancio e di ardore. Al contrario, ho goduto dell’esperienza diretta e del privilegio di vedere questa sostanza fissata in una forma da così tanto tempo ridiventare duttile, di rivivere un’avventura da me immaginata in circostanze che neanche ricordo più, infine di ritrovarmi in presenza di certe vicende romanzesche come dinanzi a situazioni vissute in passato che, per quanto si possano esplorare ulteriormente, interpretare meglio o spiegare più diffusamente, non ci è più consentito cambiare. La possibilità di apportare all’espressione di idee o di emozioni che non hanno mai smesso di abitarci il beneficio di una più lunga esperienza umana, e soprattutto artigianale, mi è parsa un’occasione troppo preziosa per non essere accolta con gioia, e anche con una sorta di umiltà.
È soprattutto l’atmosfera politica del libro a non variare da una versione all’altra e così doveva essere, affinché questo romanzo ambientato nella Roma dell’anno XI restasse esattamente datato. Quei pochi fatti immaginari, la deportazione e la morte di Carlo Stevo, l’attentato di Marcella Ardeati, si collocano nel 1933, vale a dire in un’epoca in cui le leggi speciali contro i nemici del regime infierivano da alcuni anni, e molti attentati dello stesso genere contro il dittatore erano già avvenuti. Tutto ciò, d’altra parte, accade prima della spedizione in Etiopia, prima della partecipazione del regime alla guerra civile spagnola, prima dell’avvicinamento e del repentino asservimento a Hitler, prima della promulgazione delle leggi razziali e, beninteso, prima degli anni di confusione, di disastri, ma anche di eroica resistenza partigiana della seconda grande guerra del secolo. Era dunque importante non mescolare all’immagine del 1933 quella, ancora più cupa, degli anni che videro il compimento di ciò che il decennio 1922-1933 conteneva già in embrione. Conveniva lasciare al gesto di Marcella il suo aspetto di protesta pressoché individuale, tragicamente isolata, e alla sua ideologia quella traccia dell’influenza di dottrine anarchiche che, sino a tempi ancora recenti, hanno così profondamente segnato la dissidenza italiana; bisognava lasciare a Carlo Stevo il suo idealismo politico in apparenza superato e in apparenza futile, e al regime stesso quel presunto aspetto positivo e trionfante che a lungo ha costituito l’illusione non tanto, forse, del popolo italiano quanto dell’opinione pubblica straniera. Una delle ragioni per le quali Moneta del sogno è parso degno di una nuova edizione è che fu a suo tempo uno dei primi romanzi francesi (il primo, forse) a guardare in faccia la vacua realtà che si celava dietro la tronfia apparenza del fascismo nel preciso momento in cui tanti scrittori in visita nella penisola si compiacevano nell’incantarsi ancora una volta dinanzi al tradizionale pittoresco italiano o nel guardare ammirati ai treni che partivano in orario (almeno in teoria), senza degnarsi di conoscerne la destinazione.
Come tutti gli altri temi del libro, e forse anche di più, il tema politico si ritrova rafforzato e sviluppato nella versione attuale. L’avventura di Carlo Stevo occupa un maggior numero di pagine, ma tutte le circostanze indicate sono quelle che figuravano già brevemente o implicitamente nella prima edizione. Le ripercussioni del dramma politico sui personaggi secondari sono più marcate: l’attentato e la morte di Marcella sono commentati en passant (cosa che non accadeva in precedenza) non solo da Dida, la vecchia fioraia del quartiere, e da Clément Roux, il viaggiatore straniero, ma anche dalle due sole nuove comparse introdotte nell’economia del libro: la proprietaria del caffè e il dittatore stesso, che qui d’altronde permane essenzialmente qual era nel vecchio romanzo, un’ombra enorme proiettata sul contesto; ora la politica inebria l’alcolista Marinunzi quasi quanto la bottiglia. Infine, Alessandro e Massimo, ognuno alla propria maniera, si sono rinsaldati nella loro veste di testimoni.
Forse nessuno si stupirà che nella versione attuale la nozione del male politico giochi un ruolo più considerevole rispetto alla precedente, né che Moneta del sogno del 1959 sia più amaro o più ironico di quello del 1934, che già lo era. Ma, nel rileggere le nuove parti del libro come se si trattasse dell’opera di un altro, mi colpisce particolarmente che il contenuto attuale sia al tempo stesso un po’ più aspro e un po’ meno cupo, che alcuni giudizi sul destino umano siano forse un po’ meno categorici e tuttavia più definiti, e che i due principali elementi del libro, il sogno e la realtà, cessino di essere due entità distinte, pressoché inconciliabili, per fondersi maggiormente in quel tutto che è la vita. Le correzioni di pura forma non esistono. La sensazione che l’avventura umana sia ancora più tragica, se mai è possibile, di quanto già sospettassimo venticinque anni or sono, ma anche più complessa, più ricca, a volte più semplice, e soprattutto più strana di quanto avessi già tentato di dipingerla un quarto di secolo prima, è stata forse la ragione che più di ogni altra mi ha indotta a riscrivere questo libro.
Mount Desert Island, 1959
Marguerite Yourcenar, Moneta del sogno, Bompiani, 2017, pp. 191-196.
Quarta di copertina
Roma, 1933. Il romanzo italiano di una grande scrittrice
Considerato il romanzo italiano di Marguerite Yourcenar, “Moneta del sogno” è il racconto, in parte realistico e in parte simbolico, di un attentato antifascista nella Roma dell’anno XI della dittatura, in una giornata di primavera. Scritto nel 1933 e rielaborato interamente nel 1959, il romanzo si snoda in nove episodi intrecciati l’uno all’altro da una moneta d’argento da dieci lire che passa di mano in mano da un personaggio all’altro come in una messinscena teatrale o cinematografica. Iniziato durante una visita in Italia, durante la quale l’autrice fu spettatrice della Marcia su Roma e delle tensioni che seguirono il delitto Matteotti, “Moneta del sogno” si distinse fra tutte le opere letterarie dell’epoca per la forte presa di posizione contro l’immagine che la propaganda ufficiale dava del nostro paese e per l’intuizione dei fatti gravi e irrimediabili che incombevano sull’Europa. Un romanzo importante da un punto di vista letterario e politico, da scoprire o riscoprire oggi in una nuova traduzione che ne restituisce per intero tutta la potenza.
Non regalate terre promesse a chi non le mantiene.
Fabrizio De Andrè, Rimini
Ci incontrammo in un’assemblea alla Sapienza, alcuni anni dopo l’uscita del libro. Io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: “Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”.
Alberto Asor Rosa, parlando di Pasolini
Inizierei alla maniera dei recensori autentici. Simone Nebbia, Rossoantico, per i tipi di Giulio Perrone Editore, I edizione gennaio 2021, nella collana “Fiamme”. Brossura in 8° con ali, pp. 204. In quarta di copertina è riportata una citazione da p. 59:
Vogliamo tutto. E lo vogliamo adesso. Ma vogliamo tutto o tutto quel che resta?
Nella prima parte il lettore riconoscerà il riferimento al romanzo di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, del 1971, che tentava, in una dimensione avanguardistica, un primo bilancio della stagione di lotte operaie alla fine degli anni Sessanta che sarebbe stata definita “autunno caldo”. Nella quaestio della seconda, Simone Nebbia, rovesciando l’assunto, introduce l’argomento di uno dei rari libri non banali che affollano gli scaffali delle librerie nell’anno in cui cade il centenario della fondazione del maggior partito comunista europeo, quello italiano. A bene vedere il mio discorso su Rosso antico potrebbe terminare qui se non fosse che tempo fa uno scrittore di successo, dopo aver avuto la fortuna di esaminare un manoscritto di Simone Nebbia, decretò: “Molto bene, ma il fatto è che ti sforzi di dire la tua sul mondo invece di raccontarlo”. Peccando di modestia, Nebbia incassò la lezione e si convinse che, in fondo, lo scrittore di successo avesse ragione. A me sembrò un vago pretesto d’uso per un rifiuto gentile, pescato magari da qualche pagina di I libri degli altri, di Italo Calvino, e mescolato con un po’ d’invidia perché lui, lo scrittore di successo, un libro così bello non lo aveva mai scritto. Ma non lo dissi a Nebbia, allora più giovane e suscettibile di adesso. Lo tenni per me confidando nella galanteria del tempo e in giudizi meno lividi. Era il 2009, mi pare, il manoscritto non era quello di Rossoantico e Simone Nebbia veniva da un periodo gravoso sul piano privato e sociale che cercava di scontare dentro una rivolta studentesca che gli aveva ispirato quelle pagine rifiutate. Da allora Nebbia ha fatto diverse cose, ha avuto e saputo sfruttare molte occasioni per “dire la sua” sul mondo attraverso testi e critiche teatrali, versi, canzoni, spettacoli, al punto che chiamarlo esordiente suona un tantino improprio. Ad ogni modo, è bello aprire un libro e scoprire che non parli di pandemia o di camorra, di caporalato o di amori criminali, temi di per sé serissimi quando non vengano affrontati con quella morbosità cronistica – più per malafede dell’imprenditoria editoriale che per scelta libera degli autori – dalla narrativa contemporanea, quel fare le pulci a realtà che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, quel mostrarne il verso e il recto per poi, al momento opportuno, tirarsi indietro e avvertire: io vi ho solo mostrato ciò che accade, a voi il giudizio morale. No, non è così che si fa. Anzitutto perché se ti metti su quella strada e non sei Roberto Saviano rischi di diventarne uno stanco epigono; in secondo luogo perché romanziere e poeta non sono costretti ad essere anche sociologi, se è vero, come sosteneva qualcuno, che l’arte non ricerca la realtà ma pone le condizioni per ricrearla. E non c’è nulla di più artistico (e di più complesso) che creare la realtà dalla realtà stessa, vale a dire ingaggiando una strenua battaglia contro una micidiale forza centripeta. Ecco che Simone Nebbia, volgendo le spalle a un passato storico che ha perfettamente assimilato e impastandosi al presente, crea in Rosso antico una realtà romanzesca dove il simile e il verosimile, la fonte e la sua messa in scena, si inseguono equiparandosi, alla maniera di un narratore onnisciente. Sì, perché la vicenda che trova spazio in Rosso antico è quanto di più antiévénementiel non si potrebbe immaginare. L’avvenimento è il Sessantotto, la braudeliana increspatura di superficie che un lento lavorio sottomarino ha preparato, ingigantito, e finito per sommergere del tutto generando una risacca vertiginosa (un tempo la si sarebbe detta lunga durata) che giunge fino al Duemilaotto, alle plaghe di una generazione, tra il dissoluto e il devoto ai paterni altari, impegnata in una mobilitazione studentesca ribattezzata “l’Onda” che ebbe il grande merito di arrivare dopo un lungo riflusso (intervallato da brevi esperienze, ricordiamo almeno la “Pantera” nel 1990) e il demerito (felix culpa) di non essere divenuta una òla per mancanza di ascolti, di credito, di sponde da parte di padri e quadri. Differenze, a volte, sottili. Ma come raccontare un momento storico del quale tutti si sono sentiti in dovere di parlare, con cui tutti si sono misurati con esiti perlopiù deludenti, come mostrare l’essenza di un coriaceo rimosso che ha avuto il destino di rimanere sulla bocca di ognuno? Con grande finezza, Nebbia sceglie di affidare al Sessantotto il ruolo che gli compete nella storia italiana degli ultimi cinquant’anni, quello del Grande Assente o del Grande Incompreso, del mito per sopravvivere. A cosa? Alla sua contropartita storica. Il Sessantotto, certo. Ma pochi mesi dopo, il 1969 ci presentava già un altro Paese, un’altra storia: Piazza Fontana e lo slittamento della lotta dai cortei unificati di studenti e operai all’asfalto delle strade coi feriti a vita o i morti ammazzati, alla clandestinità, alle leggi speciali e agli ergastoli piovuti giù a pioggia e mitigati soltanto dalla dissociazione. Pochi mesi, quindi, e si era già in viaggio verso la fine delle rivendicazioni salariali e studentesche, in una parola: di “classe”. Fino alla pietra tombale di qualunque possibilità di cambiamento radicale degli assetti sociali e culturali rappresentata dalla marcia cosiddetta dei “quarantamila” alla Fiat. Era il 1980.
Per non parlare di coloro (veramente tanti) che verificata la propria coscienza civica sulle barricate sessantottesche, si ritrovarono, di lì a pochi anni, perfettamente integrati in quell’establishment che avevano avuto in animo di ribaltare, vincenti o ripescati di una lotta che si era fatta puramente individuale, tutta interna alla borghesia figlia della borghesia:
“Ma avevamo ragione! […] Lo sentivamo il bisogno di collettività, di incidere nella relazione, inventare contesti, mescolare classi diverse e finalmente uscire dai blocchi della provenienza culturale”.
“Tutto giusto, ma noi oggi invece? Cosa siamo diventati?” (p. 142)
Pochi sono quelli che, smarrito il senso di un’appartenenza nella quale hanno giocato tutta la propria vita, rimangono di colpo maestri senza allievi, afasici oratori o scrittori senza lettere. È ciò che accade al sessantenne Luca Salomè, primo protagonista del romanzo, ordinario di Storia contemporanea e autore di libri di riferimento per generazioni di militanti e studiosi. Una mattina dell’inverno più freddo del secolo, Salomè, dalla scrivania del suo comodo appartamento si accinge a vergare, su commissione dell’editore, le pagine definitive sulla stagione sessantottina accorgendosi di non essere in grado di cominciare. Le parole non arrivano, i pensieri urtano con un sentimento profondo d’inutilità, le idee restano disarticolate (termine tristemente in voga negli anni appena successivi a quel fatidico anno). Dov’è finita quella storia nostra – si chiede Salomè – se oggi, sempre più spesso, non mi riesce che pensarla come mia?
E dunque si trovò costretto a costatare la secchezza dell’inchiostro: la mano destra, pure inarcata a covare il foglio, non faceva nascere nulla, mentre la sinistra aveva smesso ogni arabesco lasciandosi prendere dalla stanchezza a centro pagina; il professor Salomè chiuse le penne e le lasciò, parallele a farsi coraggio, in schiera militare, chiuse nel loro mutismo. (pp. 97-98)
Inizia qui una ricerca che somiglia alla discesa agli inferi di una vita illusa di essere stata spesa al meglio, nella piena onestà intellettuale, a viso e mani aperte dentro un Partito un tempo forte e strutturato – ma, è il caso di sottolinearlo, tutt’altro che vicino al Movimento, nel ’68 come in seguito -, ora disciolto nel patteggiamento storico (in ritardo di trent’anni) con un’annichilente voglia di Centro. Come in una famiglia sopravvissuta alla perdita di un figlio e che ogni dodici mesi si ostina, nelle cene silenziose di televisione, a immaginarne il compleanno. Cos’altro, in fondo, le resta? Il secolo breve del comunismo italiano, livornese per nascita, non per costumi. Come quando Salomè visita la vecchia sede del Partito, ora cantiere ridipinto di “un bianco così bianco da abbagliare” (p. 72), e a terra calcinacci di voci, di riunioni fumose e di sogni collettivi. Il bianco, vuoto metaforico che contiene, assorbendoli, tutti i colori, bianco come lo sfondo di uno scudo crociato, bianco come la resa, come i morti sotto i lenzuoli. Chi, al contrario, non si è fatto fagocitare dall’erpice del “centralismo democratico” è l’amico e sodale di gioventù Bartolomeo Zerilli, come Salomè docente di Storia ma nell’antinferno di color che son sospesi, il limbo dei liceali. Zerilli ha salvaguardato le sue idee dietro la pelta del disincanto metodico, accettando che ad uccidere la vecchia casa di giovanili militanze sia stata proprio la sua stessa covata di figli prediletti dietro cui non è difficile intuire la nomenklatura degli ultimi anni del PCI e dei primi anni della svolta socialdemocratica. Con l’amico di sempre, protetto dal suo amato stinto maglione rosso a collo alto, Salomè tenterà, in una estemporanea gita al mare, l’estremo recupero di una storia comune uscita fuori vena, per capire se davvero quella generazione abbia poi ottenuto qualcosa o solo il suo disavanzo, pagato in sovrapprezzo al botteghino di un futuro narciso e postideologico.
Dura meno di un giorno, quindi, il Sessantotto smarrito di Luca Salomè, dall’alba al tramonto, correndo verso un esito imprevedibile mentre a dare continuità a quell’increspatura di superficie, nel quarantesimo anniversario di Valle Giulia, è uno studente nostro contemporaneo, che sta tenendo un diario fratello discreto cui affidare frammenti di un discorso politico ed esistenziale durante l’Onda. Si chiama Giovanni Praga, un po’ Emilio scapigliato tardoromantico, un po’ Drogo attendente eterno di nemici che non arrivano:
Siamo una generazione formata per perdere, la nostra coscienza civile è ferma allo scambio delle figurine, ci hanno cresciuti a non accettare caramelle da nessuno, neanche da un parente o un vicino di casa, così adesso non sapremmo riconoscere un essere umano neanche in un documentario di Quark. (pp. 75-76)
Si resta impressionati dalla saggezza di questo ventenne, di sinistra senza partito, e pensiamo con dolore a quanti come lui abbiamo perso per strada, a quanti di lui eravamo noi, a quanto non lo siamo mai stati, alle scintille lasciate a spegnersi per stanchezza o disattenzione. Praga, che dalla pancia del corteo segue ne percorre le zone esterne, ne disegna i percorsi, ne tiene ancora un capo, ancora una coda, necessario come un filosofo che sussurra dubbi dove altri gridano certezze.
Com’era? Noi vogliamo tutto. E lo vogliamo adesso […] E per volerlo adesso bisogna andare chissà dove abbiano delocalizzato. Dispersivo seguire il lavoro che sguscia da tutte le parti come un pesce di fiume che proprio non ci vuole stare. Non è sparita la lotta, semmai – peggio – è sparito il campo di battaglia. (pp. 59-60)
La sua sul mondo, ricordate? Praga e Salomè, destinati a sfiorarsi, nelle malebolge dello StudiumUrbis, senza reciproca memoria, senza legittimazione o nell’ammirazione unilaterale del giovane per il maturo, tra l’abisso del reale e l’abisso dell’ideale, tra la pràxis e la theôrēsis, in una storia che consente asimmetriche sovrapposizioni ma mai saldature. Leggevo il diario di Giovanni Praga, novello Chateaubriand a Waterloo, e ricordavo le mie peregrinazioni di tesista, in quei corridoi, secoli fa preposti alla discussione critica del sapere; leggevo e ricordavo, lì, al secondo piano della Facoltà di Lettere, un uomo mai visto né ascoltato (una stanzetta con targa annessa ne serba inadeguata memoria). Si chiamava Gustavo Vinay, emerito docente che nel 1967, alla fine di un’epoca storica, si rivolgeva ai suoi maestri degli anni Trenta e Quaranta, di un’università ancora imbevuta di quel crocianesimo sceso dall’alto come asserzione di verità, come religione, a quei professori amati e contestati ma certo infinitamente più grandi dei nostri: “Io ero sangue del vostro sangue, sangue della vostra storia-che-ha-un-senso e per voi io crepavo dentro prima di crepare fuori”.[1] A noi restavano invece quelli che volevano insegnarci l’Accademia coi figli sistemati nei migliori college statunitensi, quelli della ricreazione finita, quelli di Piazza Navona che “con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai!”, quelli dello stringiamci a Coorte di assistenti e dottorandi di cui, forse, come diceva il celebre film, ne rimarrà soltanto uno, dietro i volti dei Salomè e dei tanti più tristi di lui poiché in carne e ossa. Gli intellettuali organici della dimenticanza. Non si leggono perciò senza saltare dalla sedia le parole che Giovanni Praga sembra aver strappato da ogni nostro silenzio di ex giovani ed ex lavoratori, ex studenti ed ex laureati:
Voi che occupate e gestite il potere, voi che conservate il vostro tempo come unico e ultimo degno, voi che pian piano morite non lasciando traccia, non siete che i figli rimasti, quelli che hanno conquistato posizioni dal disarmo degli altri, che hanno occupato posti che non gli spettavano, nutriti di sangue altrui. (p. 165)
Meditate che questo è stato. Davanti a cotanto inquisire solo il bacio di un cristo dostoevskiano potrebbe redimervi. Ho toccato fin troppi punti, rapsodicamente e in modo confusionario. Me ne scuso ma Rosso antico è davvero un libro gremito come un termitaio, una di quelle opere che quando ne parli non sai come chiudere né vorresti. Dirò quindi che ciò che infine lo rende uno dei testi più originali degli ultimi anni è il linguaggio, l’ossessione di Giovanni Praga di “contemplare nella forma la bontà dei contenuti” (p. 89), lo strumento che gli scrittori usano per rimodellare il mondo, la guerra senza quartiere con le parole, il sacrificio di indietreggiare affinché vincano loro, o più semplicemente ciò che i critici chiamano stile. Simone Nebbia, come una forza del passato, raccoglie una tradizione sparita e si pone tra gli ultimi stilisti della narrativa novecentesca. Alto, immaginifico, raffinato fino alla poesia, ricercato senza cedere all’autocompiacimento e a quello “scrivere oscuro” di cui Manganelli tesseva l’elogio. Un recensore, dalle colonne di un importante settimanale, ha parlato per Rosso antico di “una prosa lavorata”. Giungerei a dire fulgida, come mostra fin da subito quel Prologo vero e proprio pezzo di bravura, nel gioco elegante di citazioni implicite che vanno dall’incipit leopardiano: “Il vento è freddo in questa notte di mezzo inverno” (p. 9), alla descrizione di una metropoli che sdorme, avrebbe detto uno degli eteronimi di Pessoa, Bernardo Soares, quando Nebbia scrive della
realtà ululante dei supermercati chiusi ma con la luce ancora a giorno, telecamere nascoste, cimici, intercettazioni satellitari, i circuiti chiusi delle banche, grida nella notte questa città tappezzata di manifesti di propaganda elettorale, concerti, spettacoli, svuotacantine, oscuravetri attaccati ai semafori insieme con gli adesivi di battaglie perse prima ancora di essere combattute […] (pp. 10-11)
Un turbinio reso visibile dalla camera a schiaffo sulla penna di Nebbia, famelico e vigliacco brulichio di mosche che si riproducono per partenogenesi dalle crisi del capitalismo con evidente, sentito omaggio all’ultimo Paolo Volponi. Per chiudersi, e non è che l’inizio, con echi gaddiani ma spezzati come sul pentagramma di un verso:
Attorno la notte. Sfinita, quasi l’alba. (p. 11)
Una scelta stilistica, sia chiaro, che non nasce dalla necessità (pur legittima) di mettersi in mostra da parte dello scrittore emergente ma che costituisce una consustanza del capolavoro e della materia di cui Nebbia s’è fatto scriba. Accettando, anzi, il rischio che tale partitura così impervia renda la lettura a tratti impegnativa.
Che questo pericolo venga recepito come valore aggiunto di un libro di cui si sentiva da troppo tempo il bisogno è infine mia speranza.
Daniele Orlandi
[1] G. Vinay, Pretesti della memoria per un maestro, Spoleto, CISAM, 1993, p. 125.
Simone Nebbia (1981) è un critico teatrale, e ha una formazione interamente letteraria. Animatore del quotidiano di informazione teatrale online www.teatroecritica.net, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de «I Quaderni del Teatro di Roma», periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume Il declino del teatro di regia (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa) e collaboratore della rivista Orlando (Giulio Perrone Editore) diretta da Paolo Di Paolo. Ha collaborato con il programma di Rai Scuola Terza Pagina. Nel 2013, per l’editore Titivillus, ha pubblicato il volume Teatro Studio Krypton. Trent’anni di solitudine. Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore.
«Lo iato teorico è assoluto. La frattura, di fatto, decisiva. Tra il mondo liberal-capitalista, il nostro mondo, e il presente dell’esigenza comunista (presente senza presenza) non c’è che il tramite di un “dis-astro”, di un cambiamento d’astro. […] C’è domanda, eppure nessun dubbio; c’è domanda, ma nessun desiderio di risposta; c’è domanda, e nulla che possa essere detto, ma solo da dire».
Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, il Saggiatore, Milano 2021.
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