Josè Saramago (1922-2010) – Ecco cos’hanno di simpatico le parole semplici, non sanno ingannare.
Ecco cos’hanno di simpatico le parole semplici,
non sanno ingannare.
Josè Saramago, Saggio sulla lucidità, Feltrinelli, Milano 2013.
«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Josè Saramago, Saggio sulla lucidità, Feltrinelli, Milano 2013.
Cesare Pavese, La bella estate [1949; nel 1950 è vinvitore del “Premio Strega”], Einaudi, Torino 1960.
«Ed ecco che essi ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece!».
«Io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un “tollerato”. La tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. E questo perché una “tolleranza reale” sarebbe una contraddizione in termini. Il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che lo si “condanni”. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. Infatti al “tollerato” – mettiamo al negro che abbiamo preso ad esempio – si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua “diversità” – o meglio la sua “colpa di essere diverso” – resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria coscienza il sentimento della “diversità” delle minoranze. L’avrà sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi –certo – il negro potrà essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori – certo – dal “ghetto” fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era stato assegnato. Tuttavia la figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. II negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro un “ghetto mentale”, e guai se uscirà da lì. Egli può uscire da lì solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè della maggioranza. Nessun suo sentimento, nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere “tinta” dall’esperienza particolare che viene vissuta da chi è rinchiuso idealmente entro i limiti assegnati a una minoranza (il ghetto mentale). Egli deve rinnegare tutto se stesso, e fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria».
Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane, Garzanti, Milano 2015.
Gilbert K. Chesterton, Tremendous Trifles [1909], The Floating Press, 2011.
«Si lasciò trasportare dalla sua convinzione che gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, ma che la vita li costringe ancora molte altre volte a partorirsi da sé».
Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera, Mondadori, Milano 2016.
«Non solo la scrittura influenza la lettura, ma questa condiziona quella: ne determina infatti il significato. Affermare, come fa Fortini, che l’opera crea il suo pubblico meno di quanto il suo pubblico non la crei, vuol dire che il significato di un’opera è inseparabile dal processo della ricezione e che la storia della letteratura dovrebbe essere soprattutto storia della trasmissione e della ricezione, della fortuna e dei gusti, dei canoni e del pubblico, insomma dei processi di valorizzazione e attualizzazione dei testi».
Romano Luperini, Su Fortini saggista e teorico della letteratura, 2005. Cfr. Romano Luperini, La critica secondo Fortini.
Cfr., anche, Romano Luperini, Il futuro di Fortini. Saggi, Manni, 2007.
[In questo volume Romano Luperini raccoglie le testimonianze di una lunga fedeltà: venticinque anni di recensioni, articoli, interventi, saggi dedicati a Franco Fortini, di cui è stato amico e interlocutore (talvolta anche polemico) per trent’anni, dal 1965, quando l’ha conosciuto poco dopo essersi laureato, fino alla morte del poeta, ed era ormai suo collega all’Università di Siena. Li ha divisi il tempo di una generazione, li ha uniti la stessa passione politica. Gli interventi qui riuniti definiscono il profilo di Fortini, ma ne colgono anche aspetti diversi, con il commento di singole poesie, l’esplorazione di alcuni temi (soprattutto quelli della memoria e dell’oblio, del passato e del futuro) e l’analisi delle posizioni teoriche in campo critico-letterario. In particolare Fortini viene considerato in contrappunto rispetto ad altre due personalità – quelle di Pasolini e di Calvino – con cui è stato protagonista del dibattito letterario negli anni Sessanta e Settanta. Ne esce così un affresco storico delle patrie lettere nel secondo Novecento, quando gli scrittori erano ancora dei grandi intellettuali capaci di scrivere poesie o romanzi, ma anche di elaborare saggi critici, filosofici, politici, storici, sociologici, e di occupare una posizione di primo piano nella formazione dell’opinione pubblica e della cultura nazionale.].
«Il denaro, in qualunque modo lo si possieda od ottenga, è sempre ed esattamente pagato con la perdita di qualche cosa di vivo».
Mario Soldati, Le lettere da Capri, Oscar Mondadori, Milano 1976, p. 208.
«È l’avidità del guadagno che ha fatto uscire le arti di moda. Nel buon tempo andato, quando gli uomini amavano ancora la verità senza orpelli, allora le arti fiorivano veramente …
Non vi meravigliate se la pittura non è piu in auge: ora che dèi e uomini insieme cospirano a glorificare un mucchietto d’oro».
Gaio Petronio Arbitro, Satyricon, capitolo 88, Rizzoli, Milano 1987.
Prima di essere celebre, Rodin era solo. E la celebrità, una volta sopraggiunta, lo ha reso forse ancora più solo. […] L’opera di cui mi accingo a parlare è andata crescendo attraverso gli anni e cresce ogni giorno. come una foresta, incessantemente. Ci si aggira tra i suoi mille oggetti sopraffatti dalla ricchezza dei reperti e delle invenzioni che la compongono, e istintivamente si cercano le mani che hanno dato forma a questo mondo. Ci si rammènta quanto piccole siano le mani dell’uomo, come si stanchino presto e quanto sia breve il tempo loro concesso per agire. E nasce il desiderio di vedere le due mani che hanno vissuto come cento, come un popolo di mani destatosi prima dell’alba per incamminarsi sulla lunga via che conduce a quest’opera. Ci si chiede chi sia il dominatore di quelle mani. Che uomo è mai? La sua vita è una vita che non si lascia narrare. Ha avuto un inizio e procede, procede addentrandosi sempre più profondamente in una grande vecchiaia, e per noi è come se fosse trascorsa da molte centinaia di anni. Non ne sappiamo nulla. Avrà avuto un’infanzia, comune, un’infanzia povera, oscura, indagatrice e incerta. E forse ha ancora quest’infanzia, perché -come dice sant’ Agostino -dove mai potrebbe essersi persa? Forse ha ancora tutte le ore trascorse, le ore del dubbio e le lunghe ore dell’indigenza, è una vita che non ha perduto né dimenticato nulla, una vita che si è raccolta attorno al proprio fluire. Forse non ne sappiamo nulla. Ma solo da una simile vita, pensiamo, sono potute scaturire l’opulenza e la sovrabbondanza di questo operare, solo una simile vita, in cui tutto è vivo e presente nello stesso istante e nulla si è perduto, può conservarsi giovane e forte ed ergersi ripetutamente in opere somme. Forse verrà un tempo in cui per questa vita si inventerà una storia, con i suoi intrecci, con i suoi episodi, con i suoi dettagli. E saranno frutto di invenzione. Si racconterà di un bambino che spesso trascurava il cibo ritenendo più importante intagliare oggetti in un povero legno con un coltello spuntato, e nei giorni del giovane si vorrà inserire un qualche incontro implicante la promessa di una futura grandezza, una di quelle profezie a posteriori tanto popolari e commoventi. Potrebbero prestarsi adeguatamente le parole che, quasi cinquecento anni fa, si dice un monaco abbia rivolto al giovane Miche! Colombe: «Travaille, petit, regarde tout ton saoul et le clocher à jour de Saint-PoI, et les belles oeuvres des compaignons, regarde, aime le bon Dieu, et tu auras la grace des grandes choses». «E avrai la grazia delle grandi cose». Forse un sentimento interiore ha parlato così al giovane Rodin, ma con un tono infinitamente più sommesso delle parole del monaco, ad uno dei primi bivi della sua vita. Perché egli cercava proprio questo: la grazia delle grandi cose. […]
Ecco dunque un compito, grande quanto il mondo. E colui che lo affrontò fissandolo con lo sguardo era uno sconosciuto dalle mani che cercavano pane, nell’oscurità. Era totalmente solo, e se fosse stato un vero sognatore avrebbe potuto sognare un sogno bello e profondo, un sogno che nessuno avrebbe compreso, uno di quei sogni interminabili sui quali una vita può scorrere con la rapidità di un giorno. Ma questo giovane uomo che si guadagnava da vivere nella manifattura di Sèvres era un sognatore il cui sogno saliva lungo le mani, e subito iniziò a dargli una forma. Sapeva da dove fosse necessario cominciare: una pacatezza radicata dentro di lui gli mostrò il saggio cammino. Già qui si rivela il profondo accordo di Rodin con la natura, e su questo il poeta Georges Rodenbach, che lo definisce apertamente una forza naturale, ha saputo dire parole così belle. E in realtà c’è in Rodin una misteriosa pazienza che lo rende pressoché anonimo, una silenziosa, superiore longanimità, come un riflesso della grande pazienza e bontà della natura che si origina dal quasi invisibile per procedere, assorta e severa, nel suo lungo cammino verso la profusione. Anche Rodin non si misurò subito con l’albero. Iniziò dal seme, per così dire sottoterra. E questo seme crebbe verso il basso, affondò le radici sempre più nel profondo, si insediò prima di iniziare la lenta salita verso l’alto. Ci volle tempo, un lungo tempo. «Non bisogna avere fretta», diceva Rodin ai pochi amici a lui vicini, quando lo incitavano.
Rainer Maria Rilke, Rodin, trad. di C. Groff, SE, Milano 2004, pp. 13-19.
Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti
«Ci sono movimenti che risvegliano il passato. Sbuccio lentamente una mela con un coltellino tascabile (un tempo si diceva coltellino da tasca), osservo come si arrotola la spirale della buccia, asciugo il succo di mela sulla lama. La mia mano ricorda la mano di mio padre, che ricorda quella di mio nonno. Non sono io, è la mano che ricorda. Non sono io, è mio nonno che sbuccia la mela. E tutti e tre la inghiottiamo contenti».
Georgi Gospodinov, Tutti i nostri corpi. Storie superbrevi, trad. di G. Dell’Agata, Voland, Roma 2020, p. 10.