CHANT XVIII. SYRIE / FRANCE. Laylâ (Nuit Debout)
La nuit migrante, de Syrie réfugiée à Paris, souvit pour travailler, travaille pour souvivre. Comme tous ses semblables – hominidés invertébrés – elle rampe. Dans sa cave, athanor, où elle dort, elle traverse un œuvre au noir qui la conduit à voir : la substance automatique régnant sur le monde. La nuit accouche, par son travail, de sa colonne vertébrale – et debout, devient Laylâ, sort de sa cave, et retrouve au dehors une foule hors des caves.
“L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! E si compiano il reale e la materia e l’empirico, asintoticamente. Eccolo lì l’ominide, eccolo qui l’umano. Finito l’ominide, l’umano è infinito”.
IV
Il giorno dopo, la mattina, fece notte. La minuscola finestra a feritoia era otturata da calcinacci. La notte percepì, per strada, dei fracassi – di distruzione? di costruzione? di barricata? Si sarebbe detto: alla peggio degli scontri, alla meglio l’insurrezione, oppure una rivoluzione.
Un incendio si dichiarò nel suo edificio, scivolò nel suo scantinato, sprofondò l’edificio, la notte divenne totale, più nera del nero. E il suo luogo di sottovita si fece luogo della sua morte, la sua tomba, athanor, ermeticamente chiuso, illuminato soltanto, totalmente, dall’incendio. Potendo muoversi appena, la notte si carbonizzò, e divenne massa nera.
Ed è come morta la notte, e si sente come morta la notte, ma il suo fisico e il suo psichico sono vivi, persino in suspense. Si annienta l’attività della coscienza del fuori, alla coscienza non giunge nessuna immagine del fuori.
Dopo un po’, dalla minuscola feritoia, attraverso i calcinacci, colarono all’improvviso due acidi, nitrico e cloridrico, che inondarono l’athanor: quella massa nera che era fu tormentata e umiliata, si dissolse, divenne liquido nero.
La notte trova e secerne il segreto di tenere la sua coscienza sveglia nel processo dissolutivo: vive una morte ermetica – morte volontaria e morte vissuta, salvezza gratuita.
Dopo un po’, una volta espulso il doppio acido, quella pozza nera che era coagulò, ridivenne massa nera. Ma l’acido rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse; e lei, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse coagulò. E gli acidi non rivennero più.
Ora, la morte volitiva e attiva è l’unico mezzo, per un’anima, di trasformarsi, cambiare forma. Questi stati dello spirito modificano le relazioni tra le parti dell’anima unita.
Dopo un po’, si intenebrò, si imputridì e si addensò, attraversò gli inferi, vi appagò i suoi appetiti, avidità di vanità, soddisfò i vizi suoi tutti, e fu punita per i vizi suoi tutti, in se stessa, per se stessa, per processo naturale, castigo e giustizia immanenti, annientò i suoi appetiti, avidità di vanità, vomitò i suoi vizi, il suo esser nero, ritrovò dei colori, colore dopo colore: e con il viola, divenne unicolore, con il blu, bicolore, con il verde, tricolore, il giallo, quadricolore, l’arancione, quinticolore, il rosso, esacolore.
Dopo un po’, si congelò, si essiccò e sbiancò. E allora, alla fine, avendo raggiunto l’oro della fine, avendo raggiunto la fine dell’oro… gli occhi della notte si aprono. Gli occhi della notte si aprono, un istante, e per l’eterno. E la notte, immobile, non fu mai così mobile.
Gli occhi della notte si aprono, per la prima volta nella sua sottovita che abbandona in questo istante, la notte adocchia là, là nello scantinato e nel mondo, ovunque in alto ovunque in basso, a sinistra a destra, la notte adocchia là, decidendo tutto e contro tutto, disorientando ogni minimo gesto e opinione ominidi, disaccordando tutte le città, le società, le produzioni, degenerando i terrorismi e le guerre, la notte adocchia tutto quello che i filopseudosofi ignavi non vogliono vedere, ma che i filosofi sanno vedere, la notte adocchia là, in questo mondo dove la legge vertebrale vale poco, il falso idolo invertebrato vale su tutto, la notte adocchia là, avvolgendo il mondo, invadendo il mondo, dominandolo, avvilendolo, e dominando tutti quei – molto pochi – dominanti, non sapendosi dominare, e distruggendo tutti quei – ben troppi – dominati, non sapendosi dominare, la notte adocchia là, non qui, perché il qui è così raro, ed eccola la notte adocchia là:
la sostanza automatica.
Sostanza automatica, cieca e meccanica, diventata pulsionale, che libera senza misura il peggio, pulsionale, negli ominidi invertebrati, divenuti pulsionali. Sostanza automatica, lasciar-stare autoritario di un ciclone d’arbitrari e d’astratti flussi monetari, che sacrifica l’ominide nella sua tendenza verso l’umano. Sostanza automatica, processo senza alcun soggetto che sottomette il mondo intero, oggetto inetto in un processo che riduce ogni soggetto in oggetto, falso destino che, spiritualmente e materialmente, sopprime – in massa –, sostiene – a pezzi – l’ominide secondo il suo posto.
La notte adocchia e vede la sostanza del mondo, sa di non potervi scappare, perché lei è il suo ambiente in cui si vive e non la si vede, ma sa, anche, di poter agire su di lei. La notte agisce e modifica quello che vede: e con un colpetto, fa crollare una banca, con un altro un basso stato, con un altro un’industria, e due piccioni con un colpetto, due media finanziati da una banca, un basso stato, un’industria: un giornale, che riporta il solo male del giorno; e un canale – sia incanalante sia incanalato – di telececità, telefissione. Tra l’altro, altrove, altri uguali a lei stessa agiscono, da sé, allo stesso modo.
E la notte si vede doppia, si vive doppia, e la notte vede un doppio, vive un doppio che dice: “Mi si concedeva: una realtà, realtà senza verità, come quella del mondo, reale senza verità; e una verità, una verità irreale, come quella del mondo, vero senza realtà.”
“L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! E si compiano il reale e la materia e l’empirico, asintoticamente. Eccolo lì l’ominide, eccolo qui l’umano. Finito l’ominide, l’umano è infinito”.
La notte si vede, si riconosce, in colui che dice tutto ciò; dice tutto ciò che dice lui; allora il doppio si fa notte, e la notte, da ominidea, diventa generica umana. Ha appena partorito, con il suo lavoro, con la sua colonna vertebrale. Laylâ è in piedi.
E lo scantinato in carbone nero e pesante, tutto in carbonio caotico, diventa diamante, il più puro e il più trasparente, tutto in carbonio rettificato.
Nella notte fuori tutto è notte luminosa: la luna piena si è alzata, e illumina la terra, ricoperta dei cactus i cui fiori, Regine di Notte, si schiudono, tutto è bianco sulla terra.
Brice Bonfanti
http://www.bricebonfanti.com/
CANTO DI LAYLÂ
siamo quello che ancora non siamo
SIRIA – FRANCIA
(Canti d’utopia, XVIII)
Traduzione italiana di Paolo Taccardo.
Réunis en neuf chants, les Chants d’utopie réfèrent à de courtes épopées reliant étroitement l’historique au mythique. Ils y évoquent l’émancipation universelle au travers de nombre de pensées qui ont traversé les âges. Les champs de l’espérance, du paradis, et du meilleur, s’y associent à celui de la catastrophe, du cataclysme, et du pire, enrobant le tout et son contraire.
Des lieux pour chacun d’eux : France, Grèce, Allemagne, Italie, Argentine, Turquie, Russie, Espagne, Israël, États-Unis d’Amérique, Égypte, Brésil, Hollande, Pologne…
Des personnages tirés de notre histoire : Dante Alighieri, Johann Gutenberg, Antônio Conselheiro, Sergueï Essenine, Voltairine de Cleyre, Elif Shafak…
ISBN : 978-2-35729-103-4 * PVP 16.50 euros * 176 p. * 15x20cm
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