Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.

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«Ci sono parecchie cose che il letrore non troverà in queste pagine. Non troverà un commento analitico dei testi antichi condotto secondo le intenzioni d’aurore e l’ordine delle argomentazioni: un lavoro questo imprescindibile, ma che va compiuto in altra sede. Non troverà neppure una storia delle idee politiche sviluppata secondo le sequenze cronologiche di autori e di testi, per la quale si può rinviare a ottimi strumenti di consultazione. Di conseguenza, non troverà una bibliografia disciplinare organica: le indicazioni  contenute nelle note sono suggerimenti di lettura senza alcuna pretesa sistematica.
Mi sono proposto invece di introdurre il lettore a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente, che fu attivo in Atene nel secolo che va all’incirca dal 430 al 330 a.c. Utilizzando le idee e i testi via via prodotti in questo laboratorio, si è allestita la messa in scena di un dibattito a più voci, che coinvolge filosofi, srorici, poeti, politici, intorno alle domande decisive su che cosa sia il potere e come possa venire legittimato o giustificato. Nella rappresentazione che ne viene offerta, questo dibattito è stato articolato intorno a cinque assi tematici principali (la maggioranza, la legge, la forza, la virtù, il sapere) che, com’è naturale, si intrecciano e interagiscono reciprocamente. Per il senso comune politologico, il confronto tra le idee politiche prodotte in questo laboratorio riserva qualche sorpresa: persino un regime rassicurante come la democrazia maggioritaria viene messo radicalmente in discussione, e d’altra parte un potere esecrabile come quello tirannico riscuote talvolta consensi significativi. D’altra parte, testi noti possono acquistare un rilievo e un significato inattesi per la vulgata storiografica. Ma non ho affatto inteso mostrare chi ha ragione e chi ha torto, oppure chi vince e chi perde.
Gli aspetti che davvero interessano sono la forza teorica, la spregiudicatezza intellettuale, la radicalità di approccio che caratterizzano la discussione qui rivisitata. Vi troviamo, da un lato, un modello insuperato di come la riflessione politica possa andare al fondo dei problemi, magari non per risolverli ma per renderli almeno più chiari nei loro presupposti e nelle loro implicazioni; dall’altro, una strumentazione concettuale che certo appartiene a un mondo lontano, ma che forse non ha del tutto esaurito la sua capacità di offrire stimoli e prospettive che ancora oggi sarebbe sbagliato ignorare».

Mario Vegetti, Chi comanda nella città. I Greci e il potere, Carocci editore, 2017, pp.7-8.

Risvolto di copertina

Il libro introduce il lettore  a una sorta di visita guidata  in uno dei più straordinari laboratori  di pensiero politico nella storia  d’Occidente, che fu attivo in Atene  nel secolo che va all’incirca  dal 430 al 330 a.C.  Si è allestita la messa in scena  di un dibattito a più voci,  che coinvolge filosofi, storici,  poeti, politici, intorno  alle domande decisive su che cosa  sia il potere e come possa venire  legittimato o giustificato.  Si confrontano così le ragioni  della maggioranza, della legge,  della forza, del capo carismatico,  della competenza scientifica,  su temi che ancor oggi risultano  attuali quando ci si interroga  sulla crisi della democrazia  e sulle sue alternative decisioniste.  Il testo si rivolge tanto agli studiosi  del pensiero antico quanto a chiunque  sia interessato ai problemi  della politica contemporanea.


 

Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .

Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

 


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Mark Twain (1835-1910) – I politici inventeranno volgari bugie e ognuno sarà grato di queste falsità, che gli mettono in pace la coscienza. Si convincerà che la guerra è giusta e ringrazierà Dio dei sonni tranquilli che questo processo di grottesco autoinganno gli garantisce.

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Opera di Maupal

 

Mauro Pallotta (Maupal)
Una nuova opera dell’artista Mauro Pallotta: Donald Trump a Trastevere in tutta la sua boriosa esplosività.

 

 

 

The Mysterious Stranger

The Mysterious Stranger

« […] dopo di che, i politici inventeranno volgari bugie, dando tutte le colpe alla nazione da attaccare, e ognuno sarà grato di queste falsità, che gli mettono in pace la coscienza, e le studierà diligentemente, mentre rifiuterà di prendere in considerazione qualsiasi argomentazione contraria; e in questo modo di lì a poco si convincerà che la guerra è giusta e ringrazierà Dio dei sonni tranquilli che questo processo di grottesco autoinganno gli garantisce».

Mark Twain, The Mysterious Stranger [1916], Lo straniero misterioso, Mattioli, 2016.

Lo straniero misteriso

Lo straniero misteriso

Quarta di copertina
Un breve romanzo favolistico e allegorico, privo di ogni traccia di vernacolo e di gergo, forte di una visione quasi dostoevskiana dell'universo quale gioco spietato. Uno dei protagonisti è un angelo il cui nome è Satana, è una forza crudele che irride gli uomini e le loro miserie, senza però che da parte di Mark Twain vi sia alcuna implicazione metafisica. L'opera è l'espressione del materialismo sempre più convinto del grande scrittore americano, negli ultimi anni della sua esistenza. La cupa Austria in cui si svolge il romanzo nel 1590, è una disillusa proiezione del mondo contemporaneo, la cui fiducia, il cui ottimismo razionale lo scrittore mette radicalmente in discussione.

Nota Bene

Hermann Göring dichiarerà al processo di Norimberga. «Il popolo può sempre essere piegato al volere dei capi E facile: basta dire alla gente che la nazione è sotto attacco e accusare i pacifisti di scarso patriottismo e di mettere in pericolo il paese. Funziona nello stesso modo in tutte le nazioni».

 


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Renato Curcio – La materia più preziosa al mondo è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario.

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«[È emersa] una nuova oligarchia economica esperta nell’esercizio del potere digitale […] Uno sviluppo del capitalismo globale, una tecnologia innovatrice, un nuovo panottico di sorveglianza, una possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, una produzione di identità virtuali, un’opportunità per mille operazioni di hackeraggio benefiche e malefiche, una possibilità di velocizzare e ampliare le nostre comunicazioni orizzontali e tante, tantissime altre cose ancora» (pp. 8-9).

«L’iperconnessione, la schiavitù mentale, l’app-dipendenza, l’alienazione della memoria, il furto dell’oblio, e il deterioramento della sensibilità relazionale» (p. 10).

«La materia più preziosa al mondo non è il petrolio, né l’oro e neppure l’energia. No, più prezioso di ogni altra cosa, come aveva già intuito il Papato ai tempi delle prime Crociate, è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di questa appropriazione, di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario» (p. 16).

«[Dobbiamo] raffigurarci l’utilizzatore della piattaforma come un lavoratore-consumatore che opera volontariamente per un’azienda produttiva senza percepire alcun salario; che produce con il suo lavoro valore, ma lo fa gratuitamente, volontariamente, e nella maggior parte dei casi senza esserne neppure consapevole; e che, infine, riceve nei suoi strumenti digitali inviti mirati all’acquisto di prodotti ai quali in qualche modo si è interessato (un volo, un libro, un tablet, un’auto, un appartamento). Ricordando che il popolo irretito nell’impero virtuale raggiunge attualmente circa tre miliardi di persone non stupisce che il gruzzolo finale raggiunga cifre astronomiche» (p. 36).

«Mentre i legami in presenza si generano, si consolidano e si sciolgono attraverso parole e messaggi non verbali che i corpi si scambiano reciprocamente, le connessioni elettroniche si affidano alle immagini morte, ai filmati, ai simboli e alla scrittura, vale a dire ai tipici sistemi di segni ai quali, da sempre, ricorrono i linguaggi dell’assenza» (pp. 63-64).

«Un ‘tweet’ qui e un ‘mi piace’ là. Un messaggino e uno scambio di fotografie. Esorcismi contro la solitudine, ma anche angoscianti domande. […] Il numero e non la qualità. Questo è lo specchio di qualunque Narciso virtuale. […] Nell’ordine di realtà virtuale a cui Narciso si consegna, la sua gloria e il suo destino dipendono dall’aritmetica» (70).

«Affidando i nostri ricordi alle implacabili memorie esterne, queste memorie ricorderanno di noi anche quello che noi non ricordiamo più o di cui ci siamo liberati. Figlie del pensiero quantitativo esse ignorano l’arte sottile e benefica dello scarto e dell’abbandono: esse ricorderanno per sempre anche quanto noi non vorremmo più ricordare. Ricorderanno nonostante noi e la nostra volontà, e saranno soltanto esse, infine, a costruire, giudicare e decidere quale debba essere il significato dei nostri trascorsi dimenticati.
Va detto ancora che la memoria senza oblio è anche una memoria senza storia, una memoria ‘morta’, rigida come un cadavere e patologicamente dissociata. È una memoria ‘cattiva’ che genera malessere. Tutto ciò che essa conserva ‘dorme’ fino a che l’oligarchia non ritenga di doverlo risvegliare per una sua qualsiasi ragione; dimora in un obitorio dell’impero in attesa di essere un giorno oscenamente scrutata da algoritmi curiosi in cerca di sempre nuove e imprevedibili associazioni» (77).

«[…] parole finte, contatti virtuali spacciati per legami amicali, maschere intercambiabili e ologrammi in marcia nelle piazze vuote» (99).

Si tratta della «schiavitù mentale» della quale parla Chomsky, «la schiavitù di cui sono vittime gli entusiastici abitanti dell’impero» (68), il quale si presenta «come una società della trasparenza identitaria; una società degli alias digitali accreditati e domiciliati in account, con-vinti e attivi, ma sempre trasversalmente monitorati senza alcuna pausa» (pp. 100-101).

«[Internet è] dentro il mondo, ma il mondo non si riduce a Internet. Il futuro passa anche dall’esterno di questa ragnatela e fuori dalle sue ossessioni» (p. 98).

«Stando all’evidenza storica tutti gli imperi esistiti sono anche crollati. Non vedo perché proprio questo dovrebbe fare eccezione» (p. 101).

Quarta di copertina

Alcune aziende che quindici anni fa non esistevano, come Google e Facebook, oggi costituiscono la nuova e potente oligarchia planetaria del capitalismo digitale. Internet ne rappresenta l’intelaiatura, e i suoi utenti, vale a dire circa tre miliardi di persone, la forza lavoro utilizzata. Le nuove tecnologie digitali fanno ormai parte della nostra vita quotidiana, le portiamo addosso e controllano tutti gli ambienti della vita sociale, dai luoghi di lavoro ai templi del consumo. Questo libro propone una riflessione sui dispositivi attraverso i quali questa oligarchia e queste tecnologie catturano e colonizzano il nostro immaginario a fini di profitto economico e di controllo sociale. E mette in luce il risvolto di tutto ciò, ovvero l’emergere di una nuova e impercepita sudditanza di quel popolo virtuale che, riversando ingenuamente messaggi, fotografie, selfie, ansie e desideri su piattaforme e social-network, contribuisce con le sue stesse pratiche a rafforzare il dominio del nuovo impero. Non conosciamo ancora le conseguenze sui tempi lunghi di questo ulteriore passaggio del modo di produzione capitalistico. Chiara invece appare la necessità di immaginare pratiche di decolonizzazione personale e collettiva per istituire nei luoghi ordinari della vita varchi di liberazione.

 

 

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Immanuel Kant (1724-1804) – Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a “pensare”. Non lo si deve “portare” ma “guidare”, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato “l’intelletto” e s’appropria d’una “scienza” posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata.

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«Da un insegnante ci si attende […] che innanzi tutto formi nel suo discepolo l’uomo intellettivo, poi quello razionale e infine il dotto. Un tal modo di procedere ha il vantaggio che, qualora lo studente non arrivi mai all’ultimo gradino dell’istruzione, avrà però tratto una certa utilità da essa. E se non per la scuola, certamente sarà diventato più esperto e più intelligente per la vita» (p. 152).

Riferendosi agli orientamenti pedagogici dominanti nel suo tempo, Kant rileva che l’approccio  fondato sul «rispecchiamento» di quello che, a suo giudizio, è l’«ordine naturale», risulta essere letteralmente capovolto nell’organizzazione degli studi a lui coeva: «Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato l’intelletto e s’appropria d’una scienza posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata […]. È questo il motivo per cui non di rado s’incontrano dotti […] che dimostrano poca intelligenza, e le accademie sfornano teste insipide più di qualsiasi altro ceto sociale» (pp. 152-153).

«[Lo studente] non deve imparare dei pensieri, ma a pensare; non lo si deve portare ma guidare, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo» (p. 153)

«Questa è la breve comunicazione riguardante le attività di cui ini occupo in questo semestre universitario [già] iniziato e che ho ritenuto necessario [esporre] solamente perché ci si possa fare un concetto del metodo di insegnamento cui trovai utile ora apportare alcune modifiche» (p. 160).

Comunicazione di I. Kant sull’ordinamento delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-1766 (1765), in Immanuel Kant, Antologia di scritti pedagogici, a cura di Giordano
Formizzi, Il Segno dei Gabrielli, Verona 2004.


Utile confronto

Giuseppe Micheli, Kant storico della filosofia, Antenore, Padova 1980, pp. 90-97; Id., L’insegnamento della filosofia secondo Kant, in Luca Illetterati (a cura di), Insegnare filosofia. Modelli di pensiero e pratiche didattiche, De Agostini, Novara 2007, pp. 136-59 (ottima Introduzione di Illetterati).

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Insegnare filosofia

Oggi per la filosofia la questione didattica assume una problematicità che appare per molti aspetti del tutto peculiare. Ciò che rimane spesso non discusso nelle diverse forme di discorso relative alla didattica della filosofia è quanto pertiene all’oggetto che la tecnica e l’arte didattica devono trasmettere, e cioè la filosofia stessa.  Non è infatti forse del tutto fuori luogo chiedersi se il laureato in filosofia oggi sia effettivamente in grado, una volta uscito dall’università e dalla scuola di specializzazione, di proporsi come un soggetto che fa da guida di un esercizio filosofico, come un soggetto che entra in una classe per fare sperimentare una pratica del pensiero che non si risolva nella proposta di alcuni percorsi storici all’interno della tradizione filosofica. Grazie al contributo di molti dei migliori filosofi italiani, Insegnare filosofia rimette in discussione concezioni e modelli talmente radicati da non essere nemmeno più avvertiti come propri riferimenti nelle pratiche di insegnamento, e contemporaneamente ci aiuta a ripensare le forme stesse dell’insegnamento della filosofia nel luogo principale della formazione di coloro che sono poi chiamati a esercitare a diverso titolo la filosofia, ovvero, appunto, l’università.


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Simone Weil (1909-1943) – Un regime inumano, lungi dal forgiare esseri capaci di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi.

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«Mai sinora nella storia un regime di schiavitù è caduto sotto i colpi degli schiavi. La verità è che, secondo una formula celebre, la schiavitù avvilisce l’uomo fino al punto di farsi amare dall’uomo stesso; che la libertà è preziosa solo agli occhi di coloro che la possiedono effettivamente; e che un regime del tutto inumano, com’è il nostro, lungi dal forgiare esseri capaci di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi, tanto gli oppressi quanto gli oppressori».

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Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1983, p. 129 (ed. or. Réflexion sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale, Édition Gallimard, Paris 1955).

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A venticinque anni, nel 1934, Simone Weil scrisse queste Riflessioni, vero talismano che dovrebbe proteggere chiunque è costretto ad attraversare l’immenso ammasso di menzogne che circonda la parola «società». Come sempre nelle parole più ovvie, in essa si cela una realtà segreta e imponente, che agisce su di noi anche là dove nessuno la riconosce. La Weil è stata la prima a dire con perfetta chiarezza che l’uomo si è emancipato dalla servitù alla natura solo per sottomettersi a un’oppressione ancora più oscura, ancora più capricciosa e incontrollabile: quella esercitata dalla società stessa, poiché «sembra che l’uomo non riesca ad alleggerire il giogo delle necessità naturali senza appesantire nella stessa misura quello dell’oppressione sociale, come per il gioco di un equilibrio misterioso». Da questa intuizione centrale si diparte, con cristallina virtù argomentativa, una sequenza di ragionamenti che svelano nei meccanismi del potere come in quelli della produzione e dello scambio altrettanti volti di una stessa idolatria. Scritto quando Hitler era al potere da pochi mesi e quando Stalin era venerato da gran parte dell’intelligencija come «piccolo padre» di una nuova umanità, questo testo non ha un attimo di incertezza nel delineare l’orrore di quel presente. Ma, come sempre nella Weil, lo sguardo è così preciso proprio perché va al di là del presente e percepisce un’immagine inscalfibile del Bene, in rapporto alla quale giudica il mondo. È uno sguardo che ci induce a «sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per conto proprio, al di sopra dell’idolo sociale, il patto originario dello spirito con l’universo».

 


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Blaise Pascal (1623-1662) – Tutta la nostra dignità sta nel pensiero. Mentre l’universo non ne sa nulla. Lavoriamo, quindi, a ben pensare: ecco il principio della morale.

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«L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla.
Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. In esso dobbiam cercare la ragione per elevarci, e non nello spazio e nella durata, che non potremmo riempire. Lavoriamo, quindi, a ben pensare: ecco il principio della morale».

Blaise Pascal, Pensieri [377 (347)], Einaudi, 1974, pp. 161-162.

 


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Ferruccio Rossi-Landi (1921-1985) – Pensiero come ragione creatrice di realtà. Realizzare tale pensiero e rendere permanenti quelle esperienze per mezzo di progettazioni sociali vuol dire costruire un futuro affatto diverso dal passato e dal presente che ci opprimono. Ma allora non c’è scelta: bisogna costruirlo; ed è questo il senso della rivoluzione.

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«Io me la rido degli uomini cosiddetti “pratici” e della loro saggezza.
Se si vuol essere un bue,
naturalmente si può voltar la schiena ai tormenti dell’umanità
e badare solo alla propria pelle».

Karl Marx a Siegfried Meyer, 30 aprile 1867.

Il linguaggio come lavoro e come mercato

Il linguaggio come lavoro e come mercato

«Penetriamo nel mezzo delle cose. Gli atteggiamenti di coloro che scelgono di non essere buoi si possono classificare secondo alcuni criteri strettamente interconnessi: (i) la misura
in cui gli aspetti negativi, che ognuno avverte nella situazione umana, vengono considerati costitutivi della natura stessa dell’uomo; (ii) la misura in cui si ritiene che il negativo possa venir eliminato per opera dell’uomo stesso; e (iii) la misura in cui la fonte della capacità di giudicarne viene considerata estranea alla storia o alla natura. La posizione da cui si prendono . qui le mosse è che una natura umana separata dalla storia semplicemente non esiste; da ciò segue, da un lato, che tutto ciò che vi è di negativo nella storia “fa parte” della natura umana, ma che ne fa parte anche la capacità di giudicarne […]. È rivoluzionaria l’azione che tende a ricongiungere coscienza e praxis; è conservatrice l’azione che in un modo qualsiasi ostacola tale ricongiungimento. […] Siamo così giunti a formulare un tipo di privilegiamento del discorso ideologico radicalmente diverso da quello prima esaminato. È l’ideologia come progettazione sociale fondata su di un privilegiamento dinamico anziché statico, nel futuro anziché nel passato, infra-storicamente anziché extra-storicamente.
La realtà cui essa si riferisce non la vincola se non nel senso in cui l’oggetto da costruirsi vincola il costruttore.
Questa progettazione dà pertanto luogo non già a una scienza del già fatto, bensl a una scienza del da farsi, che esclude il soltanto-naturale e il sovra-naturale perché è proprio e soltanto come scienza appartenente per intero alla storia che si costituisce. In essa si esprime l’esigenza di ricongiungere la praxis e il pensiero cioè di essere una scienza generale dell’uomo. […] Si spera di superare la falsità della coscienza in quanto si progetta una situazione nuova, finora non mai verificatasi storicamente, nella quale tale falsità si formi sempre meno, fin verso la meta ideale di non formarsi affatto. È un’ideologia innovatrice anziché conservatrice, che comporta una rivalutazione volontaristica del pensiero come ragione creatrice di realtà.
La coscienza e la praxis che si tratta di ricongiungeré stanno insieme solo nel futuro. Ciò vuoi dire che in questo momento esse stanno insieme solo nel pensiero – o in quelle rare esperienze di libera integrità che tutti i rivoluzionari ci descrivono come tipiche dell’azione storica felice e che la società richiudendosi su se stessa a guisa di mare sporco immediatamente inghiotte e cancella. Realizzare tale pensiero e rendere permanenti quelle esperienze per mezzo di progettazioni sociali vuol dire costruire un futuro affatto diverso dal passato e dal presente che ci opprimono.
Ma allora non c’è scelta: bisogna costruirlo; ed è questo il senso della rivoluzione.
Milano, aprile 1967».

Ferruccio Rossi-Landi, Ideologia come progettazione sociale, saggio apparso in Ideologie, 1967, I, 1°, pp. 1-25, poi in Id., Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, 1968, pp. 161.131-

 


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Ferruccio Rossi-Landi (1921-1985) – Quando i beni circolano sotto forma di merci essi “sono” messaggi; quando gli enunciati circolano sotto forma di messaggi verbali essi “sono” merci.

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«È rivoluzionaria l’azione che tende a ricongiungere coscienza e praxis;
è conservatrice l’azione che in un modo qualsiasi ostacola tale ricongiungimento».

F. Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, 1968.

 

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Risvolto di copertina

È questa l’edizione italiana, a cura di Cristina Zorzella Cappi (Università di Padova), di Linguistics and Economics di Ferruccio Rossi-Landi nella versione da lui stesso realizzata e fin ora rimasta inedita. «Il nostro interesse principale riguarda gli oggetti dei quali le due discipline, la linguistica e l’economia, si occupano: vale a dire, il linguaggio umano quale oggetto principale della scienza linguistica e lo scambio economico quale oggetto principale della scienza dell’economia. Tali “oggetti” vengono assunti nell’indagine nella misura in cui si prestano ad essere considerati in maniera unitaria. È mia intenzione iniziare un’elaborazione semiotica dei due processi sociali che si possono provvisoriamente identificare come “produzione e circolazione dei beni (sotto forma di merci)” e come “produzione e circolazione di enunciati (sotto forma di messaggi verbali)”. Questi sono due modi fondamentali dello sviluppo sociale umano. Sebbene appaiano di solito in campi separati, formuliamo qui l’ipotesi che essi siano “la stessa cosa” almeno nel senso in cui i due rami principali di un albero possono essere considerati “la stessa cosa”. Il saggio è dedicato ad alcuni aspetti di questa relativa “stessità”. Sosterrò che quando i beni circolano sotto forma di merci essi “sono” messaggi; e che quando gli enunciati circolano sotto forma di messaggi verbali essi “sono” merci» (“Introduzione” dell’Autore all’edizione italiana). Il collegamento tra economia e linguistica rende quest’opera estremamente attuale, soprattutto in vista di un ripensamento delle odierne strutture economiche, e ne fa un “classico” della filosofia e della semiotica contemporanee.

Ferruccio Rossi-Landi (Milano, 10 marzo 1921 – Trieste, 5 maggio 1985) è tra i maggiori rappresentanti della semiotica e della filosofia del linguaggio del Novecento. Insegnò fra il 1964 e il 1975 in varie università europee e americane e, come professore ordinario, Filosofia della storia nell’Università di Lecce dal 1975 e Filosofia teoretica nell’Università di Trieste dal 1977. Tra le sue opere: la trilogia (Bompiani): Il linguaggio come lavoro e come mercato (1968, 1983, n. ed. a c. di A. Ponzio 2003), Semiotica e ideologia (1972, 1979, n. ed. a c. di A. Ponzio, 2011), Metodica filosofica e scienza dei segni (1985, n. ed. a c. di A. Ponzio 2006); Charles Morris e la semiotica novecentesca, 1975; Between signs and non-signs, a c. di S. Petrilli, John Benjamins, 1992; The Corrispondence Morris – Rossi-Landi, a c. di S. Petrilli, Semiotica, Special Issue, 88, 1-2, 1992; Scritti su Gilbert Ryle e la filosofia analitica, 2003; Ideologia (1978, 1982, n. ed. a c. di A. Ponzio, 2005); Rossi-Landi – Bergmann, Analisi del linguaggio e ideal language in filosofia (Corrispondenza 1950-1956), a c. di C. Zorzella e M. Cappi, ZeL, 2011. Da Mimesis è anche edita la monografia di A. Ponzio sull’autore, Linguaggio, lavoro e mercato globale (2008).


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Giancarlo Paciello – Uno scheletro nell’armadio dello Stato: la morte di Pinelli.

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Nel maggio del 2004, come spiego nell’articolo che trovate qui di seguito, ebbi modo di ricostruire la terribile vicenda (La bomba alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, che fece 19 morti e 88 feriti), e che portò all’assassinio di Pinelli nella questura di Milano. Pochi giorni fa, (La Repubblica, 28 novembre 2009), ho letto un’intervista alla vedova Licia, ora ottantunenne, a cura di Piero Colaprico, dal titolo: I 40 anni di dolore della vedova Pinelli “Non smetterò mai di cercare la verità”.

Il giornalista fa diverse domande e, a un certo punto, non può trattenersi:

Perdoni l’insistenza, ma esistono però alcuni elementi che anche quarant’anni dopo fanno impressione. Uno è che Pinelli muore e il questore di Milano, Marcello Guida, che era stato comandante del carcere fascista di Ventotene, sostiene che suo marito si è buttato dalla finestra gridando “E’ la fine dell’anarchia”. Una menzogna davvero inspiegabile, oppure?

… Querelai Guida. Gli stava sporcando il nome, per gente come noi è inconcepibile. Poi querelai i poliziotti e il carabiniere che stavano nella stanza dell’interrogatorio. Cercavo la verità attraverso loro, perché hanno mentito. E perché mentire e contraddirsi se non per nascondere qualcuno o qualche colpa più grave?

Colaprico continua:

Lei – secondo dettaglio strano per chiunque conosca una questura – viene a sapere della tragedia un’ora e mezza dopo, dai giornalisti e non dalla polizia: davvero è andata così?

Quella notte vennero due, credo del Corriere, “Sa, pare una disgrazia”. Chiamai subito il commissario Calabresi, sapendo che era lui ad averlo interrogato. Sono Licia Pinelli, dov’è mio marito? Mi rispose Calabresi: “Al Fatebenefratelli”. Non ci potevo credere. Perché non mi ha avvisato? “Ma sa, signora, abbiamo molto da fare”. Da fare? Non riesco ancora oggi a pensare con neutralità a questa risposta. Ora però…

L’intervista continua e fornisce ulteriori elementi di riflessione. Ognuno può andarsela a leggere su Internet nel sito del giornale dal quale è tratta. Oggi ho sentito che forse i parenti delle vittime riusciranno a riaprire il processo. Quarant’anni all’ombra di servizi segreti nostrani e stranieri. Non credo che si verrà a capo di nulla. Ed ora buona lettura, con la speranza che vi indignate almeno quanto me!

 

Giancalo Paciello,


Uno scheletro nll’armadio dello Stato: la morte di Pinelli

 

 

 

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Morteaccidentale


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Petite Plaisance – Il nostro invito augurale. A COSA SIAMO CHIAMATI ?

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 Il nostro invito augurale
L’unico modello in rapporto al quale è umanamente sensato capire cosa vada accettato, e cosa respinto, di un sistema economico, è la libera comunità.
Il sistema economico contemporaneo è la negazione speculare della libera comunità, in quanto produce una collettività disgregata, despiritualizzata, coattivamente e ossessivamente comandata dalla ricerca del profitto e dalle procedure della tecnica. Esso prefigura perciò la morte dell’umanità dell’uomo, proprio in quanto è al di fuori di ogni giustizia e di ogni amore.
Un sistema economico, come quello oggi vigente su scala planetaria, che ha come suo elemento motore e come suo fine intrinseco il profitto monetario privato, e che si sviluppa senza più alcun condizionamento di princípi non economici, è la materializzazione stessa dell’ingiustizia.
Chi vive tranquillo sotto un simile sistema, non trovando nulla di riprovevole nell’attività delle banche, delle società finanziarie e delle imprese volte al profitto, dando il proprio voto ai politici che legittimano questo stato di cose, evitando di condannare pubblicamente i detentori del potere, accettando entusiasticamente tutte le innovazioni tecniche, è perciò un operatore di ingiustizia.
Le esperienze di resistenza a questo sistema sociale (esperienze di agire comunitario non mercantile, esperienze di rifiuto dei comportamenti tecnicizzati, esperienze di autentica comunicazione culturale al di fuori dei ruoli imposti dai poteri dominanti, esperienze di contrasto dei poteri economici e politici, ecc.), se sono vissute in maniera spiritualmente sana come esperienze d’amore per l’umanità dell’uomo e di libera comunità, non possono non essere avvertite come gratificanti e realizzanti di  per se stesse nel loro presente, indipendentemente dall’esito storico dei loro risultati nel loro presente e futuro temporale. Se si ha capacità di amare, e di progettare un mondo diverso, si resiste alla logica di questo sistema sociale semplicemente perché si vuol vivere bene e nella verità.

A COSA SIAMO CHIAMATI ?
La nostra umanità esige, per non morire, una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica.
Ciascuno di noi è chiamato, come uomo morale, a questa resistenza:
– è chiamato a considerare gli oligarchi dell’economia sempre avidi di sfruttare il lavoro, il territorio, i mercati, e i tecnoscienziati intenti a manipolare le specie viventi, per quello che in realtà sono: gli artefici consapevoli della distruzione dell’umanità dell’uomo;
– è chiamato a sottrarsi, nei limiti del possibile, alle logiche disumanizzanti;
– è chiamato a sperimentare le forme oggi possibili di agire comunitario;
– è chiamato a dare l’esempio di una vita non motivata dalla ricerca del denaro e dei consumi e non guidata dalla tecnica;
– è chiamato a pensare concettualmente e criticamente anche riguardo al funzionamento della propria personalità.

Quando la resistenza degli esseri umani guidati dalla loro capacità di amare, dal loro spirito di giustizia, e dalla loro comprensione intelligente di se stessi e della società, avrà spezzato in qualche punto della presente vita coattivamente “associata” l’attuale logica sistemica, e quando le carenze e le disfunzioni derivanti da tali rotture saranno affrontate con una logica nuova, in vista di soluzioni ispirate al vincolo solidale  e comunitario che deve legare tutti gli esseri umani, allora saremo usciti dal sentiero della notte.

Associazione culturale Petite Plaisance

Immagine in evidenza: Paul Klee, Ad Parnassum, 1932.

 

 

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