Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questa è l’ultima conclusione della saggezza: la libertà come la vita si merita soltanto chi ogni giorno la dovrà conquistare.

Goethe, la libertà e la vita copia

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«Sì, mi sono dato tutto a questa idea,
qui la sapienza suprema conclude:
la libertà come la vita
si merita soltanto chi ogni giorno
la dovrà conquistare.
E così, circondati dal pericolo, vivano
qui il bimbo, l’uomo, il vecchio, la loro età operosa.
Tanto folto fervore, lo potessi vedere!
In una terra libera fra un popolo libero esistere!».

Johann Wolfgang von Goethe, Faust
(Atto V; Scena: Grande cortile antistante il palazzo),
Introduzione con testo a fronte e note a cura di Franco Fortini,
Mondadori, I Meridiani, 1999, p. 1017.

 

 


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Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Costruire, significa collaborare con la terra. Ricostruire significa collaborare con il tempo.

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«Quasi tutto quel che gli uomini
han detto di meglio
è stato detto in greco».
M. Yourcenar,
Memorie di Adriano, Einaudi, 1981, p. 34

 

«Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre […]. Quanta cura, per escogitare la collocazione esatta di un ponte e d’una fontana, per dare a una strada di montagna la curva più economica che è al tempo stesso la più pura! … […] Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d’un golfo. Fondare biblioteche, è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire. […]
Ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di “passato”, coglierne lo spirito o modificatlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti. La nostra vita è breve […]
Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti…».

 

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi, 1981, pp. 120-121, 276.

 


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Giovanni Semerano (1911-2005) – Vi sono parole fatte fluitare dalle onde di secoli remoti; occorre auscultarle acutamente per sentirvi dentro il loro segreto, come in una conchiglia si ascolta l’eco di oceani abissali.

Semerano Giovanni
«Chi non sa rendersi conto di tremila anni
resta all'oscuro,
ignaro, vive alla giornata».

J. W. Goethe, 1788
L'infinito, un equivoco millenario

L’infinito: un equivoco millenario.

«Molte parole sono giunte sino a noi, come diremo, attraverso gli incontri dei popoli.
Altra è però l’oralità che si identifica con la creazione quando è opera che muove fantasia, sentimento, estro, come il linguaggio della poesia o della preghiera.
Il ricordo delle opere e dei giorni fu in realtà fermato nella pietra come il grande blocco di diorite su cui sono incise le leggi di Hammurabi. Ciò che sappiamo di quei popoli del Vicino Oriente che crearono la prima grande civiltà come conquista perenne anche per l’Occidente noi possiamo leggerlo negli scritti che sono giunti sino a noi.
Nessun altro popolo celebrò con parole così vibranti il fascino della propria scrittura e chiamò le costellazioni scrittura dei cieli. E se i primordi culturali di altri popoli antichi hanno certo rilevanza conoscitiva, sono o possono essere arricchimento culturale, le creazioni dei popoli mesopotamici dal III millennio a.C. costituiscono invece per noi vita spirituale.
[…]
Ed ecco spalancarsi il paradiso dei miracoli sugli orizzonti dell’antico Eden. Vi sono parole fatte fluitare dalle onde di secoli remoti; giungono intatte sino a noi, ma non si possono accogliere solo col suono delle loro sillabe, occorre auscultarle acutamente per sentirvi dentro il loro segreto, come in una conchiglia si ascolta l’eco di oceani abissali.
Una di quelle parole che hanno sfidato i millenni è “mano”, dal latino manus.
Umberto Galimberti nel suo splendido Dizionario di psicologia (Utet, Torino 1994, p. 562) evocò la definizione kantiana della “mano” come proiezione esterna della mente. Manus, che non ebbe un’etimologia, ha il suo antecedente nell’antico accadico manû (calcolare, computare). Ne risulta la mano come strumento naturale del computo per indigitazione, quale emerge nei libri di matematica sino al Settecento.
A quella antica parola accadica manû ci riconduce una lunga serie di parole greche, latine, germaniche.
Il greco méne (luna), l’astro che guida i cicli biologici e segna i ritmi dei giorni: greco mén (mese). A méne, “luna”, ci richiama ilgotico mena, antico alto tedesco mano, anglosassone mona.
Il valore semantico di accadico manû (calcolare) torna in voci greche col senso di “ricordare”, “aver senso”: greco mévoç; (spirito, mente), e ovviamente in latino mens (mente), nell’inglese mean, germanico occidentale *mainjan.
La voce anglosassone, inglese, svedese hand (mano) conferma l’idea della mano come strumento di computo: hand appare con timbro oscurato in inglese hund-red.
Hand si identifica con il greco –kónta (un duale che denota le due mani, “dieci”) e con la base di greco ekatón (cento), ove la sillaba iniziale ha il senso di “venti”: eíkosi. La base di hand risale attraverso –katón ad accadico qatu (mano).
La nostra ignoranza delle antiche sorgenti ci ha precluso di conoscere la storia delle parole che vengono su dal cuore. Così il greco époç; (amore) che ritrova il suo antecedente in una voce antica che lo evoca come “desiderio”: accadico eresu (oggetto di desiderio), assiro erasu (desiderare).
Per la storia di Liebe (amore), antico alto tedesco liubi, luba, bastò il richiamo al latino libet, lubet, del quale nulla si seppe. Ci soccorre, in questo caso, l’accadico libbu, semitico lubb, libb, aramaico lebab (cuore, sentimento, amore).
Così per migliaia e migliaia di voci restate senza storia e che ritrovano rifugio nei lemmi dei Dizionari etimologici del mio Le origini della cultura europea (4 voll., Olschki, 1984-1994)».

Giovanni Semerano, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, 2001, pp. 4-6.

 

 

Immagine in evidenza:

Sargon I° (2334 – 2279)


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Alain Caillé – È donando che ci si dichiara concretamente pronti a giocare il gioco dell’associazione e dell’alleanza. La sola via che si apre dinanzi a noi è quella che consiste nell’effettuare nell’ordine politico una mutazione simbolica, morale e spirituale di portata universalistica.

Amicizia e dono

La cattedrale di Rodin
che ho posto in evdenza con le parole di Caillé
è il  grazie per gli  agli amici che oggi mi hanno inviato i loro pensieri.
Quelle mani sono il “tempio” nel quale ognuno di noi dovrebbe cercare quotidianamente
l’incontro, il confronto, l’amicizia, l’amore in tutte le sue sfaccettature.
Quelle mani che si sfiorano (e sono due mani destre)
provano a unirsi
come a stringere in dono questo patto, questa promessa di solidarietà.

C. Fiorillo

 

Il terzo paradigma

A. Caillé, Il terzo paradigma

 

«Nella vita ordinaria noi raramente ci rendiamo conto
che riceviamo molto di più di ciò che diamo,
e che è solo con la gratitudine che la vita si arricchisce».

Dietrich Bonhoeffer

 

 

«Una società regolata unicamente […] dall’obbligo, cadrà nella sterilità, nel formalismo […]. Né si può farla poggiare sulla meccanica simmetrica dei soli interessi individuali che, in mancanza di regole comuni in grado di coordinarli, cadranno nel caos generale. Non è sottomettendosi al dispotismo della Legge o rifugiandosi nel ciascuno per sé e nell’inganno che gli uomini possono riuscire […] a trovare un po’ di pace, di sicurezza e di felicità. E, invece, imparando ad allearsi e ad associarsi, a dare (darsi) gli uni agli altri fidandosi e per fidarsi gli uni degli altri. […] Abbiamo bisogno, per superare i punti di vista ugualmente limitati dell’individualismo e dell’olismo di un paradigma del dono. Esso non pretende di pensare la generazione del legame sociale né dal basso – a partire dagli individui sempre separati –, né dall’alto – a partire da una totalità sociale sovrastante e sempre preesistente –; ma in qualche modo a partire dal suo ambiente, orizzontalmente, a partire dall’insieme delle interrelazioni che legano gli individui e li trasformano in attori propriamente sociali. La scommessa sulla quale si basa il paradigma del dono è che il dono costituisca il performatore per eccellenza delle alleanze. Ciò che le suggella, le simboleggia, le garantisce e le rende vive. Si tratti di un dono iniziale o di un dono ripetuto
talmente tante volte da non apparire più neanche tale, è donando che ci si dichiara concretamente pronti a giocare il gioco dell’associazione e dell’alleanza e che si sollecita la partecipazione degli altri allo stesso gioco» (p. 12).

 

«Finora l’ordine della società funzionale-utilitaria ha funzionato bene perché attingeva a riserve di senso, extra o antiutilitaristico, ereditate dai secoli passati. Appare ormai con sufficiente chiarezza che queste riserve di senso si esauriscono […].  Le nostre democrazie si sono pensate essenzialmente nel quadro del pensiero contrattualistico. Questo fondamento immaginario si esaurisce […] si mostra ormai impotente a opporsi alla generalizzazione di una corruzione che deve tanto più esplodere in quanto la scala delle società si dilata e in quanto la mondializzazione si generalizza. […] La sola via che si apre dinanzi a noi è  quella che consiste nell’effettuare nell’ordine politico una mutazione simbolica, morale e spirituale della stessa ampiezza di quella che è stata compiuta a suo tempo dalle grandi religioni universalistiche. Queste avevano proceduto a una riorganizzazione da cima a fondo del sistema arcaico del dono proprio delle piccole società basate sulla conoscenza reciproca. Tale riorganizzazione […] è consistita in una universalizzazione, una radicalizzazione e una interiorizzazione dell’imperativo del dono. Universalizzazione: bisognava donare non soltanto ai vicini ma anche agli estranei. Radicalizzazione: donare in modo sempre più incondizionale […]. Interiorizzazione: all’ostentazione un po’ istrionica del dono selvaggio, preferire la discrezione di colui che sa che dona veramente e non per farne mostra» (p. 134).

Alain Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, 1998.

Risvolto di copertina
Il libro di Alain Caillé tocca temi come l'obbligo di donare, dono e sacrificio; dono, interesse e disinteresse. dono e simbolismo; dono e associazione ecc. Si inserisce, su un piano più filosofico, ma sempre con grande concretezza di riferimenti all'esperienza, in una linea di pensiero ben rappresentata da "Lo spirito del dono", di Jacques T. Godbout, cui ha collaborato lo stesso Caillé, e da tutti i libri di Serge Latouche. Dopo aver proposto, con "Critica della ragione utilitaristica", un vero e proprio "manifesto dell'antiutilitarismo", con "Il terzo paradigma" Alain Caillé fornisce il quadro completo di una riflessione molto raffinata nel campo della filosofia delle scienze sociali. L'idea centrale è quella che consiste nel contrapporre il paradosso del dono (per cui il disinteresse proclamato nell'atto del donare, confermando o istituendo il legame sociale, risulta in fin dei conti il miglior modo di garantire gli interessi individuali e collettivi) ai due approcci che si contendono il terreno nelle scienze sociali: individualismo metodologico e olismo. Mentre per l'individualismo metodologico il rapporto sociale sarebbe la risultante dei calcoli effettuati da individui interessati, e mentre per l'olismo nelle sue varie forme sarebbe sempre in definitiva il tutto a determinare i comportamenti individuali, per l'antiutilitarismo è proprio il rapporto di obbligazione reciproca, ovvero di dono, più o meno liberamente consentito tra individui e gruppi che istituisce la società, in altri termini che ne costituisce la base.

***

Immagine in evidenza:

La cattedrale, Auguste Rodin, 1908, pietra, Musée Rodin, Paris.

 


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György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.

Resistere alla manipolazione copia

Marx, il cinema e la critica del film

 

«Se vuoi godere dell'arte, devi essere una persona educata all'arte».


Karl Marx

 

«Di fronte al compito, per me certo lusinghiero, di scrivere un’introduzione per il Suo nuovo libro, non nasconderò il mio imbarazzo e le inibizioni che mi colgono. Esse nascono da ben fondata consapevolezza della mia incompetenza quando si tratti di formulare giudizi concreti in concrete discussioni sui problemi del cinema.

Vero che dei problemi del cinema io mi sono occupato già nella giovinezza. Se, anche oggi, non posso che considerare come unilaterale e d’occasione lo scritto che allora vi dedicai, pure esso resta testimonianza di un vitale interesse alla nascita di un nuovo genere d’arte, e in un’epoca in cui erano ancora pochi, anche tra i produttori e critici, a credere che un’arte nuova fosse nata. Da allora ho continuato a seguire l’evoluzione del cinema con grande interesse, benché la mancanza di tempo e il campo centrale della mia attività non mi abbiano permesso mai di addentrarmi concretamente in problemi particolari, cosa che mi sembra l’unico modo per acquisire una competenza autentica e non fittizia. Ultimamente, nella prima parte della mia estetica (Die Eigenart des Aesthetischen), ho tentato di prender posizione su quelli che mi paiono essere i problemi per principio più importanti di un’estetica del cinema. E anche in quell’occasione cercando di non farmi passare per un competente nelle questioni particolari, che sono quelle in definitiva che in sede artistica rivestono spesso importanza eccezionale, e senza la possibilità di esaminare partitamente l’evoluzione storica della nuova arte. Devo dire che allora credevo – e lo credo ancor oggi – che i più rilevanti problemi sociali ed estetici connessi con l’arte cinematografica potessero esser colti nel loro insieme anche da chi, non potendo diversamente, si ponesse a considerarli da un punto di vista astratto.

La nascita e anche l’ulteriore evoluzione del cinema furono e sono determinate molto più fortemente, molto più intensamente da invenzioni di natura meramente tecnica, di quanto non sia il caso di ogni altro genere d’arte più antico, ad eccezione forse dell’architettura. Ciò ha avuto per necessaria conseguenza che la letteratura sul cinema, da un certo tempo già assai vasta, si sia venuta informando all’analisi di queste innovazioni tecniche e, nel migliore dei casi, ai loro effetti psicologici. E, in confronto, soltanto rare sono state le ricerche sul significato sociale della nuova arte, e molto più rari ancora i tentativi di coglierne l’essenza estetica. Scaturiva questa tendenza non unicamente dall’accennata genesi tecnica dei nuovi mezzi espressivi del cinema, sì anche, e forse soprattutto, dalla tipica maniera di riguardare oggi l’arte, dall’assoluto predominio di singoli problemi tecnicistici rispetto alle questioni estetiche di fondo. E tuttavia, in ultima analisi, questa non è una questione immanente all’estetica, come non lo è la questione della Weltanschauung, radicandosi essa invece e molto più nella tendenza generale della nostra epoca, in quel generale dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte. Che questo dominio, nel caso del cinema, non possa che palesarsi con particolare pregnanza, non occorre dire. Se la produzione cinematografica è in mano a grandi potenze capitalistiche, e con un’immediatezza e completezza di gran lunga maggiore che nel caso di qualsiasi altra arte, il cinema, per sua natura e certo più di ogni altra arte, è destinato esclusivamente ad esercitare effetti immediati di massa.

Il problema della manipolazione non si limita tuttavia a questioni tecniche; la manipolazione ha anche come conseguenza spontanea – talvolta anche consapevole – di deviare l’esclusiva o almeno larga preminenza accordata alle questioni tecniche dal contenuto umano e sociale della manipolazione. Questo processo, l’intima connessione esistente tra primato della tecnica e persuasione che la manipolazione sia inarginabile, non va semplificato e trivializzato, benché sia agevole constatare che il kitsch più banale può esser rabberciato e travestito e inestinguibilmente smerciato in dosi massive e massificanti. È peraltro incontestabile che in entrambe le dimensioni si è realizzata una convergenza di queste tendenze. Si pensi soltanto all’effetto shock. Lo shock è oggi uno degli strumenti essenziali della manipolazione. A parte il suo effetto propagandistico in quanto irruzione dell’inatteso, sovvertimento, sensazione ecc., esso può esser provocato nel modo più facile e sicuro con un nuovo trucco tecnico, e va ancora da sé che la semantica tecnicistica del giudizio critico si fermi soddisfatta a questa coincidenza. Tanto più che è nell’essenza dello shock di provocare una scossa nervosa momentanea, che, sia nell’origine che nelle conseguenze, in nessun modo perviene toccare gli sfondi e i sottofondi pia riposti. E in tal modo – si voglia o no, si sappia o no – tale scossa corre in aiuto dell’ideologia della manipolazione: lo shock, il suo effetto esplosivo, il carattere inusitato del suo manifestarsi danno a chi lo subisce, e a maggior ragione a chi lo provoca, l’illusione di un atteggiamento non conformistico, senza che ne scaturisca una qualsiasi opposizione decisa, sul piano teoretico o su quello etico, all’essere manipolati, senza che si manifesti un non conformismo autentico.

Tutto questo può nascere sul piano tecnico-artistico in perfetta buona fede. Può persino dilatarsi a Weltanschauung, basta per questo che lo stato di manipolazione in cui l’uomo si viene a trovare venga concepito come “condition humaine”, vuoi esistenzialistica vuoi di psicologia del profondo. Una opposizione siffatta può innalzarsi anche a livello estetico sino alla negazione radicale di ciò che esiste, può realizzarsi come antiromanzo, antidramma ecc. senza per questo sottrarre un solo uomo alla manipolazione. Consegue però, da tale sottomissione, spesso in buona fede e volontaria, la forza inarrestabile della manipolazione, nonché il suo riflesso soggettivo, l’alienazione? A mio parere, no.

E ritengo di no sia per quanto riguarda il piano sociale obiettivo sia per quanto concerne il piano umano soggettivo. Certo, a questa duplice negazione va connessa la spiacevole conseguenza del delinearsi di un’opposizione reale. E qui le cose si fanno serie. Delle conseguenze materiali di un eventuale trovarsi esclusi dal numero di quelli che “contano”, qui non parleremo (sebbene si tratti di una faccenda socialmente non senza rilievo), se non che anche il ritrovarsi soli con se stessi, con le proprie convinzioni ideologiche e morali, è in definitiva una seria occasione di porre a cimento il carattere. È un rischio che si deve correre, qualora non si voglia accogliere completamente passivi questa schiacciante realtà della manipolazione.

L’irresistibilità della quale non è tuttavia che apparente. Non c’è giorno, non ora anzi che la vita non offra occasioni di resistere realmente; è però al tempo stesso nell’essenza della manipolazione dell’opinione pubblica che in tutte le pubblicazioni di stampa e letterarie, a non parlare del cinema, questa opposizione si esprima in modo senza paragone più debole. Un asserto questo che per i giorni nostri è difficile documentare in modo probante. Ma si pensi per esempio al fascismo, che ormai appartiene alle cose di ieri: quante opere d’arte (comprese quelle della pubblicistica) ci sono che possano reggere il confronto, quantitativamente e qualitativamente, con le ultlime lettere degli antifascisti condannati a morte, con il diario di Fucik, ecc.? (Il cinema italiano a tale riguardo è quello che vanta i risultati migliori). L’impressione complessiva però è, ad essere sinceri, tale da spaventare. E con ogni probabilità, lo stesso giudizio sul nostro presente dovrà dare un futuro non troppo lontano.

Se si deve arginare la manipolazione, voluta o no, volontaria o imposta che sia, della cultura e quindi del cinema, compito della teoria e della critica almeno, cioè delle sfere che per natura loro più difficilmente della produzione in quanto tale si prestano ad essere industrializzate e commercializzate, è di assolvere il loro dovere di resistere. Resistere in prima fila non è però lotta direttamente politica o propagandistica; la maggior parte tuttavia dei complici della manipolazione culturale sono artisti che nell’arte credono, gente in buona fede, tutti sinceramente presi dalla loro filosofia e dalla loro estetica, non di rado assai dotati, a volte anche pensatori in proprio e critici. Contro la loro falsa Weltanschauung, e la loro falsa estetica, contro la loro stravolta intenzione d’arte, è necessario porre una teoria autentica, convinta e capace di convincere.

Il superamento del tecnicismo nella teoria e nella prassi del cinema, la dimostrazione che dietro ad ogni questione in apparenza meramente formale stanno gravi e ingenti problemi della vita umana, che influiscono attraverso il mezzo della configurazione artistica sul trovarsi o sul perdersi dell’uomo: questo il compito centrale del critico cinematografico che oggi voglia meritare questo nome. Le cognizioni specifiche, la fine sensibilità estetica sono, s’intende, premesse necessarie, ma non più che premesse, non la cosa stessa. Ciò che ne scaturisce – additando il giusto cammino o invece da esso sviando – ha il suo fondamento in tale rapporto con la vita dell’uomo. “Essere radicali”, dice Marx, “significa andare alla radice delle cose. Per l’uomo, però, la radice è l’uomo stesso”. Chaplin non è mai stato un marxista. Ha tuttavia mostrato nelle più diverse forme quanto si possano mettere a frutto le nuove possibilità tecniche del cinema nel fissare, come egli indimenticabilmente ha fissato, l’immagine dell’uomo in pericolo, della sua lotta per conservarsi a se stesso, dello smascheramento di quanto quell’umanità contrasta ed insidia. Al cinema e alla critica cinematografica che si muovono sul piano esteriorizzante del tecnicismo, va contrapposta una critica capace di interiorizzazione e di approfondimento estetico, e che se in spirito di verità e di esattezza saprà andare sino in fondo, non potrà che pervenire all’uomo, all’uomo reale, che soffre e lotta socialmente tra uomini e contro altri uomini.

Per quanto poco mi consideri competente in fatto di cinema, quanto poco sia a conoscenza della Sua produzione complessiva – anche per quello che mi è noto non sono in grado di verificare i Suoi giudizi, spesso per ignoranza dei modelli a cui Lei si richiama – ho tratto nondimeno dai Suoi scritti la salda convinzione che Lei è un critico cinematografico teso a percorrere la giusta via. Per questo ho reputato un dovere e un onore la possibilità di scrivere queste righe di introduzione al Suo libro. Auguro a quest’opera di suscitare controversie accese ed aspre e di riuscire a effetti chiarificatori sui problemi del cinema, tali che, se autentici, nel chiarire questi problemi sappiano andar oltre, sappiano cioè invitare al chiarimento dei problemi dell’umanità».

György Lukács

Badapest, aprile 1965

Lukács

G.Lukács

 


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Guido Aristarco

«Se lo statuto per cosi dire generale dell’arte è quello della sovrastruttura, la fondazione marxiana di una teoria della critica non può che stabilirsi attraverso un puntuale raccordo di nuclei strutturali con quelli sovrastrutturali. Perché solo nell’articolazione di questi due piani, la critica può porsi come “mediazione” tra un prodotto e un destinatario e, al tempo stesso, rinvenire i dati della sua specificità scientifica che consentono appunto una successiva e più gelosa “mediazione”: quella tra un testo (o scrittura) e la cultura. In questo senso, rovesciando una posizione tradizionale, può non solo dirsi che una metodologia è sempre immanente a una teoria, ma addirittura che l’una e l’altra finiscono con l’identificarsi. In una tale prospettiva dialettica, assunto metodologico e dettato teorico si articolano in un discorso in cui l’enunciato filosofico cerca costantemente la sua verifica pratica nell’esame di opere, autori, correnti, per rifluire poi in un ambito speculativo che eleva a sistema l’oggetto particolare dello studio: in questo caso, il cinema. La critica cinematografica assunta come sistema, dunque. L’unica occasione scientifica, d’altra parte, che si offre al critico affinché non alieni al fenomeno che studia i suoi caratteri appena lo inserisce nella totalità più vasta dell’ordine estetico. Perché la teoria della critica non esclude ma presuppone un ordine estetico, né a questo vuole o può sostituirsi. Perciò mi pare opportuno operare un altro rovesciamento: l’esegesi critica non conduce alla totalità ma parte da questa; e così, nel delineare le coordinate del sistema teorico, si moltiplicano i piani di indagine, si dispiegano in una successione di livelli dialettici, ciascuno dei quali mantiene caratteri di perfetta autonomia ma non di indipendenza, appunto perché la totalità se è un punto di partenza è anche un punto di arrivo. Ne deriva una concezione complessa, articolata, problematica; una concezione in cui il marxismo mostra tutta la sua capacità epistemologica e si fa insieme soggetto e oggetto di verifica».

 

Guido Aristarco, Marx, il cinema e la critica del film, Feltrinelli, 1979, pp. 11-15 (Introduzione di G. Lukács) e p. 149.


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Guy Debord (1931-1994) – Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini. È l’altra faccia del denaro. È l’ideologia per eccellenza.

Guy Debord copia

La società dello spettacolo

 

«Per quanto critiche possano essere
la situazione e le circostanze in cui vi trovate,
non disperate;
è proprio nelle occasioni in cui
c'è tutto da temere
che non bisogna temere niente;
è quando siamo circondati da pericoli di ogni genere
che non dobbiamo averne paura;
è quando siamo senza risorse
che dobbiamo contare su tutte;
è quando siamo sorpresi
che dobbiamo sorprendere il nemico».


Sun Tzu, L'arte della guerra

«Tutta la vita delle società nelle quali predominando le condizioni moderne della produzione si presenta come una immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione».

«Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini. […] Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. […] Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo conseguente».

«L’alienazione dello spettatore […] si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il  suo proprio desiderio».

«Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale».

«Lo spettacolo è l’altra faccia del denaro: l’equivalente generale astratto di tutte le merci. […] Lo spettacolo è il denaro che si guarda soltanto, perché in esso la totalità dell’uoso si è già barattata con la totalità della rappresentazione astratta».

«Lo spettacolo è l’ideologia per eccellenza, perché espone e manifesta nella sua pienezza l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale. L0 spettacolo è materialmente “l’espressione della separazione e dell’estraniarsi dell’uomo dall’uomo”. La “nuova potenza del reciproco inganno” che vi si è concentrata ha la sua base nella produzione precisa da cui “con la massa degli oggetti cresce … il regno degli enti estranei ai quali l’uomo è soggiogato”. È lo stadio supremo di un’espansione che ha ritorto il bisogno contro la vita. “Il bisogno di denaro è quindi il vero bisogno prodotto dall’economia politica, e il solo che essa produca” (Manoscritti economico-filosofici). Lo spettacolo estende a tutta la vita sociale il principio che Hegel, nella Realphilosophie di Jena, concepisce come quello del denaro: “La vita di ciò che è morto, meventesi in se stesso”».

«Emanciparsi dalle basi materiali della verità capolta, ecco in che cosa consiste l’autoemencipazione della nostra epoca».

Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, 2001-2002, pp. 53, 54, 63, 70, 73, 180, 183.


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Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.

Anders–congruista
L'uomo è antiquato

G. Anders, L’uomo è antiquato

«[…] per il telespettatore, non esiste più alcuna parete che separi il mondo domestico dal mondo esterno. Ma questa scomparsa della parete non è affatto una curiosità che si possa spiegare con la casuale particolarità tecnica dei suddetti mezzi di comunicazione. Tale particolarità deve piuttosto, ed esclusivamente, il suo successo al fatto che corrisponde perfettamente a una delle esigenze più tipiche del sistema conformistico. Questa esigenza è la “mancanza di pareti“. Infatti, nel sistema conformistico le pareti non sono più assolutamente tollerate. Non soltanto è abbattuta la parete tra attività e passività; non soltanto quella tra sfera privata e pubblica; ma persino quella tra “anima e mondo”.
Che cosa significa? Che il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista“.
E ciò significa a sua volta ch’egli non solo si assimila ai contenuti che gli sono destinati e forniti, ma anche che alla fine il contenuto della sua vita psichica coincide con tali contenuti. Concretamente:

– ch’egli ha ancora bisogno, e può avere ancora bisogno, solo di quello che gli viene imposto;
– che pensa ancora, e può pensare ancora, solo quello che gli è destinato;
– che fa ancora, e può fare ancora, solo quello che viene fatto a lui;
– che si sente ancora, e può sentirsi ancora, solo come ci si aspetta che lui si senta.

Formula: dato che nel sistema conformistico domanda e offerta sono ridotte a congruenza;
e lo sono in maniera tale che le offerte [Angebote] si presentano come comandamenti [Cebote];
e a loro volta questi comandamenti funzionano come divieti [Verbote]
– in modo tale, cioè, da impedire effettivamente a chi fa la richiesta d’immaginarsi anche soltanto qualcos’altro da quello che gli viene offerto –
la parete fra dentro e fuori è caduta.

Sarebbe assurdo concedere ancora un “sé” o una vita interiore propria a un uomo tale, diventato o reso “privo di pareti”. Dato ch’egli è identico, senza residui, al materiale che gli viene somministrato, solo a lui si addice la formula che un materialista del secolo scorso aveva coniata per tutti gli uomini in generale, formula che dice: “L’uomo è quello che mangia”. Aver trasformato questa frase sciocca in una verità è un merito di cui il conformismo può vantarsi. Che il materiale “mangiato”, di cui si tratta qui, non sia (o solo in minima parte) materiale in senso fisico, ciò non migliora affatto la situazione del “congruista”.
È dunque errato sostenere che l’uomo sia diventato «privo d’anima» per la rottura dell’argine tra dentro e fuori. O che l’anima del “congruista” ora sia “vuota”. E non solo errato, ma addirittura il capovolgimento della verità. Infatti è vero che l’anima del congruista, dato che viene inondata senza sosta dal mondo che le affluisce dentro (mondo delle merci, delle opinioni, dei sentimenti, degli atteggiamenti ecc.) è terribilmente sovraccarica, incomparabilmente più carica di quanto non siano mai state le anime finora; ch’essa, come la spugna con l’acqua, è diventata ora coestensiva al mondo, o almeno a ciò che a lei viene destinato come “mondo”.

Ma che cosa significa “congruista” al singolare? Di congruisti o ne esistono en masse o non ne esistono affatto. L’asserzione che la parete tra il fornitore e il rifornito sia caduta, o vale per milioni d’individui o per nessuno. Evidentemente, vale per milioni. E naturalmente non per milioni qualsiasi ma per quelli odierni, cioè per quelli che vivono nell’èra della produzione e riproduzione di massa.  […]
È chiaro che tra siffatti “congruenti”, riforniti con materiale simile (o identico), non possono più emergere difficoltà di comprensione reciproca. Ognuno capisce ognuno, la differenza tra conoscenza di sé e conoscenza dell’altro è abolita, il nome scaccia il cognome, ognuno è proximus a ognuno, anche se in senso nuovo; nessuno si sente più obbligato a far valere il proprio diritto alla privacy; nessuno vede un motivo per non condividere i propri segreti con i propri simili; e a nessuno di essi importa ancora qualcosa di questo. I congruisti non possiedono più veri tesori segreti, vera proprietà privata intellettuale o spirituale; anche ciò che potrebbero considerare proprietà privata fa parte dei pezzi che sono stati loro forniti e ad essi viene persino fornita l’illusione che ciò ch’è loro fornito sia loro proprietà privata. In breve, i loro privata essi li dividono già comunque con gli altri. Ma se accade che in un “congruente” si riscontri una qualche particolarità che non condivide con gli altri, qualcosa come un errore di tessitura o una “voglia”, agli altri egli la comunica solo a posteriori, il che non gli causa alcuna difficoltà, visto che la psicoanalisi, sempre pronta per casi simili, gli offre i mezzi e i metodi necessari all’occorrenza. Già oggi nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.

[…] Alla domanda, se nel nostro mondo conformistico odierno già si parla meno che in quello di ieri e di avantieri, è difficile trovare risposta. È invece evidente che già esistono situazioni di perdita di parola che lasciano presagire il peggio, per esempio la situazione della famiglia che siede senza parole davanti al teleschermo, mentre viene simultaneamente foraggiata. E ancor più significativa di questa specifica situazione mi sembra la nuova funzione che il parlare ha assunto nella società conformistica. Ammesso che qui la parola “funzione” sia ancora adatta. Infatti, perlo meno a prima vista, il nostro parlare sembra atrofizzato al punto da essere un’attività priva di senso; con ciò intendo che, quando ci parliamo l’un l’altro, noi rivestiamo una stessa e identica esperienza del mondo (di cui siamo stati forniti) con parole che fanno parte dello stesso e identico patrimonio di vocaboli (di cui siamo stati forniti); e perciò non facciamo altro che praticare un mero scambio tautologico. Le parole o i vocaboli che scambiamo con i nostri partners somigliano, per la maggior parte dei nostri discorsi e in particolare per lo small talk, alle palle che volano, avanti e indietro, tra i tennisti; cioè le “palle” che “diamo” parlando sono identiche a quelle che abbiamo ricevute ascoltando; e quelle che riceviamo sono identiche a quelle che abbiamo date; in breve, prendere e dare sono divenuti interscambiabili.
[…] In altre parole: il rumore di milioni di voci prodotto al giorno d’oggi non rappresenta più altro – e in ciò consiste la nuova funzione del parlare odierno – che un unico “monologo collettivo”, pronunciato a ruoli distribuiti. La società conformistica parla nel suo insieme con se stessa.[…]

Lo ammetto: il ritratto del conformista abbozzato qui non è realistico. È piuttosto una terrificante immagine ideale, l’immagine ideale che ci viene posta davanti per invitarci a una gentile imitazione. Ma ciò non significa in alcun modo che la descrizione sia esagerata, che la nostra situazione non sia ancora cosl grave. Non abbiamo il minimo motivo per essere orgogliosi della differenza tra noi e quell’immagine idealizzata, dato che non si può assolutamente dire che abbiamo ancora conservato un ultimo nocciolo della nostra individualità o un residuo inattaccabile della nostra autonomia. Al contrario è vero che riconosciamo il modello che ci viene fornito, che ci misuriamo con esso e solo con esso e che tentiamo con tutte le forze a nostra disposizione di uguagliarlo. Se questo diventare congruenti con il “congruista” totale ancora non si è verificato, è semplicemente per il fatto che non ci riesce di assimilarci al primo colpo, almeno non completamente. Bisogna anche imparare a farsi rovinare, non è affatto un compito facile farsi sommergere totalmente, farsi completamente saturare. Perlopiù siamo quasi, nel senso chimico della parola, «sovrassaturi», dunque incapaci di assorbire ancora le immagini del mondo che continuano ad affluire.
O il quantum che ci viene imposto è troppo grande, o la velocità troppo elevata. In breve, siamo incapaci (simili all’operaio non ancora del tutto abituato alla catena di montaggio) di “tenere il passo” completamente. Solo questo è il motivo per cui non siamo ancora del tutto congruenti con il “congruista” ideale. Di questo non dobbiamo ringraziare la nostra forza, bensl esclusivamente la nostra debolezza».

Günter Anders, L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 135-141.

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Karl Marx (1818-1883) – Gli economisti assomigliano ai teologi, vogliono spacciare per naturali e quindi eterni gli attuali rapporti di produzione.

Karl Marx, Miseria della filosofia copia
Miseria della filosofia

K. Marx, Miseria della filosofia

«Gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni, quelle dell’arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure distinguono due tipi di religioni. Ogni religione che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è un’emanazione di Dio. Dicendo che i rapporti attuali – i rapporti della produzione borghese – sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall’influeza del tempo. Sono leggi eterne che debbono sempre reggere la società. Così c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più. C’è stata storia perché sono esistite istituzioni feudali e perché in queste istituzioni feudali si trovano rapporti di produzione del tutto differente da quelli della società borghese, che gli economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni»

Karl Marx, Miseria della filosofia (dicembre 1846- giugno 1847), Editori Riuniti, 1993.

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Antonio Gramsci (1891-1937) – Odio gli indifferenti. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. Vivere vuol dire essere partigiani. L’indifferenza non è vita.

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Odio gli indifferenti

Odio gli indifferenti

«E io ch'avea d'error la testa cinta,
dissi: "Maestro, che è quel ch'i' odo?
e che gent'è che par nel duol sì vinta?".
Ed elli a me: "Questo misero modo
tengon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli".
E io: "Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?".
Rispuose: "Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ti curar di lor, ma guarda e passa"».

Dante Alighieri, Inferno, III, 31-51
Antonio-Gramsci

Antonio Gramsci

«Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovesc ia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti».
Antonio Gramsci, Indifferenti, 11 febbraio 1917

 

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James Mill (1773-1836) – Siamo a tal punto reciprocamente alienati dall’essenza umana, che il linguaggio immediato di questa essenza ci appare come una violazione della dignità umana.

James Mill
Elements of political economy, 1826

Elements of political economy.

«L’unico linguaggio comprensibile che parliamo fra noi è quello dei nostri oggetti in relazione fra loro. Un linguaggio umano non lo comprenderemmo, rimarrebbe senza effetto; da una parte verrebbe inteso e sentito come una preghiera, una supplica e dunque come un’umiliazione, e quindi sarebbe proferito con vegogna, con un senso di degradazione, mentre dall’altra sarebbe interpretato e respinto come un’impudenza o una pazzia. Siamo a tal punto reciprocamente alienati dall’essenza umana, che il linguaggio immediato di questa essenza ci appare come una violazione della dignità umana, mentre il linguaggio alienato dei valori delle cose ci sembra la dignità umana, giustificata, fiduciosa in se stessa, che riconosce se stessa».

 

James MillÉléments d’economie politique, 1826. [James Mill fu discepolo di Bentham, nonché padre di John Stuart Mill. Riformò l’utilitarismo etico di Bentham: là dove Bentham aveva ammesso come unico movente dell’azione la ricerca egoistica dell’utile, Mill sosteneva che a base dell’azione morale vi è anche un movente altruistico che nasce come qualcosa di qualitativamente unico, non riducibile a impulsi egoistici].

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